Mettere al mondo

1. Studio della coscienza femminile durante la gestazione

Un biologo che oggi è molto seguito dal pubblico italiano attraverso i suoi scritti di divulgazione, Edoardo Boncinelli, ha recentemente sottolineato la grande differenza che esiste tra la conoscenza delle cose che sono osservate dalle scienze con metodi massimamente oggettivi e quella che consegue dal punto di vista in prima persona dei soggetti che vivono quelle medesime cose senza il distacco dell’oggettività. Queste le sue considerazioni:

La novità della posizione che mi sento di proporre qui consiste nel fatto che al mondo appartiene tutto quello che esiste eccetto io, ovvero la mia stretta coscienza personale e i suoi contenuti vissuti, vissuti solo ed esclusivamente da me. Il mondo così definito comprende tutti i corpi, ma anche tutte le menti e tutte le coscienze, tutte cose che posso osservare e studiare «dal di fuori», mentre i miei contenuti coscienti li posso esprimere solo «dal di dentro».1

Tenendo presente questa differenza, uno studio che intenda occuparsi della gravidanza può tralasciare i suoi aspetti scientifici, dettati dalle tante discipline del campo fisiologico, biologico, medico, e rivolgere l’attenzione, invece, agli aspetti dell’esperienza vissuta da chi ne è la protagonista. La narrativa e la poesia si occupano spesso di questa esperienza per quanto ha di suggestivo oppure di inquietante, trattandosi di un tema fortemente incisivo negli animi femminili e nelle relazioni tra le persone.

L’aspetto che qui intendo trattare (tralasciando sia la scienza sia la letteratura, ma avvalendomi della filosofia fenomenologica) è apparentemente solo uno stato psicofisico, che sembra rimanere nell’ambito dell’osservazione della psiche impegnata in questa avventura del corpo, ma in realtà l’oltrepassa, richiedendo uno sguardo più ampio: poiché non solo riguarda le dinamiche della coscienza, viste «dal di dentro», ma le considera nel loro passaggio dal fatto biologico (secondo gli eventi propri dei due organismi, della donna e del feto) al significato umano che le trascende. Non si tratta di dinamiche conoscibili solo dall’interno, come se la gestazione non si svolgesse sullo sfondo di un ambiente: occorre tener presente che la donna che ne è protagonista vive la sua gravidanza come immersa in una vita carica di eventi, di relazioni, di buone e cattive vicende, di semplici e complicati episodi, in poche parole una vita risonante di ogni possibile eco, dove non sempre è dato di distinguere tra dentro e fuori, tra l’interno dell’autosservazione e l’esterno del rapporto con le cose e con gli altri. Giorno dopo giorno, momento per momento, questa esperienza lunga nove mesi attraversa la vita della donna, ne trasforma percezioni e pensieri, la indirizza ad un futuro segnato dal parto e dal successivo rapporto di maternità. Colei che la vive non è un’osservatrice che se ne fa un oggetto, ma è la «prima persona» che ne ha l’esclusiva nel sentire l’essenza del suo stato, al di là delle spiegazioni naturalistiche o mediche. Essenza che poggia sulla sua base preriflessiva, immediata, sensoriale, e si conferma nelle percezioni che le giungono dal corpo sotto gli stimoli di una condizione nuova, davvero «speciale». L’atteggiamento che essa assume è un atteggiamento intenzionale, ossia è indirizzato a interpretare e comprendere la struttura di questa forma temporanea della sua vita, è teso a costituire le proprie motivazioni sia sullo sfondo contestuale, sia in accordo con la corporeità nella quale quella struttura emerge. Al centro di questo movimento c’è un’attività indispensabile per l’impronta da dare a quell’essenza: l’attività della coscienza, ossia della mente desta nella connessione al corpo, che è al tempo stesso autocoscienza, ossia consapevolezza di sé che accompagna ogni stato mentale attivo. Il neurobiologo Antonio Damasio definisce la coscienza nucleare come: «Il sentimento di voi come esseri individuali coinvolti nel processo del venire a conoscenza della vostra stessa esistenza e di quella degli altri.»2

Jean Paul Sartre ha precisato la natura della coscienza con queste parole: «Come un oggetto esteso è necessitato ad esistere secondo le tre dimensioni, così un’intenzione, un piacere, un dolore non potrebbero esistere che come coscienza immediata (di) se stessi.»3

In entrambe le citazioni appare chiaro come coscienza e autocoscienza siano da intendersi come aspetti della mente e non come realtà a sé stanti.

In questo studio tralascerò le teorie concepite a questo riguardo dalle filosofie della mente e adotterò la concezione fenomenologica, ribadita recentemente dal filosofo Frankfurt:«L’autocoscienza in questione è una specie di riflessività immanente in virtù della quale ogni volta che siamo coscienti non soltanto afferriamo ciò di cui siamo coscienti, ma abbiamo la consapevolezza stessa di esserlo.»4

L’attività psichica della gestante non si limita però a recepire e ad elaborare i contenuti mentali, perché a sua volta influisce sulle trasformazioni del corpo e sul suo stato complessivo: sappiamo che la sua volontà o il suo rifiuto, la disposizione a partecipare o le tendenze depressive, contribuiscono all’andamento della gravidanza. Secondo il neurofenomenologo Francisco Varela dall’organismo possono emergere: «Forme aperte allo sviluppo guidato dalla libertà, a partire da condizioni biologiche determinate ma modificabili.»5

In altri termini, i cambiamenti nel soma e nella psiche non sono soltanto il risultato delle vicende neurologiche, fisiologiche, ormonali, ma avvengono anche come effetti della libera volontà del soggetto.

1.1. Sospendere il giudizio per cogliere l’essenza

La fenomenologia esclude il dualismo delle due sostanze, corpo e psiche, e considera il soggetto esperiente nella sua stretta integrazione tra i due aspetti fenomenici, poiché esso vive avendo capacità senso-motorie e percependo sensazioni e sentimenti d’ogni tipo, per poi farne oggetto della riflessione.

Da una parte ne deriva il concetto di corpo vissuto, con il quale si afferma non solo che il corpo dà forma al nostro modo di essere nel mondo, ma che il corpo è questo stesso essere.6 Dall’altra parte il concetto di corpo vivo ne sottolinea la differenza rispetto al corpo come oggetto dell’osservazione. Entrambi i concetti sono stati formulati come nozioni primarie (rispettivamente denominate in tedesco Leib e Körper) dal fondatore della fenomenologia Edmund Husserl, perché essenziali per capire la relazione dell’io con il mondo: entrambi hanno assunto la funzione di principi costitutivi o trascendentali. In particolare, risalendo alla nozione di Leib quale è stata consegnata da Husserl, ci è data la possibilità di meglio comprendere il problema della mente incarnata (embodied mind) che ai nostri giorni è oggetto tra i più discussi dalle diverse filosofie della mente. Ha scritto Husserl:

Uomini e animali esistono per me solo perché io ritrovo nel mio mondo circostante fenomenico fatto di cose spaziali, determinate cose che si distinguono come corpi vivi. Il loro tratto distintivo in quanto corpi vivi consiste in questo: in essi si «esprime» o, per così dire, si «incarna» una vita psichica, che sente, percepisce, pensa, ha emozioni, vuole e simili […] Il mio corpo vivo è l’unico nel quale io esperisco in maniera assolutamente immediata l’incarnazione di una vita psichica, cioè di una capacità di sentire, di rappresentare, di sentire emozionalmente e così via, che è la mia propria vita, una vita psichica che si «esprime» in forma corporea attraverso eventi corporeo — cosali di varia natura.7

Pensare che cosa è il proprio corpo vivo è dunque la via più immediata per pensare altri esseri viventi, altre persone, e si potrà vedere come ciò ha la sua grande parte nella dotazione mentale della gestante, quella che intendo cogliere nella sua complessità reale attraverso il percorso che seguirò in questo studio. Sarà un percorso condotto lungo l’analisi della psiche ma costantemente approfondito, ogni volta che sarà possibile, mediante la descrizione fenomenologica. Si andranno in tal modo a rilevare le essenze che costituiscono i vissuti singoli, e d’altra parte tale rilievo offrirà alla psicologia empirica il materiale su cui lavorare, rendendo più precise le sue constatazioni e più chiari i concetti di cui si avvale. Tuttavia i due discorsi, lo psicologico e il fenomenologico, spesso si intrecceranno, e in questo loro intrecciarsi potranno talvolta perdere chiarezza ma costituiranno egualmente la base per nutrire il discorso filosofico sull’essere umano. Il compito più arduo che ci attende è quello di dover tenere presente che il metodo per condurre le analisi fenomenologiche esige di sospendere il senso di realtà rispetto a ciò che esaminiamo, sia il senso diretto o «ingenuo», sia quello indotto dalle conoscenze scientifiche, e inoltre di «ridurre» all’attività della coscienza del soggetto i dati dell’esperienza, così come ci appaiono. La sospensione, o riduzione trascendentale, o epoché come l’ha chiamata Husserl, riguarda il mondo come si offre all’atteggiamento naturale nell’ovvietà quotidiana, ma non nega questo mondo, quanto invece «vieta assolutamente ogni giudizio sull’esistenza spazio temporale».8

Per maggior chiarezza, si veda come la fenomenologa Angela Ales Bello presenta questa operazione:

La radicalità dell’operazione del mettere tra parentesi, cioè dell’epoché, non deve essere confusa con un atteggiamernto scettico: Husserl insiste nel sottolineare che la messa fuori circuito non riguarda il mondo come eidos, ma solo l’attualità, l’esistenza intesa non in senso metafisico, ma l’esistenza fattuale, di cui parlano i positivisti; ciò consente di conquistare una nuova regione d’essere, vale a dire la sfera della soggettività trascendentale. […] Tale sfera non è toccata dalla messa tra parentesi del mondo, né dalla messa tra parentesi dell’io concreto, empirico, esistente in senso psicologico; essa rimane come il terreno ultimo, dal quale iniziare per risalire poi, dopo averlo analizzato, alla concretezza esistenziale ed empirica del mondo fattuale, che riceve, in tal modo, il suo senso proprio.9

La sfera trascendentale è quella dei vissuti dell’ego o soggettività esperiente, e come Husserl ha scritto: «L’epoché deve essere trasformata coscientemente in una riduzione all’ego assoluto, all’ego in quanto centro funzionale ultimo di qualsiasi costituzione.»10

Per questo motivo l’impegno della presente ricerca sarà di considerare il soggetto protagonista dell’esperienza tenendo sempre in primo piano, e distinte dalla sua vita psicologica, le risultanze del rinvio all’ego trascendentale. D’altronde se ho scelto il metodo fenomenologico è per il motivo che tale metodo è il più adatto alla natura dell’esperienza che esaminiamo: infatti esso consente di porre la coscienza al centro dell’analisi, tanto da far intravedere nell’intimo della persona, ovvero nella sua sede preriflessiva, quelle emozioni, quegli stati d’animo e quelle immagini attraverso cui si delinea il senso di ciò che sta sperimentando il corpo vissuto. Al tempo stesso il metodo scelto consente di comprendere il sistema delle intenzionalità del soggetto, sistema costituito nel modo più vario e personale da sentimenti, ricordi, aspettazioni, riflessioni, interessi, riferimenti, di cui può rivelare il significato complessivo.

Comincerò la mia analisi con la considerazione più ovvia: che il periodo della gravidanza per le donne costituisce un complesso di mutazioni interiori innegabili: sia che vi si dedichino attivamente e spontaneamente, sia che vi siano indotte di necessità e controvoglia, il tema della procreazione nella forma che le coinvolge rimane ineludibile e centrale per la loro vita, com’è ovvio essendo anzitutto iscritto, come potenzialità, nel loro corpo. Nel senso comune le conoscenze circa la gravidanza sono costituite da un misto di saggezza e ignoranza, di giudizi sensati e pregiudizi, in cui spesso sulla razionalità prevalgono le superstizioni che le generazioni tramandano. C’è però da notare come ogni donna, seppur introdotta in questo modo più nelle pratiche correnti che nel senso autentico della maternità, intuisca come le trasformazioni del corpo che ne deriveranno si accompagneranno a corrispondenti trasformazioni della psiche, nel senso di un progressivo compenetrarsi in nuove ragioni e modi d’essere. Tuttavia l’attende in sovrappiù, in vista del futuro ma come elemento ancora nascosto alla sua attenzione, un passaggio dalla dimensione esteriore della individualità singola (pur se aperta alle esperienze di relazione con altri) alla sua dimensione tutta interiore, non palese, che sarà vissuta in relazione con un essere umano che si forma dentro il suo corpo. A poco a poco, nell’arco del tempo di nove mesi, si fa strada in questa coscienza un intreccio tutto nuovo di pensieri, emozioni e sentimenti relazionali. Dal punto di vista più corrente e usuale, di una donna che attende un figlio possiamo dire che essa partecipa consapevolmente al suo stato di gravidanza come ad un episodio rilevante della sua vita, oppure più semplicemente che si sta adattando ad una avventura del suo corpo, che non sa ancora quanto potrà coinvolgere e trasformare la sua vita. Volentieri o malvolentieri (a seconda che abbia o non abbia accolto come un fatto positivo il suo nuovo stato) si è accorta comunque di esserne protagonista in prima persona, e di doversi misurare anzitutto con i significati che emergeranno per lei da questa inusitata realtà. Poiché la sua certezza dipende inizialmente dalle prove manifeste dell’avvenuto concepimento ma potrà divenire più stringente dopo la sua accettazione, in questo frangente sarà determinante la sua intenzionalità, a proposito della quale occorre distinguere, con Gallagher e Zahavi: «Tra intenzionalità diretta ad oggetti e intenzionalità in quanto capacità di trascendersi, come apertura a ciò che è altro dal soggetto.»11

L’altro cui mira l’intenzionalità della donna in questo caso, come presto potrà comprendere indubbiamente lei stessa, sarà un corpo-vivo non visibile ma certamente presente e reale per la sua coscienza, alla quale appare in questo o quel modo ma sempre dotato di un significato: infatti nel caso che stiamo esaminando il pensiero del figlio (o della figlia) porta con sé il significato di un’esistenza non solo supposta, ma anticipata, e di una realtà temuta ovvero desiderata. Si può dire, quindi, che questa realtà a cui essa guarda andrà via via sviluppandosi in forme concrete:«Poiché la sua trama e le sue articolazioni sono delineate dal movimento di trascendenza del soggetto.»12 La coscienza, infatti, porta con sé innumerevoli stratificazioni sensorie e percettive, non tutte esplicitate, che si possono sintetizzare nel concetto di orizzonte, e molti orizzonti di senso accompagnano ogni sua esperienza nutrendola di infiniti significati. Tuttavia occorre domandarci se l’accento che dal punto di vista fenomenologico è posto sull’attività della coscienza potrebbe riferirsi anche ai processi mentali delle false gravidanze, ovvero gravidanze immaginarie. Ma possiamo escludere la distorsione psicologica di una gravidanza immaginaria, generata dal desiderio di essere incinta, se teniamo fermo che la psiche è legata con il corpo reale: ciò che lega la donna alla realtà della generazione, è il fatto che la sua unione di corpo e psiche è inseparabile da questa realtà. In virtù di questo l’esperienza dell’attesa si protende necessariamente nel tempo verso il potere di partorire il corpo di un essere umano che andrà a far parte del mondo.

Venendo a compiere l’opportuna riduzione trascendentale ci rendiamo conto che l’argomento di una gestazione iniziata, come ogni altro argomento, ci pone sul piano della correlazione fenomenologica tra l’atto soggettivo della percezione cognitiva (noesi) e il percepito e conosciuto (noema). La correlazione in questo caso fa sì che quando la coscienza, portata a riflettere sul fatto che coinvolge la propria vita, compie il percorso noetico fino in fondo e senza pregiudizi, possa cogliere appieno entrambi i poli in contrasto nella decisione che dovrà prendere: di interrompere la nuova vita che dal suo corpo ha origine oppure di alimentarla. Tale è l’ambiguità con cui si mostra ad ogni donna la condizione di gravidanza: da una parte è un fatto del körper che le appartiene in quanto essa ha natura femminile anche se non sempre questa natura è oggetto della sua attenzione; dall’altra è un obiettivo al quale essa guarda con i sentimenti più diversi, che spesso derivano da situazioni molteplici a seconda delle età e delle circostanze della vita, e possono talora produrre stati di forte contrasto interiore segnati da non pochi dilemmi.

1.2. Contrasti e conflitti della psiche

Il principale dilemma che un’analisi psicologica deve esaminare, al primo sguardo, sembra quello tra la libertà di progettare la propria vita e gli obblighi imposti da una condizione non voluta, che impone di abbandonare o rimandare i progetti per adattarsi ad una scelta forzata e non procrastinabile. Ma peggiore si fa la situazione quando la gravidanza costituisce un ostacolo per l’attività lavorativa, o un aggravio dei carichi familiari. In realtà tutto questo è indice di una condizione controfattuale secondo cui più di metà dei soggetti umani, le donne, nonostante siano in grado di realizzare molteplici obiettivi e dovendo di necessità finalizzarli alla propria sussistenza, sono piegate per lo più in tutt’altra direzione da una fisicità «esclusiva» ovvero da una natura specifica e vincolante, che persegue attraverso di loro lo scopo della riproduzione, ma può richiedere grandi rinunce in fatto di libertà. Solitamente si obietta a considerazioni di questo tipo che la fisicità delle donne ne determina necessariamente le inclinazioni, e che perciò sia «contro natura» ritenere che esse possano prefiggersi progetti che ostacolino la maternità: quei progetti sembra che si possano conciliare con questa, intesa come impegno totale, soltanto in via eccezionale. Ma la critica espressa dal pensiero delle donne ha fatto da tempo giustizia di queste convinzioni, come ha scritto Nicla Vassallo:

Il fatto è che l’essenza della donna come la natura della madre non sono altro che facili etichette da appiccicare quando conviene. È la cultura ad attribuire dei caratteri che poi, per comodità di alcuni e pigrizia di altri, vengono definiti naturali e costitutivi di una presunta natura, femminile o maschile che sia. I caratteri di cura, attenzione all’altro, sentimento, emozioni, concretezza, attenzione al particolare, empatia vengono attribuiti alle donne con un tipo di ragionamento che scambia la causa con l’effetto: non è la natura a condizionare la cultura, quanto la cultura a dar senso alla natura.13

In molti casi accade quindi che, in quanto gli obiettivi da realizzare guardando alla propria vita non coincidono con gli obiettivi dell’organismo nella fase della procreazione, il contrasto divenga fin da subito lacerante e prenda la forma dei conflitti irrisolvibili, oppure quella delle rinunce che pesano su tutta l’esistenza. Vi è qui una flagrante contraddizione: nonostante siano vincolate dalla loro costituzione somatica le donne hanno capacità svariate di vita, di attività, di occupazione. Sono dal punto di vista psicologico, sociale, morale, soggetti etici a pieno titolo ma spesso si trovano ad essere gli oggetti di scelte obbligate. Come possono conciliare la loro libertà con la disponibilità a essere madri, con il carico di impegni e di responsabilità che questo richiede? Se non si tiene conto di questa contraddizione non si troverà risposta ai dilemmi sopra accennati e, in molti casi, si avranno soluzioni false perché forzate. Infatti, il proposito che può nutrire una donna di escludere preliminarmente un figlio dalla propria vita può restare indipendente dal fatto che il concepimento sia già avvenuto o avvenga in seguito, proseguendo nella gestazione per giungere a compimento nel parto: la donna può in ogni caso rifiutare il rapporto affettivo con il figlio nascituro o già nato, e trascurarlo o trattarlo come un proprio oggetto. Essa ha il potere di riconoscere l’essere del figlio o di lasciarlo al suo non-essere, e può non riconoscerlo come un soggetto, sia che ne faccia uno strumento della propria affermazione sia che lo consideri come un ostacolo.

In nome della sua coerenza, al contrario, una donna sicura di sé e indipendente potrà affermare con orgoglio le sue potenzialità procreative: ad esempio, sono molti i casi, almeno nei Paesi più progrediti, in cui le madri nubili assumono senza esitazioni anche le responsabilità rifiutate dall’altro genitore. In questi casi si dimostra che il mettere al mondo non è una futile avventura ma un’esigenza imperiosa della mente prima che del corpo, e che rispondere a questa esigenza nonostante tutto (la paura del futuro, la solitudine, la scarsità delle risorse, la rinuncia ad altri progetti) diventa un atto di libertà.

Dall’altra parte, ma sempre in nome della libera decisione, sta un esito contrario, quello dell’interruzione della gravidanza, presa dopo aver considerato in tutta serietà le circostanze che si profilano nell’immediato futuro. Se l’interruzione di gravidanza, dove sia prevista dalla legge, può risolvere i dilemmi della gestante, in altri casi, particolarmente dove venga compiuta clandestinamente contro i divieti di legge o di religione, può far nascere in lei un conflitto interiore, un’intima scissione della coscienza. D’altra parte la decisione di interrompere la gravidanza non è mai indolore: anche se è stata presa secondo le norme di legge laddove queste prevedano tale libertà, non può divenire una pratica abituale. Tale pratica, almeno, non lascia indifferente la donna che abbia una vita interiore, se l’avere una vita interiore vuol dire avere la disposizione a riflettere e a porsi in ascolto delle proprie più intime esigenze. Ma se, al contrario, la donna non ha potuto realizzare il suo proposito di abortire, le conseguenze psicologiche possono essere anche devastanti, come se per lei fosse stato violentemente interrotto il percorso di comprensione di se stessa, inteso alla verifica del senso unitario da dare alla propria vita. Allora potrebbe subentrare in lei la tendenza a subire in una condizione di passività le trasformazioni somatiche e a non reagire alle contraddizioni in cui la mente può rimanere presa.

In queste circostanze la vita spesso riprende sotto il peso di un’importante occasione mancata: secondo i casi, quella del progetto di vita o di lavoro a cui si è dovuto rinunciare oppure, al contrario, l’occasione di un’autentica partecipazione alla nascita di un figlio, o una figlia, tale da poter integrare in una pienezza corporale e mentale di istinti, di sentimenti e di ragioni la propria capacità relazionale. Nella quale non si può vedere soltanto la proiezione di una volontà ovvero, come si dice correntemente (e talvolta in modo un po’sprezzante), l’ambizione di realizzare pienamente se stesse, se è vero che in questa particolare relazione del corpo-mente materno con quello del figlio o figlia si colloca un centro di forza vitale e di autonomia, sul quale si fonda per madre e figli la possibilità di dare senso alle proprie esperienze, ovvero di costituire il proprio mondo.

1.3. L’orizzonte trascendentale delle soggettività

Fin qui sembrerebbe che a fare la differenza tra le situazioni che il tema della gravidanza richiama, sia soltanto la volontà della donna nel considerare in senso positivo o meno l’avvenuto concepimento. Occorre però riconoscere che, prima ancora di una libera volontà individuale, nella sua coscienza opera la presenza di un modo di sentire essenziale e trascendentalmente ridotto, che è un orizzonte di senso che con Husserl, potremo denominare del legame generativo: legame in certo senso universale perché accomuna uomini e donne nel mondo, al di là delle innumerevoli differenze prodotte dai costumi, dalle norme religiose o politiche, dalle condizioni in cui si svolge la loro vita.

Alla ricerca di questo orizzonte, possiamo scorgerlo come costituito dai significati che tutti generalmente e anche solo in astratto (indipendentemente dal prendervi parte) attribuiscono al fatto di generare: significati che si presentano come privati e sono tra loro molto differenti. Ad esempio, potremmo incontrare singole donne ovvero coppie che perseguono con decisione il proprio progetto di generare uno o più figli, e si attivano durante la vita per realizzarlo, fino al coinvolgimento totale che produce nei genitori comportamenti di allevamento, cura e sostegno; oppure, in senso contrario, potremmo notare in altre persone l’assenza di simili progetti accompagnata dalla sola disposizione non attiva, incurante o indifferente, circa la propria fecondità. Ma questo legame che chiamiamo generativo ha anche dimensioni pubbliche per le quali, ad esempio, intere masse dipendono da campagne governative per il controllo demografico o, al contrario, dal sostegno delle istituzioni dello Stato e religiose alle usanze tradizionali di sottomissione delle donne nell’esclusivo compito materno.

In questi modi molto diversi donne e uomini di un popolo si trovano comunque ad avere in comune il senso della generatività, che è uno dei principali elementi costitutivi di una tradizione e, collegando questo sentimento alla appercezione del tempo lungo il quale scorre la propria vita (in altre parole a quella linea del tempo che nell’intuizione di ognuno unisce il presente al passato e al futuro), possono acquistare la cognizione del mondo a cui appartengono e comprendere con Husserl il flusso unitario della storicità, ovvero il corso della storia in cui si trovano a vivere. Ma non tanto della storia naturalizzata come successione di fatti nel tempo obiettivo, quanto del flusso di esperienze nel tempo soggettivo che produce sempre nuovi significati delle cose, nuovi sensi del mondo.

In altre parole, è l’orizzonte del legame generativo che in fin dei conti può trasmettere a tutti il senso storico, e possiamo dire altresì che questo orizzonte è a priori rispetto al senso della storicità: è un apriori storico.14 Tale apriori ha la funzione di aprire la consapevolezza del presente all’idea di continuità, che materialmente vediamo realizzarsi nella compresenza dei viventi in quanto appartengono a diverse generazioni, e insieme nell’incessante scambio di vita e di morte tra queste generazioni. Ciò significa anche che ognuno, nonostante possa disperare del senso delle cose, negare valore al passato, rifiutare il mondo a venire, tuttavia sa che il mettere al mondo dei figli, e la partecipazione alla loro vita faranno i lui (o di lei) un soggetto intenzionale inserito in un mondo storico, disponibile perciò al recupero di nuove ragioni di vita. Entro questo orizzonte di senso la donna gestante potrà iscrivere desideri, progetti e propositi così da sentirne maggiormente sostenuto il proprio potere di procreare; ma vi sono casi in cui essa sentirà questo legame come un peso insostenibile sulla propria vita. Infatti, in questo orizzonte segnato dalla storia le tradizioni possono produrre laceranti divisioni nelle popolazioni come, per esempio, quando sono legate a chiusure etniche o a disparità sociali, o quando alimentano l’odio ispirando la catena senza fine di reciproche vendette. Altre volte, invece, è proprio il senso della generatività, come potenziale universale, a superare le chiusure di questo orizzonte, dando la possibilità di comprendere i sentimenti altrui, e quindi occasioni di incontro tra le culture e i popoli.

A tutto ciò la donna che si trova ad accogliere (o a subire) una gravidanza inevitabilmente partecipa, a seconda dei casi sentendo sullo sfondo della propria esperienza l’atmosfera favorevole in cui potrà vivere la sua gestazione, oppure, al contrario, avvertendo che incombe su di lei come una cappa soffocante di pregiudizi collettivi. In quanto gestante agisce in lei una coscienza intenzionale che trascende le esperienze puramente fisiche e costituisce relazioni di senso, nelle quali hanno parte vuoi la speranza, vuoi il timore, e ogni altro sentimento o concetto che possano collegarla, nel bene come nel male alla storia della collettività cui appartiene e al presente della propria vita nel mondo.

A chi cerca di indagare questa coscienza, di capire come si trasforma gradatamente in coscienza generativa, è necessario prendere le mosse da una psicologia fenomenologica, quale forma di scientificità trascendentale che sappia indagare i movimenti dell’animo della donna gestante dinnanzi alla sua nuova esperienza, avendo anzitutto cura di «ridurre insieme la coscienza della cosa singola e il suo orizzonte del mondo.»15 Ossia, avendo cura di praticare l’epochè nel suo senso fenomenologico più vero, che va a toccare insieme la sfera psichica e la coscienza del mondo sempre presente in questa sfera, così da verificare nello stesso tempo la certezza di cui parlava Husserl, quella di trovarsi, ognuno di noi:«In un presente co-umano e nell’orizzonte aperto dell’umanità […] in un legame generativo, nel flusso unitario della storicità.»16 In tal modo chi indaga nell’animo della gestante riconoscerà che: «L’operazione della vita esperiente fornisce senso e validità dell’essere di quel mondo che vale appunto per colui che esperisce e che dunque, nel restare un mondo, diviene un mondo essente e vero grazie al suo riferimento alla soggettività trascendentale costituente.»17

2. Dalla sfera iletica all’intenzionalità cosciente

La sottovalutazione, da parte di medici e personale ospedaliero, dei vissuti soggettivi delle gestanti, che può indurle a comportamenti da «pazienti» (ossia da ammalate) quando non lo sono, è indubbiamente un ostacolo alla formazione in loro di una coscienza generativa. Ciò trova una conferma e un rinforzo quando esse si abbandonano ai pregiudizi e ai luoghi comuni di cui spesso sono circondate, che impediscono di avere piena consapevolezza del senso che può avere per loro l’esperienza che vanno ad affrontare, perfino se oramai hanno accettato il concepimento.

I sentimenti di una gestante consapevole si dirigono invece da subito oltre la sfera istintiva, nel segno della specifica intenzionalità che ormai orienta la sua vita verso l’attenzione al figlio/figlia che verrà. Sostenuta da questa attenzione, la coscienza femminile si dirige verso un Altro, che esige di essere compreso nel suo diritto a porsi come soggetto indipendente. La gestazione, infatti, è fin dal primo momento un’esperienza di relazione, perché il rapporto tra i due corpi è molto più che puramente fisico: è una relazione che chiamerò originaria , nella quale un soggetto è in grado di anticipare l’altro non ancora presente. Questo loro incontro virtuale prima che psichico ne preannuncia altri, reali e concreti, tra i due soggetti e tra loro e chi li circonda; in altre parole, se ben intesa nel suo spessore dalla madre, questa relazione apre la via anche ad altre relazioni. Perciò ogni rappresentazione degli eventi naturali del concepimento, dello sviluppo embrionale e fetale, e del parto, è inadeguata se non tiene conto della natura intenzionale del vissuto materno, ovvero della tensione insieme psichica e fisica della futura madre verso la nuova esistenza.

A caratterizzare il periodo della gestazione come un’esperienza senza paragoni con altre, sono quindi queste sue caratteristiche di anticipazione rispetto al futuro e insieme di intensità nel tempo presente, dove emergono forze capaci di trasformare la gestante nell’intimo, nel suo modo d’essere più riposto. A parto avvenuto, dopo l’avventura della gravidanza, la donna sarà rimasta in apparenza eguale a prima, ma nella realtà della sua psiche sarà accaduta una metamorfosi irreversibile.

Riportando il nostro esame all’analisi fenomenologica del primo manifestarsi di questa metamorfosi, notiamo che la base istintiva, emotiva, sensuale di ogni atto mentale prende nei volumi I e II delle Ideen di Husserl il titolo di sfera hyletica, dove il termine greco di hyle sta ad indicare la dimensione materiale, pre-apprensionale, ovvero quella dei dati sensibili, poiché «i dati sensibili si offrono come materie per le formazioni intenzionali o significazioni.»18 La sfera hyletica, quindi, è fatta di contenuti «primari» ossia di impulsi, sensazioni, appercezioni che rimangono in gran parte a livello organico e, precedendo ogni significato, ne costituiscono la base. Dal suo canto la neurofenomenologia sostiene che questa sfera contiene una serie di «meccanismi fondamentali per la coscienza», dapprima in sé del tutto inconsapevoli, ma ben presto in grado di destare la reattività della mente, tramite le reti attenzionali,19 che sono appunto meccanismi che dipendono dalle strutture cerebrali deputate alla regolamentazione fondamentale della vita.

Dal punto di vista fenomenologico, e limitandoci a considerare le donne il cui animo sia già predisposto da una motivazione procreativa, notiamo come possono formarsi quei moti istintivi o emozionali che costituiscono la base hyletica dell’intenzionalità. I contenuti primari di questa base sono collegati da una parte alle dimensioni psicologiche del desiderio, della immaginazione e della proiezione verso il futuro e dall’altra parte, ma contemporaneamente, alle trasformazioni somatiche proprie della gestazione, che investono il corpo e animano le sue percezioni. Per questi motivi possiamo dire che la gestante già nel sentimento (che è il primo livello di consapevolezza delle sue emozioni), prima ancora che ne possa vedere e sentire con evidenza gli effetti nel corpo, viene introdotta alla «significazione» comune del fatto biologico del generare, e alla significazione personale che costituisce la comprensione del proprio ruolo in questo fatto. Ciò accade perché il significato viene da subito percepito come qualcosa che accompagna e anzi precede le percezioni, risiedendo nel soggetto stesso. Trattando della sfera percettiva e dei suoi rapporti con la coscienza, Merleau-Ponty ha scritto:

La coscienza è una rete di intenzioni significative, ora chiare di per se stesse, ora invece vissute più che conosciute.20 […] Indubbiamente la coscienza riconosce già da sé che l’ordine dei propri eventi percettivi è determinato da leggi naturali, in funzione della posizione del corpo e dei fenomeni corporei. In questo senso, la coscienza riconosce se stessa come parte del mondo, poiché può essere inserita nelle relazioni che lo costituiscono. Essa sembra avere due aspetti: da un lato essa è l’ambiente universale che è presupposto da ogni affermazione di un mondo; dall’altro lato ne è condizionata.21

Ma le stesse leggi naturali fanno sì che in generale la sfera hyletica e la sfera intellettiva non si possano nettamente discernere: emergendo dal loro insieme, nella prima fase l’intenzionalità generativa non è ancora configurabile nella sua pienezza ma piuttosto inizia a svilupparsi lungo il flusso degli atti di coscienza, come si comprende grazie al: «Modello epistemologico e ontologico di tipo intrecciato in cui mente e corpo non si confrontano più come da due rive opposte dello stesso fiume, ma rimandano l’uno all’altro e, reciprocamente, si intersecano e congiungono come due correnti interne a quello stesso fiume che è il flusso dei nostri vissuti.»22

L’unità dei due elementi, del resto, proprio come quella della corrente di un fiume, non è mai definitiva ma sempre in costruzione, quindi disposta all’infinito, mentre il soggetto psichico nel proprio senso di permanenza lungo una durata di tempo mantiene un’identità, e la vive in modo immediato attraverso le percezioni del corpo e gli atti cognitivi della mente.

2.1. L’alterità nel corpo vissuto

Abbiamo visto come i primi vissuti della gravidanza sono già rivolti ad un Altro- da-sé che richiede di esistere e rappresenta un richiamo irrevocabile. La coscienza della gestante, non più limitata alla dimensione preriflessiva, si apre a questo suo nuovo modo di vivere già segnato dal legame affettivo e, al passo con le trasformazioni somatiche, va gradatamente compiendo una riflessione che procede dall’esperienza vissuta all’orizzonte di aspettazione che vi si delinea.23 La mente così impegnata può giustamente definirsi una mente generativa.

La psiche della futura madre è talmente pervasa dal presentimento di ciò che l’attende nel futuro da averne fatto il suo scopo dominante, e da subire anzi una ferita incancellabile qualora la gestazione venga interrotta da un aborto spontaneo: spesso ci si domanda, increduli, come un evento del genere possa procurare tanto dolore alle donne quanto la perdita di un figlio o figlia già nato/a. Eppure esse avvertono un dolore forte e inconsolabile proprio perché in loro è fortemente radicata fin da subito, all’inizio di una gravidanza consapevolmente accettata, l’intenzionalità di cui stiamo trattando. La quale si è proiettata in un progetto di vita e si è consolidata in anticipo come una vera e propria dedizione al figlio o figlia: l’improvvisa fine dell’oggetto di tale amore non può che spezzare il progetto e colpire nel modo più drammatico la donna.

Se esaminiamo questo progetto di vita, possiamo cogliere nel movimento psichico che l’ha costituito il passaggio dalla fattualità del procreare biologico o animale al ben diverso carattere dell’evento umano. Nello stesso tempo la mente generativa ha compiuto il movimento dell’autotrascendenza, intesa come superamento della cerchia chiusa del sé in direzione di un altro da sé.

Troviamo descritto dal pensiero di Husserl il movimento dal sé all’altro da sé:

Nell’intenzionalità così delineata si costituisce il nuovo senso d’essere che oltrepassa il mio ego monadico nella identità che gli è propria e si costituisce un ego non come io stesso, che però si rispecchia nel mio io proprio, nella mia monade. Il secondo ego non è semplicemente presente, datoci autenticamente, ma è costituito come «alter ego», ove quest’ego incluso nell’espressione alter ego sono proprio io stesso nel mio proprio essere. L’altro, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso; […] così riguardato e articolato, esso deve dar luogo al problema della possibilità per il mio ego di costituire, al di dentro della sua appartenenza qualcosa di veramente estraneo, in una attività che ha per titolo «esperienza dell’estraneo».24

Ma un altro o un’altra presenti nel Leib gestante non sono assolutamente estranei: sembra qui presentarsi un enigma che richiede un chiarimento. Invero l’esperienza dell’altro (o dell’altra) qui coincide con la presenza dell’Io: un solo corpo sembra sdoppiarsi e un solo soggetto appare inadeguato a questa inaspettata realtà, poiché ci troviamo di fronte, al contrario, ad una appartenenza indiscutibile. Colei che si prepara a divenire madre ha la proprietà della sua capacità di procreare, ha il possesso di un altro corpo vivo e insieme ne è essa stessa posseduta.

È in questa disposizione che il soggetto-madre, in corrispondenza all’esigenza di esistere del figlio o figlia, può compiere la sua assunzione di responsabilità in vista del futuro passaggio dei figli dalla dipendenza all’indipendenza: un’assunzione dapprima inconscia per lei, che ne ha solo una vaga immagine nella mente, e poi sempre più consapevole e operante man mano che quella immagine, insieme al graduale, progressivo adempimento della tensione intenzionale, prende materialmente corpo.

Questo senso di responsabilità che meglio potremmo chiamare «senso dell’alterità» può contrassegnare la mente materna a differenti livelli, a seconda che essa abbia o non abbia già pensato l’esistenza futura dei figli non solo come separati dal suo corpo, ma anche e più come non pienamente coincidenti con i suoi desideri. Il traguardo di questo lungo passaggio non può che essere, da parte della madre, la dismissione del potere originario, poiché il senso dell’alterità si evidenzia soprattutto nella accettazione che il soggetto fa del diritto dell’altro ad essere quello che è. In quest’ottica appaiono rilevanti anche le seguenti parole del neurofenomenologo Humberto Maturana:

Con questo si intende dire che la legittimità dell’altro si costituisce in condotte od operazioni che rispettano e accettano la sua esistenza come è, senza sforzo e come un fenomeno del mero convivere. Legittimità dell’altro e rispetto per lui o lei, sono due modi di relazione congruenti e complementari che si implicano reciprocamente. L’amore è un fenomeno biologico proprio dell’ambito relazionale animale, che nei mammiferi appare come un aspetto centrale della convivenza nell’intimità della relazione materna-infantile in totale accettazione corporale.25

Questa relazione di convivenza costituita tra esseri che si riconoscono e rispettano così come sono, nella loro integrità, è un fatto biologico che ha come modello il rapporto tra le genitrici e la loro prole. Maturana lo innalza dal semplice «ambito relazionale animale» all’amore umano tra madre e figli, nella più stretta intimità. È evidente che ogni altra intimità è minore di quella che si verifica nella gestazione umana, costituita com’è da un’unica carne,26 e fondata su di una volontà vigile e operante.

2.2. La fonte originaria dell’empatia

L’attenzione per il figlio o la figlia è già operante durante la prima metà della gravidanza, in attesa dell’apparizione all’esterno della nuova vita, la quale per ora rimane nella pre-visione della madre e dentro il suo mondo di relazioni. Ma al suo inizio tale vita è ancora solo un grumo di cellule, mentre con lo svilupparsi dell’embrione si manifestano segni somatici prima sconosciuti, accolti vuoi con fastidio vuoi con gioia, a seconda dei fenomeni cui danno luogo (malesseri come nausea e vomito oppure benessere diffuso e umore sereno). La psiche della gestante comincia a traboccare di sentimenti e di appercezioni complesse. Se consideriamo i cambiamenti nell’unità psicosomatica femminile che abbiamo riassunto nell’idea di trasformazione o metamorfosi, comprendiamo che è la corporeità nel suo insieme ad emergere nella coscienza, la quale così si avvicina ancor più al concetto dell’orizzonte di senso che ne guida l’esperienza lungo la direzione delle intenzionalità che l’animano. Ma come si forma questo orizzonte e il suo senso? Qual è il «sistema di significati vissuti»27 da cui emerge? Il corpo gestante manifesta fin dal vissuto recettivo, pre-intenzionale, hyletico una forma di unità con il feto che è tuttavia più di un semplice legame: anziché derivare dall’incontro e dall’intersecarsi di due diverse dinamiche genetiche, questa unità psico-somatica, al contrario, le precede entrambe, apparendo allo sguardo ridotto della fenomenologia come una totalità originaria che rende possibile la fusione dei due soggetti della procreazione in un’unica storia di trasformazione e di sviluppo.

Questa totalità è sentita dalla psiche della gestante come qualcosa di proprio, o meglio come un tutto tendenzialmente unitario (ma sempre in proiezione, mai compiuto) di sensibilità, sentimento e intelletto, che proviene dal potere generativo appartenente alla sua corporeità, e dal continuo, reciproco rispondersi di questa con quella del bambino o bambina in formazione. Una co-rispondenza, tuttavia, a cui nessuna forma di empatia, amore, attaccamento tra persone distinte può essere paragonata, per quanto le assomigli.

Il fenomeno dell’empatia o entropatia, d’altra parte, è stato approfonditamente studiato dai fenomenologi, a cominciare dalla discepola più vicina ad Husserl, Edith Stein che, secondo l’interpretazione di Patrizia Manganaro, lo ha definito come: «Atto intenzionale esperienziale eterocentrato, che consente cioè il riconoscimento dell’alterità personale, in una più ampia epistemologia dei vissuti coscienziali concepita quale analitica fenomenologica della persona umana.»^[28] Di tale riconoscimento si può parlare soprattutto a proposito dell’appartenenza alla medesima specie umana che sperimentano ogni giorno persone di etnie e culture molto diverse o distinte tra loro in base a età, sesso, linguaggio, classe sociale. Si danno diversi casi di entropatia, dal suo più semplice, immediato aspetto di percezione o intuizione dell’altra esistenza alle forme di rispetto che generano comprensione e presentano motivi di reciprocità e di associazione, fino all’atto di immedesimazione nel sentire dell’altro.

Recentemente si è affermata una spiegazione neuromotoria dell’empatia, che però, come fa notare Laura Boella, non è da considerare esauriente:

L’evidenza neurobiologica (che oggi metodi come l’imaging ci permettono di avvicinare, ma sono ancora ben lontani dallo spiegare e descrivere nella sua complessità) di cui si dice che fornirebbe la «base» dell’empatia può essere considerata come una componente (non l’unica) di una capacità di base consistente in quel rispondersi dei corpi a partire da una comune inerenza a un sistema di reciprocità e reversibilità tra il sé e il mondo.28

La filosofa Boella sottolinea bene, al di là della spiegazione naturalistica, il ruolo della co-rispondenza di cui abbiamo già detto, rinforzandolo con il riferimento al sistema di reciprocità che lega i corpi. Per comprendere meglio come si forma tale sistema è ancora una volta utile ricorrere a Edmund Husserl.

A proposito di enteropatia:

Un caso eminente è quello dove l’altro viene interpretato come riferito al mio io ed a ciò che appartiene alla mia egoità, e io esperisco ciò realmente. L’unità nella molteplicità dell’esperienza interpretativa ha qui dunque un punto d’adempimento nella mia specifica esperienza di me stesso. [… .] In ogni caso questa specie di adempimento svolge un ruolo particolare se pensiamo alla continuità genetica più originaria di bambino e madre.29

Questo brevissimo cenno di Husserl alla relazione generativa tocca il tema della nostra analisi, e a questo fine ritengo di poterlo così parafrasare: tra le molte esperienze dell’entropatia ve n’è una che più di altre testimonia come un soggetto possa conoscere l’altro sulla base del riferimento a se stesso, ed è il caso dell’unità tra l’io della madre e l’io dei figli dovuta alla loro quasi identità o meglio continuità genetica, ovvero al rapporto corporeo, alla relazione originaria che li lega. La breve parafrasi, però, deve essere integrata con gli aspetti più importanti di tale relazione. Anzitutto sottolineando come questa rappresenti nel suo divenire un duplice movimento, l’uno evidente verso l’identità di un nuovo individuo, l’altro più nascosto verso l’immedesimazione dei due soggetti all’infinito (poiché non può essere mai completamente raggiungibile). In seconda istanza la relazione sembra consistere nel «sentire insieme» di madre e figli, che si può in altri termini anche considerare un aspetto del cosiddetto «istinto materno»: ma il termine di «istinto» vale per quanto di immediato, di irriflesso questo atto di immedesimazione presenta, che non si deve confondere, come spesso si fa, con il ben diverso atto di cui stiamo parlando. Il quale consiste nel darsi, dedicarsi all’altro, ed è un atto che implica in primo luogo la consapevolezza e la volontà e ha la sua preparazione nella decisione di generare, per continuare in seguito a lungo, almeno fino alla emancipazione dei figli dal bisogno delle cure materne.

2.3. La catena di coloro che hanno insieme un mondo

Il potere di immaginare e nello stesso tempo di simulare e di comprendere è la via attraverso la quale la gestante è portata a sentire, precocemente e fortemente, che la situazione esclusiva nella quale vive è una totalità che la connette anche al mondo che in superficie essa ritiene a sé estraneo eppure, giudicandolo nella verità della comunicazione e del reciproco rispecchiamento, le si presenta come quella realtà intersoggettiva di cui sa di far parte. L’accrescimento del corpo della gestante si è reso visibile e, anche se prevale in lei il riserbo circa sentimenti e riflessioni difficilmente esprimibili, avviene gradualmente e in continuità il suo passaggio interiore all’autotrascendenza, tanto che intimità e socialità diventano per lei una cosa sola.

Talvolta ciò non si verifica, quando prevale l’asimmetria di un rapporto affidato dall’inizio al potere di un solo soggetto, rapporto che può degenerare nel narcisismo della futura madre la quale non farà che prolungare anche dopo il parto il suo bisogno di un contatto di tipo erotico; oppure potrà tradurlo nella reciproca dipendenza che immobilizza entrambi i soggetti in un perenne rapporto materno/infantile, sottratto all’apertura naturale verso la socialità. Ciò che normalmente la gestante attende dagli estranei è il riconoscimento della sua relazione psicofisica con il nascituro, mediante la quale un altro essere umano si annuncia come un potenziale Io. Husserl ci fa capire a questo punto ciò che accade, a partire dal fatto che tutti possono intendere, per analogia con se stessi, che cosa significa il corpo vivo gestante: «L’io si dà a se stesso per quello che è, in virtù della comprensione analogicizzante l’io estraneo viene attribuito al corpo proprio, si dà cioè in una manifestazione assoluta, in un automanifestarsi, simpliciter, senza apparizioni.»30

«Senza apparizioni» vuol dire senza necessità che il nuovo io si palesi come fenomeno: sappiamo tutti, infatti, che il corpo di un altro essere umano è animato dalla coscienza e perciò va riferito ad un io, e possiamo comprenderlo anche nel caso del piccolo non visibile ma contenuto nel ventre ingrossato della gestante: sapendo che si tratta di un piccolo essere umano, si può senz’altro capire che si tratta di un altro io. Ma c’è qualcosa in più in questa capacità di comprensione, che consiste in quello che abbiamo chiamato «orizzonte» del legame generativo. Per via di questo «apriori storico», nel rendersi conto dell’intersoggettività a cui appartiene, ognuno può diventare disponibile non solo a generare, ma soprattutto al riconoscimento più ampio della realtà storica del suo vivere con gli altri, tanto da voler rigenerare, ovvero aprire nuovi spazi di vita a chi è già nato ed è rimasto orfano, abbandonato dai suoi, oppure con loro vive di stenti. Ciò accade spesso, nonostante il fatto che questa volontà diffusa tra gli esseri umani possa essere contrastata dalla malvagità e dall’odio che pure allignano nel cuore degli stessi esseri.

Tornando alla dimensione fenomenologicamente ridotta dell’esperienza della gestazione, in quanto questa è vissuta dalle donne fuori dal cerchio ristretto del proprio egocentrismo diviene comunicabile, tanto da acquistare un senso universale, come «modello» di ampia portata, con la funzione metodologica di dare una qualche unità all’infinita varietà e mutevolezza delle relazioni generative. Potrebbe così per noi delinearsi il concetto della catena generativa, la quale costituisce il mondo pubblico, attraverso il riconoscimento reciproco, come corpo sociale e come comunità politica. Tuttavia, considerando che tutti, donne o uomini, sono stati prima di nascere nel grembo materno, è evidente non solo che il riconoscere questo fatto può accomunarli in generale, ma anche che tutte le relazioni più strette quali quelle di paternità, di fraternità, di consanguineità, di unione coniugale, in quanto anelli di questa multipla catena generativa hanno sempre il loro saldo appiglio ad un anello come quello, appunto, della relazione materna. Quanto più autentica è stata per ognuno questa relazione dal punto di vista affettivo, e quanto più il modello di gravidanza da essa rappresentato ha potuto realizzare la «totalità originaria» di cui abbiamo visto la portata, tanto più forte appare l’anello e più saldo il suo appiglio nella catena generativa. Si può accostare il concetto di questa catena a quello che Hanna Arendt indicava come pluralismo verticale, ovvero «relazione plurale costitutiva di umanità», sottolineandone il significato sociale e politico. Arendt individuava la causa dell’inautenticità delle relazioni sociali nel prevalere della vita privata, da intendersi nel senso originario di deprivazione, e sosteneva che ciò era accaduto storicamente nell’epoca dell’allontanamento dal mondo e del senso di una «fine della storia» ormai imminente, diffusi tra le prime comunità cristiane che si sentivano separate dal mondo, quindi deprivate di mondo. Arendt contrapponeva a questo mondo privato quello pubblico: «Che abbiamo in comune non solo con quelli che vivono con noi ma anche con quelli che c’erano prima e con quelli che verranno dopo di noi.»31 Perciò ella riteneva che la categoria centrale del pensiero politico fosse la natalità e non la mortalità: il corso inesorabile della mortalità è interrotto da ogni nascita, diceva, che ha la facoltà di iniziare qualcosa di nuovo, cioè di agire mutando le cose secondo nuove possibilità.32

Nella nostra chiave fenomenologica questa tesi si può tradurre nel riconoscimento della funzione che la coscienza intenzionale delle gestanti può avere nella dimensione pubblica, essendole affidata la possibilità dell’essere di ogni nuovo nato, nel suo venire alla realtà intersoggettiva del mondo: questo, che potremo chiamare principio della continuità del possibile, è il fondamento del modello materno, e lo distingue rispetto al modello patriarcale che ha dominato per secoli in Occidente e ancora vige in molti Paesi, specie se di religione musulmana. Modello che nella sua formulazione antica era disegnato secondo la linea verticale di continuità del potere, dove nulla poteva interporsi a impedire che il Padre fosse Padrone dei figli e Monarca che ne esige il sacrificio per la guerra (o che vede nei figli i possibili usurpatori e i futuri nemici). Inoltre la generazione pensata nel suo significato naturalistico giustificava il concetto di stirpe che incorpora i soggetti nel chiuso di un’appartenenza: da questa rigida identità derivavano i solchi delle discendenze, delle etnie, delle razze, solchi che segnano di tracce sanguinose il suolo e i giorni dell’umanità.

Nel novecento il patriarcato come modello della società e come parametro culturale ha conosciuto il culmine della sua forza simbolica nell’interpretazione di Sigmund Freud, che ne coglieva la genesi nella profondità della psiche dove si confrontano strenuamente gli elementi vitali originari della prima infanzia: l’amore materno e l’autorità paterna, elementi che egli rappresentava in forma simbolica con il mito di Edipo, ed estendeva dalla considerazione della psiche individuale a quella della storia sociale. In tal modo prese corpo una configurazione simbolica dei meccanismi psichici più nascosti, la cui potenza comunicativa era d’altronde dovuta alle inquietudini e alle contraddizioni dell’epoca, che in tale simbolo trovavano rappresentazione. Nella quale il padre era visto come autore e custode della legge e rappresentante del potere, mentre la madre incarnava il principio del piacere, dell’amore, del rifugio dalle avversità. Secondo la filosofa Julia Kristeva il rapporto con il padre è di natura simbolica, dove il simbolo è posto a ordinare e dettare norme, mentre il rapporto con la madre è di natura semiotica, ossia di significazione immediata attraverso gli istinti e i sentimenti del corpo.33

3. Prima connessione nativa

Tornando alla psicologia in gravidanza, dobbiamo notare che la capacità di immaginare consente alla gestante di anticipare nella simulazione le situazioni che si accinge a vivere: dagli studi neurologici sappiamo che la simulazione non è soltanto un generico esercizio mentale accompagnato o meno da atteggiamenti del corpo. Al contrario, come hanno dimostrato le ricerche sperimentali, la simulazione è determinata dall’attivazione di specifiche regioni della corteccia cerebrale, là dove sono collocati i cosiddetti «neuroni-specchio», preposti sia a certi gesti specifici sia all’imitazione degli stessi gesti in quanto sono visti come compiuti (o in procinto di essere compiuti) da parte di altri soggetti. Così l’unità madre/figlio, rappresentata simbolicamente da quell’abbraccio che domina la visione di altre esperienze materne, ovvero di altre donne divenute madri (anche soltanto nella rappresentazione artistica) viene immaginata e simulata dalla coscienza della gestante come anticipazione della propria futura esperienza. Come scrive il neurologo Vittorio Gallese:

Attività cognitive tipicamente umane, quali l’immaginazione visiva o motoria, lungi dall’essere esclusivamente caratterizzate da una natura simbolico-proposizionale, riposano invece e dipendono dall’attivazione di regioni sensori-motorie del cervello. L’immaginazione visiva è equivalente alla simulazione di una reale esperienza visiva così come l’immaginazione motoria è equivalente alla simulazione di una reale e attiva esperienza motoria […]. Questo processo di simulazione automatica costituisce anche un livello di comprensione, un livello che non implica l’uso esplicito di alcuna teoria o rappresentazione simbolica […]34 Parlo di simulazione incarnata per sottolineare il carattere inevitabile, automatico, non consapevole, prerazionale e non introspettivo di tale processo.35

Dal canto suo il neurologo Giacomo Rizzolatti, definisce i neuroni specchio «un meccanismo per capire e interagire con altri individui», e in particolare specifica: «Che per comprendere gli altri dobbiamo prima creare delle conoscenze interne degli apriori legati al sistema motorio, che gli altri entrano continuamente in noi con il loro agire, e infine che il sorprendente legame tra il nostro agire e quello degli altri potrebbe essere alla base del comportamento altruistico.»36

Dopo i mesi della simulazione la donna che attende un figlio o una figlia si affaccia alla nuova realtà: una diversa dimensione dell’esperienza gravidica si apre infatti nel suo momento culminante costituito dalla visibilità del feto nella diagnostica ecografica ma soprattutto dai suoi movimenti che la gestante avverte nel ventre: da questo momento essa ha la prova della presenza nel suo corpo del figlio o della figlia fino ad allora solo anticipati nell’immaginazione. Potremmo considerare questa prova come un’anticipazione progressiva del futuro soggetto, un «pre-io», il quale:

Ha pure a suo modo già un mondo […] ne è toccato, riceve materia come prima pienezza, prima partecipazione al mondo di coloro che sono già svegli, che sono già vivi, gli io soggetti viventi, che sono già in connessione vivente l’uno con l’altro e con i quali l’io si incontra in una prima connessione nativa: esso ha genitori e questi sono in una comunità di soggetti viventi nella temporalità storica a cui essi appartengono. I viventi svegliano il non vivente.37

Con l’espressione «prima connessione nativa» Husserl intendeva certamente configurare sia la gestazione sia la fase neonatale, entrambe fortemente contrassegnate da una connessione carnale, emozionale, affettiva. Il pre-io del feto è posto fin dall’origine in questo legame, e ne riceve certamente la «materia» costituita da tutti gli elementi necessari per la sua formazione non solo fisica ma anche e soprattutto psichica, se pensiamo allo stadio di evoluzione della specie umana che esso riceve nella forma della simbiosi attraverso il liquido amniotico, almeno stando alle tesi dello psicanalista Wilfred Bion.38 Ma, quanto all’inizio autentico della nuova vita, secondo l’analisi fenomenologica esso va misurato solo a partire dagli atti intenzionali di colei che la mette al mondo consapevolmente: non è l’inizio oggettivo del suo tempo fisico e biologico ma quello che la colloca:

Entro un’unità monadica della coscienza, unità che nulla ha a che fare con la natura, lo spazio, il tempo, la sostanza e la causa, ma possiede le sue «forme» del tutto proprie. È questo un flusso illimitato dai due lati di una linea intenzionale trascorrente, che è come l’indice dell’unità che tutto attraversa, cioè della linea del «tempo» immanente senza inizio né fine, un tempo che nessun cronometro misura.39

La linea intenzionale trascorrente, tuttavia, si ferma dinnanzi al momento della nascita, fatto che, se è materialmente consistente, ha tuttavia una ben più significativa consistenza nella sfera di essenze che pervadono la mente fenomenologicamente ridotta, essenze del tempo immanente e dello spazio interiore nella comprensione di sé. Come Jean Paul Sartre ha scritto:

Invece, a partire dalla nascita, come legge d’essere originale e a priori del per-sé, si apre un mondo con un tempo universale, nel quale si può indicare un momento in cui il per-sé non era ancora, ed un momento in cui appare, degli esseri da cui non è nato, ed un essere da cui è nato. La nascita è il sorgere del rapporto assoluto di «passatità» come essere ek-statico del per-sé nell’in-sé. Con essa appare un passato nel mondo.40

Questa citazione può essere intesa anche come un richiamo rivolto a tutti, uomini e donne, perché intendano il senso universale del legame generativo che introduce nuove coscienze nella storia del mondo, con un loro presente da vivere e un passato cui di fatto appartengono. Nel secolo presente, almeno in Occidente, pur essendo molti i fatti che hanno contribuito a disperderne la potenza, si attende ancora la definitiva trasformazione del modello patriarcale in un modello di generatività, dove uomini e donne giungano a costituire insieme i fatti e le idee che possano legarli ad un sentire comune.41

Secondo questo modello ideale l’uomo potrà conquistare una pienezza di sensibilità e di intelletto nel vivere la tensione dialettica tra la tendenza regressiva verso il grembo materno e la possibilità di riconoscere questa unione nel suo significato più ampio: dovrà a questo fine sia accettare di essere stato dipendente da questa unione, sia avvertire la propria sfera sensoriale come sfera di corpo/psiche vivente nel senso dell’alterità. La donna, per contro, sarà portata a ripetere il modello generativo che l’ha messa al mondo. Uomini e donne, sentendosi chiamati a colmare le differenze reciproche, potranno far proprio il principio fenomenologico relazionale che invalida ogni gerarchia: «Il movimento della costante relatività delle validità e del riferimento con coloro che vivono insieme, che hanno insieme un mondo.»42 Così uomini e donne comprenderanno come ogni nascita sia un momento fondante di questo movimento della relatività e delle relazioni: è il momento in cui la donna gestante giunge al parto, all’autentica e pubblica presentazione del nuovo essere, del nuovo io che si fa riconoscere come soggetto empirico, concreto, entrando nel mondo comune. Ovviamente, questa trasvalutazione di significati che altrimenti non apparirebbero rilevanti, acquista il suo valore essenziale nella nostra ottica, in quanto si connette all’intenzionalità donatrice di senso che accompagna l’unità di corpo e psiche femminile lungo l’avventura generativa e che, nel «dare alla luce» un nuovo essere, rende umano un fatto che altrimenti non si solleverebbe al di sopra della natura animale.

«La nascita non è un «fatto naturale»: a rendere umano il fatto biologico della riproduzione sono la scelta, la consapevolezza, l’immaginazione materne.»43 In questa ottica umana, intersoggettiva e pubblica, l’atto più contrario al procreare che è l’interruzione di gravidanza, sembra rimanere un fatto privato ma non lo è; basti pensare alle normative che in una grande parte del mondo vietano l’aborto, vuoi per motivi religiosi vuoi per motivi di politica demografica, o che all’opposto per questi ultimi motivi lo impongono, facendo in ogni caso di donne e uomini dei soggetti subordinati, privi di volontà e del diritto di disporre in autonomia della propria vita. La libertà di decidere se proseguire la gravidanza oppure interromperla entro i tempi stabiliti dalle leggi, è oramai riconosciuta come un diritto delle donne nella più gran parte dei Paesi occidentali. Di questo argomento ho già trattato, mostrando per quanto mi è stato possibile i molteplici, contradditori, tormentati aspetti del complesso e drammatico rapporto che si instaura in una psiche femminile tra la consapevolezza del concepimento avvenuto e la proiezione verso il futuro costituita da un proprio progetto di vita incompatibile con la maternità; dramma dinnanzi al quale la scelta di proseguire la gravidanza poteva apparire una sorta di oasi della coscienza.

Il mio intento era quello di descrivere le ragioni in senso positivo o negativo che si possono profilare nell’animo femminile in tale circostanza, prescindendo dai giudizi o dalle prese di posizione che l’argomento può suscitare.

3.1. Partorire è portare all’essere

Oggi il nostro rapporto con le sensazioni fondamentali della vita è molto complicato, in bene e in male, dai progressi medici e sanitari: così le pratiche ostetriche sono state largamente modificate, e molte donne per lo più, per non soffrire i dolori del travaglio, partoriscono in completo abbandono alle tecniche sedative o anestetiche, o alla scorciatoia chirurgica del parto cesareo. Il prezzo da pagare, però, è l’interruzione del contatto diretto con il figlio e la mancanza di quel primo senso di gioia e meraviglia alla visione del piccolo, che segna il termine delle sofferenze e delle paure. Molti sostengono che il ricorso ai farmaci sedativi o alle pratiche anestetiche può causare danni alla salute e alla psicologia di madre e bambino.

Si ritiene che parto e sentire vadano separati. Non ci si chiede degli effetti che seguono una tale separazione tra la donna e ciò che sta accadendo: la nascita di suo figlio. Non si pensa neppure che potrebbe esserci una relazione tra l’interruzione del rapporto tra la donna e il suo bambino che l’anestesia produce e le successive difficoltà che, non di rado, si trasformano in vere e proprie depressioni.44

È sempre possibile, tuttavia, che i dolori più forti arrivino fino a interrompere o impedire il controllo di sé, quasi a cancellare il senso del percorso compiuto dalla intenzionalità materna per tutto il tempo della gestazione. Dinnanzi a questo problema è da chiedersi qual è il limite di tale sofferenza, se si tratta di un limite soggettivo (e allora potremmo parlare di donne psichicamente più forti o più deboli) ovvero di un limite che per tutte si trova al di là delle possibilità di autocontrollo. L’animo delle partorienti generalmente resiste fino al momento in cui esse si ricordano dei pericoli legati al parto e si lasciano dominare soprattutto dal pensiero della morte.

Vivendo nel mondo d’oggi, le donne sanno di potersi affidare al progresso della scienza e della pratica medica che riduce in grande misura questi pericoli, anche se di questi hanno sentito parlare o ne hanno letto a sufficienza per vivere nel timore la lunga fase del travaglio. In tal caso, l’antidoto contro il panico è ancora una volta nella volontà di donare la vita, volontà che in genere rimane ferma anche nel culmine della sofferenza, pure se sembra dimenticata o messa da parte. Infatti, all’istinto vitale che le è proprio, si aggiunge normalmente nella madre un atteggiamento insieme di padronanza e di responsabilità che, anche se inavvertito, funziona come un fondamento che la sostiene avendo riguardo alla vita che sta per venire al mondo.

Sono molto rari, ovviamente, i casi eroici di madri che in frangenti estremi hanno richiesto ai medici di salvare la vita del bambino o della bambina rinunciando alla propria. In genere viene a mancare la stessa forza di decidere un simile sacrificio a psicologie immerse nella molteplicità e nell’urgenza delle emozioni, delle percezioni, dei pensieri che si affollano e si sovrastano a vicenda, sullo sfondo di un travaglio ininterrotto. Di certo una prospettiva di sacrificio non può diventare comune alle donne che partoriscono, e quindi non si può pensare che la volontà di mettere al mondo non abbia limiti.

La prima ricompensa per le sue sofferenze viene alla madre da chi le porge, per quanto sia esausta, il figlio o la figlia perché li senta finalmente e subito come proprî ossia, si potrebbe dire, come nati dalla sua volontà, e questo è il momento in cui essa raggiunge la piena percezione, visiva e tattile, dell’Altro, il neonato frutto del proprio travaglio.

La contrazione, infatti, va vista per quello che è: una profonda sapienza del corpo che permetterà al bambino di nascere: qualcosa di cui stupirsi, quindi, da rispettare piuttosto che da contrastare […] Egli ha ancora mente e corpo unificati, i ritmi lenti del corpo trovano ancora corrispondenza in quelli della mente. Chi ha frequentato un neonato ha senza dubbio visto i suoi lunghi sguardi, occhi spalancati sul mondo in una contemplazione senza traccia di psiche. È pura apertura sull’esistenza attraverso un corpo e una mente ancora in armonia.45

Il momento del parto per le madri come per i figli esprime molto di più dei suoi aspetti fisici o genetici, qual è ad esempio l’elemento naturale della stretta vicinanza tra i due esseri che appartengono alla medesima «continuità genetica» (secondo il cenno che abbiamo trovato in Husserl): rappresenta piuttosto l’inizio della relazione nel tempo a venire che legherà tra loro due esseri (o più di due nei parti gemellari) in virtù dell’emozione iniziale, della meraviglia che ha colpito la partoriente di fronte al volto di neonata o neonato che le appare, una meraviglia che repentinamente conquista ogni mente materna. Così possiamo dire che l’amore materno nasce dallo stupore nel vedere il volto del figlio o della figlia neonati, e questa esperienza emozionale trascende ogni altra, tra i molti possibili contatti degli esseri umani, in quanto produce un legame che non può avere ripensamenti, perfino se i figli nel crescere rivelano malformazioni fisiche o psichiche, oppure una tendenza a sottrarsi con l’indifferenza o in modo violento all’attenzione della madre: costei proverà un’amara delusione ma non perderà mai l’amore del primo contatto. Questo speciale amore che sorge da un’emozione inaspettata non consiste nel semplice prolungamento dell’originario «sentire insieme»: infatti questo sentimento può anche ripetersi per un periodo breve, per venire poi meno con la crescita e il distacco progressivo del figlio/figlia dalla propria madre, mentre l’amore della partoriente ha lunga durata, come si è detto, e può accompagnare la vita di entrambi i soggetti. E l’accompagna con la forza di una intenzionalità ormai divenuta certezza, non più affidata all’immaginazione e all’attesa.

3.2. Coscienze che costituiscono coscienze

Una volta che il piccolo ha veduto la luce, oltre ai molti adempimenti di cura che le spettano, la madre ha il difficile compito di fare da specchio per l’avventura che il figlio e la figlia incontrano nello sviluppo della propria coscienza; specchio riflettente che li collega al primo punto di riferimento che è la madre stessa, e specchio mediatore, rassicurante rispetto alle cose e agli altri. Infatti, dal momento in cui il cerchio madre-figlio/a si è aperto all’esterno si sono presentati d’ogni parte innumerevoli stimoli e contatti, ed è iniziata una continua dialettica tra le disposizioni naturali dello stesso neonato e le influenze esterne, a cominciare dai tanti fattori ed elementi da cui dipende il suo sviluppo corporeo e psichico.

La mediazione materna è indispensabile nei primi mesi e anni, e sostituisce man mano la relazione originaria che prima era esclusiva nel rapporto dei corpi, la quale si allenta e sfuma. Abbiamo già veduto che cosa ciò significhi nella stessa previsione della gestante che si rende conto di come la sua parte nella relazione originaria non può che venir meno. Per quanto riguarda lo sviluppo del nuovo essere umano debbo richiamare quanto detto già nei primi capitoli, e cioè che l’evoluzione della corporeità è il risultato di un’autopoiesi e allo stesso tempo quello di una interazione continua con il mondo. Ma, al di là della crescita corporea e psichica, vi è una funzione propriamente e precocemente educativa che riguarda l’emergere dell’io del soggetto che agisce, vuole, pensa, valuta, ossia dell’io personale che ha la psiche come base sensoriale, hyletica e che prelude al sorgere dell’autocoscienza. Questo soggetto può emergere in larga parte in virtù dell’azione della madre, quando lei adempie alla funzione mediatrice di selezionare gli stimoli che si riversano sull’infante, evitare che divengano percezioni opprimenti, adattarli e trasformarli in simboli, ripetibili e combinabili in infinite forme. Tale funzione concorre grandemente allo sviluppo della autocoscienza e pone le basi dell’Io trascendentale. Per comprendere i termini e i tempi di questa conformazione, come abbiamo visto, occorre tener presenti non soltanto i caratteri che si delineano, fin dall’origine, come proprî di una individualità in formazione, ma anche l’ambiente della sua crescita, come ci fa capire Husserl:

L’essenza pura della psiche comporta la polarizzazione dell’io, comporta inoltre la necessità di uno sviluppo, che l’io compie in quanto persona, fino a diventare persona. L’essenza di questo sviluppo comporta che l’io in quanto persona è costituito nella psiche attraverso l’esperienza di sé. Un essere personale è possibile soltanto in quanto è cosciente di se stesso.46 L’autoesperienza, l’autoappercezione si amplia costantemente. L’imparare a conoscersi è la stessa cosa dello sviluppo della autoappercezione, della costituzione dell’«ipseità» e quest’ultima si compie unitamente allo sviluppo del soggetto stesso. Ma che dire allora di un supposto inizio? All’inizio dell’esperienza non c’è ancora un’«ipseità» costituita, data, disponibile come un oggetto. L’ipseità è completamente nascosta a sé e agli altri, almeno per l’intuizione. Ma attraverso l’entropatia gli altri possono già attribuirle comprensivamente più cose, in quanto per essi è già prefigurata sperimentalmente la forma della soggettività in quanto forma che si costituisce attraverso uno sviluppo.47

In queste pagine vediamo in primo luogo con evidenza come l’io, o soggettività, che abbiamo fin qui conosciuto guardando alla psiche nella sua essenza, si identifichi con la persona e con il suo sviluppo, e come questo sviluppo equivalga alla progressiva costituzione dell’ipseità, da intendere come coscienza di sé dell’io che riflette su se stesso e «impara a conoscersi». In secondo luogo, vi troviamo esplicitato il principale strumento di formazione di questa originaria determinazione umana, che all’inizio del suo sviluppo non è ancora visibile come reale: questo strumento consiste nel contatto entropatico con chi sa «comprensivamente» considerare l’infante come un io capace di autocoscienza, e quindi con chi in questo senso si adopera, anche inconsapevolmente, per una forma iniziale di educazione all’autonomia. Si tratta, quindi, di una funzione che possono esercitare, come le madri, tutti gli esseri umani nel momento in cui si rapportano con un infante durante il suo primo sviluppo: essendo a conoscenza «sperimentalmente» (ossia per esperienza) di che cos’è un soggetto, sono in grado di «sentire» già nel piccolo la predisposizione a diventarlo. Possiamo anche vedere in questo rapporto una particolare intenzionalità, come suggeriva Marco Maria Olivetti:

L’intenzionalità del prendersi cura dell’infante, il rivolgere il proprio volto all’infante, con il gioco di identificazioni e proiezioni […] che tale rivolgersi mette in moto, è intenzionato alla costituzione non di un oggetto come interiorità coscienziale, bensì di un soggetto come esteriorità coscienziale, o altra coscienza. Nel rivolgersi all’infante la coscienza è come non mai costituente, ma costituente di coscienza e di soggettività.48

Tra tutti coloro che esercitano questa funzione del riconoscimento dell’io infantile, sta naturalmente in primo piano colei che lo chiama per nome come proprio figlio/a, e nello stesso tempo ne soddisfa il bisogno primario di alimentazione, facendosi in genere essa stessa fonte di cibo attraverso l’allattamento. Ma prima ancora di arrivare ad esaminare il riconoscimento da parte del figlio/figlia (che si manifesta anche soltanto nel sorriso, come vuole il virgiliano risu incipit cognoscere matrem) è da domandarsi come l’entropatia particolare che abbiamo riconosciuto alla partoriente si possa fare carico anche del graduale emergere della soggettività dei figli, o se invece il sentimento amoroso che la contraddistingue non costituisca un ostacolo che la porti ad esigere di prolungare con i figli gli originari legami di stretta dipendenza reciproca.

La risposta può provenire solo dalla considerazione del portato razionale della intenzionalità che la donna ha perseguito come mente generativa, quella razionalità che potrà renderla attenta alle esigenze dell’Altro anche nelle fasi del distacco, tanto da volerne l’autonomia. Se questo convincimento risulta forte, come si è detto, a motivo di una sua base hyletica, precategoriale, la donna avveduta sa esercitare un particolare intervento della ragione anche al di sopra del suo istinto, sa cioè di dover trattare i figli come esseri pensanti fin dai primi mesi di vita, e di dover loro il rispetto che è dovuto ad ogni soggetto. D’altra parte dobbiamo anche considerare che, attraverso la vicenda della gestazione e, successivamente, del parto, ogni donna ha sviluppato una coscienza nuova, non solo nel senso che solitamente si attribuisce alla formazione del carattere attraverso le prove, le sofferenze, le difficoltà, ma piuttosto nel senso specifico che per lei ha significato l’aver vissuto nella relazione originaria dal lato della soggettività cosciente e volitiva, la quale, nel guardare al rapporto con il figlio o figlia, esercitava una funzione che potremmo chiamare trans-soggettiva, di costituzione del futuro soggetto.

La psicologa Silvia Vegetti Finzi ha scritto:

La maternità, che non inizia con la gestazione né si conclude con il parto, è in ogni momento agire creativo. Quando la madre guarda il suo nato ha una visione metaforica perché vede, in un generico cucciolo di uomo, il soggetto di una storia che, pur non essendo ancora stata scritta, ha trovato il suo protagonista. Lo sguardo materno scorge in qualcosa qualcuno e ciò lo crea, lo fa essere una presenza nel mondo.49

A questo punto, allora, possiamo ritrovare ancora operante nella madre la disposizione introiettata durante i mesi dell’attesa: ogni donna che vi abbia partecipato sa che la relazione in cui ha vissuto non è soltanto quella psicosomatica delle due corporeità fuse in unità, ma è una particolare relazione trans-soggettiva, come si è detto, in quanto sorta dalla sua precisa intenzionalità, frutto di volontà e di ragione. Inoltre, certamente ognuna che rievochi d’avervi partecipato a suo tempo dalla posizione di figlia, riconosce il proprio posto nella vita e nella catena generativa; ma anche tutti gli altri, uomini e donne, possono guardare a questo orizzonte di senso e rievocare la relazione che li ha messi al mondo, così da voler considerare ogni relazione originaria generativa come fondamento del vivere.

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  1. Boncinelli E., Mi ritorno in mente. Il corpo, le emozioni, la coscienza, Milano 2010, p. 10. ↩︎

  2. Damasio A., The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of the Consciousness, New York 1999, (tr. it. Emozione e coscienza, Milano 2000, p. 158). ↩︎

  3. Sartre J.P., L’être et le néant. Essai d’ontologie phénomenologique. Paris 1943. ( tr it. G. Del Bo, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, Milano 1980, p. 19). ↩︎

  4. Frankfurt H., The Importance of what we care about: Philosophical Essays, Cambridge 1988, p.162. ↩︎

  5. Varela F., The Journal of Consciousness Studies, 3, 1996. ↩︎

  6. Gallagher S. — Zahavi D., The Phenomenological Mind, Routledge 2008, (tr. it. di P.Pedrini, La mente fenomenologica, Filosofia della mente e scienze cognitive,Raffaello Cortina ed. 2009, pp. 208-9): «Una descrizione del corpo vissuto è una descrizione del corpo dalla prospettiva fenomenologica. Da una parte, è il modo in cui il corpo appare nell’esperienza; dall’altra, è assai di più di questo: è il modo in cui il corpo struttura la nostra esperienza. Il corpo non è uno schermo tra me e il mondo, bensì plasma il nostro modo primario di essere nel mondo». ↩︎

  7. Husserl E., Erste Philosophie in Husserliana VIII, Den Haag 1959, tr. it. di V. Costa, Filosofia prima, Soveria Mannelli 2008, (i corsivi sono di Husserl). ↩︎

  8. Husserl E., Ideen zur einen reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie, t.I, Den Haag 1976, tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. I,Torino 2002, p.74. ↩︎

  9. Ales Bello A., Coscienza, Io, Mondo. La fenomenologia di Edmond Husserl in AA.VV., …e la coscienza?Fenomenologia, Psico-patologia, Neuroscienze, Bari 2012, pp. 116 e 118. ↩︎

  10. Husserl E., Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die Transzendentale Phänomenologie, Husserliana VI, The Hague 1959, (tr. it. E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1987, p.213). ↩︎

  11. Gallagher S. — Zahavi D., The Mind, etc. cit. p.180. ↩︎

  12. Merleau-Ponty M., Phénomenologie de la perception, Paris 1945, (tr. it. Fenomenologia della percezione, Milano 1964, p. 549). ↩︎

  13. Vassallo N., Donna m’apparve,Torino 2009, p.45 (i corsivi sono nel testo). ↩︎

  14. «La storicità generativa originaria, l’unità della vita spirituale in quanto vita di una comunità totale di persone umane generativamente congiunte» E. Husserl, Die Krisis, cit., tr. it. cit. p.529. ↩︎

  15. Husserl E. Die Krisis, cit, tr.it. cit. p. 271. ↩︎

  16. Ivi, p. 272. ↩︎

  17. Francesco Saverio Trincia, Guida alla lettura della Crisi delle scienze europee di Husserl, Roma-Bari 2012, p. 41, (i corsivi sono nel testo). ↩︎

  18. E. Husserl, Ideen etc cit., tr. it. cit.vol. I, § 85, p. 191. ↩︎

  19. «Si possono distinguere tre tipi di queste reti attenzionali, che comportano rispettivamente l’orientamento verso la stimolazione sensoriale, l’attivazione degli schemi tratti dalla memoria e il mantenimento dello stato di allerta.» Varela F., Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al «problema difficile», in AA.VV., Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Milano 2006, p. 81. ↩︎

  20. Merleau-Ponty M., op. cit. p. 280. ↩︎

  21. Id., La structure du comportement, Paris 1942, tr. it. La struttura del comportamento, G. Neri, 1963, p. 321. ↩︎

  22. Lanfredini R., La mente, il corpo, la carne. La fenomenologia e il problema del sentire, www.humana.mente, Journal of philosophical Studies, Issue 14, july 2010. ↩︎

  23. «In ogni esperienza troviamo, come dice la fenomenologia, orizzonti e in senso diverso. La percezione procede e delinea un orizzonte di aspettazione come orizzonte dell’intenzionalità, anticipando ciò che viene come percepito, annunziando cioè future serie percettive.», E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Husserliana t. I, Den Haag 1973, (tr. it. Costa F. Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi parigini, Milano 1989, p. 16). ↩︎

  24. Ivi, p.117. ↩︎

  25. Maturana H., Ximena D., Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Santiago del Cile 1984, tr. it., Milano 2006. ↩︎

  26. Uso qui il termine adottato dal fenomenologo francese Jean Paul Ricœur per tradurre l’accezione husserliana di Leib, in italiano reso con «corpo proprio»: la parola per la sua icasticità mi sembra particolarmente efficace in questo passaggio del mio discorso. ↩︎

  27. M. Merleau-Ponty, Phénomenologie etc., cit., tr. it. p. 218. ↩︎

  28. Boella L., L’empatia nasce nel cervello? La comprensione degli altri tra meccanismi neuronali e riflessione filosofica, in AA.VV. Neurofenomenologia, op. cit. , p. 338. ↩︎

  29. Husserl E, Zur Phänomenologie etc., II t, tr. it. cit., p. 504. ↩︎

  30. Husserl E., Ideen etc., cit.vol. II, appendice X, tr. it. cit., p.712, (i corsivi sono nel testo). ↩︎

  31. Arendt H., The human Condition, Chicago 1958, tr. it. S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Milano 1991, p. 41. ↩︎

  32. Cfr.: ivi, p. 182. ↩︎

  33. Julia Kristeva, La révolution du langage poétique, Paris 1974. ↩︎

  34. Gallese V., Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neurofenomenologica, in AA.VV. Neurofenomenologia, op. cit. pp. 306 e 307. ↩︎

  35. Intervista a Vittorio Gallese, in T:Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Milano 2010, p.203. ↩︎

  36. Rizzolatti G., Abstract da una conferenza del 24/10/2002, Università La Sapienza, Roma. ↩︎

  37. Husserl E., Ms. K III 11, (/Das Kind. Die erste Einfühlung)in Zur Phänomenologie der Intersubjectivität, III t., Husserliana XV, M. Nijhoff, Den Haag 1973, pp. 604-5, tr. it. di A. Ales Bello, inedita. ↩︎

  38. Cfr.: Bion W. R., Learning from Experience, Heinemann, London 1962, tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972. ↩︎

  39. E. Husserl , Philosophie als strenge Wissenschaft, Husserliana XXV, Nijhoff The Hague 1987, tr. it. La filosofia come scienza rigorosa, Pisa 1992, pp. 70-71. ↩︎

  40. Sartre J. P., L’être, cit., tr. it. p. 191. ↩︎

  41. Cfr. Battersby Ch., The Phenomenal Woman. Feminist Metaphysics and the Patterns of Identity, Cambridge 1998. ↩︎

  42. E. Husserl, Die Krisis etc., tr. it. cit., p. 490. ↩︎

  43. 44 V. Held, Feminist Morality, Chicago 1993, tr. it. Etica femminista↩︎

  44. Benfenati B., Dall’epidurale alla meditazione. Una via per ritrovare il sacro della nascita, Bologna 2010, p. 56. ↩︎

  45. Ivi, pp. 65 e 99. ↩︎

  46. Id, Ideen, etc., II vol., tr. it. cit., p. 644. ↩︎

  47. Ivi, Appendice XII, p. 739; ↩︎

  48. Marco M. Olivetti, Analogia del soggetto, Laterza, Bari 1992, p. 148. ↩︎

  49. Vegetti Finzi S., Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Milano 1990, p. 230. ↩︎