La fenomenologia e l’analisi della soggettività

Quale può essere il contributo della fenomenologia ad una più articolata analisi della soggettività nella filosofia futura? A questa impegnativa domanda si può rispondere con un largo ventaglio di scelte, considerando quante sono le correnti filosofiche che sono derivate dalla fenomenologia, e soprattutto quanti grandi pensatori hanno allargato il dominio di questo atteggiamento filosofico, che è una delle matrici del pensiero contemporaneo. Per forza di cose, dato il tempo ristretto e la modestia delle mie risorse, io ho limitato il campo della mia risposta ad alcune tracce che Edmund Husserl ci ha lasciato in eredità, e ho distinto quelle che in qualche modo hanno già dato i loro importanti frutti e quelle che in parte soltanto sono state riprese e ancora attendono di essere sviluppate.

Osserverò anzitutto che la filosofia contemporanea non ha mai cessato di trattare quella che si è chiamata, per una prima parte del Novecento, la questione del soggetto, anche se ormai, avendo lasciato decisamente alle sue spalle, dopo la radicale denegazione di Nietzsche, il riferimento alla centralità epistemologica ed etica dell’io solipsisticamente inteso, ha preferito proporre (ovvero ricuperare dalla tradizione filosofica) configurazioni diverse della soggettività. Alcuni pensatori ad esempio, hanno tradotto il contenuto di tale questione nei termini della persona, proseguendo le analisi fenomenologiche sviluppate in campo etico da Max Scheler e da Edith Stein: peraltro il concetto di persona nel pensiero di questi due autori era intriso di riferimenti all’ontologia cristiana e quindi non veniva accettato da chi perseguiva l’autonomia dell’analisi filosofica.

Per evitare questi e simili esiti metafisici è invece prevalsa in molti filosofi, eredi del pragmatismo, della teoria critica, dell’ermeneutica, l’inclinazione a dissolvere la ricerca e il discorso sulla soggettività nella rassicurante affermazione del primato del noi, figura collettiva non implicata nei problemi di definizione e demarcazione che intralciano la riflessione sul soggetto del discorso e sull’io della psicologia, tanto più complicati dalla portata che hanno loro assegnato molte filosofie moderne facendone i centri o punti di riferimento per più di una problematica. Infatti, è generalmente sull’individuo che le filosofie caricavano le loro pretese circa la responsabilità etica, o il protagonismo operativo, o le capacità cognitive, o in generale circa la presenza di una coscienza desta. Peraltro, la posizione soggettiva nella sua dimensione plurale, oltre ad evitare l’attribuzione di caratteri sostanziali e di una centralità monocratica, vede affievolito il possesso di qualità care alla filosofia, come la responsabilità, l’operatività, perfino il sapere (e ciò è comprovato in concreto dal fatto che si hanno molte più notizie sulla probità o genialità di singoli protagonisti che sui meriti di più soggetti, che abbiano agito in coppia o in gruppo).

1. Il soggetto in chiave ermeneutica

La critica antisoggettivistica dopo Nietzsche si è appuntata soprattutto sull’idea di coscienza, come ha precisato Hans Georg Gadamer per il quale, a cominciare da Hegel e dai maestri del sospetto (Marx, Freud e Nietzsche) fino a Heidegger, la coscienza era stata dissolta nella ricerca di altri punti di vista al di fuori del coscienzialismo e del soggettivismo moderno. Uno di questi punti di vista, secondo Gadamer era quello dell’universalità onnicomprensiva del linguaggio, ovvero il suo primato su ogni manifestazione dell’uomo, come affermava in Verità e metodo: «Il linguaggio e quindi la comprensione sono caratteri che definiscono in generale e fondamentalmente ogni rapporto dell’uomo col mondo» (1983, p. 543).

Il motivo principale di questo carattere fondamentale era la natura dialogica del linguaggio, tanto che, egli affermava, le comunità umane sono comunità linguistiche fondate sulla comunicazione.

Analoga convinzione circa la linguisticità dell’esperienza umana in tutti i suoi aspetti è stata espressa da Karl Otto Apel, che sottolineava la fondamentale parità di diritti e di doveri degli individui in quanto «partners virtuali della discussione» che come tali vanno riconosciuti come persone (1977, p. 239).

L’ermeneuta francese Paul Ricœur, dal suo canto, ha condotto una vasta quanto raffinata analisi di tutte le modalità e di tutti i sensi in cui si può declinare la soggettività in sede linguistica, nella teoria dell’azione, nella letteratura, dal lato dell’etica e della politica, fino a terminare incentrandosi sul rapporto dialettico dell’Io con l’Altro. Il quale, secondo questo autore, consente di parlare dell’essere dei soggetti traducendo l’ermeneutica in ontologia, senza cadere nel soggettivismo idealistico. Tuttavia egli metteva in guardia contro l’errore ermeneutico di assolutizzare il linguaggio e indicava come un valido correttivo a questo errore le tesi di Husserl sul rapporto tra coscienza e linguaggio (1990, pp. 349-350).

2. Analitica e fenomenologia

Altri filosofi trattano ancora oggi il problema del soggetto rimanendo entro coordinate riduzionistiche, ovvero sulle basi del naturalismo. In particolare, tuttavia, nella corrente dell’analitica anglosassone, alcuni hanno ripreso a indagare sul soggetto anche avvicinandosi alla fenomenologia: tra questi potremmo indicare John Roger Searle che parla di realtà della coscienza, le attribuisce l’intenzionalità, e ritiene possibile un’ontologia della prima persona (1987), e Th. Nagel che sottolinea il punto di vista soggettivo che fa parte delle proprietà non fisiche del cervello, il quale è in grado di sentire «l’irriducibile sensazione privata dell’essere se stessi» (1986). Dal canto loro, i neurobiologi Humberto Maturana e Francisco Varela dichiaravano di essersi ispirati alla fenomenologia, ma con tutta evidenza tenevano presente anche l’ermeneutica: nell’organismo essi ponevano la coscienza, che

rientra nell’attività permanente della vitalità organismica e, muovendosi sullo sfondo del sentimento di esistere è continuamente permeata, attraversata da emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. (2001)

Quanto all’Io, affermavano che

… . nella rete di interazioni linguistiche in cui ci muoviamo manteniamo una continua ricorsività descrittiva che chiamiamo «io», che ci permette di conservare la nostra coscienza operazionale linguistica e il nostro adattamento nel dominio del linguaggio. (1992)

Le idee dei filosofi che ho distinto tra tutti gli altri dell’età contemporanea mi danno modo di mettere a fuoco alcuni di quei tratti husserliani che è dato di ritrovare in molti filosofi lungo tutto il secolo e sono ancora vivi al giorno d’oggi. Qui li riprendo per maggior chiarezza: il soggetto come persona, il soggetto come coscienza e come centro della vita intenzionale, l’origine coscienziale della realtà del soggetto estraneo, il primato del rapporto tra i soggetti inteso come intersoggettività, la rilevanza della comunicazione linguistica. Da questi tratti è agevole riconoscere che, per quanto si vogliano dichiarare antisoggettivisti, molti sono i filosofi che non possono fare a meno, dopo Husserl, di descrivere fenomeni soggettivi come la percezione di sé e dell’altro e come la comunicazione (linguistica ma anche gestuale, intuitiva, emotiva) che circola tra gli esseri umani. Se ammettiamo ciò, non possiamo non vedere come affermazione minima, ossia condivisibile in generale, una concezione del soggetto-io empirico come quella che Husserl esprimeva in Ideen, se prendiamo ad esempio queste proposizioni fra le tante:

Io mi conosco per esperienza, so che carattere sono: ho un’appercezione dell’io, una «autocoscienza» empirica. Ogni soggetto sviluppato non è un mero flusso di coscienza implicante un io puro; le cogitationes sono atti di un soggetto-io, l’io è un’unità costituitasi attraverso le proprie abitudini e facoltà, e perciò un’unità appercepibile dall’esterno, il cui nucleo è l’io puro. Da ciò l’evidenza «io sono». (1981 v. I, cap. III, § 63)

Anche la concezione dell’intersoggettività presente nelle famose pagine della quinta delle Meditazioni cartesiane, è segnata da affermazioni di carattere minimo che ogni filosofo può condividere. Ad esempio citerò queste proposizioni di Husserl:

V’è, tra un essere e l’altro, una comunità intenzionale, un legame che per principio ha carattere tutto proprio, una comunità effettiva, quella appunto che rende trascendentalmente possibile l’essere di un mondo, mondo di uomini e cose… Ma prendendo le mosse dalla comunità nel senso che abbiamo ora ottenuto, sarà naturalmente molto facile intendere la possibilità di atti-d’-io, … anzi la possibilità di atti specificamente egologico-personali che hanno il carattere di atti sociali, per i quali viene stabilita ogni comunicazione personale umana. (1989, §§ 56 e 58)

3. Io puro, intenzionalità, epoché

Semmai, ammessa l’influenza husserliana che abbiamo rintracciato in pensatori diversi, a fare difficoltà nella prima citazione è quel nucleo dell’unità io, autocosciente e interna, che è l’io puro. Qui, infatti, sopravviene quella nozione dell’Ego trascendentale che costituisce il cardine della fenomenologia husserliana e che è stata messa da parte, perché sospettata di idealismo, perfino da alcuni dei suoi stessi discepoli come Martin Heidegger, Edith Stein, Max Scheler. Ritengo, invece, che il contributo che potrebbe venire alla filosofia del secolo ventunesimo dalla ripresa di questa teoria, segnerebbe la vera differenza rispetto al ventesimo secolo. Come giustificare questa possibilità, in tempi di «filosofia della mente» e di riduzionismo ai dati della neurobiologia?

Roberta Lanfredini ha segnalato su questo versante un primo passaggio teorico: è possibile proporre l’adozione da parte della filosofia della mente dell’intenzionalismo proprio del metodo fenomenologico. Secondo il quale il riferimento a qualsiasi oggetto di conoscenza o di azione è interamente determinato dalla struttura di un atto intenzionalmente rivolto a quell’oggetto, e tale struttura è la più varia, dando così luogo a tipi differenti di intenzioni e, conseguentemente, di oggetti intesi (2003).

Ma, come avverte Lanfredini, la dottrina dell’intenzionalità si accompagna alla distinzione prioritaria tra atti rivolti a stati o cose qualitative e atti rivolti a cose fisiche quantitativamente considerate, e quindi tra immagini fenomeniche e immagini scientifiche: la fenomenologia non privilegia le une sulle altre ma fa risalire il senso della realtà al tipo di intenzione e alla concatenazione delle motivazioni che ne discende.

Quindi l’argomento dell’io, nella chiave fenomenologica, esige una duplice considerazione: come io psicofisico o empirico e come io trascendentale. Nel primo caso è intenzionato in senso oggettivo e perciò sottoposto alle teorie scientifiche come essere vivente nel mondo, nel secondo caso è intenzionato in senso soggettivo e perciò

Ma con quale strumento si può operare la distinzione tra le diverse intenzionalità? In che modo la coscienza, che ha uno status così indefinito da svanire e ridursi, in sede psicologica, a semplice capacità riflessiva, può invece acquistare spessore di fenomeno e collocarsi come tale nelle esperienze della vita? E che cosa fa dell’individuo un qualcuno diverso da tutti gli altri: la sua corporeità, il suo aspetto esterno, oppure qualità interne più sfuggenti, o almeno non sempre afferrabili a prima vista?

Per rispondere a questi quesiti si dovrà fare un altro passo verso l’accoglimento della dottrina fenomenologica, e precisamente introdurre nella filosofia della mente la nozione di «purezza»: è pura la conoscenza teorica non ancora portata all’evidenza da una esperienza intuitiva o erlebnis. Ma per raggiungerla occorre prima sospendere non solo la visione scientifica ma la stessa visione naturale della realtà delle cose, e porci nella condizione della visione originalmente offerente, quella che è propria dell’Io puro, nucleo dell’io conoscente o intuente.

Ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire, in carne e ossa), è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà. (1981, v. I, cap. II, § 24)

Questa sospensione consiste nella riduzione, cui Husserl si è riferito usando anche il termine greco di epoché, e che è un principio irrinunciabile della fenomenologia (anch’esso però trascurato nelle filosofie che ne sono derivate): il principio dice che il filosofo conquista la conoscenza soltanto se astrae dall’intera conoscenza empirica e scientifica del mondo, mettendo fuori gioco le sue certezze legate alla credenza nell’esistenza delle cose, credenza che come tutti egli ha nell’atteggiamento naturale. Dall’epoché sorge allora un altro atteggiamento: quello trascendentale attraverso il quale l’io puro intuisce l’essenza delle cose, ossia comprende che il loro senso viene costituito negli atti soggettivi e intersoggettivi. Rimane neutralizzato l’io empirico con la sua vita naturale, quindi anche l’autoconoscenza del soggetto, ed emerge l’io puro come esperienza in prima persona dei modi di trascendenza diversi di cui è costituita la realtà. Tra questi modi di trascendenza vi è il soggetto empirico con tutti suoi vissuti, e per ogni vissuto una regione diversa dove si manifestano le potenzialità infinite di cui dobbiamo capire il senso, in modo essenziale anche se sempre insufficiente, poiché è da riprendere ogni volta da capo.

4. Come trovare la via per analisi più approfondite della soggettività

Possiamo ora trovare la risposta ai quesiti posti, che riguardano l’analisi della soggettività:

a) lo strumento per distinguere le diverse regioni dei vissuti psichici e fenomenici, e anzitutto i campi di intenzionalità attraverso i quali avere la comprensione delle immagini fenomeniche piuttosto che quella delle immagini scientifiche, è precisamente l’atteggiamento fenomenologico per il quale l’io puro accede alle diverse realtà essenziali, o idee, prescindendo dalla fede ingenua nella vita reale che è messa tra parentesi ma non cancellata. L’ingenuità consiste nel non vedere qual’è l’origine e quindi il significato autentico delle nostre normali visioni delle cose e del mondo nel suo complesso: per questo il nucleo puro della soggettività è detto anche trascendentale, perché rappresenta la condizione a priori dello svelamento o disoccultamento di ogni darsi delle cose che sia presente alla coscienza;

b) la coscienza, tuttavia, (e qui è la risposta al nostro secondo quesito) non ha una definizione psicologica né filosofica, per il semplice fatto che non è una realtà, né tanto meno una sostanza o anima collocata nel corpo: possiamo parlarne solo come consapevolezza di volta in volta diversa a seconda del tipo di intenzionalità e del modo individuale di percepire, e a seconda del momento e del luogo. Come dice Roberta De Monticelli, «la coscienza non è una realtà perché è piuttosto il modo di presenza di qualunque realtà» (1998, p. 65). Perciò possiamo parlare di coscienza per indicare il fenomeno del punto di vista in prima persona che accompagna le intuizioni noetiche, ovvero ogni modo di intendere l’oggetto;

c) il terzo quesito ci invita a comprendere le differenze individuali, che in chiave fenomenologica risaltano quando consideriamo l’unità dell’insieme corporeo e psichico di ogni soggetto e le qualità che ne risultano, differenti per ognuna di queste unità. Le qualità, ovviamente, possono essere viste come aspetti fisici e comportamentali dell’individuo, ma possono anche rimanere invisibili a lui stesso e soltanto apparire in modi intuitivi attraverso l’incontro con altri o meglio la lunga frequentazione reciproca. Per questi motivi siamo certi che queste qualità individuali esistono in ogni persona e che si possono arrivare a comprendere attraverso percezioni psicologiche, tanto che lungo la vita si hanno sempre maggiori percezioni anche di se stessi.

Da questa rassegna dei punti principali della dottrina husserliana, una volta tolti quelli che a mio avviso sono già operanti nella tradizione della filosofia contemporanea (si veda quanto più sopra ho detto essere il minimo condivisibile, nel confronto tra Husserl e alcuni dei pensatori del novecento o dei nostri giorni più recenti), mi sembra si possa dedurre che oggi è possibile dare il giusto spazio ad altri punti imprescindibili. Non solo alla dottrina dell’intenzionalità, preziosa per liberare il pensiero dai riduzionismi naturalistici, ma anche a quelle dell’epoché e del trascendentale, che della prima fanno parte e grazie alle quali si illuminano di più piena luce i fenomeni intenzionati. Senza mettere tra parentesi tutto ciò che sa, infatti, il filosofo non è in grado di liberarsi dalle metodologie che appartengono ad altri campi del pensiero, come dalla logica della deduzione che domina nelle scienze matematiche o dal principio di causa che è alla base delle scienze naturali. Senza l’epoché non è possibile cogliere la realtà del senso costituito né tanto meno quella della soggettività.

5. Paradossi e apparenti sconfinamenti nell’idealismo

Tra le obiezioni che si potevano fare alla soggettività come intesa da Husserl, era inevitabile il riferimento a quello che lo stesso Husserl ha definito «paradosso della soggettività» nella sua opera della maturità intitolata Crisi delle scienze europee: paradosso che nasce dalla duplicità dell’Io, che da una parte è l’io psicologico, empirico, dall’altra parte e nello stesso tempo è l’io trascendentale; paradosso che appare con chiarezza nel considerare che il fatto che l’io psicologico o empirico appaia a se stesso come un essere umano (e quindi appartenente all’umanità e al mondo) deriva da una auto-oggettivazione che l’io stesso, nella posizione trascendentale, ha compiuto nel conferire un senso a quello che è uno dei suoi oggetti più ovvii, e precisamente al sé come oggetto di se stesso.

Il paradosso concernente la soggettività nasce dal suo essere «ovvia»… … Husserl definisce il paradosso come il conflitto tra gli osservatori disinteressati che si è divenuti grazie all’epoché, e il senso comune che non può non essere l’origine del vero e proprio sentimento di se stessi. (F. S. Trincia 2008, cap VI, pp. 281 e 283)

Si faccia attenzione a quella conseguenza dell’epoché che fa di chi la pratica un «osservatore disinteressato», un osservatore a tutti gli effetti, dunque, che si guarda bene dalla metafisica posizione dell’idealista, ma semplicemente si attiene a ciò che osserva, evitando di sconfinare dall’idea del conferimento di senso a quella di una realtà superiore, di un mondo delle idee create da una coscienza realmente esistente. Molto più complesso di questo facile sconfinamento è il risultato dell’epoché, ovvero della riduzione fenomenologica, ed è necessario averlo ben presente nell’analizzare la soggettività. A questo scopo è illuminante il primo capitolo del testo di Francesco Saverio Trincia appena citato, specie dove si riferisce (§§ 3 e 4), seguendola passo passo, alla trattazione del rapporto della fenomenologia con la psicologia che Husserl ha svolto nella Crisi. Ne riporto un solo brano:

L’atteggiamento trascendentale mi «innalza al di sopra di qualsiasi appercezione del mondo e al di sopra della mia auto-appercezione umana». Innalzandomi in questo modo, io mi metto in condizione di «considerare le operazioni trascendentali a partire da cui e in cui «ho» il mondo». Ma io devo «anche ritrovare retrospettivamente [hinterher wiederfinden] questa operazione in una analisi psicologica interna, anche se essa è stata riassorbita nella appercezione, e se perciò viene appercepita come un che di realmente psichico [Realseelisches], come qualcosa che ha relazione col proprio corpo reale». Una volta stabilita la parentela interna tra psicologico e trascendentale, io mi volto verso la psicologia e vi ritrovo la stessa operazione di innalzamento trascendentale, anche se essa viene oscurata dal suo essere appercepita come un Realseelisches. Ciò accade perché l’io che si volta verso la psicologia dall’innalzamento trascendentale in cui avvengono le proprie operazioni, è quell’io trascendentale stesso che si riconosce nelle operazioni dell’io psicologico, che è identico a lui stesso… . . (Id., cap. I, §3, p. 48-9)

È evidente, perciò, come il paradosso si ripercuota con maggiore intensità nel campo della psicologia, che si dibatte in generale tra i due significati della psiche: da una parte quello del senso comune che riguarda l’ovvia certezza delle dinamiche psicofisiche confermata dai metodi scientifici d’osservazione e di analisi, dall’altra parte il significato trascendentale che esula da questa certezza, scaturendo dalla stessa coscienza che conferisce il senso ad ogni vissuto della psiche, stagliandosi altresì sull’orizzonte del già consaputo. Husserl era ben consapevole dell’effetto paradossale o assurdo del rapporto tra questi due significati, come si può leggere in questo suo brano:

Dunque: da una parte la coscienza deve essere l’assoluto, in cui tutto il trascendente, ossia l’intero mondo psicofisico, si costituisce; d’altra parte, la stessa coscienza deve essere un subordinato accadimento reale nell’ambito di questo mondo… . la considerazione naturale del mondo… vive ingenuamente nel compimento della tesi generale da noi descritta, né può mai diventare assurda. L’assurdità nasce quando si filosofia e, cercando una ulteriore informazione circa il senso del mondo, non si osserva che il mondo possiede il suo essere come un certo senso, che presuppone la coscienza assoluta quale campo della significazione; né ci si rende conto che questo campo, o sfera delle origini assolute, è accessibile all’indagine intuitiva e racchiude un numero infinito di conoscenze intuitive della più alta dignità scientifica. (1981, v. I, cap. III, § 55)

La psicologia come scienza naturale non può, oramai, che raccogliere questo paradosso come una sfida al suo compito di comprendere l’essere umano senza ridurlo alla dimensione di cosa da trattare oggettivamente, in particolare per quanto riguarda la sua sofferenza, i suoi stati patologici. D’altra parte chi conosce lo stato di avanzamento della psichiatria d’oggi può cogliere meglio di altri l’importanza che la fenomenologia riveste per gli studi e la pratica dello psichiatra. Le seguenti parole di Bruno Callieri e M. Maldonato, tra i primi psichiatri italiani a intuire questa importanza, ce ne danno un’idea:

La psichiatria è, in radice, scienza dell’uomo, dell’esistenza umana che non è solo natura ma altresì cultura e storia, in una parola «persona». È ai concetti husserliani di «Krisis», alla riscoperta dell’intenzionalità della coscienza, della «Lebenswelt», che si debbono le grandi aperture di orizzonte della psicopatologia e della psichiatria. (1998, p. 22)

Al di là di questo particolare esempio, possiamo concludere con un’osservazione generale, dicendo che se la filosofia ha come suo interesse principale quello di non appiattirsi sullo statuto epistemologico delle scienze naturali, e se riconosce come suo tema ineludibile quello della soggettività, ha ancora molti contributi da ricevere da parte del pensiero husserliano.

6. Riferimenti bibliografici

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