La Renaissance del pragmatismo

Nel suo imponente lavoro sulla democrazia in America, Tocqueville afferma che non vi è «nel mondo civile un paese in cui ci si occupa di filosofia meno che negli Stati Uniti. Gli americani non hanno una propria scuola filosofica e si occupano assai poco di tutte quelle che dividono l’Europa; ne conoscono appena i nomi».1 Questo drastico giudizio verrà smentito alcune decadi dopo dall’avvento del pragmatismo. Con Peirce, James, Dewey e Mead emerge, infatti, una filosofia specificamente americana, che sfugge «all’impronta di una ideologia importata».2

Il pragmatismo è sempre stato nuovo. È la «nuova America» auspicata da Emerson: un modo nuovo di sentire e di pensare della mente americana genuina. Secondo Emerson, «la fiducia nel potere non ancora esplorato dell’uomo appartiene al genio americano». A suo avviso, infatti, la filosofia delle scuole europee ha influenzato per troppo tempo il pensiero americano: un popolo così dotato, sensibile e indipendente non ha bisogno di una filosofia accademica che ne diriga il pensiero. D’ora in poi sostiene Emerson «cammineremo con i nostri piedi, lavoreremo con le nostre mani, penseremo con le nostre menti».3

Il modo solito di descrivere lo sviluppo della filosofia americana inizia con riferimento al pragmatismo, la filosofia originaria dell’America. Esso rappresenta un pensiero vario e eterogeneo che introduce l’era della filosofia pubblica e esprime l’atteggiamento sperimentale e l’eccezionalità americana. E tuttavia, sul finire degli anni Trenta del Novecento, con l’arrivo degli emigrati politici, il pragmatismo passò in secondo piano a causa del trionfo degli iperspecializzati programmi filosofici dei positivisti logici.

Sotto l’influsso di Carnap, Reichenbach, Hempel, Tarski, Fiegl e dei loro discepoli, la filosofia diventò una specializzazione tecnica dotata di alti standard di precisione e di particolari requisiti di chiarezza. Tale tecnicizzazione derivava dall’entusiasmo dei filosofi americani verso l’atteggiamento di scientificità e di rigore del positivismo. In pochi anni la filosofia analitica diventò la corrente principale dei più prestigiosi dipartimenti di filosofia americani, di conseguenza, i docenti di filosofia delle università e dei college americani formati a questo nuovo tipo di disciplina pensarono di essere i «fortunati coprotagonisti […] di una nuova era filosofica: l’Era dell’Analisi».4 Alcuni interpreti vedono il pragmatismo al centro di una rivoluzione incompiuta che mina la natura stessa della filosofia, una rivoluzione interrotta dai programmi scientifici dei positivisti logici. Anche se vi era un formale rispetto per la tradizione pragmatista, i pragmatisti non venivano più studiati; molti pensavano che un filosofo di professione non avesse molto da apprendere da essi.5 Iniziò così un lento e progressivo declino del pragmatismo.

1. Il pragmatismo contemporaneo

È con la pubblicazione, nel 1979, di Philosophy and the Mirror of Nature di Rorty, che si parla, nei circoli filosofici tra le due sponde dell’Atlantico, di una forma nuova e più sofistica di pragmatismo.6 Tale dibattitto si è svolto nel tentativo di portare all’attenzione della platea filosofica un pensiero specificamente americano. A tale riguardo si è cercato prima di analizzare l’opera di Quine e Sellars, poi quella di Davidson e Putnam per cercare di mostrare come essi abbiano sviluppato e perfezionato alcuni temi presenti nel pragmatismo classico. Non stiamo dicendo che essi ripetono solo alcuni temi che troviamo nei pragmatisti classici e che non ci sia niente di originale nel loro pensiero. Anzi, il perfezionare alcuni temi presenti nel pragmatismo classico dimostra che vi è stato un vero e proprio sviluppo.7

Nella sua ricostruzione, Rorty delinea una nuova genealogia del pragmatismo regolata dal lascito dei temi pragmatisti presenti nell’opera di Sellars e Quine. A suo avviso, l’attacco di Sellars al «Mito del dato», oltre a chiarire la differenza tra spiegazione e giustificazione, ha minato definitivamente l’idea che ogni cosa sia data dalla mente. L’attacco di Quine alla necessità, invece, è stato determinante per superare l’empirismo ed è alla base del nuovo pragmatismo. In particolare, egli interpreta

l’attacco di Sellars alla «datità» e di Quine alla «necessità» come passi decisivi per minare la possibilità di una «teoria della conoscenza». L’olismo e il pragmatismo comuni a entrambi i filosofi […] costituiscono le linee di pensiero all’interno della filosofia analitica che desidero sviluppare. Ritengo che quando tali linee vengano svolte in un certo modo esse ci permettono di considerare la verità, per usare un’espressione di James, come «quel che per noi è meglio credere», piuttosto che come «la rappresentazione accurata della realtà». Oppure, per porre la questione in modo provocatorio, tali sviluppi ci possono mostrare che la nozione di «rappresentazione accurata» è semplicemente un complimento vuoto e automatico che paghiamo a quelle credenze che ci aiutano a fare quel che dobbiamo fare.8

Lo sviluppo di queste linee di pensiero mostra come le nozioni di fondamenti della conoscenza e di «rappresentazioni accurate» che rispecchiano la natura siano state minate da Sellars da Quine, i due grandi «eretici»9 della filosofia analitica. Questa, che Rorty considera una variante della filosofia fondazionalista kantiana, si basa sulle due grandi distinzioni kantiane: intuizioni e concetti, da una parte, e giudizi sintetici e analitici, dall’altra. Senza l’una o l’altra distinzione «la filosofia analitica non può esistere», afferma Rorty.10

È come se Quine, avendo abbandonato le distinzioni tra concettuale ed empirico, tra analitico e sintetico, tra linguaggio e fatto, ancora non riuscisse a rinunciare del tutto a quella tra dato e postulato. Al contrario Sellars, che si è liberato di quest’ultima, non sa rinunciare alle precedenti […] Ciascuno dei due tende a fare un uso euristico e continuo, pur se tacito e non ufficiale, della distinzione che l’altro ha superato. È come se la filosofia analitica non potesse esistere senza almeno una delle due grandi distinzioni kantiane, e come se né Quine né Sellars intendessero tagliare gli ultimi fili che li legavano a Russell, Carnap, e alla «logica come essenza della filosofia».11

Per Rorty, Quine e Sellars hanno fatto vacillare le fondamenta kantiane della filosofia analitica attraverso la confutazione della distinzione necessario-analitico, il primo, e di quella dato-interpretazione, il secondo. In questo modo, entrambi si pongono «al di là» di una filosofia di matrice epistemologico-analitica come quella basata sulle immagini dello Specchio della Natura. L’olismo,12 che entrambi i filosofi condividono, suggerisce, infatti, «una concezione della filosofia che non ha nulla a che fare con la ricerca della certezza»13 e dei fondamenti.14

In Two Dogmas of Empiricism15 Quine demolisce la forma razionalista del fondazionalismo, attaccando i «due dogmi dell’empirismo»: il riduzionismo e la distinzione analitico/sintetico. In questo lavoro egli prende le distanze dai filosofi di matrice cartesiana, che «sognavano una filosofia prima, più stabile della scienza e che servisse a giustificare la nostra conoscenza del mondo esterno»,16 demolendo il paradigma fondazionale dei «due dogmi»:

Il dogma del riduzionismo, anche in questa sua forma attenuata, è connesso intimamente con l’altro dogma — cioè quello per cui vi sarebbe una differenza essenziale tra l’analitico e il sintetico. E di fatto quest’ultimo problema ci ha condotti al primo attraverso la teoria della verificazione. Più esattamente, il primo dogma sostiene chiaramente il secondo nel modo seguente: finché si ritiene che abbia significato in generale parlare di confermare o infirmare una proposizione, sembra che abbia significato anche parlare di un tipo limite di proposizione confermata in modo vuoto, ipso facto, quali che siano i dati di fatto; e questa sarebbe una proposizione analitica.17

Influenzata dalla concezione antidualista di James e di Dewey, la critica di Quine ai due dogmi dell’empirismo svuota dall’interno il progetto fondazionalista analitico demolendone gli assunti fondamentali. Se accettiamo gli esiti della critica di Quine e smettiamo di «vedere nella gnoseologia la ricerca, iniziata da Cartesio, di quegli elementi privilegiati nel campo della consapevolezza che costituiscono le pietre di paragone della verità […] si presenta il dubbio se rimanga ancora qualcosa che la epistemologia possa essere». La radicalizzazione degli esiti antifondazionalisti scaturiti dalla critica di Quine ai «due dogmi» porta Rorty ad affermare che dell’epistemologia «non rimane più nulla».18

Anche Sellars, in Empiricism and the Philosophy of Mind, ha dato un decisivo contributo per screditare il fondazionalismo empirista. Influenzato dalla critica di Peirce, James e Dewey, l’antifondazionalismo epistemologico sellersiano ha, secondo Rorty, screditato tutti quei tentativi che richiamavano elementi di esperienza in grado di autogiustificarsi, di fondare le altre pretese conoscitive e, per usare le parole di West, «di fungere da punti terminali di catene di giustificazione epistemica».19

Per Sellars, la concezione della conoscenza fondata sul «Mito del Dato» scaturisce dal confondere la giustificazione della conoscenza con la dimensione causale empirica. La forma più comune di questo mito sottoscritta dalla filosofia incentrata sull’epistemologia

è l’idea che vi sia, anzi, che debba esservi, una struttura di dati di fatto particolari tale che a) la verità di ciascun fatto può essere conosciuta in modo tale da non presupporre alcuna conoscenza né di altri dati di fatto particolari né di verità generali; e b) la conoscenza non inferenziale dei fatti appartenenti a questa struttura costituisce la corte d’appello suprema di tutte le affermazioni fattuali — particolari e generali — riguardanti il mondo.20

Secondo Sellars, però, tutte le imprese epistemiche volte a fornire una fondazione della conoscenza sono destinate a fallire disastrosamente. A suo modo di vedere, il fondazionalismo

è fuorviante a causa del suo carattere statico. Sembra di essere costretti a scegliere tra l’immagine di un elefante che poggia su una tartaruga (che cosa sostiene la tartaruga?) e l’immagine di un grande serpente hegeliano della conoscenza con la coda in bocca (dove inizia?). Nessuna delle due è una buona scelta.

Ed infine conclude:

la conoscenza empirica, al pari della scienza che ne costituisce un’elaborata estensione, è razionale non perché ha un fondamento, ma perché è un’impresa che si auto-corregge, capace di mettere in discussione una qualsiasi delle proprie tesi, benché non tutte simultaneamente.21

Nel mettere il luce le tendenze olistiche pragmatiche di Quine e Sellars, Rorty ci ha permesso di comprendere i temi pragmatisti presenti nella loro opera e l’influsso che essi hanno esercitato sul pragmatismo contemporaneo.

Davidson e Putnam sono le altre due figure che hanno dato un forte impulso allo sviluppo e all’espansione del pragmatismo. La loro opera, infatti, ha contribuito ad ampliare quelle suggestioni e intuizioni presenti sia nei pragmatisti classici sia in Quine e Sellars. Per Rorty, Davidson22 e Putnam23 sono la migliore espressione del pragmatismo contemporaneo.

In Davidson’s Mental-Physical Distinction, Rorty ha parlato di On the Very Idea of a Conceptual Scheme di Davidson come:

A paper still strikes me as epoch-making. It will, I think, be ranked with [Quine’s] “Two Dogmas of Empiricism” and [Sellars’] “Empiricism and the Philosophy of Mind” as one of the turning-points in the history of analytic philosophy.24

In particolare, la critica di Davidson al modello fondazionale parte dal rifiuto delle distinzioni kantiane intuizione-concetto e analitico-sintetico che sottendono il «dualismo tra schema e contenuto, tra un sistema organizzante e un qualcosa che attende d’esser organizzato» che, secondo Davidson, «non può essere difeso né compreso» poiché è «un dogma dell’empirismo, il terzo dogma, e forse l’ultimo, perché se lo abbandoniamo non saprei dire se rimanga qualcosa di specifico da poter chiamare empirismo».25

L’attacco davidsoniano alla dicotomia tra schema e contenuto è anche una critica all’idea di rappresentazione mentale, ossia l’idea che l’umano conoscere equivale a rappresentare accuratamente ciò che sta fuori dalla mente, e in generale alle metafore dello specchio. Tali critiche davidsoniane alle concezioni tradizionali del linguaggio hanno minato il paradigma fondazionalista rappresentazionale, mettendo in luce l’insostenibilità della relazione tra proposizioni e mondo nei termini di una relazione rappresentazionale.26 L’abbandono del «dualismo di schema e mondo» e quindi del rappresentazionalismo ci consente, secondo Rorty, «di guardare al linguaggio non come a un tertium quid tra Soggetto e Oggetto, né come a un medium tramite il quale cerchiamo di formare immagini della realtà, ma come parte del comportamento degli esseri umani».27 Questa concezione davidsoniana del linguaggio «ci consente di evitare di ipostatizzare il Linguaggio allo stesso modo in cui la tradizione epistemologica cartesiana, e in particolare la tradizione idealistica edificatasi a partire da Kant, hanno ipostatizzato il Pensiero», poiché secondo Davidson «non c’è una cosa quale il linguaggio, se un linguaggio è qualcosa di simile a ciò che molti filosofi e linguisti hanno supposto».28

Nello svuotare dall’interno le fondamenta dell’edificio analitico, l’attacco di Davidson alla distinzione schema/contenuto e al rappresentazionalismo è, secondo Rorty, il tentativo migliore di rompere con la tradizione analitica. Secondo quest’ultimo,

la filosofia analitica trovi il suo culmine in Quine, nell’ultimo Wittgenstein, in Sellars e in Davidson, il che equivale a dire che trascende e abolisce se stessa. Questi pensatori confutano con successo e giustamente le distinzioni positivistiche fra semantico e pragmatico, analitico e sintetico, linguistico ed empirico, teoria ed osservazione. L’attacco di Davidson alla distinzione schema/contenuto, in particolare, riassume e sintetizza la presa in giro di Wittgenstein del proprio Tractatus, la critica di Quine a Carnap, e l’attacco di Sellars all’empiristico «Mito del Dato».29

Il rifiuto di Davidson del dualismo schema/contenuto, e del rappresentazionalismo sono stati determinanti per oltrepassare la latente staticità della distinzione tra analitico e sintetico e l’idea che la conoscenza sia una questione di rappresentazione accurata della realtà. In particolare, da On the Very Idea of a Conceptual Scheme30 a Truth and Predication31 (il suo ultimo lavoro uscito postumo), Davidson ci ha invitato a prendere le distanze dal rappresentazionalismo, ossia dall’idea che la caratteristica essenziale del linguaggio sia la capacità di descrivere come di fatto stanno le cose. L’abbandono del rappresentazionalismo avviene attraverso il ripudio dei fatti in quanto entità della corrispondenza. Per Davidson c’è un argomento rilevante, denominato slingshot argument, che, dati i suoi assunti, dimostra che i fatti, ammesso che ce ne sia qualcuno, alla fine collassano in un unico fatto complessivo. A suo modo di vedere,

L’asserzione che Napoli è più a nord di Red Bluff corrisponde al fatto che Napoli è più a nord di Red Bluff, ma anche, sembrerebbe, al fatto che Red Bluff è più a sud di Napoli (forse si tratta dello stesso fatto); e anche al fatto che Red Bluff è più a sud della maggiore città italiana nel raggio di trenta miglia da Ischia. Quando riflettiamo sul fatto che Napoli soddisfa la seguente descrizione: è la maggiore città italiana nel raggio di trenta miglia da Ischia e tale che Londra è in Inghilterra; allora cominciamo a sospettare che se un’asserzione corrisponde a un singolo fatto, corrisponde a tutti.32

Davidson spinge questo ragionamento fino alle sue estreme conseguenze per concludere che ci può essere, al massimo un solo «Grande Fatto», che però è inadeguato a sostenere il rappresentazionalismo e la teoria corrispondentista della verità. Questo porta Rorty a sostenere che Davidson è il rappresentante migliore e più puro del pragmatismo, poiché, come Dewey, resiste alla pervasiva fascinazione del rappresentazionalismo.33 Per Rorty, infatti, Davidson rappresenta «la migliore espressione del tentativo pragmatista di rompere con la tradizione filosofica».34

Un ulteriore impulso alla ripresa, allo sviluppo e alla riformulazione del pragmatismo lo dobbiamo a Putnam. Il suo compito, negli ultimi trent’anni, è stato quello di cercare di comprendere meglio la tradizione che da Peirce, passando per James, giunge a Dewey. Secondo il filosofo di Harvard ci sono molte idee che possiamo apprendere dai pragmatisti classici:

L’insostenibilità della dicotomia fatto/valore e della dicotomia fatto/convenzione, la stretta connessione tra verità e giustificazione, l’idea che l’alternativa al realismo metafisico non sia lo scetticismo, che la filosofia sia un tentativo di conseguire il bene — sono state per lungo tempo associate alla tradizione del pragmatismo americano.

Tra le molte idee che Putnam ha imparato dai pragmatisti mi limiterò a menzionarne soltanto tre. La prima è l’insostenibilità della dicotomia fatto/valore e della dicotomia fatto/convenzione. Sulla scia di James e di Dewey, egli sostiene che i valori permeano tutta l’esperienza e informano i fatti della scienza.35 Secondo Putnam l’intreccio di fatti e valori comporta l’impossibilità di separare l’aspetto conoscitivo da quello valutativo: ogni descrizione presuppone una valutazione e viceversa. Quest’idea della loro interdipendenza e compenetrazione l’ha appresa da C. West Churchman, il suo maestro pragmatista all’Università della Pennsylvania. Putnam ricorda che Churchman scriveva sulla lavagna le seguenti proposizioni, che egli attribuiva a E. A. Singer Jr., un allievo di James:

La conoscenza di fatti (particolari) presuppone la conoscenza di teorie.

La conoscenza delle teorie presuppone la conoscenza dei fatti.

La conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza dei valori.

La conoscenza dei valori presuppone la conoscenza dei fatti.36

Putnam ha resistito a lungo a queste idee, le farà sue a partire dal 1980.

La seconda idea che Putnam ha appreso dai pragmatisti è il rifiuto del modello rappresentazionale, ossia l’idea che la conoscenza sia una rappresentazione fedele del mondo. Esso dipende dal fatto che della «conoscenza fa parte la comprensione del significato e questa comporta l’esercizio di un’abilità, la quale è più-che-rappresentazionale».37 Al paradigma rappresentazionale, secondo cui una proposizione è la rappresentazione di un fatto e la conoscenza è rispecchiamento del mondo, Putnam, sulla scia dei pragmatisti, sostituisce «un modello partecipativo».38

La terza idea riguarda l’insistenza dei pragmatisti — e il rifiuto dei filosofi analitici, con l’eccezione di Paul Grice — sul fatto che la filosofia deve avere importanza per la nostra vita morale e spirituale. A suo avviso, una filosofia che si sottrae alla domanda «Come dobbiamo vivere?», anche se non è negativa, è senza dubbio una «cattiva filosofia». Per il filosofo di Harvard, la riflessione su come viviamo è una delle funzioni più importanti e vitali della filosofia, poiché ci impegna a interrogare le nostre vite e le nostre culture, sfidandoci a modificarle.39

2. Il linguaggio

Uno dei pensatori su cui i pragmatisti contemporanei hanno focalizzato la loro attenzione è la figura, troppo spesso trascurata, di Ralph Waldo Emerson. Nell’evidenziare i temi emersoniani dell’individualià, del potere, del miglioramento, della self-reliance e della sperimentazione, i nuovi pragmatisti concentrano la loro attenzione sul linguaggio.

Riguardo al linguaggio Emerson sostiene un antiessenzialismo moderno come quello di Rorty. Egli afferma:

tutti i simboli sono fluidi; ogni linguaggio è veicolare e transitivo, ed è buono, come lo sono le barche e i cavalli per trasportarci oltre, non come le fattorie e le case, che sono buone invece per abitarci.40

Questa immagine del linguaggio come uno strumento che noi usiamo per assolvere a certi scopi e fini pratici ha molte analogie con quella di James. In Pragmatism James scrive:

chi segue il metodo pragmatico non può fermarsi a contemplare ogni… parola e concludere la ricerca. Deve estrarre da ognuna di esse il suo valore pratico in contanti (cash-value) e metterlo all’opera nel flusso della sua esperienza. Allora il pragmatismo apparirà, più che una soluzione, un programma di lavoro, e più specificamente un’indicazione dei modi in cui le realtà esistenti possono essere cambiate.41

Anche se Rorty non lo cita, la concezione rortyana del linguaggio circa la mortalità e la sopravvenienza dei vocabolari risente dell’influsso di Emerson: si tratta di sostituire l’immagine di una struttura culturale fissa o vocabolario con l’immagine di molti vocabolari diversi, alternativi, nuovi, provvisori, correggibili, migliorabili.

Non c’è un vocabolario costante in cui descrivere i valori da difendere o gli oggetti da imitare o le emozioni da esprimere… Noi non vogliamo che le opere letterarie siano criticate in una terminologia che già conosciamo, noi vogliamo che sia queste opere sia la loro critica ci diano nuove terminologie.42

Per Rorty, la filosofia è una Bildung che dà luogo a una varietà di vocabolari che ci permettono una migliore ridescrizione di noi stessi. La filosofia è un

progetto per la scoperta di maniere di parlare nuove, migliori, più interessanti e più fruttuose. Il tentativo di edificare (noi stessi o altri) può consistere nell’attività ermeneutica di operare connessioni tra la nostra propria cultura e qualche cultura esotica o un qualche periodo storico, oppure tra la nostra disciplina e un’altra disciplina che sembri perseguire scopi incommensurabili in un vocabolario incommensurabile.43

Dovremmo immaginare il filosofo rortyano come un naufrago su una banchisa, un naufrago disperso nel mare aperto dei contesti culturali che, di volta in volta, di fronte a ogni nuova “evenienza”, a ogni nuova fluttuazione culturale opera delle scelte e, nel momento stesso in cui sceglie, inventa e crea nuovi linguaggi, vocabolari, tecniche e strumenti che non hanno una giustificazione trans-storica o un “fondamento” filosofico.

Nel mettere in luce l’assoluta contingenza del linguaggio, Rorty individua l’operosità filosofica nella «competizione tra un vocabolario accettato che è diventato una seccatura e un vocabolario nuovo, non ancora completamente articolato, che promette vagamente grandi cose».44

Sulla scia di Putnam, Rorty fa sua l’immagine wittgensteiniana del linguaggio inteso come uno strumento provvisorio, migliorabile:

come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi.45

Per Rorty, nel processo di verifica fra vocabolari e culture noi non facciamo altro che produrre, in un processo che si spinge fino all’infinito, «modi nuovi e migliori di parlare e di agire».46

Il pragmatismo rortyano risente dell’influsso di Emerson, in quanto preferisce il linguaggio delle strategie provvisorie e delle funzioni contingenti la cui qualità è «il fluire, non il restar congelato».47

3. Pragmatismo come contrasto di temperamenti

In Pragmatism James definisce la filosofia come un conflitto di temperamenti: «la storia della filosofia è per gran parte quella di un certo contrasto fra temperamenti umani». Questa asserzione jamesiana non può essere interpretata come un’osservazione psicologica irrilevante. Per James però temperamento non è sinonimo di irrazionalità.

Di qualunque temperamento sia un filosofo di professione, egli cerca, quando fa della filosofia, di soffocare quell’elemento. Non essendo il temperamento una ragione convenzionalmente riconosciuta, egli adduce, per le sue conclusioni, solo ragioni impersonali. Eppure il suo temperamento gli fornisce in realtà una propensione molto più forte di qualsiasi altra sua premessa strettamente oggettiva.48

Per James ogni decisione filosofica è una questione di “temperamento”, questo spiega perché un autore difenda una concezione piuttosto che un’altra; ci fa capire perché i filosofi divergono quando parlano dello stesso argomento. In ognuno di loro, infatti, lo stesso argomento assume una nuance individuale che riflette il tratto proprio di ogni singolo temperamento. Poiché il temperamento influenza fortemente l’esito di una controversia è importante riconoscere il ruolo che svolge e assumersene la «responsabilità».49

La storia del pragmatismo, fin dalle sue origini, è stata un conflitto di temperamenti. I pragmatisti erano diversi l’uno dall’altro per background, interessi, studi compiuti, tuttavia vi erano una serie di “somiglianze di famiglia”, che li portò a considerarsi un movimento filosofico.50

Possiamo considerare l’attuale Renaissance pragmatista come una conversazione aperta di voci talvolta anche in competizione: due pragmatisti possono condividere il fallibilismo, la cosiddetta «teoria pragmatica della verità»,51 ma dissentire profondamente sul significato della razionalità, dell’oggettività ecc. Putnam e Rorty, ad esempio, hanno due stili diversi di fare filosofia: la loro divergenza è evidente non solo sui problemi come la verità, il relativismo, l’oggettività ecc., ma anche nelle differenze di tono e di stile del loro pensiero.

Per mettere in luce le differenze di tono e di stile tra i pragmatisti contemporanei considererò Putnam e Rorty come esempio paradigmatico di tipologie temperamentali di pensatore pragmatista (tipologie ovviamente non “pure”). Le loro differenze temperamentali, infatti, ci aiutano a comprendere meglio il fecondo scambio di opinioni in corso tra i pragmatisti contemporanei.

Putnam e Rorty52 credono nel libero arbitrio, sono pluralisti, fallibilisti, tuttavia hanno punti di vista molto diversi in altri campi. Il pragmatismo di Putnam, influenzato dal realismo di James, fa coesistere l’aderenza scientifica ai fatti con la fiducia nei valori umani.53 Putnam difende la scienza, ma deplora lo scientismo che contraddistingue la maggior parte dei filosofi analitici contemporanei (con l’eccezione di Strawson, Kripke, McDowell e Dummett). A suo avviso quest’ultima è dominata dall’idea che «la scienza, e solo la scienza, descrive il mondo come è in sé, indipendentemente da una prospettiva».54 Anche Rorty combatte lo scientismo, tuttavia le sue “sensibilità emersoniane” lo portano a considerare la scienza non come un idolo, ma come una tra le possibili attività umane: «il poeta e non… lo scienziato, come l’essere umano paradigmatico».55 Facendo propria la lezione di Dewey, Rorty non considera la scienza una forma di conoscenza superiore. Il pragmatismo rortyano «non erige la Scienza a idolo»,56 ma la considera un genere letterario, che deve trovare il suo posto con la letteratura, la critica, la politica e la storia nella conversazione del genere umano. Dalla prospettiva di Rorty non è possibile reinstaurare alcuna distinzione vincolante tra tali sfere. Mentre la tradizione classica sostiene fermamente tale divisione, l’approccio pragmatista propone invece che tali campi culturali non costituiscano altro che polarità complementari e reciprocamente indispensabili. In effetti, egli ci invita a considerare le connessioni tra queste differenti tipologie della ricerca filosofica e soprattutto ci aiuta a ipotizzare una non-diversità tra questi campi culturali.57

Un’altra “differenza” tra Putnam e Rorty riguarda la problematica e alquanto controversa nozione di verità. Rorty dubita che la nozione di verità sia di qualche utilità: essa non è qualcosa «di cui sia lecito attendersi una teoria filosoficamente interessante»,58 ma uno pseudo-problema di cui dovremmo liberarci. L’antiessenzialismo rortyano ci invita a «dire addio a parole come “verità”»,59 poiché non è di alcuna utilità porsi domande su di essa. Quando i pragmatisti consigliano che «non si facciano più domande sulla… Verità», essi non fanno ricorso a una teoria «relativistica» o «soggettivistica» della Verità, ma ci invitano «semplicemente a cambiare argomento»,60 poiché non è possibile dare una definizione di verità oltre alla definizione semantica data da Tarski. Per Rorty una vera società democratica non deve possedere alcuna teoria della verità se non quella che fa affidamento sul «libero e aperto incontro delle opinioni».61 Putnam, invece, crede che vi sia qualcosa di nuovo (se «nuovo» non significa «assolutamente senza precedenti») e di importante da dire sulla verità:

Se concediamo che William James avesse qualcosa di «nuovo» da dire — qualcosa di nuovo per noi, non solo alla sua epoca — o che almeno potesse avere un programma filosofico che è, in parte, quello giusto, anche se non è stato sviluppato completamente (e forse non lo potrà mai essere); se noi concediamo che Husserl, Wittgenstein e Austin abbiano condiviso qualcosa di questo programma, anche se essi, per ragioni differenti, non sono riusciti ad affermarlo correttamente; allora vi è ancora qualcosa di nuovo, qualcosa di incompleto e importante da dire sulla… verità.62

Egli non condivide lo scetticismo rortyano riguardo all’esistenza di una nozione sostanziale di verità. A partire dalle Dewey Lectures tenute alla Columbia University nel 1994 e raccolte in The Threefold Cord: Mind, Body and World,63 Putnam sostiene una concezione «decitazionale» della verità in un senso che egli associa a Frege. Per il filosofo di Harvard, «Fare una affermazione è asserire qualcosa e dire che qualcosa è vero è asserire la stessa cosa».64 Diversamente dalla teoria corispondentista, la sua concezione realista della verità non lo impegna a postulare «stati di cose». Per Putnam, quando descriviamo le cose siamo «responsabili» nei confronti di esse, e quando «le descriviamo correttamente c’è un aspetto della realtà che è come asseriamo che sia».65

Alla luce di quanto detto, emerge viva l’immagine di un pensiero volto a rendere le ramificazioni del sapere più intercomunicanti nella chiara coscienza del limite di ogni corporativismo, nell’avversione a ogni acritica univocità e nella proposizione di una ricerca che, all’assenza di ogni velleità iconoclastica, unisca il richiamo a una valenza integrativa e dialogica.

Il pragmatismo contemporaneo non vuol essere un’alternativa alla filosofia analitica. Non mirando ad ampliare il suo campo epistemico, non si configura come un pensiero opposante, alternativo, concorrenziale. Esso non vuole occupare lo spazio lasciato vuoto dagli argomenti che hanno portato i filosofi analitici a ripensare gli assunti della loro disciplina ma, paradossalmente, vuole creare nuovi spazi che possano ricontestualizzare il dibattito filosofico in un processo inesauribile, in un contesto conversazionale integrativo. Distinguendosi sia dai contributi analitici sia dal coro di una generica antimetafisica, ci mostra come siano percorribili e coniugabili i molteplici itinerari dell’incommensurabilità e di quella che Rorty chiama «la conversazione del genere umano».


  1. A. de Tocqueville, La Democrazia in America, Milano, Rizzoli 19988, p. 423. ↩︎

  2. W. James, Pragmatismo, Torino, Aragno 2004, p. 11. Cfr. B. Allen, Il pragmatismo e le gentili muse europee, in AA.VV., Il neopragmatismo, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 28. ↩︎

  3. R.W. Emerson, The American Scholar, in Essays and Lectures, Library of America, New York 1983, pp. 70-71. Cfr. al riguardo B. Allen, ibidem↩︎

  4. Cfr. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986, p. 214. ↩︎

  5. Cfr. R. Bernstein, The Resurgence of Pragmatism, «Social Research» 59 (1992), 4, pp. 816-817. ↩︎

  6. Cfr. Ivi; C. Misak (a cura di), New Pragmatists, Oxford University Press, Oxford 2007; A.R. Malachowski, The New Pragmatism, Acumen, Durham (England) 2010. ↩︎

  7. Cfr. R. Bernstein, The Resurgence of Pragmatism, cit., p. 823. ↩︎

  8. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 13. ↩︎

  9. R. Rorty, Epistemological Behaviorism and the De-Transcendentalization of Analytic Philosophy, in R. Hollinger (a cura di), Hermeneutics and Praxis, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1985, p. 94. ↩︎

  10. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 130 leggermente modificata. ↩︎

  11. Ibidem. Cfr. inoltre R. Bernstein, The Resurgence of Pragmatism, cit., pp. 818-822. ↩︎

  12. «Un approccio olistico alla conoscenza non è una questione di polemica antifondazionalistica, ma un rifiuto dell’intera impresa epistemologica. Un approccio behavioristico a episodi di “consapevolezza diretta” non è una questione di polemica antimentalistica, ma un rifiuto della ricerca platonica di quella specie di certezza associata alla percezione visiva. L’immagine dello Specchio della Natura, uno specchio visto con maggior facilità e certezza di ciò che rispecchia, rafforza stereoscopicamente, ed è rafforzata da, la ricerca di una piattaforma trascendentale» (R. Rorty, Epistemological Behaviorism and the De-Transcendentalization of Analytic Philosophy, in R. Hollinger (a cura di), Hermeneutics and Praxis, cit., p. 103). ↩︎

  13. Ivi; p. 96. Si veda anche F. Restaino, Filosofia e post-filosofia in America: Rorty, Bernstein, MacIntyre, cit., pp. 118-119. ↩︎

  14. Diversamente da Rorty, Cornel West ritiene che in Quine rimangano delle tracce fondazionaliste residue del suo positivismo logico: la fedeltà ontologica alla fisica e la necessità di «“enunciati osservativi” che conservino un minimo di fondazionalismo (anche se sono radicalmente sottodeterminati) in nome della sua psicologia behavioristica skinneriana. Per Quine, ogni differenza significativa è una differenza fisica determinata dalle migliori teorie disponibili nell’ambito della fisica. Egli sostiene che la metafisica deve passare, l’epistemologia in pratica passa, ma l’ontologia rimane. L’ontologia preserva il suo “robusto realismo” e promuove il monopolio della fisica sulla Verità e sulla Realtà» (C. West, The American Evasion of Philosophy. A Genealogy of Pragmatism, University of Wisconsin Press, Madison 1989, p. 186). ↩︎

  15. W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, in Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966. ↩︎

  16. W.V.O. Quine, Grades of Theoreticity, in L. Foster - J.W. Swanson (a cura di), Experience and Theory, University of Massachusetts Press, Amherst (Massachusetts) 1970, p. 2. ↩︎

  17. W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, cit., p. 39. ↩︎

  18. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 158. Si veda anche R. Rorty, Introduction, a W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1997, p. 5. Ci sembra, tuttavia, che per Quine «rimanga ancora qualcosa che la epistemologia possa essere», poiché egli parla di una sua naturalizzazione: «L’epistemologia va ancora avanti sebbene in un nuovo scenario e in una condizione purificata. L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale cioè un soggetto umano fisico. A questo soggetto umano è dato un certo input sperimentalmente controllato — certi modelli di irradiazione di frequenze assortite, per esempio — e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare in qualche modo per le medesime ragioni che sempre ci spinsero all’epistemologia, vale a dire per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria e in quali modi la teoria della natura trascenda qualunque evidenza disponibile» (W.V.O Quine, Epistemologia naturalizzata, in La relatività ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986, p. 106 leggermente modificata). ↩︎

  19. C. West, The American Evasion of Philosophy. A Genealogy of Pragmatism, cit., p. 192. ↩︎

  20. W. Sellars, Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004, p. 48. ↩︎

  21. Ivi, p. 56. Bernstein ravvisa in questa affermazione di Sellars una connotazione peirceiana. Si veda al riguardo R. Bernstein, Hegel in America. La tradizione del pragmatismo, in L. Ruggiu - I. Testa (a cura di), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 28. ↩︎

  22. Alla domanda: «Rorty ha visto in lei una delle figure di spicco del neopragmatismo. Che ne pensa di questo giudizio?», risponde: «Penso che la giusta cosa da dire sia che non ho un’idea al riguardo. Di sicuro rifiuto la concezione pragmatista della verità. Per il resto, mi sono fatto un’idea di ciò che Rorty ha in mente, e mi sembra corretto. Gli piace Dewey, per esempio, perché Dewey non pensava che i filosofi stiano in rapporti confidenziali con un tipo di verità che è fondamentale per il resto della conoscenza. Io concordo fermamente con questo. Ed è vero che rifiuto un gran numero di problemi filosofici standard come fasulli. Forse dunque, anch’io credo nel pragmatismo nel senso in cui ci crede lui. Le dirò che non sono molto bravo a classificare i filosofi. È un compito che lascio ad altri» (Donald Davidson interviewed by Giancarlo Marchetti, «Philosophy Now», 32 (2001), 3, p. 36; si veda anche p. 35). ↩︎

  23. Anche se normalmente Putnam non si definisce un «pragmatista e, se è per questo, con nessun genere di “ismo”»; egli non si «dispiace se [… lo] descrivono in questo modo» (H. Putnam, La filosofia nell’età della scienza, Il Mulino, Bologna 2012, p. 94). ↩︎

  24. R. Rorty, In Davidson’s Mental-Physical Distinction in L.E. Hahn (a cura di), The Philosophy of Donald Davidson, The Library of Living Philosophers, vol. XXVII, Open Court, La Salle 1999, p. 575. ↩︎

  25. D. Davidson, Sull’idea stessa di uno schema concettuale, in Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994, p. 271. ↩︎

  26. Questo tema è sviluppato in G. Marchetti, Davidson and the Demise of Representationalism, in J. Malpas (ed.), Dialogues with Davidson: Acting, Interpreting, Understanding, MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 2011, pp. 113-127. ↩︎

  27. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., p. 16. ↩︎

  28. D. Davidson, Una graziosa confusione di epitaffi, in D. Davidson, I. Hacking e M. Dummett, Linguaggio e interpretazione. Una disputa filosofica, Unicopli, Milano 1993, p. 85. ↩︎

  29. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., 15. ↩︎

  30. D. Davidson, Sull’idea stessa di uno schema concettuale, in Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 263-282. ↩︎

  31. D. Davidson, Truth and Predication, The Belknap Press of Harvard Univerity Press, Cambridge (Massachusetts) 2005. ↩︎

  32. D. Davidson, Fedele ai fatti, in Verità e interpretazione, cit., p. 93. ↩︎

  33. R. Rorty, Introduction: Pragmatism as Anti-representationalism, in J. Murphy, Pragmatism: From Peirce to Davidson, Westview Press, Boulder 1990, p. 5. ↩︎

  34. R. Rorty, Scritti filosofici II, Laterza, Roma- Bari 1993, p. 21. ↩︎

  35. Cfr. H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, Fazi, Roma 2004; G. Marchetti, Fatti e valori della conoscenza. Fine di una dicotomia, in AA.VV., La conoscenza dei fatti e l’oggettività dei valori, Mimesis, Milano 2013, pp. 28-34. ↩︎

  36. H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, cit., pp. 150-151. ↩︎

  37. A. Peruzzi, La treccia di Putnam. Ultima fermata della filosofia analitica, Libreriauniversitaria.it, Firenze 2013, p. 43. ↩︎

  38. Ibidem. ↩︎

  39. Cfr. H. Putnam, La filosofia nell’età della scienza, cit., pp. 94-95 e p. 63. ↩︎

  40. R.W. Emerson, The Poet, in Selected Writings of Ralph Waldo Emerson, a cura di W.H. Gilman, New American Library, New York 1965, p. 322. ↩︎

  41. W. James, Pragmatismo, cit., p. 25. Cfr. anche R.B. Goodman, Introduction, in R.B. Goodman (a cura di), Pragmatism: A Contemporary Reader, London — New York 1995, pp. 11-12. ↩︎

  42. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., pp. 151-152. ↩︎

  43. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit., p. 276. ↩︎

  44. Ivi, p. 16. ↩︎

  45. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1995, § 18. ↩︎

  46. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., p. 33. ↩︎

  47. R.W. Emerson, The Poet, cit., p. 322. ↩︎

  48. W. James, Pragmatismo, cit., p. 9. ↩︎

  49. H. Putnam, Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna 1995, p. 401. Cfr. al riguardo J. Conant, Introduzione, in Ivi, p. 86. ↩︎

  50. R. Bernstein, The Resurgence of Pragmatism, cit., p. 813. ↩︎

  51. Cfr. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., pp. 168-169. ↩︎

  52. Per quanto concerne i punti su cui Rorty concorda con Putnam cfr R. Rorty, Hilary Putnam and The Relativistic Menace, in Truth and Progress, Cambridge Univesity Press, Cambridge 1998, pp. 43-62. ↩︎

  53. Cfr. W. James, Pragmatismo, cit., p. 18. ↩︎

  54. H. Putnam, Renewing Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1992, p. X. ↩︎

  55. Cfr. The Contingency of Language, «London Review of Books», 17 aprile, 1986, p. 4. ↩︎

  56. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., p. 37. ↩︎

  57. G. Corradi Fiumara, Il processo metaforico. Connessioni tra vita e linguaggio, Il Mulino, Bologna 1998, pp.162-163. ↩︎

  58. R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., p. 11. ↩︎

  59. Ivi, p. 159. ↩︎

  60. Ivi, p. 12. ↩︎

  61. R. Rorty, Scritti filosofici I, Laterza, Roma- Bari 1994, p. 4. ↩︎

  62. H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991, p. 29 (traduzione leggermente modificata). ↩︎

  63. H. Putnam, Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna 2003. ↩︎

  64. H. Putnam, La filosofia nell’età della scienza, cit., p. 92. ↩︎

  65. Ivi, pp. 92-93. ↩︎