L’etica della giustizia in Paul Ricœur: dal proceduralismo alla ricostruzione del legame sociale

1. Una premessa necessaria

Per affrontare con Ricœur un tema così complesso come quello della giustizia e dei suoi paradossi, è necessario, a nostro avviso, proporre prima di tutto una riflessione generale sull’etica e sulla morale, sui predicati buono e obbligatorio che costituiscono la base della giustizia e quella che il filosofo stesso definisce la sua “piccola etica”.1 La riflessione del filosofo su questi temi è piuttosto recente; prenderemo infatti qui in considerazione alcuni articoli degli anni ’902 le cui idee vengono riproposte anche nell’opera Sé come un altro.3

La prima distinzione che bisognerebbe avere ben chiara è, come accennato sopra, quella tra etica e morale di cui il filosofo parla in un articolo intitolato appunto Éthique et morale del 1990. Qui Ricœur non può non tenere in considerazione le due principali eredità su questo fronte ovvero l’eredità aristotelica, per quanto riguarda la prospettiva teleologica dell’etica e l’eredità kantiana per quanto riguarda la prospettiva deontologica della morale. Attraverso questi presupposti, il filosofo tenterà di dimostrare in primo luogo, il primato dell’etica sulla morale, in secondo luogo, la necessità della via etica di passare attraverso il vaglio della morale e infine il ricorso della norma alla saggezza pratica quando i conflitti sono irrisolvibili.

Ma partiamo dall’inizio: la prospettiva etica si esplicita attraverso quella che è diventata la celebre dichiarazione Ricœuriana: «vivere una vita buona con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste».4 Vivere una vita buona, spiega il filosofo, non è un imperativo, non rientra nell’ordine della norma, ma in quello dell’ottativo, è un desiderio, un souhait la cui radice ci fa pensare a soin, ad una cura che è cura di sé, degli altri e delle istituzioni.

Il ricorso al sé ci rimanda, immediatamente, ad una delle caratteristiche fondamentali dell’etica, ovvero la stima che può essere compresa attraverso due punti fondamentali: la capacità di preferire una cosa piuttosto che un’altra, cioè la capacità di agire intenzionalmente e la capacità di cominciare qualcosa di nuovo nel mondo e dunque la capacità di iniziativa. In questo senso, la stima di sé si configura come il momento riflessivo della prassi: è solo apprezzando le nostre azioni che possiamo apprezzare noi stessi come autori delle suddette azioni. La stima di sé, dunque, così come è descritta da Ricœur, è essenziale alla vita etico-politica e lontana dalle sue possibili derive individualistiche. Come spiega anche Luca Alici:

Non siamo al cospetto di un ritorno improvviso e contradditorio ad una forma rielaborata di solipsismo o di autocompiacimento egoistico, ma all’ennesima sottolineatura di una netta lontananza da ogni riduzione ad un soggetto esclusivamente centrato su se stesso; l’approdo è un’apertura più ampia all’interpretazione di sé, che assume il tono della stima di sé, guadagnata mediante la valutazione etica delle nostre azioni (…)5

Passiamo ora alla seconda parte dell’affermazione, “con e per gli altri”. La stima di sé, che caratterizza la vita buona e che, senza la precisazione di cui sopra, sembrerebbe per certi versi ripiegare il soggetto nella sua riflessività, è qui coadiuvata dalla sollecitudine che si aggiunge dall’esterno e dispiega quella dimensione dialogale che altrimenti, nella stima rimarrebbe implicita. Dire sé, infatti, spiega Ricœur, non è dire me ed implica sempre un altro da sé che domanda reciprocità. La reciprocità è l’insostituibilità che le persone si riconoscono gli uni gli altri e su cui la sollecitudine si basa.

Per comprendere meglio tale concetto, il filosofo francese riporta la trattazione che Aristotele compie sul tema dell’amicizia nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea.6 Partendo dal presupposto che l’amicizia, poiché è una virtù, non dipende da una psicologia dei sentimenti, ma da un’etica e, dunque, si costituisce come «spiegamento dell’aspirazione a vivere bene»,7 Ricœur riflette sul fatto che essa porta in primo piano il problema della reciprocità. L’amicizia, infatti, è strettamente legata al bisogno: “si ha bisogno di amici” e di conseguenza, se c’è bisogno, c’è sempre anche mancanza e desiderio. È questo che crea amicizia e che permette di far scoprire al sé l’alterità che porta in se stesso. La stima di sé, momento essenziale all’aspirazione umana a una vita buona, con la sollecitudine, e dunque con il gioco di mancanza e bisogno inaugurato dall’amicizia, permette al sé di percepire se stesso come un altro e di concepire l’alterità come qualcosa di insostituibile e di unico:

Con il bisogno e la mancanza, l’alterità dell’«altro da sé» (…) passa in primo piano. L’amico, in quanto egli è questo altro da sé, ha il ruolo di provvedere a ciò che uno è incapace di procurarsi da sé (…). Possedere degli amici, si legge con stupore «è generalmente ritenuto il più grande dei beni esteriori».8

Ma passiamo ora alla terza parte dell’affermazione, quella che più ci avvicina all’argomento della giustizia, ovvero il “all’interno di istituzioni giuste”. Il senso di giustizia, che è implicato in maniera stretta con l’affermazione Ricœuriana, trova qui maggior esplicitazione grazie all’ingresso dell’altro. Se infatti nella sollecitudine, la reciprocità è data dall’incontro io-tu, come nel caso dell’amicizia, nella giustizia ad esser in questione è il ciascuno, proprio perché essa fa un passo più avanti rispetto al faccia a faccia. Il vivere bene infatti, non riguarda solo le relazioni interpersonali, ma anche la via delle istituzioni, cioè tutte le strutture del vivere insieme di una comunità storica, legata da relazioni di distribuzione. L’istituzione è dunque un sistema di condivisione, di ripartizione basato su diritti e doveri, responsabilità e poteri.

È proprio il tema della distribuzione che pone un problema di giustizia: la giustizia, infatti, consiste precisamente nell’attribuire a ciascuno il suo e il ciascuno è il destinatario di una divisione giusta. Come scrive Ricœur:

La giustizia si estende al di là del faccia a faccia. Sono qui in gioco due asserzioni: in virtù della prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interpersonali, ma si estende alla vita delle istituzioni. Per la seconda, la giustizia presenta degli aspetti etici che non sono contenuti nella sollecitudine, e cioè essenzialmente una esigenza di uguaglianza. L’istituzione come punto di applicazione della giustizia, e l’uguaglianza come contenuto etico del senso della giustizia sono le due poste in gioco dell’indagine che verte sulla terza componente della prospettiva etica. Da questa duplice indagine risulterà una nuova determinazione del sé, quella del ciascuno: a ciascuno il suo diritto.9

2. La giustizia distributiva: il buono e il legale a confronto

Nell’articolo Le juste entre le légal et le bon, Ricœur riprende la distinzione tra teleologico e deontologico per sottolineare di nuovo la distinzione tra etica e morale, tra buono e legale. Dal punto di vista teleologico e sotto il segno del bene, la giustizia si configura come una delle virtù, dove per virtù intendiamo, al modo dei greci, un’eccellenza, una perfezione, il compimento e il fine della vita buona. Ma la giustizia ha anche conservato un ruolo a parte tra le altre virtù, e questo a causa del fatto che in essa permane un tratto particolare che, inevitabilmente, ci fa passare dal piano teleologico a quello deontologico. È ciò che Aristotele definisce “formalismo imperfetto” e che Ricœur così spiega:

Comme toutes les virtus, selon l’Éthique à Nicomaque d’Aristote, la justice est définie par l’équilibre fragile qu’elle établit entre un excès et un défaut, un trop et un pas assez, ce qui la fait considérer comme une «médiété», un terme moyen entre deux extrêmes.10

Dall’idea di distribuzione, dunque, scaturisce una società che non si basa solo sul desiderio di vivere bene insieme, ma anche sulla necessità di regole di ripartizione in modo tale che ciascuno abbia ciò che gli spetta. Da questa visione derivano due corollari: il primo, sottolinea il passaggio attraverso l’istituzione perché se è vero che nell’amicizia non è necessaria la mediazione di un terzo in quanto essa si configura come un rapporto a due, ciò non può dirsi della giustizia che ha sempre bisogno di un terzo, di quel ciascuno, oggetto della distribuzione equa.

Il secondo corollario riguarda il concetto di distribuzione legato all’idea di giustizia, che da Aristotele arriva fino a John Rawls, e i rapporti che si instaurano con l’individuo e la società. L’antico dibattito sulla società intesa come somma di individui o come realtà autonoma che non vede continuità tra il tutto e le parti, è superato grazie alla teoria della distribuzione, nel senso che l’istituzione è molto più che la semplice somma degli individui e dei ruoli che essi rivestono. La relazione sociale infatti, non si riduce ai termini della relazione, ma allo stesso tempo, la relazione non è neppure un’ entità aggiunta. L’istituzione, che regola le procedure di distribuzione, esiste finché ci sono cittadini che vi prendono parte: partecipare è la condizione fondamentale per poter applicare le regole di distribuzione.

Ma qui sorge un altro problema: quali sono le modalità attraverso le quali può essere operata la distribuzione? Ricœur interpella su questo fronte tre autori fondamentali.

3. Modalità di distribuzione: Aristotele, Kant, Rawls

Aristotele è stato il primo ad aver capito che il vero problema della distribuzione è quello delle distribuzioni ineguali che egli tenta di superare attraverso l’idea di uguaglianza aritmetica che si applica, per esempio, nelle società antiche, nella forma della rotazione, nell’esercizio delle cariche pubbliche. Nelle società moderne, i campi di applicazione dell’uguaglianza aritmetica si sono col tempo allargati: davanti alla legge, uguale diritti di espressione, di riunione, diritto di voto, uguaglianza delle opportunità. Ma, nota Ricœur, nessuna società può funzionare in maniera efficace se si basa su un’uguaglianza aritmetica, soprattutto se ad essere in questione sono le ricchezze e la divisione dei beni. Infatti, l’uguaglianza, per tornare ad Aristotele, non è fra cose, ma fra rapporti o meglio fra un rapporto a quattro termini: due persone e due parti. Scrive il filosofo francese:

L’égalité n’est pas entre des choses, mais entre des rapports, à savoir ici le rapport entre la contribution de tel individu et telle part, et le rapport de la contribution de tel autre individu et telle autre part. L’idée d’isotês est sauvée, mais au prix d’un artifice; celui d’un rapport à quatre termes : deux personnes et deux parts.11

Le difficoltà di un’eguaglianza aritmetica possono essere risolte? Ovvero, si può passare da un formalismo imperfetto, così come è stato tracciato da Aristotele, ad un formalismo perfetto? Un primo passo verso questa direzione deontologica è possibile grazie all’aiuto di Kant per il quale tutti i rapporti morali, giuridici e politici devono sottostare alla legge. Ma di che legge parliamo qui? Ricœur nota una non omogeneità nella ricerca di questa legge. Infatti, secondo la linea kantiana meritano nome di legge solo quelle disposizioni giuridiche che si lasciano guidare dall’imperativo aprioristicamente formulato così: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità non solo come mezzo, ma soprattutto come fine”. Nella teoria kantiana del diritto della Metafisica dei costumi invece, spiega Ricœur

La conformité à la loi signifie conformité aux lois issues de l’activité législative du corps politique. On passe alors, par retournement à l’intérieur du formalisme, d’un apriorisme rigoureux à un positivisme juridique où la question du fondement échappe à la raison pratique pour tomber sous le contrôle des instances légiférantes empiriquement et historiquement constituées.12

Ciò che per il filosofo francese è importante constatare è il passaggio da un formalismo imperfetto a uno perfetto, dove nessuno spazio deve essere lasciato all’idea di bene comune, né a quella di bene condiviso: il formalismo può darsi solo ed esclusivamente in una concezione procedurale. Ma come è possibile stabilire un punto di incontro tra la legge morale, aprioristicamente dedotta, e la legge giuridica esterna al soggetto? È a questo punto che Ricœur ricorre a Rawls: per quest’ultimo infatti, i principi di giustizia derivano da una deliberazione che avviene in una situazione irreale e immaginaria definita originaria. Spiega Peter Welsen:

Dans son ouvrage, Rawls présente une théorie contractualiste du genre qu’on trouve, par exemple, chez des penseurs modernes comme Hobbes ou Rousseau. Le contrat rawlsien est cependant fictif. Il est censé comprendre des principes de justice qui permettent à tous les êtres humains doués de raison de l’accepter comme obligatoire (…). Ce qui est cependant le plus important, c’est que les partenaires soient soumis au voile de l’ignorance de sorte qu’ils ne savent pas quelle sera leur position dans la société à établir. De cette façon, Rawls veut éviter que le choix des principes de justice ne soit guidé par des intérêts subjectifs.13

Il filosofo francese non nega che, per certi versi, i principi nati sotto il velo di ignoranza siano più precisi e socialmente più fecondi rispetto ad un imperativo che si basa su un generico rispetto per l’umanità tutta. Ma ciò che fa problema è lo scarto che rimane tra i principi di giustizia, ancora formali e la pratica giuridica, o meglio, in altri termini, la relazione che può sussistere tra principi di giustizia che si trovano ad operare non più in una situazione immaginaria, ma in un campo reale come può essere lo spazio pubblico. Una concezione puramente procedurale della giustizia rischia di essere “ascetica”, se non è coadiuvata dall’idea di bene.

Ci sono tre punti fondamentali che Ricœur sottolinea nelle riflessioni di Rawls: il primo concerne il fatto che i principi di giustizia riguardano l’uguaglianza aritmetica e regolano la distribuzione, ma l’accento non è posto sulla significazione delle cose da dividere, sulla loro valutazione e sul loro valore. Il formalismo del contratto ha l’effetto di neutralizzare la diversità dei beni a favore della regola di divisione. Il secondo punto riguarda il fatto che Rawls propone non uno, ma due principi; per cui se il secondo chiama in causa le divisioni diseguali, il primo invece assicura l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, principio quest’ultimo, che è alla base di tutte le società moderne. Ma l’ordine non è casuale, infatti, il primo principio deve essere soddisfatto in maniera prioritaria senza che le regole di distribuzione del secondo principio interferiscano con le libertà fondamentali. Il terzo punto sul quale Ricœur si sofferma riguarda invece il secondo principio di giustizia secondo cui fra tutte le divisioni diseguali, ve ne è sempre una più giusta delle altre. È ciò che Rawls definisce “massimizzare la parte minimale”:14 rimangono, in questo modo, delle diseguaglianze che sono considerate legittime.

Se le cose stanno così, nota il filosofo, dei due principi si finisce per considerarne uno egualitario e l’altro invece no. È giusto dunque, si chiede Ricœur, che questi due principi costituiscano l’idea direttrice per una teoria della giustizia nella quale principi troppo astratti formulati in una situazione originaria anch’essa astratta, si scontrano con la pratica giudiziaria effettiva?

4. Universale e storico

Giunti a questo punto, si tratta di indagare la possibilità di formulare principi universali la cui validità sia indipendente dalla diversità delle culture e dei contesti nei quali essi vengono applicati. Occorre, dunque, studiare il rapporto tra universale e storico e per farlo, Ricœur individua tre livelli differenti.

Il primo livello è quello etico, che definisce la moralità come l’auspicio di vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste. Già nella prima parte della triade, è possibile vedere quanto universale e storico siano compresenti: l’auspicio a una vita buona, infatti, ha carattere teleologico in quanto il fine della vita è il compimento della vita buona, ma la mira del bene si realizza attraverso valutazioni ragionate su che cosa sia da considerare virtuoso, e ciò differisce da comunità a comunità. È per questo motivo che Aristotele stesso elaborerà il concetto di medietà, ovvero uno spartiacque tra due eccessi. Se nella seconda parte della triade, quella del “con e per gli altri”, l’universalità è garantita dalla prossimità del volto dell’altro, è “all’interno di istituzioni giuste” che l’universale si frappone al contestuale. Se in tutti noi l’auspicio di viver bene è universale, sorge spontanea la domanda riguardante quali istituzioni siano giuste e in che modo possano garantire il nostro desiderio di vita compiuta. Se a questo primo livello universale e storico si mescolano e si frappongono, è al secondo livello di moralità, quello dell’obbligazione, che la tesi universalista acquista vantaggio. Ma perché non rimanere al primo livello dell’auspicio di vivere bene? La ragione, spiega Ricœur,

è che la vita in società lascia un posto immenso, e spesso spaventoso, a conflitti di ogni genere, che investono tutti i livelli delle relazioni umane, in termini di interessi, di credenze, di convinzioni. Ora, siffatti conflitti tendono a esprimersi in violenze di tutti i tipi (…). Queste violenze generano torti, che investono tanto gli individui, singolarmente presi, tanto le istituzioni, che vanno a inquadrare la vita in società.15

Ma né le massime kantiane né i principi di Rawls sembrano soddisfare il filosofo francese, e questo perché in Kant il formalismo permane nella sua interezza in tutti e tre i principi a priori: nel primo, la legge morale infatti è messa in parallelo con quella fisica che è quella del determinismo universale; nel secondo, la legge non ha come oggetto le persone, ma tutta l’umanità, intesa come caratteristica umana che contraddistingue tutti gli esseri umani; nel terzo, il regno dei fini di cui si parla non è una comunità storica ben identificata, ma un orizzonte razionale, un’idea regolativa. Per quanto riguarda le critiche mosse da Ricœur a Rawls, di cui abbiamo già parlato sopra, sono due i punti sui quali il filosofo francese si sofferma: il formalismo di una procedura che non considera i reali beni da distribuire e l’applicazione di un principio elaborato in una situazione immaginaria alla comunità reale. Ma passiamo ora al terzo livello: si tratta di una terza dimensione della filosofia morale, che Ricœur definisce saggezza pratica e che permette di riflettere, dopo questa prima analisi specifica sui contenuti della morale, dell’etica e sui contributi di Aristotele, Kant e Rawls, sul contributo più originale che a nostro avviso Ricœur fornisce al problema della giustizia.

5. La saggezza pratica: principi formali e regole di applicazione

Perché, si chiede Ricœur, aggiungere una terza dimensione al livello teleologico e a quello deontologico? Se sono il conflitto e la violenza a suggerire il passaggio verso l’obbligazione della norma, è il tragico dell’azione che ci invita ad elaborare regole pratiche che possano essere applicate ai diversi contesti socio-culturali. Il tragico dell’azione comprende tutte quelle situazioni di conflitti di doveri, dove il formalismo della regola non basta più, un esempio specifico è la tragedia greca, in particolar modo quella di Antigone. Scrive Francesca Brezzi:

Il filosofo rilegge l’Antigone come esempio paradigmatico di una tragicità che resiste alla risoluzione nell’etica, di un conflitto che nessuna catarsi riuscirà a superare se non sul piano della saggezza pratica in situazione».16

Antigone, simbolo della pietas fraterna, rivendica degna sepoltura per il fratello morto in battaglia nell’opposto schieramento; Creonte, re della città, rappresenta invece le leggi scritte e rifiuta sepoltura a quello che considera un nemico della patria. La vicenda tragica costituisce dunque il paradigma del conflitto morale dove la scelta non è più tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra bianco e nero, ma tra varie sfumature di grigio. Nella tragedia l’umano sperimenta il limite delle sue convinzioni e, in questo caso, delle istituzioni che non riescono più a conciliare tra morale astratta e morale effettiva. Se si mantiene la consapevolezza che le norme sono essenziali alla società, dall’altra parte risulta ovvio che nessuna azione è uguale all’altra e che dunque il momento deontologico non può avere l’ultima parola nella risoluzione di conflitti. Il problema risiede dunque nel fatto che i principi di giustificazione di una regola morale o giuridica lasciano intatti i problemi di applicazione, ma che cosa intendiamo per applicazione? Tale nozione, scrive Ricœur,

proviene da un campo diverso da quello della morale o del diritto, e cioè dall’ambito dell’interpretazione dei testi, principalmente dei testi letterari o religiosi. L’idea di interpretazione, in quanto distinta da quella di comprensione e di spiegazione, si è formata nel campo dell’esegesi biblica e della filologia classica. (…) con Schleirmacher e più tardi Wilhelm Dilthey, l’ermeneutica aveva attinto il suo pieno rigore, (…); essa proponeva regole di interpretazione valide per tutti i tipi di testi singoli; così, non è mai stato ignorato che l’applicazione dei codici giuridici chiamava a formulare un terzo tipo di ermeneutica, l’ermeneutica giuridica.17

Secondo il filosofo francese, ad essere in gioco nell’applicazione di norme generali a casi particolari, è la dimensione storico-culturale delle tradizioni, mediatrici nel processo di applicazione. In che cosa consiste allora la saggezza pratica richiamata da Ricœur? In una sorta di pluralismo giuridico che, nei casi particolari, sostituisce, o meglio dà nuovo vigore ad una concezione semplicemente procedurale della giustizia, che rimane fondamentale per una teoria etica, ma, nonostante questo, non può essere considerata, da sola, come forma di risoluzione dei conflitti. Dunque, l’universalismo può considerarsi un’idea regolatrice in grado di pensare attitudini eterogenee, come appartenenti ad un unico contesto morale, ma è un universale presunto, nel senso che è sempre in attesa di riconoscimento e che si contrappone al contestualismo, seppur su piani diversi. Infatti, se l’universalismo attiene al livello dell’obbligazione, il contestualismo si esercita nell’ambito della saggezza pratica dove ogni azione è diversa da tutte le altre e dove una norma astratta e lontana dal contesto ha difficoltà ad operare per una risoluzione dei conflitti.

6. Il soggetto dell’azione morale

In quella che abbiamo tratteggiato fino ad ora e che Ricœur definisce in Sé come un altro “piccola etica”, ovvero la tripartizione etica-morale-saggezza pratica, sembra esser rimasto sullo sfondo il vero protagonista. Abbiamo parlato di comunità, di regno dei fini, ma non abbiamo mai chiamato in causa il soggetto di cui Ricœur parla. Quello che, lontano dal soggetto inteso alla maniera cartesiana, si definisce come soggetto di diritto. Chiedersi chi è soggetto di diritto, questione prettamente giuridica, non vuol dire niente di diverso che chiedersi, in forma morale, chi è il soggetto degno di stima e di rispetto e, dunque, riflettere sui tratti fondamentali che rendono il sé degno di stima e rispetto. Il punto di partenza sarà quello che ruota attorno alla questione Chi? Se infatti il che cosa indica una descrizione, il Perché? una spiegazione, il Chi? postula un’identificazione: il soggetto di diritto è identificato con il soggetto capace.

La nozione di capacità costituisce il referente ultimo del soggetto di diritto e si fonda sul concetto di identità personale e collettiva. Il concetto di identità a sua volta si esplicita attraverso una serie di domande che fanno capo alla questione del Chi? e permettono a Ricœur di elaborare quella che lui stesso definisce in Percorsi del riconoscimento “fenomenologia dell’uomo capace”.18 La prima questione riguarda il Chi parla?, siamo dunque nel campo del linguaggio, nella capacità del poter dire. La priorità della parole, per Ricœur, è chiara: i soggetti sono sempre, prima di tutto, soggetti parlanti che non smettono mai di parlare il proprio agire, infatti, parlare equivale a fare cose con le parole.

La seconda questione riguarda invece il Chi è l’autore di questa azione? e, concernendo l’azione stessa, riguarda la capacità di poter fare. Il soggetto si riconosce come causa del provocare eventi grazie alla formula “sono stato io”. Si tratta del tema dell’ascrizione, ovvero la capacità di attribuire una determinata azione a un determinato soggetto e che in campo giuridico viene identificata come imputazione.19 Ma c’è un’altra componente che va ad aggiungersi alla nozione di soggetto capace ed è la componente narrativa che permette di distinguere l’identità del sé da quella delle cose. Nel racconto, il personaggio è colui che, certamente, compie l’azione, ma è anche colui che si racconta e che, dunque, fa parte di una trama ed è inserito in una dimensione temporale. Nella dimensione temporale, il soggetto sperimenta i due versanti della propria identità: quello idem, che raccoglie tutti i tratti di permanenza nel tempo, e quello ipse, composto invece dalla moltitudine di variazioni grazie alle quali risulta difficile al soggetto identificarsi solo con il medesimo. Scrive Chiara Castiglioni:

Il modello narrativo dell’identità salvaguarda la pensabilità del soggetto come totalità, senza eliminare la dimensione temporale nella quale esso è immerso. È nella fedeltà del soggetto al proprio piano di vita che si costruisce nel corso del tempo la sua unità etica e la si può valutare.20

La dimensione narrativa del soggetto risulta dunque essere essenziale per Ricœur, ma cosa manca al soggetto capace per identificarsi propriamente con il soggetto del diritto? Manca il seguito alle tre domande sopra poste e cioè “Chi è capace di imputazione?”. Proprio tale domanda ci proietta nel contesto dell’istituzione. Se, infatti, il soggetto che parla, agisce e si racconta è in relazione ad un tu che gli è di fronte, anche l’imputazione riguarda sempre il soggetto, ma nel senso che egli si attribuisce azioni compiute da lui stesso su altri e, dunque, è un soggetto che si riconosce capace di portare su di sé le conseguenze dei propri atti, in particolar modo di quelli che sono considerati dannosi per gli altri. Nel momento in cui ci si fa carico di un altro riconosciuto come vittima si varca la soglia del soggetto di diritto, le cui azioni sono regolate sul predicato teleologico del bene e su quello deontologico dell’obbligo:

Questi predicati si applicano, innanzitutto, ad azioni che noi giudichiamo e che riteniamo buone o cattive, permesse o vietate; essi si applicano, inoltre, riflessivamente agli agenti stessi, ai quali imputiamo quelle azioni. Qui la nozione di soggetto capace attinge la sua significazione più alta. Noi stessi siamo degni di stima o di rispetto in quanto capaci di ritenere buone o cattive, di dichiarare permesse o vietate le azioni degli altri o di noi stessi. Dall’applicazione riflessiva dei predicati «buono» e «obbligatorio» agli agenti stessi risulta un soggetto di imputazione.21

Imputare un’azione a qualcuno vuol dire riconoscere il soggetto come il vero autore di un’azione, mettere tale azione in suo conto e, dunque, renderlo responsabile di fronte alla vittima e di fronte allo stato, che si fa garante della legge e senza il quale le capacità del soggetto di diritto rimarrebbero virtuali. L’introduzione del soggetto di diritto e dello stato che, in quanto terzo, si fa mediatore tra il soggetto responsabile e la vittima, permette a Ricœur di approfondire la riflessione sulla giustizia e su i suoi paradossi, nel momento in cui l’idea di imputazione si lega a quella di infrazione e di colpa. Se inizialmente ci eravamo soffermati sulla potenza di agire del soggetto, ora Ricœur rilegge tale potenza di agire in potere sull’altro, ovvero sotto forma di violenza e andando ad interpellare le istituzioni, in particolar modo il piano giudiziario.

7. La violenza legittima dello stato: il diritto di punire

Se da una parte abbiamo parlato dell’idea di giusto come principio dell’etica, dall’altra ci troviamo qui ad affrontare lo “scandalo intellettuale”, che coinvolge la giustizia nella sua accezione penale e giuridica. A scandalizzare l’etica è il fatto che la pena, inflitta dallo stato, crea una sofferenza che viene ad aggiungersi, dal di fuori, alla sofferenza già provata, sofferenza legalizzata e legittimata dalle istituzioni che, nate per porre fine alla logica della vendetta privata, finiscono in realtà per farsi garanti di una nuova forma di vendetta. Per dirlo con le parole di Luca Alici:

Qual è il problema che resta aperto per la ragione? L’incapacità di non far soffrire che devo punire e l’incapacità di punire senza far soffrire; il fatto che a una violenza primaria si risponda inevitabilmente con una sorta di violenza secondaria, ma legale, e il fatto che il solo modo di affrontare la questione resta la privazione della libertà. Se lo scacco di fronte a cui si trova l’etica è il tragico dell’azione, per cui volendo fare il bene finisco per compiere il male, lo scacco che coinvolge il giudiziario è il tragico della pena, ovvero che dovendo rendere giustizia a qualcuno finisco per infliggere sofferenza ad un altro.22

Il diritto penale, nota Ricœur, costituisce, per certi versi, una grande conquista per la società e per la storia della razionalità umana: sostituendosi alla violenza privata dell’“occhio per occhio”, esso cerca una soluzione ai conflitti per mezzo dell’istituzione del processo, che sostituisce all’atto della vendetta la parola e che, attraverso le leggi e i garanti delle leggi, cioè i giudici, dice il diritto arrivando così alla sentenza e alla punizione. Ma quella che a prima vista sembrerebbe una grande conquista e di fatto lo è, nasconde un’insidia e un paradosso di cui i veri protagonisti sono il colpevole e la vittima. Scrive Ricœur:

Un tormento costante per la filosofia morale, che finisce per coinvolgere anche il diritto e la giustizia penale, è senz’altro rappresentato dal diritto di punire (…). Detto in tutta la sua brutalità, si tratta dello scandalo intellettuale legato al tratto più visibile della pena, ovvero l’aspetto della sofferenza inflitta dall’istituzione giudiziaria nei confronti del colpevole condannato; sofferenza che sembra aggiungersi dal di fuori a quella provata dalla vittima del pregiudizio, del peccato, del torto.23

Per analizzare la questione, il filosofo francese propone l’analisi di alcune dottrine filosofiche distanti tra loro non solo cronologicamente, ma anche nel modo di affrontare il problema e nel tentare di risolverlo.

Il primo punto di vista è quello platonico, che intendendo l’ingiustizia come un male dell’anima, non può considerare la finalità della pena se non lato di curare l’anima, anche a prezzo di infliggere una sofferenza. L’uomo che commette ingiustizia fa soffrire la sua anima e quindi deve essere punito per tentare di guarire e di liberarsi dai mali. È da notare il fatto che qui non sono chiamati in causa né la legge, né la vittima; l’interesse di Platone è tutto per il colpevole, nel senso che quest’ultimo è l’uomo più infelice di tutti se si mantiene nell’ingiustizia e, per questo, va curato. Dunque, la pena non solo è utile, ma soprattutto è buona in quanto aiuta a ritrovare la bellezza della giustizia. Un altro problema viene invece introdotto da Aristotele nella Retorica e riguarda il cosa fare nei confronti della vittima. Così spiega Oreste Aime:

La Retorica manifesta un apprezzamento positivo per la collera, passione che segue un dolore e si dirige verso l’offensore, appresa nel cuore del legame sociale e inscritta nella zona passionale mediana, in grado di tener conto di suggerimenti ragionevoli e dell’esperienza comune. Questa considerazione positiva della collera può essere messa a confronto con l’idealtipo etnologico della giusta vendetta: scaturisce dal torto subito (danno materiale o attentato all’onore); si esprime reattivamente come collera nei confronti dell’aggressore; trasforma il desiderio di vendetta in intenzione attiva; si attua infine come pagamento in ritorno.24

Solo dopo questa prima fase si compie la vendetta effettiva concepita come risarcimento e inserita in quella che viene definita logica del contro-dono: come il contro-dono bilancia i guadagni e i benefici, così la vendetta pareggia le perdite e i danni. Se fino ad ora la riflessione Ricœuriana ha preso in considerazione il colpevole e la vittima, è con Kant e Hegel che la questione si allarga anche alla legge; infatti, l’infrazione è concepita in base alla legge e la punizione ha come fine quello di restaurare la legge stessa. Il legame tra punizione e legge rischia però di non considerare che la pena è anche una sofferenza inflitta dal diritto penale ad una persona. Per Kant, a punire è il sovrano, colui che fa soffrire e il colpevole deve essere punito solo perché ha commesso un crimine; è un imperativo categorico, un obbligazione non subordinata a nient’altro che a se stessa. Spiega Ricœur che:

Il carattere punibile dell’atto è iscritto in se stesso in quanto infrazione. Vi è qui un “imperativo categorico”, ossia un obbligo subordinato solo a se stesso, come lo sarebbe la riabilitazione di un presunto colpevole o la riparazione del torto subito dalla vittima, due motivi assimilabili ad un imperativo ipotetico subordinato ai fini altrui, o al vantaggio del colpevole.25

Il crimine è punito perché è una realtà oggettiva e ciò che si punisce dell’individuo è il soggetto morale. Qui il rigorismo kantiano si spinge un po’ troppo oltre, secondo Ricœur, in quanto il soggetto morale è colpito dalla punizione solo se si colpisce l’uomo empirico, ma Kant sembra non dargli troppo peso e, dunque, non considerare che il colpevole e la vittima sono esseri in carne e ossa. La stessa idea è affrontata da Hegel in maniera dialettica: se infatti il colpevole ha negato la legge, la punizione nega la negazione e ristabilisce la legge secondo la logica del superamento. Il ristabilimento della legge allora è la riproduzione di un’integrità che esce magnificata dalla prova e la pena si configura come una giusta vendetta dal momento che rende uguali, dal punto di vista del valore, la violazione e la pena. Quindi, la pena è uno scandalo che viene esaltato, come ad essere esaltata è la sua razionalità e, benché ci si trovi ancora al livello del diritto astratto, nulla cambia quando Hegel passa al campo dell’eticità nel quale la regola di giustizia astratta è coadiuvata dalla legalità positiva e concreta di un tribunale che sanziona.

Nonostante le argomentazioni di Kant ed Hegel, il diritto penale non ha alcun argomento intelligibile per giustificare la pena in quanto sofferenza aggiunta: la pena che dovrebbe colpire l’uomo razionale, in realtà colpisce l’uomo empirico, l’uomo concreto fatto di carne e sangue. La giustizia rimane vittima della vendetta e, nonostante si faccia garante di una presunta razionalità istituzionale, non riesce a sciogliere i nodi dello scandalo della pena. Giunti a questo punto, Ricœur si chiede: è possibile, nonostante tutto, provare a teorizzare una giustizia non violenta centrata non sul concetto di punizione, ma su quello di restaurazione e ricostruzione? Per poter capire ciò che il filosofo francese intende, è necessario fare un passo indietro ed analizzare alcuni contenuti fondamentali di un piccolo opuscolo del 1990.26

8. Amore e giustizia

Scopo di questo opuscolo è prendere come guida la dialettica di amore e giustizia nel senso che si tratta in un primo momento di riconoscere la sproporzione iniziale fra i due termini e, in secondo luogo, di ricercare una possibile mediazione pratica tra i due estremi. La prima parte è dedicata ad analizzare le caratteristiche dell’amore e quelle che Ricœur chiama le sue bizzarrie, poiché, lontano da ogni analisi di tipo concettuale, l’amore parla un linguaggio diverso da quello della giustizia. La prima caratteristica dell’amore è il rapporto che esso intrattiene con il discorso di lode, nel quale l’uomo si compiace di un oggetto che emerge al di sopra degli altri oggetti. Il linguaggio del religioso è quello che risiede nel campo della poesia biblica, dove le parole subiscono amplificazioni, assimilazioni e interconnessioni nella ricerca del senso. La seconda caratteristica riguarda l’uso della forma imperativa del comandamento “Amami!” che se inteso nella forma dell’obbligazione, crea non certo poco imbarazzo verso un sentimento, come quello dell’amore che, ovviamente, non può essere comandato. In realtà qui, il comandamento d’amare è un comandamento che precede la Legge stessa, è l’amore stesso che comanda di amare. In questo senso Ricœur parla di un uso poetico dell’imperativo che non è una minaccia alla quale segue una punizione, ma un’esortazione, un invito che non può non essere accolto. La terza bizzaria dell’amore è quella che Ricœur chiama “la potenza di metaforizzazione” tipica delle espressioni d’amore. Come l’amore, infatti, crea attorno a sé un vasto campo gravitazionale di affetti spesso opposti fra loro, così, dal punto di vista del linguaggio, la metafora crea un vasto campo di analogie in grado di far significare all’amore più che se stesso.

Nel secondo capitolo invece, il filosofo francese analizza le caratteristiche della giustizia, alcune delle quali abbiamo già accennato nei precedenti paragrafi, in particolar modo quelle che con più evidenza si oppongono al discorso d’amore. Dal punto di vista della giustizia intesa come pratica sociale, Ricœur richiama quelle caratteristiche che rientrano nelle circostanze, nei canali e negli argomenti della giustizia stessa. Per quanto riguarda le circostanze, la giustizia è un’attività comunicativa, dal momento che le viene richiesto di decidere tra rivendicazioni opposte. Dal punto di vista dei canali, essa è regolata da leggi scritte, da tribunali e da giudici che hanno il monopolio della coercizione, ovvero la possibilità di imporre la decisione per mezzo della forza pubblica. Siamo qui nel pieno del formalismo della giustizia, dove il formalismo non è considerato un difetto, ma un punto di forza: la giustizia infatti argomenta tra parti contrapposte secondo il principio dell’ascoltare l’altra parte, fino al momento in cui non prende una decisione. È con queste caratteristiche che si fa evidente la differenza con la poetica dell’amore, anche se, tali caratteristiche, benché formali, sono necessarie al buon funzionamento della giustizia.

Ma passiamo ora all’idea di giustizia, dove i rapporti con l’amore si fanno più difficili. Nel momento in cui ci appelliamo agli ideali che muovono la giustizia, non possiamo non ritornare alla tradizione di Aristotele e Rawls secondo le idee di distribuzione e uguaglianza. Come avevamo già spiegato sopra infatti, il primo ideale che muove la giustizia è quello della distribuzione, ovvero del dare a ciascuno ciò che gli spetta e nel trattare casi uguali in modo uguale. Ma che ne è delle distribuzioni diseguali? È qui che Aristotele distingue l’uguaglianza proporzionale dall’uguaglianza aritmetica, distinzione poi compiuta anche da Rawls, secondo il quale all’aumento dei vantaggi per i più favoriti dovrebbe corrispondere la diminuzione degli svantaggi per i più sfavoriti.

9. La dialettica amore-giustizia

Come è possibile allora trovare un compromesso tra la poetica dell’amore, che parla il linguaggio dell’inno e della metafora e la prosa della giustizia regolata dal formalismo? La terza via, dove amore e giustizia si trovano implicate ognuna a suo modo, è data dal discorso della montagna in Matteo, dove in un solo contesto esse si trovano a sussistere insieme: da una parte infatti, troviamo il comandamento nuovo di amare i nemici e, dall’altra, invece, la regola d’oro del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.27 Il primo paradosso che qui si riscontra è quello del comandamento nuovo che impone di amare i nemici. Siamo sempre nella paradossale idea che un sentimento come l’amore possa essere comandato, paradossalità che si annulla se inseriamo tale riflessione non in una economia del dono, ma al contrario, in una economia sovra-etica, dove al centro troviamo il simbolismo della creazione come donazione originaria dell’esistenza. L’amore per il prossimo dunque, trova fondamento nel sentimento sovra-etico della dipendenza uomo-creatura e promuove una logica della sovrabbondanza che si oppone a quella dell’equivalenza, tipica della giustizia e che si esplicita nella massima “poiché ti è stato donato, dona a tua volta”.

Cambiamo ora prospettiva e proviamo a leggere la questione dal polo inverso, cioè quello della logica dell’equivalenza: quest’ultima, si basa su una regola di reciprocità per cui si instaura un legame tra ciò che l’uno fa e ciò che è fatto all’altro. L’agente e il paziente sono insostituibili, ma interscambiabili. La regola d’oro si avvicina alla legge del taglione e, se vogliamo, anche al secondo principio di Rawls secondo il quale si tratterebbe di massimizzare la parte minimale. Fermandoci ad un primo livello dunque, la regola d’oro che abbiamo visto essere una rilettura della regola di equivalenza della giustizia sembra essere incompatibile con il comandamento nuovo e quindi con la poetica dell’amore. Ma Ricœur non è intenzionato a conservare questa presunta incompatibilità senza provare a dare una possibile mediazione fra le due logiche. Se le due logiche sono incompatibili tra loro, si chiede il filosofo francese, perché nel discorso della Montagna esse vengono presentate insieme, una di seguito all’altra? Non è possibile trovare una mediazione, che non escluda semplicisticamente una o l’altra, ma che invece tenti di leggerle insieme? Come spiega Vereno Brugiatelli:

Ricœur osserva che il comandamento di amare non costituisce una semplice opposizione e tanto meno abolizione della Regola aurea, ma libera quest’ultima da un’interpretazione utilitaria e la riorienta verso un’interpretazione disinteressata (…). L’amore agisce nel cuore della giustizia facendo in modo che essa guardi all’uomo nella sua irripetibile singolarità, nella sua umanità individuale. Nella storia ci sono stati in cui l’amore ha acceso situazioni conflittuali con la giustizia. Ciò si è verificato tutte le volte in cui l’amore ha infranto i limiti delle mentalità, dei costumi, delle culture dei diversi popoli, tutte le volte che ha abbattuto le divisioni e discriminazioni attuate nei secoli dagli uomini in ogni parte del mondo e in ogni tempo (…)28

Spesso questo atteggiamento dell’amore si è tradotto in comportamenti paradossali ed estremi. Tali comportamenti, non sono solo quelli illustrati nella Bibbia, come ad esempio quello di amare i nemici o porgere l’altra guancia, ma sono anche comportamenti concreti che si esplicitano nella storia, come quelli di S. Francesco, Gandhi o Martin Luther King. La regola d’oro che lasciata a se stessa finirebbe solo per rafforzare ulteriormente la sua massima utilitaristica del do ut des, grazie al comandamento d’amore può orientare quell’“affinché” verso un “poiché” e quindi elevarsi al di sopra di ogni possibile perversione. L’amore, essendo sovra-morale, entra nel campo dell’etica grazie alla giustizia e congiunge il comandamento nuovo con la regola d’oro aprendo la via dell’amore pratico che si esprime attraverso comportamenti guidati dalla generosità e dalla compassione.

Tre anni dopo la pubblicazione di Amore e giustizia, Ricœur torna sull’argomento scrivendo un articolo che, benché riprenda molto da vicino la questione del rapporto fra amore e giustizia, ci dà qualche spunto in più per analizzare la questione. In questo articolo, intitolato Giustizia e amore: l’economia del dono, il termine “economia” non viene letto dal punto di vista mercantile, ma nel senso in cui lo usano i teologi e non solo, per parlare di un regime generale, una concezione della vita. È sotto questa impostazione che la logica della sovrabbondanza tipica dell’economia del dono viene messa a confronto con la logica dell’equivalenza tipica dell’idea di giustizia. Dopo aver ripreso le caratteristiche fondamentali dell’amore e della giustizia, alle quali abbiamo già accennato sopra, Ricœur nella terza parte, elabora due vie fondamentali nelle quali amore e giustizia possono collaborare insieme.

La prima via è quella aperta dai profeti d’Israele che consiste «nel fare dell’amore il motivo profondo della giustizia e della giustizia il braccio efficace dell’amore».29 È questo quello che hanno compiuto i profeti quando hanno sostituito ai sacrifici rituali la predicazione di un amore pratico: ciò che veramente è gradito a Dio è la forma autentica di compassione, il servizio che si può svolgere verso i più deboli. Una seconda via, esplorata dal filosofo francese, è quella che tutela in qualche modo il carattere sovversivo dell’amore, così come ci è dato dal Sermone della Montagna nell’adagio “ama i tuoi nemici”: comandamento nuovo questo, che abbiamo detto, non abolisce la regola d’oro, ma la libera dal suo carattere utilitario, orientandola verso un’interpretazione disinteressata. Allo stesso modo, dice Ricœur, l’amore, accogliendo il suo carattere paradossale, dovrebbe destabilizzare la giustizia rompendo con l’utilitarismo e orientandola verso la generosità. Essere giusti allora, e il concetto di giustizia stesso, non significa più assicurare un equilibrio di cose distribuite tra le parti, ma riconoscere che davanti a noi c’è un essere fragile che non ha un prezzo e che, dunque, è per questo un essere insostituibile e non intercambiabile. A concetti ai quali siamo fin troppo abituati come distribuzione, competizione, conflitto, Ricœur auspica di poter sostituire dunque quelli di cooperazione e di riconciliazione. Scrive Brugiatelli:

La giustizia, attraverso l’aiuto dell’agape, può trovare un fecondo ed irrinunciabile aiuto al fine di progredire sulla via del suo ideale: l’universalità. Ciò è possibile in quanto l’agape fa superare alla giustizia i suoi limiti storici e culturali, i pregiudizi di classe e di casta, le ristrettezze etniche (…). Pur conservando la suo sproporzione nei confronti della giustizia, l’amore si pone in suo servizio e la giustizia può progredire in virtù dell’opera dell’amore.30

10. Giustizia non violenta

Giunti a questo punto della riflessione, sono due i punti fondamentali che vanno a costituire quella che Ricœur definisce come giustizia non violenta. Da un lato, troviamo l’attenzione mostrata per i tre protagonisti del problema giudiziario, ovvero la vittima, il colpevole e la legge. La precedente digressione su Platone, Aristotele, Kant ed Hegel è servita al filosofo francese per riequilibrare le parti e rendere giustizia e dignità a ciascuna nella consapevolezza che, alla base di una giustizia restauratrice, ci debba essere prima di tutto la capacità di relazione. Si tratta di ristabilire l’asse orizzontale del voler vivere attraverso la sanzione e la riabilitazione. Per sanzione Ricœur, non intende la punizione fine a se stessa, ma rielabora tale concetto alla luce del riconoscimento:

Non bisognerebbe dire, quanto meno a titolo ideale, che la sanzione avrebbe raggiunto il suo scopo, completato la sua finalità, se la pena fosse, se non accettata, per lo meno compresa da colui che la subisce? Questa idea-limite, forse bisognerebbe dire questa idea regolatrice, era implicata dall’idea di riconoscimento: riconoscimento della parte lesa come vittima, riconoscimento del convenuto come colpevole. Ora, se il riconoscimento persegue il suo tragitto fin nell’intimità dell’essere offeso sotto forma di riparazione della stima di sé, il riconoscimento di sé come colpevole non è, forse, il polo simmetrico che ci si aspetta di questo riconoscimento per sé della vittima?.31

Con la sanzione, dunque, la vittima viene riconosciuta come colei che ha subito un torto e il colpevole come responsabile dei propri atti, ma a ciò segue la riabilitazione che ha il compito di «restaurare la capacità del condannato a ridiventare pienamente cittadino alla fine della sua pena».32 Con la riabilitazione il colpevole riprende il suo posto di cittadino fra cittadini andando così a ristabilire l’equilibrio sociale e politico e il legame relazionale che il delitto aveva precedentemente spezzato. A questo primo punto costituito da sanzione e riabilitazione, non possiamo non aggiungerne un secondo che deriva dalla riflessione che Ricœur compie sulla giustizia in relazione all’amore. Abbiamo visto come attraverso l’amore, la giustizia possa farsi più autentica e rinunciare a quel formalismo che la rende fredda e legata esclusivamente a rigidi standard normativi. Il poter pensare la giustizia, alla luce dell’amore, ci permette di entrare nella più ampia logica del dono e compiere un salto dall’ordine giuridico a quello sovra-giuridico e sovra-morale del perdono. L’idea di giustizia restaurativa, infatti, non mira solo a restaurare l’equilibrio sociale fra le parti, o meglio, se l’intento è questo, esso può essere raggiunto solo se coadiuvato dall’idea di perdono. Secondo l’ottica Ricœuriana, il perdono non è posto ingenuamente come conclusione dell’ampia tematica della giustizia: esso, lontano da ogni banalizzazione e dal semplice riferimento religioso, costituisce la forma più autentica di riconoscimento. Spiega Ricœur:

Ritengo il riconoscimento come il piccolo miracolo della memoria. Quale miracolo, anch’esso le può fare difetto. Ma quando si produce, sotto le dita che sfogliano un album di fotografie, o durante l’inaspettato incontro con una persona conosciuta, o la silenziosa evocazione di un essere assente oppure scomparso per sempre, sfugge il grido: “È lei! È lui!”. E lo stesso saluto accompagna, via via, con delle colorazioni meno vive, un evento rimembrato, un saper-fare riconquistato, uno stato di cose nuovamente promosso alla “ricognizione”. Tutto il fare-memoria si riassume, così, nel riconoscimento.33

Grazie alla mediazione del perdono, la memoria del fatto subito dalla vittima e compiuto dal colpevole non rimane ancorata al male compiuto nel passato, ma si apre al futuro attraverso una dialettica del legare-slegare. L’agente è slegato dall’atto compiuto non nel senso che ciò che ha fatto viene dimenticato, ma nel senso che il perdono è in grado di creare un nuovo legame con la vittima all’insegna della responsabilità nei confronti del futuro. Scrive Alberto Martinengo:

Di fatto, l’atto del perdono consiste nell’istituzione di un rapporto duplice tra i contraenti: la vittima slega il colpevole dall’insieme delle azioni che questi ha compiuto, alleggerendolo delle responsabilità che inevitabilmente gravano su di lui; ma al tempo stesso, sulla base di questo scioglimento, la vittima introduce una nuova responsabilità, che si volge al futuro del colpevole anziché al suo passato (…). Al perdono autentico corrisponde sempre una contropartita, che si concretizza nella capacità da parte del colpevole di tenere fede a una promessa: il reo non soltanto non viene sciolto dalla sua responsabilità, ma ne assume una doppia che si volge non più al passato ma al futuro.34

Nel perdono, dunque, si sperimenta tutta l’altezza di quell’economia del dono che Ricœur aveva analizzato in Amore e giustizia e che, grazie alla logica della sovrabbondanza, permette alla giustizia di elevarsi dal semplice piano istituzionale e orientarsi nel senso della generosità e delle cooperazione. Così come la commissione “Verità e Riconciliazione”, costituita in Sud Africa nel 1995, ha sostituito alla vendetta violenta l’ascolto dei racconti di vittime e carnefici, così, anche nella giustizia non violenta, pensata da Ricœur, si tratterebbe di fare memoria e di passare dal lato del torto al lato del racconto e del perdono. È quella che Luca Alici definisce “una giustizia della memoria” in cui «proprio il fare memoria di un gesto commesso apre lo svolgersi di una nuova narrazione, che non dimentica il passato, ma che è in grado di rigenerare il futuro».35 Ricœur è ben consapevole della difficoltà non solo di praticare, ma anche di comprendere, la strada da lui proposta. Nonostante questo, rimarrà sempre consapevole del fatto che se il lato istituzionale della giustizia è necessario e non può essere eliminato, è anche vero che esso non basta a se stesso e non basta alla società. Solo attraverso la poetica dell’amore è possibile aprirsi e lasciare spazio a forme autentiche di reciprocità che riconoscano gli individui non tanto per il ruolo che esercitano in società, ma per il loro essere prima di tutto soggetti insostituibili, unici, il cui valore non potrà mai dipendere esclusivamente dalle azioni compiute in passato o che compiranno in futuro.


  1. Così scrive Daniella Iannotta: «La tripartizione etica-morale-saggezza è delineata da Ricœur nella “piccola etica” di Sé come un altro, dove in un crescendo i momenti della vita buona, che fanno capo alla prospettiva etica, attraverso la prova della violenza, debbono convertirsi alle esigenze di una morale coercitiva, la quale tuttavia non riesce ad essere parola definitiva, nella misura in cui il tragico dell’azione ci mette di fronte a quei conflitti tra posizioni ugualmente giuste che la legge sola non può derimere» (Etica e morale Prospettive per una “vita buona”, Babel online, 1 (2006), pp. 161-166). ↩︎

  2. Facciamo riferimento a: Le juste entre le légal et le bon, intervento pronunciato il 21 marzo 1991 per l’Institut des hautes études judiciaires e poi raccolto in P. Ricœur, Lectures 1 Autour du politique, Éditions du Seuil, 1991 ; Éthique et morale, pubblicato in « L’Étique dans le débat public », aprile-giugno 1990 e poi confluito in Lectures 1. ↩︎

  3. Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, 1991, tr. it. D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2003. ↩︎

  4. Ricœur, Sé come un altro, p. 266. ↩︎

  5. L. Alici, Il paradosso del potere. Paul Ricœur tra etica e politica, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 113. ↩︎

  6. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. A. Fermani, Bompiani, Milano 2008. ↩︎

  7. Ricœur, Sé come un altro, p. 278. ↩︎

  8. Ivi, p. 281. ↩︎

  9. Ivi, p. 290. ↩︎

  10. Ricœur, Le juste entre le légal et le bon, p. 179. ↩︎

  11. Ivi, p. 182. ↩︎

  12. Ricœur, Le juste entre…, p. 183. ↩︎

  13. P. Welsen, Principes de justice et sens de justice – Ricœur, critique du formalisme rawlsien, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 2 (2006), pp. 223-224. ↩︎

  14. Scrive Ricœur: «Giustificare l’equazione tra giustizia ed uguaglianza nelle ripartizioni diseguali, chiedendo che l’aumento dei vantaggi per i più favoriti sia compensato dalla diminuzione degli svantaggi per i più sfavoriti. Questo è il secondo principio di giustizia secondo Rawls, che completa il principio dell’eguaglianza davanti alla legge. Massimizzare la parte minima: questa è la versione moderna del concetto di giustizia proporzionale ereditato da Aristotele (Liebe und Gerechtigkein Amor et Justice, J. C. B. Mohr, Tübingen 1990, tr. it. I. Bertoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, brescia 2000, p. 28). ↩︎

  15. P. Ricœur, L’universale e lo storico, in P. Ricœur, Le juste 2, Éditions Esprit, Paris 2001, tr. it. D. Iannotta, Il giusto Vol. 2, Effatà Editrice, Torino 2007, p. 279. ↩︎

  16. F. Brezzi, L’occhio della pietà Giustizia, compassione, philia, «Babel Online», 2 (2006), p. 149. ↩︎

  17. Ricœur, L’universale e lo storico, p. 287. ↩︎

  18. È questo il titolo del secondo studio contenuto in Percorsi del riconoscimento che ha come tema fondamentale appunto la nozione di capacità, considerata come la massima ampiezza del concetto di azione così come è stato tematizzato dai Greci. L’azione attribuita al soggetto dai Greci, Omero, Sofocle e Aristotele non attesta nient’altro che il fatto di essere capace di quella stessa azione e dunque di essere responsabile. ↩︎

  19. Scrive Ricœur: «Ma cosa aggiunge questa idea a quella di iscrizione in quanto attribuzione, di genere particolare, dell’azione al suo agente? Aggiunge l’idea di poter portare le conseguenze dei propri atti, in particolare quelli che sono considerati un danno, un torto di cui un altro è reputato essere vittima» (Percorsi del riconoscimento, pp. 122-123). ↩︎

  20. C. Castiglioni, Tra estraneità e riconoscimento Il sé e l’altro in Paul Ricœur, Mimesis, Milano 2012, p. 106. ↩︎

  21. P. Ricœur, Chi è il soggetto del diritto? In P. Ricœur, Le juste 1, Éditions Esprit, Paris 1995, tr. it. D. Iannotta, Il giusto 1, Effatà Editrice, Torino 2005, p. 43. ↩︎

  22. Alici, Il diritto di punire, pp. 22-23. ↩︎

  23. P. Ricœur, Le droit de punir, «Bulletin périodique d’information de l’Aumônerie des Prisons», 41 (2002), in L. Alici (ed.), Il diritto di punire Testi di Paul Ricœur, Morcelliana, Brescia 2012, p. 59. ↩︎

  24. O. Aime, Dei delitti, della pena e del perdono, in AA.VV., Saggezza pratica e riconoscimento. Il pensiero etico-politico dell’ultimo Ricœur, a cura di M. Piras, Meltemi, Roma 2007, p. 180. ↩︎

  25. P. Ricœur, Il giusto, la giustizia e i suoi fallimenti, in AA.VV., Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, a cura di C. Vigna, E. Bonan, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 15. ↩︎

  26. Si tratta del già citato Amore e giustizia↩︎

  27. Cfr. Il discorso della montagna (Mt 5-7) e Il discorso della pianura (Lc 6, 27-28-31). ↩︎

  28. V. Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricœur Per un’etica del superamento dei conflitti, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2012, pp. 122-123. ↩︎

  29. P. Ricœur, Giustizia e amore: l’economia del dono, «Protestantesimo», 49 (1994), in D. Jervolino, Ricœur L’amore difficile, Edizioni Studium, Roma 1995, p. 147. ↩︎

  30. Brugiatelli, Potere e riconoscimento, p. 124. ↩︎

  31. P. Ricœur, Sanzione, riabilitazione, perdono, in Ricœur, Il giusto 1, p. 203. ↩︎

  32. Ivi, p. 204. ↩︎

  33. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditios du Seuil, Paris 2000, tr. it. D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 703-704. ↩︎

  34. A. Martinengo, Ermeneutica del soggetto ed esperienza del perdono nel pensiero di Paul Ricœur, in Saggezza pratica e riconoscimento, p. 205. ↩︎

  35. Alici, Introduzione Rendere ragione della pena, in Il diritto di punire, p. 27. ↩︎