Bernard Williams. Conflitto morale e rammarico

Per molti è un vantaggio l’irrequieta speranza, ma per molti è illusione di labili sogni: nell’uomo s’insinua, che nulla intuisce prima che il piede si bruci nel fuoco candente.

— Sofocle, Antigone

1. Introduzione

Il filosofo britannico Bernard Williams, citato da The Times come «il filosofo morale più importante e brillante del suo tempo»,1 ha analizzato una questione troppo a lungo sottovalutata dalla tradizione filosofica, ovvero il problema del rincrescimento. Per farlo prende spesso spunto dalle tragedie greche e dall’antichità. È sorprendente notare che le nostre idee morali siano in realtà più vicine a quelle dei greci di quanto noi crediamo; ripercorrendo il percorso intrapreso da Williams potremo constatare che conoscere i greci ci porta a comprendere meglio noi stessi.

In una delle sue opere più importanti, L’etica e i limiti della filosofia,2 egli sostiene che la domanda greca «come si deve vivere?» può essere assunta come punto di partenza per un’indagine etica. Secondo il filosofo, un buono svolgimento di tale questione non porta a separare rigidamente le richieste morali dagli altri interessi che si manifestano in risposta a questa domanda o a porre tali richieste al di sopra di tutti gli altri interessi. Tuttavia, a suo giudizio, la soluzione di tale quesito ha come nodo principale il problema della natura del conflitto morale, conflitto che si genera e si sviluppa dal conflitto di valori.

Già Berlin3 aveva insistito sull’esistenza di una pluralità di valori che possono entrare in conflitto tra di loro e non sono riconducibili l’uno all’altro; come conseguenza di tale irriducibilità una situazione in cui tutti i conflitti tra valori possano essere eliminati non può effettivamente realizzarsi. Williams, in Sorte morale,4 concorda con Berlin sul fatto che il conflitto tra valori è qualcosa che i valori stessi implicano necessariamente, ma si discosta dalla lezione berliniana quando afferma che il conflitto ha bisogno di essere superato e che tale bisogno non sarebbe di tipo logico, ma di tipo sociale e personale facendo sentire il proprio peso in certe circostanze storiche piuttosto che in altre. Secondo Williams, considerato che i valori sono molteplici e irriducibili, occorrerà comprendere i loro conflitti, dal momento che sono proprio questi conflitti che i filosofi sistematici tendono a superare, mentre i pluralisti alla Berlin li considerano non risolvibili e ineliminabili.

Secondo Williams, nella nostra società, le dispute sui valori possono essere riscontrate più che nei contrasti tra gruppi portatori di valori diversi, nel conflitto valoriale che un essere umano potrebbe scoprire in se stesso.5 Vale dunque la pena prendere in considerazione quel tipo di conflitto di una persona che è stato effettivamente oggetto più frequente di studio, ossia il cosiddetto conflitto tra obblighi.

Williams afferma che possono darsi tre tipi di conflitto:

  1. Conflitto solo apparente: quello in cui in realtà non esistono affatto obblighi in conflitto tra di loro;
  2. Conflitto reale: quello in cui ci sono due obblighi e uno di essi può avere la meglio sull’altro; quello che prevale ha una forza vincolante maggiore. In questo caso, le proteste di chi subisce le conseguenze del mancato rispetto dell’obbligo con forza vincolante minore, non possono essere giustificate;6
  3. Conflitto tragico: qualunque cosa faccia l’agente, costui sbaglierà. Ossia ci sono delle esigenze morali in conflitto tra di loro, nessuna delle quali è in grado di prevalere sull’altra perché entrambe sono moralmente richieste; ciò significa che, qualsiasi cosa faccia, l’agente avrà ragione di nutrire il più profondo rincrescimento.7

Proprio sulla questione del rincrescimento vorrei soffermarmi in questa mia riflessione. Williams si chiede «come dovrebbero stare le cose per il mondo e per l’agente perché sia impossibile che quest’ultimo si trovi in una situazione in cui, qualunque cosa faccia, sbaglia». Trovare una risposta soddisfacente a questo tipo di domanda appare molto difficile, per non dire impossibile.

In questa riflessione mi propongo di analizzare la questione del conflitto morale e il problema del rincrescimento in Williams, portando come esempio la figura di Agamennone nell’Ifigenia in Aulide8 di Euripide e quella di Edipo nell’Edipo re9 di Sofocle, proposte dal filosofo stesso. Il mio lavoro si apre con una considerazione sull’importanza del tragico nelle riflessioni di Williams.

Nella prima sezione, dedicata all’Ifigenia in Aulide, affronterò il problema del conflitto tragico partendo dalla questione sul come si debba comportare un agente posto davanti a una scelta che riguarda non un’istanza buona e una cattiva, bensì davanti a due beni di uguale valore per lui. Di conseguenza metterò in luce le differenze che, secondo Williams, sussistono tra conflitto tra credenze e conflitto tra desideri, spiegando perché il conflitto morale può essere paragonato a quest’ultimo piuttosto che al primo. Seguirà una breve spiegazione su quello che intende il filosofo per conflitto morale riguardante i doveri e su perché, secondo lui, esso non è formalizzabile.

La sezione dedicata all’Edipo re sarà introdotta da un excursus sull’importanza che avevano nella società greca i principi di vergogna e di colpa in cui spiegherò i motivi per cui la figura di Edipo può essere inserita all’interno della civiltà della vergogna. Cercherò, inoltre, di spiegare perché il suo rammarico può e deve essere giustificato, nonostante sia diventato l’assassino di suo padre e lo sposo di sua madre senza esserne consapevole.

In conclusione mi soffermerò sull’originalità di Williams nel trattare il tema del rammarico in contrapposizione alla visione semplicistica della filosofia idealistica, e in particolar modo a Kant.

2. La funzione del tragico

Il filosofo ricorre spesso al tragico per esprimere ed esemplificare le sue idee morali. La tragedia, per Williams, non è da intendere come un mero documento che per caso ha la forma di un dramma o di un dramma che casualmente si ritrova ad assumere una forma che chiamiamo tragica per convenzione.10 Infatti, come afferma Nietzsche in Umano, troppo umano, «solo per il fatto che noi diamo [alle tragedie] la nostra anima, esse possono continuare a vivere: solo il nostro sangue fa sì che esse ci parlino. Il presentarle in modo meramente storico parlerebbe come uno spettro agli spettri.»11

Nella prospettiva tragica, essere un agente comporta da un lato cercare di prevedere al meglio l’ordine dei mezzi e dei fini soppesando dentro di sé i pro e i contro di ogni azione; e dall’altro lato comporta percorrere sentieri mai battuti scommettendo solo sull’ignoto e sull’incomprensibile, sapendosi esposto al volere degli dei e rischiando comunque il fallimento delle proprie imprese e della propria vita.

2.1. L’Ifigenia in Aulide: un esempio di conflitto morale

In Ifigenia in Aulide,12 Agamennone si trova nella terribile situazione di dovere scegliere se sacrificare l’amata figlia alla dea Artemide e, così facendo, permettere alla flotta di ripartire alla volta di Troia per vendicare il rapimento di Elena, sposa legittima di Menelao, da parte di Paride; oppure rimandare indietro Ifigenia, salvarle la vita, procurandosi però così il disprezzo degli Elleni.

Io intendo quando pietà conviene e quando no; e amo i miei figli. Pazzo sarei se così non fosse. È tremendo per me osare questo gesto, ma è tremendo anche non osare: così devo agire.13

Non c’è via d’uscita certa tra istanze esigentissime, non si può trovare soluzione al conflitto tragico. Esso non è un conflitto tra bene e male, ma un conflitto tra beni. D’altro canto però non si può neanche rinunciare ad agire, perché la necessità dell’azione viene imposta dalle stesse circostanze tragiche.

Guardate quant’è grande l’armata pronta a salpare. Folleggia nell’esercito degli Elleni la passione di navigare al più presto verso la terra dei barbari e di por fine ai rapimenti di spose elleniche. Essi uccideranno le mie figlie rimaste in Argo e voi e me, se non adempirò l’oracolo della dea. Non è stato Menelao, figlia mia, a piegarmi al suo volere: è stata l’Ellade, a cui sono costretto a sacrificarti, che io lo voglia o no. È questa la realtà a cui non posso oppormi.14

Un conflitto etico di tale portata non deve di certo essere confuso con i conflitti tra credenze, poiché la soluzione eticamente accettabile di esso non può consistere semplicemente nello sbarazzarsi della credenza sbagliata. Anche sapendo di aver fatto la cosa migliore sacrificando la figlia, rimaneva indelebile e intatto in Agamennone il dolore per la sua scelta.

In Problemi dell’Io,15 Williams focalizza la sua attenzione proprio su questo punto, partendo dalla distinzione sussistente tra conflitto tra credenze e conflitto tra desideri. Nel caso del conflitto tra credenze, se scopro che due mie credenze sono in conflitto tra loro, questa circostanza tenderà per se stessa a indebolirne una (la credenza respinta non può sopravvivere perché decidere che una credenza è falsa è lo stesso che abbandonarla); nel caso invece del conflitto tra desideri, il conflitto non tende a indebolire uno dei due: il desiderio respinto può anche ricomparire in seguito sottoforma di rincrescimento di ciò che si è perduto.16

Tuttavia occorre fare attenzione a non confondere questo tipo di rincrescimento con quello che si prova quando si abbandona una credenza perché quando questo avviene è soltanto perché alla sua base stava un desiderio, ovvero il desiderio che quella credenza fosse vera.

A questo punto Williams introduce il tema del conflitto morale, in quanto esso può, per i motivi che ora verranno analizzati, essere paragonato al conflitto tra desideri. Il filosofo affronta tale argomento in termini di dovere, riferendosi cioè solo ai casi in cui si dà un conflitto tra due giudizi morali che un uomo è disposto a considerare rilevanti nella decisione di che cosa fare.

Per lui il conflitto morale può assumere due forme:

  1. Io devo fare due cose, ma non posso farle entrambe; cioè: devo fare a, devo fare b, ma non posso fare sia a sia b.
  2. Una cosa che devo fare in considerazione di certe sue caratteristiche possiede altrettante caratteristiche in considerazione delle quali non la devo fare; ovvero: devo fare c, ma non devo fare c.

Appare chiaro a questo punto che i conflitti morali assomigliano più ai conflitti tra desideri che non ai conflitti tra credenze: la scoperta che le mie credenze fattuali sono in conflitto tra loro tende eo ipso a indebolirne una, mentre questo non accade con i desideri. Allo stesso modo, anche i conflitti tra doveri possono facilmente assumere i tratti del dissidio interiore, cosa che raramente accade ai conflitti tra credenze; infatti mentre nel caso delle credenze il mio interesse principale è quello di individuare la credenza giusta e di sbarazzarmi di quella falsa, nel caso della moralità la mia finalità è fondamentalmente diversa; io posso solo augurarmi che le cose stiano diversamente da come sono o posso augurarmi di non imbattermi in una data situazione, come si capisce da ciò che Ifigenia afferma a proposito del padre qualche minuto prima di immolarsi in sacrificio per l’Ellade: «Lui mi ha perduto contro la sua volontà, per il bene dell’Ellade tutta».17

Nel momento in cui mi ritrovo costretto a scegliere tra due alternative di uguale peso e medesimo valore in conflitto l’una con l’altra, ciò può essere motivo di rincrescimento come nel caso dei desideri.^[18]

Ahimè sventurato! Che cosa dirò? Ah, il giogo della necessità sotto il quale sono caduto! […] la nostra vita è condizionata dal prestigio sociale: siamo schiavi della massa. Così mi vergogno a versare lacrime e d’altra parte mi vergogno a non piangere.18

La metafora del «giogo della necessità» è utilizzata anche nell’Agamennone di Eschilo, quando il coro commenta la tragica decisione dell’eroe greco di sacrificare la figlia («E immerse il collo nel collare della necessità»).19 Questo significa che Agamennone dalla necessità dell’azione inferisce la sua giustezza e la correttezza dei sentimenti che l’accompagnano e, dopo aver fatto ciò, non gli resta altro che spirare i propri pensieri nel vento.20 A questo proposito Kierkegaard, in Timore e Tremore,21 aveva affermato che l’eroe tragico rimane ancora nei confini della morale; il capo degli Achei ha, infatti, il dovere morale di salvare il suo popolo: nella sua scelta fra la responsabilità di capo e quella di padre, si scontrano due principi morali e ubbidisce a quello che è superiore all’altro. Inoltre egli, nel suo agire, rinuncia al certo per il più certo e lo sguardo di chi lo contempla si posa fiducioso su di lui.22 L’eroe tragico ha bisogno di lacrime e reclama le lacrime.

Certo, si potrebbe obiettare che il mito di Agamennone e la sua scelta non abbiano alcun senso e nessun riscontro pratico per noi perché il nostro non è un mondo governato da dèi irrazionali che comandano agli umani di uccidere i propri figli. Ma a questa obiezione si può rispondere con Williams che non c’è affatto bisogno di dèi irrazionali affinché si creino situazioni tragiche; talvolta anche il più ammirevole agente morale può mostrarsi irrazionale se posto davanti scelte simili. Per cercare di evitare tale irrazionalità Williams compie un tentativo di formalizzazione del conflitto morale, servendosi di due principi aggiunti: il principio di agglomerazione e il principio di dovere è potere.

Il principio di agglomerazione può essere riassunto dalla seguente formula:

  1. Devo fare a
  2. Devo fare b
  3. Devo fare a e b

Tuttavia tale formula viene confutata dal principio dovere è potere, secondo cui non è possibile parlare di un dovere laddove non esiste la possibilità di agire conformemente a esso; seguendo la logica di quest’ultimo, il punto iii) non avrebbe più senso. Riporto l’esempio di Agamennone per rendere più chiaro l’argomento:

  1. Devo ingraziarmi gli dei
  2. Devo tutelare mia figlia
  3. Non posso fare entrambe le cose

È chiaro, dunque, che il principio di agglomerazione, nel caso dei conflitti tragici non funziona. Questo non significa che i doveri in questione non valgano entrambi per quella situazione, né che io erri nel ritenere che siano entrambe cose che avevo il dovere di fare; posso anzi avere giustificatamente motivi di rammarico pensando retrospettivamente alla mia scelta e posso farlo persino dopo avere trovato una ragione morale valida per preferire di agire conformemente a uno anziché all’altro dei doveri. Per questo motivo il conflitto morale non può essere risolto semplicemente eliminando una delle opzioni e non può essere facilmente formalizzato23: il rammarico non può mai essere eliminato. Talvolta esso si può focalizzare solo sulle circostanze esterne che hanno fatto in modo che le cose andassero male, ma non si può allontanare del tutto; tenderemo sempre a tornare indietro ai momenti della decisione e dell’azione e ci rammaricheremo di avere operato in un certo modo. Questo non implica però che si sia agito senza attenzione: si può avere deciso nel miglior modo possibile e provare ugualmente grande rammarico per le conseguenze scaturite dall’azione stessa.

2.2. Vergogna e rammarico nell’Edipo re

Un’altra figura interessante da inserire nel triangolo concettuale di colpa, vergogna e rammarico, sulla quale Williams si sofferma in Vergogna e Necessità,24 è quella di Edipo.

Nell’Edipo re, Creonte venne inviato a interrogare l’oracolo sul motivo per cui la città di Tebe fosse afflitta da una grave pestilenza; la sentenza dell’oracolo fu che la causa di tutto consisteva nel fatto che l’omicidio del re Laio era rimasto impunito e, per porre fine a essa, occorreva trovare e giustiziare gli assassini. La convinzione, infatti, era che le forze sovrannaturali si sarebbero calmate solo quando la persona responsabile fosse stata uccisa o mandata in esilio. Edipo pensava di poter risolvere questo problema con i mezzi che aveva usato per sconfiggere la Sfinge, ovvero con la gnômç, l’intelligenza razionale.25 Tenacemente iniziò la sua ricerca e proclamò che l’assassino dovesse essere bandito da Tebe; vietò ai cittadini di dargli accoglienza e di rivolgergli la parola.

Ma qui, a mio avviso, la natura umana si rivela enigmatica, inafferrabili appaiono i suoi rapporti col divino e ancora più oscuri i motivi del suo agire. E l’intima dualità dell’essere umano, ossia il contrasto tra azione e passione, è un mistero più insondabile del macchinoso indovinello della Sfinge. Così, una volta interrogato l’indovino Tiresia il sovrano venne a conoscenza della terribile verità: «L’uomo che da tempo cerchi con minacce e con proclami per l’uccisione di Laio, sei tu. Sei tu l’empio che contamina questa terra.»26

A questo punto il sovrano deve fare i conti con ciò che i suoi erga, le sue azioni, hanno significato per la sua vita, dunque l’intero Edipo re, questo terribile marchingegno, muove verso una sola cosa: la scoperta che egli l’ha fatto.

Per comprendere meglio la figura di Edipo, però, occorre prima inserirla nella prospettiva storico-culturale in cui si sviluppa.

La società greca rispondeva essenzialmente a due principi: la colpa e la vergogna. Gli antropologi parlano di «civiltà della colpa» e di «civiltà della vergogna».

Con «civiltà della colpa» ci si riferisce ad una società regolata dalla imposizione di divieti collegati all’intervento divino. Gli dèi non tollerano e ritengono offensivo il comportamento degli individui che mettono in discussione la loro superiorità, violando le regole religiose e sociali riconducibili al loro ordine. A mio giudizio, il caso di Agamennone può essere ricondotto a questo tipo di cultura: è per placare l’ira della dea Artemide e, così facendo, porre fine alla bonaccia che impediva alle navi ellene di partire alla volta di Troia che Agamennone decide di sacrificare la figlia tanto amata.

La «civiltà della vergogna» indica invece una società regolata da modelli positivi di comportamento. La mancata adesione a questi modelli aveva come conseguenza la vergogna nel suo duplice aspetto di sanzione interna (psichica), ovvero la perdita dell’autostima, ed esterna (sociale), consistente nel biasimo della comunità e, al limite, nell’emarginazione. Anche se la vergogna e le sue motivazioni implicano sempre, in un modo o nell’altro, l’idea di uno sguardo esterno, è importante che in molti casi si tratti dello sguardo immaginario di uno spettatore immaginario;27 analogamente, la speranza di lode è uno degli incentivi più forti alla virtù e la paura del rimprovero è uno dei più validi deterrenti dal compiere misfatti.

In questo tipo di civiltà si può facilmente riconoscere la figura di Edipo che, dopo avere preso atto di avere ucciso il padre e avere sposato la madre, ha una reazione che può dirsi autoimposta; egli si acceca («Nessun’altra mano martellò. Fui io!»)28 e motiva il suo gesto con le seguenti parole:

Io non so con quali occhi, vedendo, avrei guardato mio padre, una volta disceso nell’Ade, o la misera madre: verso entrambi ho commesso atti, per cui non sarebbe bastato impiccarmi. O forse potevo desiderare la vista dei figli, nati come nacquero? No davvero, mai, per i miei occhi; e neppure la città, né le mura, né le sacre immagini degli dei.29

La vergogna si rivolge, dunque, a ciò che io sono. Talvolta può essere vista anche in relazione con la colpa: le strutture della vergogna contengono la possibilità di controllare e imparare dalla colpa, poiché forniscono una concezione dell’identità etica di un individuo in relazione alla quale la colpa non può avere senso. Appare chiaro, così, che la vergogna può comprendere la colpa, mentre la colpa non può comprendere la vergogna.30

Le regole di comportamento, nella società greca, erano acquisite e osservate attraverso l’interiorizzazione di quella «voce del popolo» che, a seconda dei casi, riconosce le virtù o sanziona i comportamenti che ne derogano. La poesia, con il canto delle gesta degli eroi e il commento della voce del popolo, costituisce dunque uno strumento di formazione del cittadino greco e di identificazione con gli altri membri del gruppo.

Nella tragedia di Edipo non c’è spazio per una rappresentazione verosimile della realtà: accade infatti che, ad esempio, egli non abbia mai avuto notizia sui modi dell’assassinio di Laio, durante i lunghi anni del suo regno a Tebe. Altrettanto lontana dalla realtà è la coincidenza che riunisce nel personaggio del vecchio servo i ruoli di mancato giustiziere del figlio appena nato di Laio e testimone del delitto di Edipo. Ancora più priva di logica è l’ottusità di Edipo di fronte a rivelazioni che si intrecciano senza lasciare ombre. Ma è proprio grazie a queste incongruenze che gli schemi del reale vengono piegati e accentrati nella figura di Edipo, la cui costante presenza sulla scena impone al ritmo tragico una tensione mai più raggiunta in seguito: Edipo diventa il simbolo disperato del frammentario e impotente intelletto che, nel tentativo di superare se stesso, si macchia di colpa.

Che cosa dovrebbe fare una persona che non solo nella fantasia, ma nella sua vita reale ha ucciso il padre e sposato la madre? Accecarsi con le fibbie della veste di colei che per lui era al contempo madre e moglie, e che per la disperazione si era suicidata, gli sembrava l’unica possibile via d’uscita per espiare la colpa e per mantenere un segno tangibile di ciò che aveva compiuto:

Così gridando, si colpiva ripetutamente, e non una sola volta, le pupille con la fibbia; e le orbite sanguinanti bagnavano la barba, e non versavano liquide stille di sangue, ma rovesciavano una nera pioggia, una sanguinosa tempesta.31

Ma nonostante ciò non può esserci per lui nessuna riparazione: niente può attenuare la sua vergogna e il suo rimpianto, il rammarico che sembra non dovergli appartenere considerato che aveva agito inconsapevolmente e aveva fatto di tutto per evitare che l’oracolo che gravava su di lui fin dalla nascita — per cui, diventato adulto, sarebbe diventato l’assassino di suo padre e avrebbe preso in sposa la madre mostrando così all’umanità una stirpe mostruosa — si realizzasse. Convinto che il padre naturale fosse Polibio di Corinto e la madre Merope dorica, decise di fuggire il più possibile lontano da loro per non vedere compiuta l’onta dei suoi sfortunati vaticini.

Sembra dunque che sulla tragedia di Edipo aleggi un pensiero sovrannaturale, un fatalismo indifferenziato, perché tutto il dramma ruota intorno alla consapevolezza che una certa cosa accadrà qualunque cosa facciamo, sebbene si tratti proprio di quel tipo di cosa che vorremmo sperare di evitare con l’azione. E se gli sforzi per evitare questo esito hanno favorito invece il suo compimento, questo è un segno del fatto che era il sovrannaturale a essere all’opera. Inoltre, l’idea di una necessità sovrannaturale implica che sia la struttura delle cose a giocare contro di noi; ovvero, che le cose siano disposte in maniera tale che ciò che facciamo non farà nessuna differenza per l’eventuale esito o, peggio, contribuirà a realizzare ciò che cerchiamo di prevenire.32 Nonostante ciò, non bisogna ricadere nell’errore di ritenere che vivere in un mondo in cui agiscono forze simili significhi che non si possa fare nulla. Al contrario, c’è spazio per l’azione; nonostante la tragedia ci presenti un esito, insieme ai tentativi per impedirlo, con un tale potere da dare l’impressione di annullare la speculazione sulle possibili alternative, in realtà si può decidere e così si può pensare a quali e quante cose diverse sarebbero potute accadere se si fosse agito in maniera differente. Gli agenti restano pur sempre le cause di alcune cose che si verificano; possiamo sempre scegliere quale strada intraprendere per arrivare al punto di incrocio inevitabile.

Il rammarico di Edipo non è un semplice rammarico per ciò che è accaduto; esso non è assimilabile a quello che potrebbe provare uno spettatore. Si tratta bensì del rammarico di un agente. Rammarico che non può essere eliminato in virtù della natura dell’azione, poiché la vita di un individuo non può dividersi tra cose che uno fa intenzionalmente e altre cose che semplicemente gli accadono.33 Nella prospettiva tragica, da una parte l’azione è l’esito di una deliberazione intorno ai fini e ai mezzi, ma dall’altra è anche una scommessa sull’ignoto che si cela sotto la maschera della divinità. Quella che inizialmente appare come libertà degli uomini si svela come una necessità imposta dal volere divino: la scelta fra due alternative è solo illusoria, una sola via si apre davanti all’individuo e la forza divina gli impone di seguirla.

Dove va rintracciato allora il rammarico se per l’individuo in realtà non c’è effettiva possibilità di scelta? Secondo Williams possiamo essere ritenuti responsabili dagli altri anche per ciò che si è fatto involontariamente. Questo si evince dalle parole di Edipo quando prende coscienza che il vecchio che una volta lui aveva ucciso all’incrocio di tre vie poiché lo aveva spinto fuori strada era suo padre:

E se tra questo straniero e Laio v’è qualche connessione, chi è ora più disgraziato di me? Nessun cittadino mi accoglierà nella sua dimora, tutti mi respingeranno dalle loro case. Non sono dunque uno scellerato? Non sono del tutto impuro?34

Williams sostiene che coloro che sono stati danneggiati, anche se inconsapevolmente, hanno bisogno di una riparazione e non esiste luogo migliore in cui rintracciarla se non in colui che ne è la causa, seppure involontaria. Inoltre, a parte gli effetti che un individuo può avere su altre persone e la sua attitudine verso le loro vite, c’è anche e soprattutto la questione dell’attitudine che egli ha sulla propria vita. Qualcuno può semplicemente avere rovinato la propria vita o può averla resa così negativa che occorre una buona dose di iniziativa per renderla nuovamente degna di essere vissuta; tuttavia il rincrescimento perdura perché ciò che gli è accaduto è ciò che quella persona ha fatto.35 L’eroe tragico assume perentoriamente sopra di sé la responsabilità della propria condizione. La caduta è il premio della sua esclusiva grandezza e la sua redenzione.

3. Conclusioni

Williams afferma che, affinché sia possibile l’esistenza di casi in cui l’agente, posto davanti a situazioni di questo tipo, non sbagli, o dovrebbe esserci un dio interventista che decida al posto dell’individuo nel miglior modo possibile svincolandolo dalle responsabilità che derivano dalle sue azioni, oppure la vita morale dovrebbe essere completamente ridotta alle regole del comportamento efficiente, ovvero alle regole dettate dall’utilitarismo.

L’utilitarismo è fortemente criticato da Williams, dal momento che, secondo tale teoria, le azioni morali sono buone solo se, nonostante talvolta danneggino un numero ridotto di individui, questo valga a soddisfare i bisogni del maggior numero di persone coinvolte. Tale concezione è strettamente connessa con la dottrina radicale della responsabilità negativa che afferma che se l’agente non fa una certa cosa sgradevole, la farà qualcun altro, e, il risultato, cioè lo stato di cose che segue all’agire dell’altra persona, sarà peggiore di quello che sarebbe stato se l’agente non si fosse rifiutato di agire. Tutto ciò può essere riassunto nella seguente formula: se so che se faccio X, accadrà O1, e che se mi astengo dal fare X, accadrà O2, e che O2 è peggiore di O1, allora se mi astengo volontariamente dal fare X, sono responsabile di O2.36 Assumere una posizione di questo tipo, però, equivale evidentemente a ignorare gli effetti psichici che produce sull’agente.

È soltanto una forma di utopismo quella che ci spinge a pensare che sia possibile realizzare una società in cui possano dispiegarsi ugualmente tutte le finalità apprezzabili. Tuttavia, sostenere che i valori siano necessariamente in conflitto tra loro e che l’affermazione di alcuni comporti inevitabilmente delle perdite per gli altri non implica che essi siano incommensurabili. Dire che i valori sono incommensurabili significa affermare che essi non possono essere ricondotti ad un unico metro di misura; ad esempio, quando si dice che i valori sono incommensurabili, di solito si intende dire che sono incommensurabili certi valori generali come la libertà e l’uguaglianza. Ciò sembra implicare che, ogniqualvolta ci troviamo di fronte all’affermazione di tali valori, qualora essi siano in conflitto tra di loro, non ci è in nessun modo possibile confrontarli e assumere una posizione razionale. Questa tesi non può essere accettata. Certo, potrebbero presentarsi delle alternative che, ad esempio, «farebbero pagare un insignificante progresso nell’uguaglianza con un sacrificio di libertà così enorme da impedire a chiunque in qualche modo creda nella libertà di optare razionalmente a favore di tale sacrificio»;37 alcune comparazioni sono possibili e, se lo sono, allora si potrà dire che, entro certi limiti, questi valori sono commensurabili.38

La tesi dell’incommensurabilità esprime però, per Williams, qualcosa di vero e importante; essa afferma che non esiste nessun criterio generale capace di risolvere ogni conflitto tra valori (come è stato possibile constatare nel caso della scelta di Agamennone) e dunque non è vero che c’è sempre un valore a cui appellarsi per risolvere razionalmente il conflitto stesso.

Con la sua originale trattazione del tema del rammarico, Williams affronta un argomento a lungo trascurato dalla tradizione filosofica; per Kant, ad esempio, il rammarico e il pentimento appaiono soltanto come frutti del non adempimento a un dovere morale e quindi come qualcosa di superabile con l’azione moralmente retta.39 Il filosofo di Königsberg, nei suoi scritti maggiori, parla soltanto tre volte di pentimento: nella Critica del giudizio,40 ne La religione nei limiti della semplice ragione41 e nella Critica della ragion pratica.42

Tuttavia, mentre nella Critica del giudizio la sua riflessione riguarda solamente l’estetica, e ne La religione nei limiti della semplice ragione parla esclusivamente della prassi sacerdotale, è solo nella Critica della ragione pratica che il termine «pentimento» (Reue) assume una connotazione morale. Ma, anche qui, il rincrescimento viene inteso meramente come il pentimento tardivo per non aver commesso l’azione richiesta dall’imperativo categorico, ovvero il principio morale secondo cui «non bisogna compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.»43

Evidentemente Kant non concepiva la possibilità di conflitti tra valori, tant’è vero che non utilizzava neanche il termine «valore» (Wert) nel senso dell’accezione moderna, così come, nelle sue opere, non compare mai neanche la parola «vergogna» (Scham). Per Kant la morale è una e l’imperativo categorico non può dare più di un comandamento.

Williams rivoluzionò questo modo di pensare affermando che la morale non deve obbligarci ad agire senza tener conto di noi stessi e dei nostri sentimenti. Non dobbiamo assumere un atteggiamento innaturalmente imparziale nei confronti del nostro sentire.

Per Williams, sono i nostri valori, i nostri impegni e desideri a fare la differenza nel nostro modo di agire e di osservare il mondo; se così non fosse, perderemmo la nostra individualità e di conseguenza la nostra umanità.

In conclusione, Williams riesce a farci comprendere meglio il nostro mondo e noi stessi, prendendo spunto dalle tragedie greche. A partire dalla domanda, tratta dalla filosofia antica, su come si debba vivere, egli elabora un nuovo modo di guardare alle questioni morali.

Secondo il filosofo, alla base del problema del conflitto morale ci sono i conflitti di valori e Williams si occupa di quelli presenti all’interno di un unico individuo. Il pensiero di Williams verte su quello che egli definisce «conflitto tragico», ovvero il conflitto tra due esigenze entrambe moralmente richieste; e da questo nasce nell’agente un insuperabile rincrescimento. Tale conflitto, in Williams come nelle tragedie antiche, non può essere risolto con la sospensione dell’azione: sono le stesse circostanze tragiche che spingono ad agire.

Il conflitto tragico può essere assimilato al conflitto tra desideri, perché, in entrambi casi, l’opzione respinta, può generare un profondo rincrescimento; questo invece non accade nei conflitti tra credenze, il cui unico obiettivo è il raggiungimento della verità.

Per avvicinarsi a una soluzione del conflitto morale, Williams cerca di formalizzarlo servendosi del principio di agglomerazione; ma questo tentativo viene reso vano dall’uso di un secondo principio aggiunto, ovvero il principio dovere è potere; in questo modo il filosofo dimostra che la via della formalizzazione non è percorribile.

Secondo Williams, lo sforzo di andare oltre i conflitti e formulare delle leggi atte a superare i conflitti morali mediante la costruzione di una teoria filosofica, è uno sforzo destinato all’insuccesso. Non per questo, però, il filosofo preclude la possibilità di un dialogo razionale, sempre legato a determinate persone e situazioni, intorno alle questioni morali.

4. Bibliografia

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  • Kierkegaard, Søren (2003) Timore e tremore, Mondadori, Milano.
  • Nietzsche, Friedrich (1979) Umano, troppo umano, Adelphi, Milano.
  • Nussbaum, Martha (1994), La fragilità del bene, il Mulino, Bologna.
  • Sofocle (1982) Edipo re, Mondadori, Milano.
  • Williams, Bernard (1984) Una critica dell’utilitarismo, in J. J. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, Bibliopolis, Napoli 1984.
  • Williams, Bernard (1987) Conflitti di valore, in Sorte morale, Il Saggiatore, Milano.
  • Williams, Bernard (1990) Coerenza etica, in Problemi dell’io, Il Saggiatore, Milano.
  • Williams, Bernard (2007) Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna.

  1. «Professor Sir Bernard Williams», The Times on line, 14,/06/2003, http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/obituaries/article1141892.ece (18/06/2010) ↩︎

  2. Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Bari 1987 ↩︎

  3. Isaiah Berlin (1909 -1997) può essere considerato uno dei maggiori pensatori liberali del XX secolo. Filosofo, politologo e diplomatico britannico, fu teorico di un liberalismo inteso soprattutto come limitazione dell’ingerenza statale nella vita sociale, economica e culturale dei singoli e delle comunità. ↩︎

  4. Bernard Williams, Sorte morale, Il Saggiatore, Milano, 1987 ↩︎

  5. Cfr. Bernard Williams, Sorte morale, cit. alla nt. 4, p. 99 ↩︎

  6. Ivi. p. 100 ↩︎

  7. Ivi. p. 101 ↩︎

  8. Euripide, Ifigenia in Aulide, BUR, Milano 2007 ↩︎

  9. Sofocle, Edipo re, Mondadori, Milano 1982 ↩︎

  10. Cfr. Bernard Williams, Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna 2007, p. 22 ↩︎

  11. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1979, p.51 ↩︎

  12. L’Ifigenia in Aulide è una tragedia di Euripide, scritta tra il 407 ed il 406 a.C. La scena è ambientata nell’accampamento greco, in Aulide, dove le barche dirette verso Troia sono bloccate a causa di una bonaccia. Nel prologo si racconta che l’indovino Calcante ha affermato che solo sacrificando alla dea Artemide una figlia di Agamennone, Ifigenia, i venti torneranno a spirare. Ifigenia però non è con loro, è rimasta a casa, così Agamennone, persuaso da Odisseo, le scrive una lettera in cui le prospetta un matrimonio con Achille, chiedendole quindi di raggiungerli in Aulide. In seguito però, pentito di questo inganno, cerca di avvertire la figlia di non mettersi in viaggio scrivendole un altro messaggio. Il secondo messaggio viene intercettato da Menelao, che lo toglie di mano al vecchio che lo portava con sé e rimprovera Agamennone per il suo tentativo di tradimento. Arrivano quindi in Aulide per le nozze Ifigenia e la madre Clitemestra, con il piccolo Oreste. A quel punto viene a galla l’infelice verità. Achille, nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia vendetta. Però Ifigenia, nel vedere l’importanza che la spedizione ricopre per tutti i greci, offre la propria vita, calmando la madre e respingendo l’aiuto di Achille. Al momento del sacrificio, però, la ragazza scompare ed al suo posto la dea Artemide invia una cerva, tra lo stupore e la felicità dei presenti, che in tal modo capiscono che la ragazza è stata salvata dagli dei ed ora dimora presso di loro. Il vento torna a spirare e la flotta può finalmente salpare. ↩︎

  13. Euripide, Ifigenia in Aulide, cit. alla nt. 8, vv. 1255-1260 ↩︎

  14. Ivi. vv. 1261-1270 ↩︎

  15. Williams, Problemi dell’io, Il Saggiatore, Milano, 1990 ↩︎

  16. Ivi. pp. 205-207 ↩︎

  17. Euripide, Ifigenia in Aulide, cit. alla nt. 8, vv. 1459-1460 ↩︎

  18. Euripide, Ifigenia in Aulide, cit. alla nt. 8, vv. 439-452 ↩︎

  19. Eschilo, Agamennone, v. 219 ↩︎

  20. Cfr. Martha C. Nussbaum, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 1994, p. 99 ↩︎

  21. Søren Kierkegaard, Timore e tremore, Mondadori, Milano 2003 ↩︎

  22. Ivi. pp. 51-52 ↩︎

  23. Cfr. Williams, Problemi dell’io, cit. alla nt. 15, p. 223 ↩︎

  24. Bernard Williams, Vergogna e Necessità, cit. alla nt. 10 ↩︎

  25. Ivi. p. 70 ↩︎

  26. Sofocle, Edipo re, cit. alla nt. 9, vv. 347-352 ↩︎

  27. Cfr. Bernard Williams, Vergogna e necessità, cit. alla nt. 10, p. 99 ↩︎

  28. Sofocle, Edipo re, cit. alla nt. 9, v. 1305 ↩︎

  29. Ivi. vv. 1369-1375 ↩︎

  30. Cfr. Bernard Williams, Vergogna e necessità, cit. alla nt. 10, pp. 109-110 ↩︎

  31. Sofocle, Edipo re, cit. alla nt. 9, vv 1268-1273 ↩︎

  32. Cfr. Bernard Williams, Vergogna e necessità, cit. alla nt. 10, p. 165 ↩︎

  33. Ivi. p. 81 ↩︎

  34. Sofocle, Edipo re, cit. alla nt. 9, vv 822-825 ↩︎

  35. Cfr. Bernard Williams, Vergogna e necessità, cit. alla nt. 10, pp. 81-82 ↩︎

  36. Bernard Williams, Utilitarismo: un confronto, Bibliopolis, Napoli 1984, p. 131 ↩︎

  37. Bernard Williams, Sorte morale, cit. alla nt.4, p. 104 ↩︎

  38. Ivi. pp. 103-105 ↩︎

  39. Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica), Werke Bd. 7, Wilhelm Weischedel (ed.), Suhrkamp, Frankfurt/Main 1977, S. 224 ff. ↩︎

  40. Immanuel Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 2002 ↩︎

  41. Immanuel Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, Laterza, Bari 2004 ↩︎

  42. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1996 ↩︎

  43. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Id., Scritti morali, UTET, Torino 1986, pp. 92-93 ↩︎