Recensione a Giuseppe D’Acunto, Il logos della carne

Giuseppe D’Acunto, Il logos della carne Cittadella Editrice, Assisi, 2016, 125 pp., € 11,90.

La filosofia del linguaggio di José Ortega y Gasset si intreccia alla riflessione di María Zambrano, tra le luci e le ombre di due pensieri che, pur partendo da origini comuni, approdarono in terre filosofiche differenti. La scelta del titolo desta qualche curiosità, assumendo “radicalmente” il linguaggio, che affonda le sue radici nel terreno della gestualità e della carne, «una forma spaziale caricata di allusioni e di un’intimità».1 La tesi che costituisce la cornice delle scelte testuali dell’autore consta della convinzione che Ortega elabora una sorta di vera e propria filosofia del linguaggio, che «rispetto alla semiotica linguistica come indagine analitica delle connessioni fra i segni (semeia), privilegia, piuttosto, una semantica filosofica, intesa come approfondimento del nesso sintetico che lega ogni singolo segno (sema) a un suo universo referenziale extralinguistico, e quindi ontologico».2 Le premesse del libro richiamano il fulcro prospettico della filosofia orteghiana, la circostanza, imprescindibile hic et nunc a partire del quale ogni individuo è chiamato (dal lat. vocare, da cui deriva un altro fondamentale concetto orteghiano, la vocazione) a creare il proprio progetto vitale.

A partire dal primo capitolo, l’autore prende in esame alcune tra le opere più importanti di Ortega y Gasset come L’uomo e la gente, Miseria e splendore della traduzione, Che cos’è leggere, per mettere in luce il tema del linguaggio, partendo dalla distinzione ben precisa tra parlare e dire: il dire è un’operazione propriamente umana che inizia dentro l’individuo per spostarsi verso l’esterno; d’altra parte, il parlare è un’operazione che va da fuori verso dentro e consiste nell’esercitare un uso che, come ogni uso, non è stato creato ex novo da chi lo esercita. In Miseria e splendore della traduzione (1937), Ortega affermava: «La lingua nella sua autentica realtà […] è come un perpetuo combattimento e compromesso fra il voler dire e il dover tacere»;3 e, non a caso, questa riflessione introduce i tre aspetti fondamentali che limitano l’esercizio del linguaggio: primo tra tutti, l’ineffabilità, che è un fattore intrinseco al linguaggio stesso, una sorta di linea di confine tra ciò che effettivamente riesce o meno a esprimere, poiché «la lingua nasce da un’amputazione del dire»;4 in secundis, il dire ha la capacità di alludere, o meglio, di sottintendere, cosicché spesso ogni dire è manchevole, perché non riesce ad esprimere tutto, ma al tempo stesso, esprime più di quel che effettivamente vuol dire. E, infine, l’altra forma di limitazione è la gesticolazione, poiché il linguaggio si nutre di essa, e non si riduce mai solo al “parlato”, ma anzi risulta completato «dalle modulazioni della voce, dal gesto della faccia, dalla gesticolazione delle membra e dall’atteggiamento somatico totale della persona».5 In tal senso, la carne umana è un geroglifico, «un luogo in cui si incarna un verbo, un significato»; e come la carne umana si presenta come corpo, ma racchiude in sé un’anima che si rende visibile attraverso l’espressività del gesto, così la parola non è soltanto un suono che si percepisce, ma essa sottintende e rimanda a un significato di cui si fa portatrice.

Sulla scia di una prospettiva chomskiana D’Acunto si concentra sull’effettività del linguaggio che non si riduce al mero parlare, ma si nutre di più elementi che entrano in correlazione e formano l’atto comunicativo nella sua totalità. Inoltre riprende in maniera curiosa la distinzione aristotelica tra potenza e atto, attuando un parallelismo con l’importanza simbolica della parola, che diviene il terreno fertile per la creazione della metafora: «il pensiero converte in atto ciò che prima era in potenza e riassorbe in potenza ciò che prima era in atto. La chiave di questo riassorbimento è la metafora».6 Ogni parola è un universo da ri-scoprire, e l’etimologia è fondamentale per conoscere le proprie radici, la propria storia, discendendo nelle “viscere recondite della parola” e cogliere «il vocabolo nel suo statu nascendi, ancora caldo a causa della situazione vitale che lo generò». La seconda parte dell’opera si incentra sulla riflessione di Maria Zambrano, grande pensatrice spagnola, che da Velez-Malaga si trasferì nel 1927 a Madrid, per studiare filosofia alla Complutense, dove conobbe il suo “maestro” Ortega. Come osserva l’autore, il distacco tra i due avviene nel 1934, in occasione della pubblicazione del saggio “Hacia un saber del alma” (Verso un sapere dell’anima) all’interno della Revista de Occidente, che fu ampliamente criticato da Ortega. La riflessione sull’anima della Zambrano si nutre della concezione antropologica di Ortega, anche se la filosofa svilupperà un modus pensandi nuovo rispetto al maestro. A partire dalla definizione del “sapere dell’anima” come struttura della nostra interiorità, quel «pascaliano ordine del cuore che il razionalismo avrebbe ignorato»,7 la pensatrice spagnola affronta il discorso sul linguaggio in una forma quasi mistica, paragonando la parola al seme che ama nascondersi e genera la vita, poiché «è mediante la parola e nel segno di essa che il soggetto umano porta allo scoperto se stesso, si presenta».8

La parola incarnata è come un’aurora, perché porta alla luce lo spazio intorno a noi in un metafisico atto di generazione. Ed è qui che avviene la divaricazione fra poesia e filosofia: a detta dell’autore, la Zambrano «ci ricorda che poesia, derivando da poiesis significa “l’azione più attiva di tutte”: ciò che a differenza del pensiero, merita pienamente il titolo di creazione».9 Filosofia e poesia hanno il compito di riconquistare la loro perduta unità originaria, alla luce del fatto che «poesia e pensiero ci appaiono come due forme incomplete e ci vengono incontro come due metà dell’uomo: il filosofo e il poeta».10 Il capitolo conclusivo si incentra sulla proposta zambraniana di un’ermeneutica della poesia, «una ricognizione dei luoghi a partire da cui essa, indirizzandoci a noi, ci interpella e ci parla»,11 poiché la scrittura, a differenza del parlare, tende a trattenere e a non liberare le parole. Il dono della parola poetica è l’estrema apertura che viene a configurarsi come “suprema comunicazione”, giacché la poesia si rivolge a tutte le forme latenti per dis-velarle, ponendosi come intermediaria tra l’oscurità e la luce. In ultima analisi, la prospettiva teorica elaborata da D’Acunto appare un’interessante excursus che tuttavia avrebbe potuto essere approfondito di più. La semplicità stilistica scorre tra le dita del lettore che non può che apprezzarne la chiarezza e la curiosa cornice teorica.


  1. O.C., II, 580, in Maria Teresa Russo, Corporeità e relazione, Armando Editore, Roma 2012, p. 48. ↩︎

  2. Giuseppe D’Acunto, Il logos della carne, Cittadella Editrice, Roma 2016, p. 36. ↩︎

  3. O.C., VII, 93, in G. D’Acunto, cit., p. 18. ↩︎

  4. Ibidem. ↩︎

  5. Ib., p. 97. ↩︎

  6. G. D’Acunto, cit., p. 80. ↩︎

  7. Ib., p. 102. ↩︎

  8. Ib., p. 89. ↩︎

  9. Ib., p. 119 ↩︎

  10. María Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 2010, p. 37. ↩︎

  11. Ib., p. 112. ↩︎