La Dichiarazione dei doveri verso l’Essere umano. La traversata del deserto

Per Marie-Madeleine Davy,1 Simone Weil è profeta; perché ha visto. «Simone Weil sapeva. È stata la fine dell’errare. Lei ha capito che il cristianesimo andava vissuto interiormente, che l’esteriorità non conta. Allora si possono raggiungere tutti i valori, anche quelli che riguardano la patria e il mondo.»2

Simone Weil sapeva. Poiché ella aveva voluto imparare, alla scuola di una vita multipla alla soglia della dispersione e insieme totalmente unificata da quella che possiamo definire la sua colonna portante, la coerenza, ciò che significa una vita cosciente. Simone Weil ce ne offre una delle espressioni più pure.

Tracciare la mappa dei punti d’intersezione fra l’anima e le cose, al centro del rapporto vero dell’essere in incarnazione con il reale è stato lo scopo della sua esistenza, a partire dalla sua «certezza» di una «vocazione», nei suoi «quattordici anni».

Il deserto, è la sua epoca, e ancora la nostra. Nel suo primo quaderno, leggiamo: «Non potresti desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, dove si è perduto tutto.»3

Percepiamo qui una lucidità precoce (questo quaderno risale al 1933-1934); Simone ha ventiquattro anni, redige il grande articolo «Perspectives: allons-nous vers la révolution prolétarienne4 e il saggio da lei chiamato, per scherzo ma non troppo, il suo «Grand œuvre» o il «Testamento», «Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale».5

Chi era questa ragazza che, ben presto (il suo sogno di entrare in fabbrica risale ai suoi quindici anni),6 leggeva la realtà del suo tempo, la giudicava, desiderava condividerla e guarirla?

Parigi, 3 febbraio 1909 — Ashford (Kent), 24 agosto 1943. Fra queste due date si situa la breve vita (34 anni) di una donna inafferrabile, inclassificabile. Di famiglia ebrea privilegiata, Simone è la secondogenita, dopo il fratello Andrè nato nel 1906, del dottor Bernard, eccellente medico generico di origine alsaziana, che aveva optato per la nazionalità francese, e di Selma Reinherz, nata in Russia. Nel clima della casa, dove non corrono indicazioni di un credo religioso o politico, la generosità e l’assenza di materialismo, insieme all’amore per l’intelligenza e al rispetto della cultura, costituiscono le basi di una solidità morale, di una nobile ambizione e di una libera spaziosità di idee. Grande è l’unione affettiva; Simone e il fratello André7 vivono in una magica sfera d’interessi, di gusti, di giochi e di scoperte comuni. Durante la Prima Guerra mondiale, risiedono in città di provincia (case poetiche dai grandi giardini), per seguire il dottor Bernard, medico militare. Questi continui spostamenti, oltre alla salute fragile, fanno sì che Simone studi soprattutto in casa. Il suo deciso ingresso nella scuola pubblica avviene solo con l’iscrizione al ginnasio Fénelon di Parigi nel 1919. Aveva due anni meno delle compagne. Una di esse così la descrive: «Fisicamente una bambina, incapace nell’uso delle mani; di un’intelligenza straordinaria. Si aveva l’impressione di un’origine diversa, di un pensiero che non apparteneva né alla nostra età né al nostro ambiente. Sembrava aver vissuto molto più a lungo. Doveva sentirsi isolata fra le compagne, perché aveva preoccupazioni molto diverse dalle loro.»8

Era già così, e lo sarà sempre: nella classe di Alain, in fabbrica, alla guerra di Spagna, ai Cahiers du Sud, a New York, presso le Forze francesi libere a Londra, al sanatorio di Ashford… un’anima antica, direbbero gl’indù. «Un’anima ardente», la definì Lanza del Vasto.

Una donna inclassificabile, inafferrabile. Per lei, non c’è ruolo privato: non si sposa, non ha figli. Nemmeno ruolo pubblico: il suo insegnamento della filosofia nei licei femminili è di breve durata e scontenta gli ambienti ufficiali. Non un colore (alla Normale di Parigi la chiamavano «la vergine rossa», espressione che racchiudeva un contrasto). Milita fra le minoranze di punta della sinistra degli anni ’30 con solidarietà tangibile ma non si iscriverà mai al partito comunista (aveva diciotto anni; una lettera di adesione rimane a lungo incompiuta in camera sua).9

Tuttavia, durante la sua vita sulla scena francese tra le due guerre, e ancora più intensamente dopo la sua morte, sulla scena europea, quando nel 1947 comparve La Pesanteur et la grâce, l’antologia dai suoi quaderni, è emerso un personaggio Simone Weil. Personaggio come persona strana, provocatoria, imbarazzante e insieme come protagonista, figura di cui bisogna tener conto, che interpella, che ti fa pensare. La sua geniale intelligenza che non dava tregua («fino all’una di notte parlavano, lei e Urbain», m’ha detto Albertine Thévenon, la moglie di Urbain il sindacalista; «io, non ce la facevo!») era affascinante e faticosa insieme. Presente in una donna poi, la rendeva ancora più estranea agli altri. La ragazza a piedi nudi nei sandali anche in pieno inverno, l’ampia cappa a pellegrina, senza cappello (fatto disdicevole a quell’epoca, per una signorina) fumava accanitamente, tenendo la sigaretta accesa rivolta verso il cavo della mano. Per una serata all’opera aveva accettato come abito «lo smoking» nell’esatta versione maschile, salvo per la gonna;10 e alla collega che le consigliava dolcemente di cambiarsi la camicetta ormai troppo sporca aveva risposto «non posso»,11 all’orlo delle lacrime.

Surreale: «attraversa la strada come in sogno; si dice protetta da un incantesimo». Aveva «una specie di carattere arcangelico. Mai anima più splendente mi è parsa meno incarnata».12 «Correva sulla spiaggia come una pazza, entrava nell’acqua, con le sue sottanone: bagnata fradicia, senza impermeabile…»: è Marcel Lecarpentier che mi parla. Simone riuscì a convincerlo a prenderla a bordo del suo peschereccio, e passava la notte «a copiare il disegno delle stelle sul suo libriccino».13 Faticosa: «Intorno a lei — dice Clémence Ramnoux — tumulto, agitazione, disordine. Aveva sempre da diramare ordini, coinvolgerti in manifestazioni, spronarti a mettere firme, mandarti in giro con volantini.» E Marie-Madeleine Davy: «Tutta d’un pezzo, con un brutto carattere. Ci si urtava, si litigava. Aveva un senso del sociale che io non ho, non ho mai avuto e non avrò mai.»14 Perché Simone Weil era anche quella che non firmava mai un appello se non lo aveva scritto o soppesato lei stessa parola per parola; infatti «solamente così era sicura di essere d’accordo sul testo».15 Fu «la bimba» che osò tener testa a Trotzki rimproverandogli la sua condotta politica, senza mai alzar la voce, al punto che Trotzki, esasperato, finì col dirle: «Ma lei, perché ci riceve, se la pensa così? Appartiene forse all’Esercito della Salvezza?»16 Soprattutto dopo il suo articolo Perspectives, Boris Souvarine diceva di lei: «È il solo cervello del movimento operaio da anni.»17

Era sempre lei, l’autrice di articoli di una indipendenza penetrante e totale sulle riviste di punta dell’epoca, dai Libres Propos a La Révolution prolétarienne ai Nouveaux Cahiers, alla cui fondazione contribuì (racconta Denis de Rougemont: «Alle riunioni teneva per lo più la testa appoggiata a un leggìo per alleviare la sua emicrania, e interveniva in modo incisivo.»18) Fu presente, con un’urgenza senza indugi («si stava occupando di un argomento, quando riceveva una notizia, leggeva un articolo, visitava un’esposizione; allora doveva lasciare quell’argomento per muoversi, scrivere, intervenire»19 dice Gilbert Kahn). Per Simone Weil, l’esperienza aveva soprattutto un «valore oggettivo»: a causa di questo ella ha voluto viverla fino in fondo in tutte le fasi della sua vita, sia nelle sue azioni (fabbrica, guerra di Spagna), sia nei suoi modi di pensiero (sindacalismo rivoluzionario). Secondo Gilbert Kahn, è «nel mondo religioso, da lei insieme scoperto e costruito, ch’ella si è forse definitivamente impegnata, senza speranza né desiderio di ritorno».20

Ella ha voluto partecipare, con tutta l’intensità della sua sensibilità medianica («Invidiavo un cuore capace di battere attraverso la terra»,21 ha scritto Simone de Beauvoir), e insieme con un distacco critico di alta esigenza, ai punti di tensione del suo tempo. Di volta in volta, si è trattato del movimento pacifista degli studenti di Alain (1928-1929), un’affermazione di non-violenza «assolutamente impopolare sia a destra sia a sinistra»22 secondo Jean-Paul Sartre, della vita sindacale francese e, nella Germania pre-hitleriana, della vita di fabbrica, della guerra di Spagna, del periodo che prelude alla Seconda Guerra mondiale. Poi, durante la guerra a Marsiglia (1940-1942), per partecipare al lavoro dei campi, fu bracciante agricola nelle vigne della valle del Rodano, dette il suo contributo alla Resistenza operando per la diffusione della rivista clandestina Cahiers du Témoignage chrétien. (In quest’epoca, vediamo sorgere nella sua storia un elemento nuovo: Simone Weil, di ascendenza ebrea agnostica, comincia a pensare al battesimo cristiano.) Poi, negli Stati Uniti, a New York, raggiunge l’ambiente vicino a Roosevelt per appoggiare un suo progetto estremo che possa restituirla all’Europa, tramite la sede della Francia Libera di Charles de Gaulle a Londra. È qui che, infine, nel suo impiego di redattrice, offre un contributo fondamentale al progetto di una nuova Costituzione per il dopoguerra.

Rapidi, i tempi della sua vita: un mese a Berlino, presso una famiglia operaia nell’agosto 1932; insegnante di filosofia, quattro anni e qualche mese; poco più di un mese in Spagna; operaia, quasi un anno. Enorme, la mole dei suoi scritti (le sue Œuvres complètes, in corso dal 1988, presentano nove tomi nel 2008). Nella maggioranza postumi, sono lettere di confessione autobiografica, quaderni di appunti, saggi, poesie, una tragedia incompiuta, testimonianze; nella maggioranza, sono giunti fra noi perché ricopiati pazientemente dal padre e dalla madre di Simone finché ne ebbero le forze (il Dottor Bernard finché non divenne cieco e Madame Selma Weil finché non fu colpita da emiplegia).23 Ella ha due modi principali di percezione-«lettura» dell’universo: l’attenzione e l’azione. È così che ha vissuto-pensato-incarnato nella scrittura tutti i problemi che ci occupano dalla fine della Seconda Guerra mondiale, o meglio che forse appena oggi cominciamo a vedere nell’importanza concreta del loro influire sulla vita quotidiana di ognuno e di tutti. Essi sono: il rapporto fra scienza-tecnologia e vita quotidiana; la guerra e la pace; patriottismo e internazionalismo; la società e l’individuo; le leggi e la libertà; la religione in quanto adesione a una chiesa determinata e in quanto «vitalità morale»; la cultura in quanto maturazione dei «germi di vita» celati nella terra del passato, e come conoscenza e studio di tutti gli aspetti del presente, da comunicare e diffondere fra tutti gli essere umani tramite l’educazione (che era in cima ai suoi pensieri), per trasformarli in vita pratica, modo di agire verso se stessi e gli altri.

Con il suo cammino, che è una ricerca dell’anima ad opera dell’anima attraverso il deserto della sua epoca, della nostra epoca, Simone Weil troverà che l’aspirazione religiosa è un carattere strutturale dell’essere umano, e coincide con la sua «aspirazione al bene». In un pilgrim’s progress dove l’esplorazione del reale si accompagna all’esplorazione dell’io, ella andrà fino in fondo all’angoscia umana e ne farà scaturire la necessità di una religione vivente; germogliando all’interno dell’essere umano, questa religione orienta tutta la vita etica e politica, intride tutti i rapporti umani e li rende belli. È una religione di esperienza; rivive il passato considerato come nutrimento nei suoi germi d’eternità, ma non è una restaurazione, poiché tende verso l’avvenire e opera per attingere all’universalismo delle religioni, a «un cristianesimo veramente incarnato».24 È questa la sostanza. La possibilità di questo cristianesimo va resa visibile in una forma da costruire con urgenza, e la costruzione esige un «lavoro» su tutti i piani dell’essere.

1. Il lavoro per attingere la libertà

Il lavoro su di sé è il mezzo per eccellenza. Deve radicarsi nella obbedienza alla propria vocazione che per lei si fa chiara dopo «mesi di tenebre interiori» («[disperazione] senza fondo dell’adolescenza»), come aspirazione alla verità. La quale, dapprima realtà lontana, celata in «quel regno trascendente dove gli uomini d’autentica grandezza sono i soli a entrare» discende verso la giovanissima ragazza che concepisce la «certezza che qualunque essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra in quel regno della verità riservato al genio, se soltanto desidera la verità e fa in perpetuo uno sforzo d’attenzione per attingervi». Si tratta d’instaurare un rapporto «fra la grazia e il desiderio»,25 attraverso la pesanteur (gravità) del reale interiore ed esterno, che bisogna penetrare, utilizzare, trasformare.

Da allora, in riconoscimento di questa vocazione unificatrice, dirigerà ogni aspetto della sua persona, ogni briciola di difetto, di «disgusto», di fatica verso quello che definirà come «dressage», addestramento di tutto l’essere alla limpidezza dell’attenzione: la visione, insieme personale e impersonale di se stessi, degli altri, delle cose. (Il contrario del «divertissement» pascaliano.) Qui già sono posti i principi del progetto di una vita multipla, che sarà resa lineare dalla coerenza e dalla tenacia. Il desiderio di essere prevale sul desiderio di avere; la volontà di capire prevale sulla volontà di dominare.

Al centro di Simone Weil si è accesa la luce di una nobile speranza. Sarà la sua luce, irrisa, soffocata, fraintesa via via dalle impotenze del corpo, dalle sgraziature dell’indole, dagli equivoci della condizione femminile, dalla necessaria opacità del buon senso, dai limiti dell’equilibrio medio, dal plumbeo settarismo delle ideologie. Simone Weil, bella, diventerà fatalmente brutta secondo i diffusi canoni del banale; appassionata, farà la figura di disumana; indistruttibilmente giovane (e non solo d’età), sembrerà rifiutare la giovinezza; universale, sembrerà tradire tutti. Affascinati e irritati insieme, gli altri l’accosteranno sempre con un certo timore, non oseranno chiamarsi suoi amici, si sentiranno inferiori a lei, e con intima, più o meno conscia soddisfazione, spesso fortunatamente di lei più normali. Oppure la detesteranno: la spigolosa, l’intrattabile. O la scorderanno ben presto: così inconsueta, così diversa. Oppure infine l’ameranno, ma impotenti di fronte alla sua inaccessibilità personale.

2. Alain

Così firmava i suoi libri, il professore di filosofia Émile Auguste Chartier26 che, al liceo Henri-IV, teneva il corso di preparazione all’École normale supérieure. In gergo studentesco il corso viene definito cagne, o (con grafia più pomposa) khâgne che sta per paresse = pigrizia. Dura due anni. Simone Weil vi entrò attirata dalla fama di Alain; anzi, lo scelse perché «uomo etico».27 Egli fu l’unico modello polarizzante della sua formazione, il Socrate del suo pensiero e del suo stile.

Egli insegnava ai suoi allievi essenzialmente tre cose: il pensiero come lavoro; la libertà dal desiderio e dalle passioni, che nutre la volontà; la familiarità quotidiana coi grandi spiriti.

Il pensiero come lavoro: lo scrivere, il dipingere, il comporre musica: lavoro. S’impara e si arriva a dei risultati, come s’impara a fare il fabbro: unicamente facendo. E per fare, bisogna essere liberi; essere veramente liberi significa agire secondo la volontà, e non abbandonarsi al desiderio e alla passione, che rendono schiavi. Bisogna difendere la propria libertà anche nei confronti dell’idea in quanto sofisma che vi annebbia sull’azione morale da compiere. La volontà non consiste né nell’intenzione né nella decisione, ma unicamente nell’azione. La volontà non ha la funzione di scegliere, ma di modificare, rendendole buone, le azioni incominciate, le situazioni. Perché la volontà è sempre volontà di bene: nasce nella coscienza, e la coscienza è una sola, e si manifesta non appena ci poniamo il problema morale. Non si può «sfuggire» allo spirito, eppure «non è un padrone, ancor meno un padrone di schiavitù».28

Il pensiero deve rischiare la prova dell’azione: pensare vincola, perché pensare è prendere coscienza della propria nobiltà indelebile d’uomo, è sapersi liberi e responsabili. «Funzione pericolosa il giudicare, e lo spirito vuole tutto il coraggio possibile.»29 Ponendosi all’altezza della propria nobiltà, avendo fiducia in essa, affrontando le situazioni, adoprando gli errori commessi, superando sempre qualcosa, in una parola, agendo con consapevolezza, ogni uomo può creare valori morali e intellettuali. La giustizia, il bene: «bisogna credere che io [li] farò.»30 Così pure, «è tramite il lavoro e il giudizio che si attinge al bello, non per una misteriosa facoltà d’invenzione». «Nelle arti e nel pensiero, il genio consiste soprattutto nel volere, è della stessa natura dell’eroismo e della santità.»31 Per lui, al maestro tocca l’alta responsabilità di mantenere vivi dei «centri di umanità» che combatteranno i pregiudizi, la violenza, l’ingiustizia. A tal fine, il principale nutrimento va trovato nei grandi, che Alain insegnava ad amare profondamente, in un rapporto di consuetudine quotidiana con le loro opere: leggerle, rileggerle, impararle a mente, cominciando da bambini con la poesia. Coltivava nei giovani l’ammirazione dei grandi: Omero, Platone, Tacito, Balzac… che non hanno bisogno di prove. Ognuno si riconosce in loro. Le grandi opere dell’arte, della letteratura, della musica, parlano un linguaggio assoluto, il linguaggio della bellezza, che risveglia il pensiero e guida l’uomo verso la verità di se stesso e della propria condizione.

Fu così che, nutrendosi di un pensiero naturalmente in armonia col suo, quasi l’espressione infine concreta degli ideali di onore e di eroismo autonomo che l’abitavano fin dall’infanzia e sempre presenti in lei (da Cyrano e Julien Sorel, personaggio prediletto degli anni all’Henri-IV), Simone Weil maturò via via nella fedeltà e l’attenzione la propria dottrina morale e il proprio stile di scrittura, strettamente legati, poiché per lei vi fu sempre una totale coincidenza fra l’agire, il pensare, lo scrivere.

3. Compiere il disegno dell’essere

Sul filo dei suoi primi saggi brevi a piacere (i topo ch’ella faceva molto volentieri e offriva al suo maestro «come un tributo»32) e gli articoli nei Libres Propos (quel Journal di Alain che il maestro voleva generosamente aperto ai giovani) possiamo seguire lo sbocciare progressivo della sua visione del mondo. Essa si fonda sul rapporto fra il soggetto individuale e l’esistenza, tramite la percezione e l’azione. L’esistenza, ossia il mondo, è il polo opposto allo spirito e di cui lo spirito ha bisogno. È l’estensione, lo spazio, dove «le cose chiamano senza fine altre cose»; è il tempo, anche, nella sua natura di cambiamento, perché «uno stato dell’esistenza chiama senza fine un altro stato».

È bene che la mente sia sottomessa alla prova del mondo. Senza questa esistenza estranea, con il suo «ruvido» e il suo «tagliente», la mente non ha oggetto e non pensa. Come Simone, anche Alain diceva che il mondo è «fedele e puro», perché esso è pura indifferenza, pura necessità.33 La mente oppone a quella pura indifferenza la purezza dell’azione che scaturisce come un coronamento dalla totalità di un essere.

La purezza è sacrificio e il sacrificio include l’accettazione della sofferenza. Tale accettazione è presente nell’atto di Alessandro che attraversa il deserto nel saggio Le beau et le bien («un lungo topo datato febbraio 1926, in calce al quale Alain ha posto come apprezzamento “bellissimo”»34). Alessandro, che soffre la sete come i suoi soldati, sparge a terra l’acqua che gli hanno portata di lontano in un casco, per non essere più favorito di loro. Alessandro compie liberamente questo atto stupefacente che sembra non servire a nessuno; esso preserva soltanto la purezza di Alessandro, la sua umanità. «Tutto si svolge nell’anima di Alessandro, e per lui non si tratta che di porsi come uomo. […] Basterebbe essere giusti e puri per salvare il mondo, e questo esprime il mito dell’Uomo-Dio che riscatta i peccati degli uomini con la sola giustizia e senza nessuna azione politica.»35

Se, nel topo intitolato Du temps, la relazione dell’individuo al mondo si pone in termini di conoscenza del mondo come necessità, qui l’individuo interviene già sul mondo e la sua dimensione morale implica un altro ordine di realtà, il bene nel cuore dell’uomo.

Dal momento in cui si prende coscienza del desiderio di vivere per capire il mondo e della nostra possibilità d’azione per introdurvi la giustizia, il lavoro su di sé diviene indispensabile, a vincere l’energia fisica e psichica in cui ci troviamo impantanati, la caverna che ci avvolge come un bozzolo nero che noi stessi secerniamo.

«L’individuo non ha che una forza: il pensiero. Non come lo intende il banale idealismo — coscienza, opinione, ecc. Il pensiero costituisce una forza e quindi stabilisce un diritto solo nella misura in cui interviene nella vita materiale.»36

Bisogna cercare di mettersi in contatto con la vita reale: cosa che è «proprio il contrario» dell’inseguire sensazioni, come Simone spiega nella sua lettera a un’allieva del 1934. «Ché la realtà della vita non è la sensazione, ma l’attività — intendo l’attività sia nel pensiero sia nell’azione».37

Riguardo a se stessi, l’attività è consacrata al dressage (addestramento) che è essenzialmente «pulizia» dell’immaginario; ne fanno parte i falsi problemi, i sentimenti alimentati dal desiderio, la compiacenza, il «lealismo», e le costruzioni del sogno nel campo dei rapporti umani. È a questo fine che Simone traccia una «Lista delle tentazioni (da rileggere ogni mattina)», fra le quali la «Tentazione della vita interiore. Mettersi alle prese solo con le difficoltà che incontri realmente. […] Tagliar via senza pietà tutto quello che di immaginario vi è nel sentimento» e la «Tentazione della dedizione. Subordinare alle cose e agli esseri esterni tutto ciò che è soggettivo, ma mai il soggetto — ossia il giudizio».

Come la «Tentazione della dominazione» e la «Tentazione della perversità» che è legata alla nostra vulnerabilità («Mai rispondere a un male con le reazioni proprie ad aumentarlo»38), esse sono le espressioni dei numerosi animali piccoli che in noi gridano «io, io, io», scriverà in seguito. Ma la tentazione prima che lascia prosperare tutte le altre e da cui dipende l’attività reale è la «tentazione della pigrizia (di gran lunga la più forte)».39 È lei a impedirci di utilizzare il tempo, per eccellenza la forma della necessità.

Negli appunti di una sua allieva fra le più attente al liceo di Roanne (1933-1934), appunti che hanno formato un libro, leggiamo: «essere un uomo significa separare l’io e il me, lavoro da perseguire senza tregua».40

Questo principio basilare era indispensabile per «percepire puramente» tutti i dettagli del reale e arrivare a leggere le situazioni, i fatti sui quali ella meditava secondo «[la sua] idea essenziale del 1934: non è il fine che importa, bensì le conseguenze implicite nel meccanismo stesso dei mezzi posti in opera.»41

Tuttavia, la si considerava astratta, ebbra di intellettualismo, disfattista; e rósa da smanie deluse di ambizione. Questo, perché il concreto del «sindacalismo politico» agli occhi della maggior parte dei «compagni» coi quali lavorava, incitandoli all’unione dei sindacati (questo nel 1933, in modo totalmente nuovo), era la capacità di dirigere la classe operaia con un tipo di calcolo ignoto a Simone. Lei invece, con la probità della vera analisi scientifica, semplicemente studiava i fatti nei loro collegamenti e nelle loro influenze capillari sulla vita quotidiana degli uomini.

Per lei, bisognava riannodare «il patto originario fra lo spirito e l’universo al di sopra dell’idolo sociale», affermando il valore dell’individuo pensante contro il fanatismo come pure contro le perversioni della ragione, la ragione di Stato, la ragione scientifica, la ragione tecnologica, tutte pericolose quanto l’irrazionalità. Per cominciare, «reagire contro la subordinazione dell’individuo alla collettività (poiché “le collettività non pensano affatto”) implica che si cominci con il rifiutare di subordinare il proprio destino al corso della storia».42

Ella s’immerge nella vita di fabbrica per guardare davvero e conoscere quell’individuo a partire da se stessa alle prese con la pesanteur, al centro della meccanica sociale. Il suo progetto è chiaro. Di fronte alle istituzioni, lo manifesta così: nella sua domanda di congedo «per studi personali» datata 20 giugno 1934 (in cui «naturalmente non parla del suo progetto di lavoro in fabbrica»), dice: «È mio desiderio preparare una tesi di filosofia sul rapporto fra la tecnica moderna, base della grande industria, e gli aspetti essenziali della nostra civiltà, ossia, da un lato, la nostra organizzazione sociale e, dall’altro, la nostra cultura.»43

Confidandosi con un’amica quale Albertine Thévenon («Eravamo legate da un sentimento fraterno, semplice, carne e sangue»44), che le aveva opposto i suoi timori sconsigliandole di intraprendere una tale esperienza, soprattutto a causa della sua poca salute, scrive: «Vedi, tu vivi talmente nel presente — e io ti voglio bene per questo — che forse non ti immagini cosa sia concepire la propria vita intera davanti a sé, e prendere la risoluzione ferma e costante di farne qualche cosa, di orientarla da un capo all’altro in un senso determinato con la volontà e con il lavoro.»45

Il corpo ha il compito di tràdere, trasmettere, proiettare nella materia «quel dinamismo che trasforma insieme chi agisce e chi riceve in sé i frutti dell’azione».46

Senza illusioni, senza credersi «in missione», ella studia gli intrecci fra dati interiori e circostanze. Penetra questa rete con la contemplazione diretta, che è fatta di azione in cui non ci si lascia inghiottire: è il suo metodo, l’attenzione, di cui applica, in fabbrica, la prima fase: «Disciplina dell’attenzione per il lavoro manuale — nessuna distrazione né fantasticheria. Nemmeno vertigine. Sorvegliare in perpetuo ciò che si fa senza lasciarsene assorbire.»47

Così penetra prima di tutto il tempo, «che esprime la nostra impotenza radicale ad agire senza intermediari»;48 in fabbrica, la mancanza di iniziativa e la monotonia, generate principalmente dal lavoro a catena, sottolineano tale soggezione al tempo. Ne risulta che: ciò che conta in una vita umana è: «il modo in cui un minuto si concatena all’altro, e quanto costa a ognuno nel corpo, nel cuore, nell’anima e sopra ogni altra cosa nell’esercizio dell’attenzione — l’effettuare quella concatenazione minuto per minuto».49

Simone scopre quattro sofferenze principali che deformano il pensiero dell’operaio: la fame, la stanchezza, la paura, la costrizione; sono sofferenze fra loro collegate che formano il particolare tessuto del lavoro come pena. Questa pena, di cui vuole decifrare la natura, può essere sentita in due modi, come «lotta vittoriosa contro se stessi e la materia» oppure come «servitù degradante (i 1000 pezzi di rame a 0, 45% della 6ª e 7ª settimana, ecc.)». La sotto-alimentazione è continua e la fame è sospesa alla prima tegola, interruzione di lavoro, ferita, in seguito alla quale bisognerà lavorare con la stessa velocità del consueto. «Non resta che darci dentro» e subito rincasare, evitare la tentazione di cenare e avere fame la notte. Contropartita: poche banconote attraverso uno sportello. «Contare soldo su soldo. […] I soldi diventano un’ossessione. A causa loro, mai puoi scordarti la costrizione della fabbrica.» La stanchezza c’è, così amara, talvolta «dolorosa al punto che ti augureresti la morte». Per definirla, «ci vorrebbe un nome a parte». La paura dell’orologio a cartellino, delle scenate alle quali non osi rispondere, del mancare i pezzi forzando la cadenza, la paura di qualsiasi minimo incidente, si coalizzano in varie forme di angoscia, a comprimere «il cuore». L’angoscia peggiore è quella «di sentire che ci si sfinisce e si invecchia, che presto non se ne potrà più […]. Farcela. Come un nuotatore nell’acqua. Solo con la prospettiva di nuotare sempre, fino alla morte». La costrizione significa «non fare mai nulla, anche in un dettaglio, che costituisca un’iniziativa». Ad ogni istante si devono attendere ordini, essere «una cosa abbandonata alla volontà altrui». E, dato che «non è naturale per un uomo diventare una cosa, […] da se stessi bisogna piegarsi a tale passività». Per di più, c’è «la perpetua necessità di non dispiacere». Tutto questo modo di vivere ha un sottinteso tormentoso: «Non conti nulla.»50

L’acuta coscienza di tutto questo domina il rendiconto riguardo a se stessa di questa esperienza voluta dal suo essere profondo. Possiamo leggerla nella conclusione del Journal d’usine, la cronaca insieme scarna e affettiva del quotidiano della sua vita operaia in tutti i dettagli pratici, che si alternano a brevi sintesi meditative: di asciutta precisione, non è mai arida perché alonata dalla tenerezza, la luce del pensiero, l’amore per la vita, l’umorismo che senza tregua trapelano da un aggettivo, da un ritratto, da una minima scena, da una nota sulla stagione: «Cosa ho guadagnato da questa esperienza? Il senso di non possedere alcun diritto, di nessun tipo, a nulla (attenzione a non perderlo). La capacità di bastare moralmente a me stessa, di vivere in questo stato di perpetua umiliazione latente senza sentirmi umiliata ai miei occhi; di gustare intensamente ogni attimo di libertà o di cameratismo come se dovesse durare in eterno. Un contatto diretto con la vita.51 . .»

In questa prima tappa della sua traversata, servendosi di se stessa, corpo ed anima, obbedienza e libertà, Simone Weil si è foggiata dei mezzi di «lettura» del reale. Essi sono: 1) prendere coscienza del valore di sé in quanto essere umano nelle circostanze più dure; 2) la gioia dell’uguaglianza sulla base di tale coscienza; 3) «la possibilità di una giusta valutazione degli ostacoli da superare per trasformare il regime interno delle fabbriche»; 4) la possibilità di «toccare le cause dell’oppressione» tramite il contatto con la «condizione operaia vissuta come strappo dalle condizioni sotto le quali l’uomo esiste sviluppando le proprie capacità».52

È nel suo primo Cahier, quello che reca sulla copertina la frase: «Non conta» ch’ella ci offre le prime note destinate a una trasformazione della condizione operaia. Esprime le ragioni dello «strappo» (che sarà dichiarato «sradicamento» nella sua carta dei «doveri verso l’essere umano»):

Da incasellare: decadenza demoralizzazione del lavoratore: squalificazione, disoccupazione, dissoluzione del rapporto fra lavoro e benessere.53

metodo macchina: il metodo si trova nella cosa, non nella mente.

Algebra: il metodo si trova nei segni, non nella mente.54

DENARO MACCHINISMO ALGEBRA
i tre mostri della civiltà attuale
analogia completa.55

La quantità.

Il metodo vinto dalla quantità. La nostra civiltà poggia sulla quantità. La nozione di misura è ovunque perduta (Es. record atletici). Tutto se ne trova corrotto. Anche la vita privata, perché la temperanza (σωφροσυνη) è impensabile.56

Simone indica i rimedi, mirando a una fisiologia, a un’etica, a un’estetica del lavoro che possano riannodare «il patto originario dello spirito con l’universo».57

Mettersi alla ricerca, non della tecnica che dia il maggior rendimento, ma della tecnica che procuri la più grande libertà: totalmente nuovo…58 progetto: una università popolare di forma socratica che riguardi il fondamento dei mestieri.59

Due compiti: individualizzare la macchina; individualizzare la scienza (volgarizzazione).60

Problema: trovare un movente al super-lavoro che non sia la costrizione. Che non sia nemmeno la dedizione (la dedizione non esiste senza asservimento). Dev’essere dunque la volontà cosciente. Ma per questo bisogna che il processo del lavoro non sia estraneo all’operaio.61

La specializzazione fa di lui un ingranaggio: «la squalificazione del lavoro è la fine della civiltà. Ecco il vero materialismo».62 Poiché: «La grandezza dell’uomo è sempre il ricreare la propria vita. Ricreare ciò che gli è dato. Forgiare la cosa stessa che subisce. Con il lavoro, egli produce la propria esistenza naturale, con la scienza ricrea l’universo per mezzo di simboli. Con l’arte ricrea l’alleanza fra il proprio corpo e la propria anima.»63 Bisognava notare che «ognuna di queste tre creazioni [è] qualche cosa di povero, vuoto e vano, presa in sé e fuori dal rapporto con le altre due».64

La traversata del deserto continuava. D’altronde, non si era mai fermata.

4. L’Incontro

Ecco che giungiamo al centro di questa vita multipla al limite della dispersione e insieme unificata da una coerenza folle, la quale coincide con quella «follia di verità» in cui Albert Camus vede la motivazione prima dell’opera-esistenza weiliana.

Questo centro, decisamente ispiratore degli scritti e degli atti dell’ultima fase (1941-1943), è l’incontro di Simone Weil con Cristo all’abbazia di Solesmes per la Settimana Santa del 1938 (10-18 aprile). L’anno 2008 ne ha segnato il centenario; il riflettere su questo mi ha portata a considerare di più l’interpretazione religiosa della storia di questa donna nella storia del suo secolo, che è ancora il nostro, soprattutto nella necessità di toccare una intuizione del nostro destino eterno.

Fu Dom Boissart, abate dei benedettini di rue de la Source, al quale Élisabeth Flory-Blondel l’aveva indirizzata,65 a darle la possibilità di assistere ai riti della Settimana Santa a Solesmes, abbazia prestigiosa per la bellezza dei suoi canti gregoriani. Ed eran questi che Simone voleva ascoltare. Ella partì con sua madre il 10 aprile, domenica delle Palme 1938.

L’albergo dove scesero si trova di fronte all’abbazia stessa, che su quel lato presenta un aspetto più intimo. Il portale grande, coronato di verde, sembra accedere a una villa. Si entra di solito da un portoncino laterale vigilato da un cipresso. Si va verso la chiesa avvolti nell’ombra antica di alberi immensi. Charles Bell parla di una sequoia.

Quando Bell incontrò Simone Weil, ella sedeva nella hall dell’albergo e stava leggendo il Faust di Marlowe. Egli salutò il libro, citandone un verso: «Ah Faustus, “Now hast thou but one bare hour to live... ”.» La ragazza levò lo sguardo.

«Ebrea severa, sottile, in abiti mascolini… Cancellata ogni bellezza che potesse avere avuto, questa si era ritratta nella solenne profondità degli occhi.» Tenta ansiosamente di ritrovarla, di ricostruirla, colei che sentiva «lontana innanzi a sé, in più solitario avamposto». Presentati da una comune conoscenza, Simone lo chiamò «rapsodo greco» e volle che continuasse nelle sue citazioni poetiche.

Avevano poi passeggiato insieme «un tempo brevissimo, lungo la Sarthe, dove l’abbazia torreggia, maestosa come una fortezza».

La «ragazza di Solesmes», come Bell continuerà a chiamarla per lunghi anni, segue tutti i riti della Settimana Santa. Alcuni se ne stupiscono, e dicono alla signora Selma, sua madre: «E non è nemmeno cattolica!»

Charles Bell, americano, fu per Simone «il giovane inglese» e, in più, «the devil boy».66

Doveva molto piacerle la sua inesauribile conoscenza dei testi inglesi, Chaucer, Shakespeare, i poeti metafisici. Ma questi ultimi, che furono per lei così importanti, e di cui non parlerà nella sua unica lettera a Bell,67 la raggiunsero tramite un altro ragazzo. Era John Vernon, anch’egli «un giovane inglese», ma inglese davvero questa volta, e da lei definito «the angel boy».68 Poiché ella lo vedeva ogni volta tornare dalla mensa eucaristica trasfigurato «da una luce veramente angelica».

«Il caso […] ha fatto per me, di lui, un vero messaggero.»69

In verità, egli fu messo sul suo cammino per stabilire quel «contatto con il trascendente»70 al quale ella si era preparata senza saperlo lungo tutti i suoi anni di ricca solitudine, «la solitudine dei precursori» di cui parla Camus presentando L’Enracinement, questa opera-frutto, lascito all’umanità di una nuova Costituzione. Solitudine invasa dai più oppressi di cui ella volle condividere la sofferenza (soprattutto nel suo anno di fabbrica), dalle sue esplorazioni intellettuali, dal suo ascolto dei bisogni degli altri e dalla sua partecipazione ai movimenti di accordo fra discipline diverse (penso qui al suo ruolo nella fondazione della rivista Nouveaux cahiers dove filosofia, economia, politica s’integravano reciprocamente), dal suo godimento profondo della bellezza (arte, musica; l’isola più felice: l’Italia) poiché l’estetica non è un dominio a parte ma fa accedere l’etica al regno della verità. Solitudine e non solipsismo, ma come rispetto di sé in quanto «soggetto»71 come pure dell’altro, nell’ideale dell’amicizia come nuova base di ogni relazione umana (fra genitori e figli, fratelli e sorelle, amici, amanti, parenti, membri di una comunità, popoli…).

Dio discese in lei nella figura di Cristo e prese in mano la direzione spirituale della sua anima: è ciò ch’ella dice al padre Joseph-Marie Perrin, domenicano, in una delle sue lettere che si trovano nella raccolta Attente de Dieu. Anche questa raccolta ci è destinata, poiché Simone disse a Perrin la sua intenzione di estendere ad altri il loro dialogo, che avrebbe potuto servire di testimonianza per l’esistenza di una «vocazione implicita»,72 il cui germe è in ciascuno di noi, celato nella terra dell’«amore avviluppato» che conosceremo attraverso il suo saggio «Formes de l’amour implicite de Dieu», destinato all’opera pastorale del padre Perrin presso studentesse cattoliche.

Il suo segreto di Solesmes, un «contatto reale, da persona a persona, quaggiù» con Dio, attraverso il Cristo,73 fu il perno del loro dialogo intorno al battesimo, l’intonazione della loro amicizia. Tale amicizia ebbe un carattere molto personale «nella misura in cui niente può avere un’intimità più totale di una comunione che si fonda sulla ricerca comune di Dio», e molto impersonale, poiché Simone non parlava mai di se stessa al di fuori di quella ricerca. «Chi ero io per lei? Un sacerdote, il solo ch’ella conoscesse…» «Chi era lei per me? Un’anima che avevo la responsabilità di servire e che mi dimostrava la commovente fiducia di parlarmi della sua vita con Dio.»74

Con quell’incontro, tutto il contesto della sua vita precedente, tessuto dalla sua volontà e dalla sua intuizione giorno per giorno di atti spesso incredibili soprattutto per una donna, trovava il suo senso. «L’altra realtà» sulla quale bisogna fissare lo sguardo, se si vuole trasformare la realtà dei bisogni terrestri in cui viviamo, era divenuta sostanza concreta. Il raccordo io-universo si è stabilito in lei: alla sua sorgente, la sua esperienza del trascendente. Poiché: «Noi sappiamo per mezzo dell’intelligenza che ciò che l’intelligenza non afferra è più reale di ciò che afferra. L’esperienza del trascendente; ciò sembra contraddittorio, eppure il trascendente può essere conosciuto soltanto per contatto, poiché le nostre facoltà non possono fabbricarlo.»75

L’incontro è anche un nuovo inizio: quello di un rapporto con il mistero per cui un Dio pensato come ispirazione etica diventa un Dio vissuto, incarnato. Ricordiamo che, all’epoca dell’Henri-IV, Simone trovava, attraverso il bene, la possibilità di strapparsi a se stessi «come individui, ossia come animali, per affermarsi uomini, cioè partecipi di Dio». «Ora, Dio è l’unità della libertà, dell’essenza e dell’esistenza, in lui il bello e il bene sono una sola e medesima cosa. Nel nostro universo, essi si oppongono come l’oggetto al soggetto. Ma l’azione è affermazione di Dio.»76 Tuttavia, allora, si trattava semplicemente di «parole», e lei era sempre sola «sia con questo Dio che senza di lui».77 Ora, invece, l’amico sconosciuto è diventato una realtà: tangibile, perché ella ne ha sentito «attraverso la sofferenza [dell’emicrania], la presenza», presenza «di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un volto amato».78 Nella luce di quel sorriso che ha deposto in lei per sempre il seme del suo consenso definitivo, la donna multipla e unificata Simone Weil orienterà ormai tutti gli aspetti del suo pensiero e della sua azione. Andrà esponendo il relativo all’assoluto e lo vedremo nel suo linguaggio di scrittrice tramite il quale tutti i temi che sempre le sono stati propri (giustizia sociale, lavoro, arte, bellezza, amicizia, amore, realtà, immaginazione) acquisiranno un approfondimento e una moltiplicazione di risonanze.

5. Spazio e tempo

Lo spazio dell’esplorazione interiore è Marsiglia; il tempo, è il tempo della tregua che in quella città doveva vivere. Lasciata a malincuore Parigi insieme ai genitori, aveva dapprima pensato di andare in Marocco e, di là, in Inghilterra. A tale scopo, aveva richiesto un incarico d’insegnamento in Africa del Nord, che le avrebbe permesso di conoscere un mondo diverso dall’Europa, i francesi delle colonie e gli arabi. Soprattutto attraverso questi ultimi, desiderava rendersi conto di due cose: «qual è il vero carattere del regime imposto alla popolazione, e quali effetti produce sulle anime; cos’è che resta ancora di vivo, d’autentico, di davvero interessante, traccia di un passato più glorioso e presagio forse di un miglior avvenire, al di sotto della conquista». Questo desiderio si trova nella minuta di una lettera a Émile Dermenghem, un islamista che l’aveva particolarmente colpita per un articolo sul Marocco comparso in Esprit.79 Il corsivo è mio, perché vedo in questo interrogativo di Simone l’evolversi della sua attenzione politica verso un regime in rapporto con il benessere delle «anime», cosa che conferma un pensiero dell’anno di fabbrica (1934-1935) riguardo la schiavitù «trasportata nel lavoro stesso»: «Effetti della schiavitù sull’anima.»80 E al tempo stesso annuncia il suo progetto di una nuova Costituzione basata sui «doveri verso l’essere umano».

Altra minuta di lettera, questa volta a Pierre Hourcade, antico compagno della Normale incaricato a Lisbona, spiegava la ragione profonda per cui voleva ottenere un visto dal Portogallo, come luogo di transito verso il Marocco. Era la ricerca di un rifugio «atto a protegger [la] non dagli avvenimenti, ma dalla [sua] immaginazione». Come in tutte le tappe del suo passato, voleva approdare alla terra della più scarna realtà. Piena «di un misto di orrore, di pietà, di vergogna e di rimorso», all’idea di sventure e di pericoli che non poteva condividere, ella non cercava una distensione, ma «una tensione di specie diversa».81

Rifugio e tensione che non doveva raggiungere. Secondo un attestato esistente,82 Simone fu nominata al liceo femminile di Costantina a partire dal 1º ottobre 1940, ma non ricevette mai la lettera di nomina.

Possiamo trovare l’intonazione di questo periodo nei pensieri seguenti dei Cahiers, di cui aveva cominciato la redazione all’inizio del 1941: «Che nessuna attività — lavoro fisico o studio — sia di ostacolo a vedere l’atman in tutte le cose.» O ancora: «Che ogni attività abbia al centro dei momenti di tregua.»83

Un orientamento interiore sempre più chiaro penetra della sua luce tutte le sue esperienze, dalla vita di fabbrica alle meditazioni di politica e di storia, dalle letture religiose allo studio dei Greci, dall’impegno sindacale alle meditazioni giuridiche, trovando espressioni pratiche e speculative che hanno un equilibrio nuovo d’incarnazione: l’amore di Dio.

6. Verso testi che esprimono una teofilia

«La ricerca dell’unione fra l’anima e la carne»: questo l’essenziale per Simone secondo il poeta Jean Tortel, a cui ella era apparsa come un personaggio dalla presenza fisica «insostenibile».

Aveva un aspetto avido: si aggrappava a te, implorante, e al tempo stesso ti respingeva con disprezzo. «Ecco: quando parlavamo di futilità, tanto per sfogarci, io sentivo il suo disprezzo.» Si ritrovavano nella redazione dei Cahiers du Sud, nella stanza arrampicata in soffitta, «allora più vivibile», con un’uscita segreta in caso di perquisizione. Simone sedeva di solito su una poltroncina di dermoide e legno, oppure in un angolo del divano a conchiglia, carico di libri. «Cono di lana nera, ella era senza corpo, un uccello notturno: l’immensa pellegrina, le grosse scarpe, i capelli tesi come stecchi; la bocca era grande, sinuosa, perennemente umida; ti guardava con la bocca.» Cercava il rapporto di ognuno con Dio, e l’essere vero di ognuno. «Non sopportava la vita, la mediocrità. Viveva al di fuori. Voleva coinvolgerci tutti nella dimensione dell’assoluto e implorava soddisfazione totale. Altrimenti sapeva dirti cose spietate con il suo tono di voce sempre uguale, umido, come annegato».84 Estenuato dall’aria rarefatta che si respirava al suo fianco e dalla sua esigenza di un continuato esistere al massimo, Tortel mi ha dichiarato di «non potersi definire suo amico».

Amava i bambini piccoli (l’invenzione del presepio vivente era per Simone uno dei più bei gesti di san Francesco d’Assisi, il suo diletto). «China sulla culla della mia piccola Françoise, le parlava in greco» mi ha detto Marcelle Ballard, la moglie e collaboratrice di Jean Ballard, il fondatore e direttore dei Cahiers du Sud, porto accogliente per i poeti, gli artisti, gli scrittori che cercavano a Marsiglia un rifugio oppure ne facevano l’ultima tappa per passare in Algeria o in America.

Amava l’amore. Sull’album di ricordi di Marcelle, c’è una dedica di Simone a Françoise.

Fra tanti nomi illustri (da Valéry a Saint-John Perse a Léger, da Adamov a Breton…), spicca per la bimba un brano dell’Antigone di Sofocle, in greco e nella traduzione di Simone. «Amore invincibile… che ti abbatti sulle dimore… Chi ti possiede è pazzo…» La dedica dice: «Perché Françoise legga il testo e la traduzione — ma soprattutto il testo — quando avrà sedici anni; e perché i suoi genitori serbino una traccia del passaggio di qualcuno che, grazie a loro, si è sentito a casa sua a Marsiglia, in un tempo in cui tanti vi si credevano in esilio. — 5 agosto 1941.» Firma: Simone Weil (Émile Novis), quest’ultimo essendo lo pseudonimo con cui Simone firmava i suoi articoli nella rivista per nascondere un nome troppo ebreo, «a causa dei suoi genitori».85

Amava gli innamorati; li aveva sempre circondati di approvazione. C’era una ragazza, dieci anni meno di lei, piena di vita e di allegria, molto innamorata del suo ragazzo e al tempo stesso sinceramente cristiana. «Come siete belli» diceva loro Simone. «Vorrei tanto avere avuto anch’io un amore, una vita felice; ma non è stato possibile.» Nei suoi Cahiers leggiamo: «Vocazione [di pensatore, ecc.] o vita felice? Quale ha maggior valore? Lo ignoriamo. Vocazioni incompatibili (a partire da un certo grado di grandezza). […] Tutto si paga, ma reciprocamente tutto ha dei compensi. Ma l’una cosa e l’altra a un livello sia inferiore, sia uguale, sia superiore. E cosa ne sappiamo?»86

Un’altra ragazza, Berthe Ergas, di famiglia ebraica molto osservante («Dio era il personaggio principale della casa»), si preparava a diventare cristiana. Fu battezzata alla fine del 1941, le fu padrino Stanislas Fumet.87 Non voleva «disonorarsi» ripudiando la sua formazione e la sua famiglia, e al tempo stesso non poteva non seguire una fede personale nel Cristo maturata fin dalla prima infanzia. L’autenticità di Berthe era fatta per piacere a Simone; esse la possedevano in comune insieme ad altre due coincidenze ideali: il desiderio ardente di giustizia sociale e la scelta del Cristo. Berthe si sposò con un cristiano fervente nel febbraio 1942. Simone le disse: «Hai trovato l’unica e la migliore soluzione del problema ebraico: il matrimonio misto.»88

Vedere «l’âtman in tutte le cose»: ella desiderava stabilire il più profondo contatto con la realtà, attraverso lo scambio fra la carne e la terra, tramite la fatica fisica del lavoro dei campi. Ottenne questo grazie al padre Perrin, che la mise in contatto con il suo «amico di sempre», il vignaiolo-scrittore-filosofo culturale Gustave Thibon,89 che rispose di sì, prima di tutto nel desiderio «di non rifiutare nulla a un amico», e poi perché si trovava in «quell’età della vita in cui si è avidi di conoscenze nuove».90

Fin dalla sua prima lettera a Thibon, Simone mostra la «risoluzione incrollabile di impegnare tutto il suo essere nel cammino già tracciato dal suo pensiero: “Auspico ardentemente di poter fare tutto quello che esigeranno da me, senza beneficiare di alcun riguardo […]. Ciò che mi inquieta, non sono i seguiti di un tal lavoro […] ma sapere se sarò capace di eseguirlo…”»

Simone Weil, la donna che mirava all’assoluto, voleva una volta ancora, facendo del suo corpo uno strumento, un «bastone da cieco» (immagine che ritorna nei Cahiers), imparare cosa diventano l’anima e il pensiero in un essere del quale un lavoro penoso e obbligatorio esaurisce senza tregua il tempo e le forze: «Desidero che il mio tempo e il corso dei miei pensieri, nella misura in cui dipendono dal corpo, siano sottomessi alle stesse necessità che pesano su qualsiasi garzone di fattoria; voglio dire alla fatica e ai compiti imposti…»

La relazione corpo-mente era per lei molto chiara: «penso che la cultura intellettuale, lungi dal dar diritto a dei privilegi, costituisca di per sé un privilegio quasi impressionante che comporta come contropartita responsabilità terribili […] voglio rendere testimonianza a me stessa che penso così, mettendomi, almeno per un periodo, sotto il peso che per tutta la vita sopportano coloro che non hanno parte alcuna a quel privilegio…»91

Il legame da capire con tutto il proprio essere, è l’incarnazione, che Simone definisce «la pienezza dell’armonia». Perché? Perché è la possibilità di unire il proprio pensiero al pensiero di Dio. E: «Chi pensa in modo più separato dell’uomo e di Dio?»92 La fede fa che l’uomo operi il grande passaggio verso Dio, dandoci la visione della «docilità della necessità al bene, docilità miracolosa» (incarnazione della seconda persona divina come «Verbo ordinatore del mondo») «da cui procede la bellezza [del macrocosmo]».93 Si constata allora che la fede nell’incarnazione come realtà può essere soltanto «la pienezza dell’armonia».94 Qui sta la risposta del microcosmo al macrocosmo, dell’io alla realtà.

La meditazione vissuta sulla realtà è stata, fin dall’inizio della sua vocazione alla verità ad ogni costo (che risale ai suoi quattordici anni [Attente de Dieu — «Autobiographie spirituelle»]), al centro della sua auto-educazione. Tramite il pensiero, l’azione e la scrittura, giungeva a constatare: «Realtà. La realtà non è mai data […] Ciò che è reale non è dato. Tuttavia nemmeno quello che io fabbrico è reale. Il reale è ciò che ha un certo rapporto con quello che è dato95

Questa relazione, ecco il mistero da vivere, il mistero con il quale aderire al mistero della nostra esistenza e al senso della bellezza, nell’ordine del mondo, nell’arte, nella giustizia. Attraverso un «succedersi di porte (come nelle iniziazioni) »,96 l’attenzione «afferra la realtà».97

La scrittura, lavoro quotidiano per gli allievi di Alain («due ore al giorno allo scrittoio, genio o non genio», diceva), è l’esercizio d’incarnazione che farà emergere l’individualità più intima mettendola in rapporto con il mondo, il quale è «un testo a più significati, e si passa da un significato all’altro con un lavoro».98

L’attenzione-attesa attiva è il nocciolo dell’esercizio che Simone condivide con il padre Perrin nelle sue lettere, testimonianza del loro dialogo da estendere ad altri (questa la ragione per cui Perrin le pubblicherà nel 1950 a La Colombe, éditions du Vieux-Colombier) come pure tramite i saggi di teofilia ch’ella destina alla sua pastorale presso studentesse cattoliche.

«L’attenzione è l’occhio dell’anima.» E ancora: «L’attenzione assolutamente pura, l’attenzione che è soltanto attenzione è l’attenzione rivolta verso Dio, perché egli è presente solo nella misura in cui vi è attenzione. […] Ciò che afferra la realtà è l’attenzione, di modo che, più il pensiero è attento, più il suo oggetto è pieno di essere99

Dall’inizio del 1941, quando comincia la redazione quotidiana dei suoi Cahiers fino alla metà di aprile 1943, quando sarà ricoverata all’ospedale Middlesex di Londra, il rapporto di Simone Weil con il reale, che ci ha felicemente raggiunti tramite la sua scrittura, è intriso di questa specie di attenzione. Grazie alla quale «l’atto di esprimersi interiormente e l’atto di pensare sono lo stesso atto».100

Fra i suoi numerosi scritti laterali ai Cahiers (saggi, articoli, commenti, lettere, poesie) che si snodano fra l’inverno 1941-1942 e poi soprattutto in aprile-maggio (la lettera d’addio al padre Perrin datata da Simone Weil 15 maggio circa),101 mi fermerò soprattutto sulla lettera citata e sul saggio «Formes de l’amour implicite de Dieu».

I Cahiers sono le terre senza tregua arate («note per esercizi spirituali» li chiama giustamente Pascal David),102 del suo me personale e impersonale interrogato in rapporto con l’io fisico, psichico e desideroso della luce dello Spirito. Qui si trovano le sementi, i vivai, gli incroci di cultura, le prove d’innesto, le speranze dell’obbedienza e i successi dell’attenzione amorosa.

Terre in cui Simone cerca e trova il senso e il sentimento e l’intelligenza del desiderio «al centro del cuore dell’uomo»:103 desiderio mai saziato di un bene assoluto. Desiderio che prima di tutto bisogna imparare a riconoscere nella sua forza di bisogno, per dominarlo, adoprarlo, elevarlo. Che l’uomo si impadronisca della sua fame, poiché prenderne coscienza significa ritrovare al fondo di sé il problema religioso come una realtà inerente alla natura umana quale si esprime sulla terra. Ché il problema religioso coincide con il problema della scelta fra il bene e il male, scelta che l’essere umano si trova ad affrontare in azioni, pensieri, sentimenti e parole.

Alla fine del loro dialogo, cominciato il 7 giugno 1941, Simone Weil consegna al padre Joseph-Marie Perrin e, attraverso di lui, a noi, i suoi voluti destinatari di oggi, la storia di quella realtà nella sua vita, una realtà divenuta sostanziale dopo l’incontro di Solesmes. È il tema della Lettera IV della raccolta Attente de Dieu, da lei nominata «abbozzo di autobiografia spirituale» allo scopo di «procurare» al padre «un esempio concreto e certo di fede implicita».104 Ritrovando il proprio itinerario, ella ci comunica la coscienza di due piani: il piano dell’essere profondo e il mentale. Educata dai genitori e dal fratello in «un agnosticismo completo», non ha mai fatto il minimo «sforzo» per uscirne e nemmeno ne ha mai avuto il minimo «desiderio» («a ragione»105).

Tuttavia, «per così dire fin dalla nascita», ella sapeva, per cui nessuna delle sue colpe o imperfezioni «ha avuto per scusa l’ignoranza».106 Non ha mai cercato Dio, perché, fin dall’adolescenza, ha pensato che il problema di Dio è un problema del quale quaggiù ci mancano i dati. Quindi, non lo poneva per non rischiare di «dargli una falsa soluzione». «Non affermavo né negavo.» Trovandoci nel mondo, «da noi dipende l’adottare il miglior modo possibile di affrontare i problemi di questo mondo». C’è dunque il mondo, e l’adolescente che sente la propria presenza già come responsabile e che, per questo, non ha «mai esitato ad adottare» come solo modo possibile il modo cristiano. Di nuovo, si dice «nata» nell’«ispirazione cristiana». E poi vi è cresciuta dentro, avendo in sé le nozioni più specifiche che la concezione cristiana comporta «risalendo nel tempo ai [suoi] primi ricordi».107

La nozione chiave, sfondo sul quale si possono proiettare le immagini della vita, le azioni, è la morte. Simone Weil, persino quando era «bambina e si credeva atea e materialista»,108 ha sempre creduto che «l’istante della morte [è] la norma e lo scopo della vita» poiché, per coloro che vivono come si conviene, è «l’istante in cui per una frazione infinitesima del tempo la verità pura, nuda, certa, eterna entra nell’anima».109

La dimensione della morte è il silenzio fra due suoni, l’istante in cui l’ascolto del divino è possibile nell’attenzione suprema. È qui che per lei ha avuto luogo l’unione fra il mentale e l’essere profondo, nella decisione della vocazione, che impone azioni rigorosamente personali; ella le vede scaturire da «un impulso essenzialmente e manifestamente diverso dagli impulsi originati dalla sensibilità o dalla ragione». Non seguirla, anche se ordinava cose impossibili, è sempre sembrata a Simone «la più grande delle sventure». È così che ella concepisce l’obbedienza, nel punto in cui la volontà dell’essere profondo si piega all’ispirazione eterna e guida il mentale all’esecuzione degli atti «che non si possono non fare».110

Fra i suoi altri atti, tutti imperativi, spicca l’entrata in fabbrica, malgrado il suo stato di «dolore intenso e ininterrotto», il mal di testa così orribile da farla giungere alla decisione di un suicidio a scadenza. Per dieci anni (fra il 1930 e il 1940) la certezza di tale attesa la fa perseverare in sforzi d’attenzione «che quasi nessuna speranza di risultato sosteneva».111

È allora che ha avuto luogo l’incontro: Simone è stata «presa» da Cristo, «non solo implicitamente ma consapevolmente».112 Tutte le virtù che ben presto aveva inglobate nel nome di verità, spirito di povertà, purezza, accettazione, amore del prossimo, virtù la cui nozione le aveva dato l’impressione di essere nata all’interno del cristianesimo, la fanno riflettere sulla possibilità di un’adesione esplicita al dogma cristiano con il battesimo. La questione del battesimo è appunto il tema centrale del dialogo fra Simone Weil e il padre Perrin fra il 7 giugno 1941 e il 26 maggio 1942, rispettivamente il giorno della prima visita di Simone al padre a Marsiglia e la data dell’ultima lettera ch’ella gli invia da Casablanca, in partenza per gli Stati Uniti.

L’intermediaria dell’incontro è la bellezza, essenzialmente la bellezza del canto gregoriano a Solesmes (da lei desiderato) e la bellezza di una poesia inglese del XVII secolo: Love (che le fu trasmessa dal «the angel boy»). Nel 1938, durante i riti della Settimana Santa, «la bellezza inaudita del canto e delle parole» si unisce all’attenzione di Simone, dandole «una gioia pura e perfetta» al di là della sua «miserabile carne» ch’ella giunge a «lasciare soffrire da sola, accucciata nel suo angolo». Così pure, la recitazione della poesia, che Simone compie «aderendo con tutta l’anima alla tenerezza che racchiude», le permette di uscire dalle sue violente crisi di emicrania. Se l’esperienza del canto gregoriano le permette, «per analogia, di capire meglio la possibilità di amare l’amore divino attraverso la sventura», la recitazione della poesia provoca il contatto diretto: «Nel corso di una di quelle recitazioni […] Cristo stesso è disceso e mi ha presa.»113 Nella poesia, l’amore stesso serve l’invitato miserabile, che si sente coperto di polvere e di peccato e si crede indegno di gustare il nutrimento che gli manca. L’Amore sorridendo consola l’invitato spaurito, perduto di vergogna. Lo conosce bene: «Chi ha fatto questi occhi se non io? — È vero, Signore, ma io li ho insozzati […] — E non sai tu forse, dice l’Amore, chi ne ha preso su di sé la colpa? … Così mi sedetti e mangiai.»114 Tutto è perdonato. Simone accetta il nutrimento dell’Amore.

Tramite la facoltà d’amore soprannaturale, è approdata a «l’irriducibile», che è presente in «tutte le parti della vita umana» quanto, per esempio, nell’«eucarestia». L’irriducibile, il mistero, l’inconcepibile «nel bello — il mare, il cielo… Come nel dolore fisico». «Esistenza di altro da me».115

7. L’amore implicito di Dio

Accettare il nutrimento dell’Amore coincide con la fede.

La fede è un orientamento verso la giusta lettura del reale e fa fiorire la speranza, che è «l’intrepidità nelle cose spirituali».116 Queste percezioni, che formano la «conoscenza soprannaturale»117 contribuiscono a fare emergere l’essere profondo, a espanderlo, a fargli sentire che la sua libertà è lì, radicata all’interno. La libertà si trova all’intersezione fra la natura animale dell’uomo, dominata da «la necessità meccanica», e la sua anima che potrà farlo sfuggire a quella necessità in modo proporzionale al posto ch’ella darà al «soprannaturale autentico».118

Il soprannaturale, è il seme che, una volta germogliato nell’anima, cresce e si ramifica in tutto l’essere di Simone. L’interpretazione sacra, religiosa, nel senso di legame fra l’umano e il divino, illumina e approfondisce in una dimensione prismatica tutti i pensieri, orientamenti, intuizioni, esperienze interiori (inclusi atti e libri) che Simone annota nei suoi «Cahiers de Marseille» e in seguito «d’Amérique» (del settembre-ottobre 1942) come pure nei suoi saggi spirituali destinati all’uso pratico tramite il padre Perrin.

Simone scrisse questi saggi (pubblicati in Attente de Dieu) in un mese e mezzo, stimolata dall’approssimarsi della sua partenza (di fatto, lascerà Marsiglia con i genitori il 14 maggio 1942, giorno dell’Ascensione). Essi sono: «Réflexions sur le bon usage des études scolaires en vue de l’amour de Dieu», «L’amour de Dieu et le malheur», «Formes de l’amour implicite de Dieu», «À propos du Pater» e anche il suo testo «Les Fils de Noé»… senza parlare di altri testi pubblicati in Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, fra i quali «Le christianisme et la vie des champs».

Ritornata dalla vendemmia con buone referenze certificate dai suoi datori di lavoro, contava su un nuovo ingaggio, che le era stato promesso per tutto l’anno. Ma il proprietario disdisse, a causa delle difficoltà alimentari del momento. Simone ne fu delusa e rinnovò la sua domanda a Thibon. Comunque la sua tregua doveva continuare.

Inizio novembre 1941. Il dialogo con Perrin riprese e, in un certo senso, cominciò a «essere un vero dialogo nella mutua fiducia e negli scambi approfonditi». Questo dipendeva in particolare dalla «trasformazione interiore che era il segreto di Simone ma che un poco d’attenzione faceva facilmente percepire, anche se la causa ne restava celata». L’amicizia comune per Thibon creava una più forte vicinanza. In più, avrebbero avuto l’occasione di constatare il loro accordo su vari argomenti, in particolare la Resistenza. Nel novembre 1941, i diffusori dei Cahiers du Témoignage chrétien cercarono il contatto con Perrin, che vide in questo una possibilità di compiere il «dovere di grande urgenza verso il Vangelo di opporsi alle intenzioni criminali di Hitler nella sua volontà di genocidio degli ebrei». Propose il primo «Cahier» «il cui titolo era tutto un programma: Francia, attenta a non perdere la tua anima, del padre Fessard (si conobbe il nome dell’autore solo dopo la guerra) a Malou David119 allora ventunenne, tormentata dalla responsabilità che l’inazione rischiava di provocare di fronte al pericolo spirituale rappresentato dal nazismo».120 Malou accettò; era una missione difficile, perché si trattava di creare una rete di diffusione non solo a Marsiglia, ma nei sei dipartimenti del Sud-Est. Malou aveva bisogno d’aiuto. «Fu allora che pensai in tutta naturalezza a Simone Weil, nella quale potevo avere la massima fiducia e di cui sapevo la premurosa disponibilità per una tale causa. Organizzai un incontro fra Malou e Simone, incontro che si svolse nel parlatorio del convento, probabilmente il 21 dicembre 1941.»121 Secondo Malou, «Simone non ha soltanto aiutato “alcuni” ebrei in difficoltà, non ha soltanto distribuito “alcuni” Cahiers, ella è stata alla base stessa dell’organizzazione e della diffusione per i sei dipartimenti del Sud-Est; senza di lei, io non avrei accettato una responsabilità così pesante, in quanto incapace di portare tale compito a buon fine». E ancora: «Come tradurre in frasi lo straordinario fascino che Simone esercitò sulla ragazza di dieci anni più giovane di lei che io ero allora? Come tutto questo è lontano dall’idea che se ne fanno alcuni! Simone era un essere eccessivo, pieno di umorismo, di una grandissima affettività con certe “debolezze” — (penso al suo bisogno di sigarette, era davvero “in astinenza”) — che ne facevano un essere umano in tutte le dimensioni dell’umano.» Quel fascino… «Mi basta di vedere più da vicino il viso di Simone, i suoi occhi, per avere l’intuizione di quella straordinaria “cassa di risonanza” per tutte le sventure del mondo che, per me, era il segreto della sua personalità. Dotata dell’intelligenza che sappiamo, lei non accettava i rimedi che alcuni credono di poter proporre in modo un po’semplicistico; la sua mente vedeva alto e lontano, profetizzando gli inconvenienti a venire (il termine profetizzando è mal scelto, perché tutto in lei era razionale e soprattutto di un’incredibile lealtà verso di sé). Simone disturbava; è talmente più semplice scegliere una via e tenervi fede.»122

Le sue letture furono penetrate di una luminosità nuova: sentì in Platone «un mistico» e l’Iliade «bagnata di luce cristiana»; la Bhagavad-Gita, che aveva suscitato il suo entusiasmo nella primavera 1940 (epoca in cui comincia la redazione della sua tragedia Venise sauvée e traccia un «Projet d’une formation d’infirmières de première ligne» che perorerà senza darsi pace), quel poema dalle «parole meravigliose e di suono talmente cristiano» le fece sentire che «dobbiamo alla verità religiosa […] una specie di adesione ben altrimenti categorica di quella accordata a un bel poema».123

Fu così che, perché altri potessero trarre profitto dalle ricerche (soprattutto nella filosofia, l’arte e la scienza greche, delle quali ella percepisce l’unità e gli aspetti premonitori del cristianesimo; notiamo che «soltanto a Marsiglia Simone Weil si mette a ricopiare nei suoi quaderni passi di Platone in greco»124) e dalla grande cultura di Simone, il padre Perrin organizzò durante l’inverno 1941-1942 «incontri amichevoli in cui ella ci leggeva alcuni testi greci per quel pubblico avido anche se esiguo». Gli incontri si svolgevano in una «saletta concessa dal convento» dei domenicani.125 Durante gli ultimi incontri di Simone con il padre, auspicati il 16 aprile, quando aveva scritto a Perrin: «Se potesse fare in modo che noi ci incontrassimo per parlare a nostro agio di quella scelta di testi sarebbe bene»,126 poterono lavorare insieme al progetto di una raccolta che è comparsa in due libri «purtroppo pubblicati separatamente».127 Si tratta delle Intuitions préchrétiennes128 e di La Source grecque.129

È nella stessa epoca che, spinta dal nuovo urgere di una partenza alla quale si abbandonava «con angoscia»,130 per la salvaguardia dei suoi e auspicando di fare accettare il suo progetto delle infermiere, scrive i suoi «grandi testi» (Perrin), strettamente legati ai testi greci e alle sue spiegazioni-commenti della cripta. Continuamente, tutto si collega nel pensiero organico di Simone Weil.

8. Le “Forme dell’amore implicito di Dio” o la vita cosciente

Una tale vita è l’espressione dell’orientamento d’amore, essenzialmente dell’orientamento religioso dell’anima. L’anima ode il comandamento «ama Dio» prima del suo sì nuziale alla discesa di Dio nella sua persona. Ella vi sente un «dovere permanente» che non può avere Dio per oggetto poiché Dio non è presente. Lo si può nominare «amore indiretto o implicito di Dio» o ancora, secondo la parola piena di tenerezza di Simone, «amore avviluppato». Esso può avere soltanto tre oggetti immediati, i soli in cui Dio sia realmente presente seppure in segreto: le cerimonie religiose, la bellezza del mondo e il prossimo. Sono «tre amori» ai quali bisogna forse aggiungere l’amicizia.

Questo amore avviluppato può vivere in una creatura con grande forza e purezza per un tempo assai lungo, per molti «forse fino alla morte», dominare sotto l’una o l’altra forma secondo le circostanze, il temperamento e la vocazione. Così conviene al periodo preparatorio. I tre amori non scompaiono quando nell’anima sorge «l’amore esplicito di Dio»; se sono reali, «diventano infinitamente più forti» e tutto questo insieme forma «un solo amore».131 E «Ciascuna delle forme che tale amore assume, nel momento in cui tocca l’anima, ha la virtù di un sacramento».132

Si entra e si esce nel fremere di queste pagine (la trasmutazione organica che è propria allo stile dei Cahiers diviene qui fluido rigore) senza sforzo; per cerchi concentrici, si ritrovano tappe analoghe di percorsi differenti che sono un solo percorso, lungo una spirale di salita e di discesa fra l’essere umano e Dio. Nel punto centrale della spirale c’è Cristo, nell’Incarnazione di misericordia e di redenzione (aiuto al Samaritano, forza data al debole), nell’umanizzazione della materia tramite la bellezza del mondo, nell’ostia eucaristica, dove si trova alla più alta vibrazione della sua presenza reale e segreta.

9. L’amore per il prossimo

Non basta che la giustizia sia bilancia in equilibrio che stabilisce la regola degli scambi fra due volontà eguali. Quando vi è un forte, la volontà del quale sola conta, e un debole che è come una cosa, ci vuole «la virtù soprannaturale di giustizia [che] consiste, se si è superiori nel rapporto ineguale delle forze, nel comportarsi esattamente come se ci fosse uguaglianza».133

E questo in tutti i particolari di accento e di atteggiamento, perché un particolare può bastare a ricacciare l’inferiore allo stato di materia ch’egli sente naturalmente come il suo (ricordiamoci di coloro che in fabbrica non contavano nulla e come Simone aveva voluto mettersi al loro posto). Se si è l’inferiore, la stessa virtù consiste nel riconoscere che «la generosità dell’altro» è la sola causa di quel trattamento, ossia di provare riconoscenza. Vi è stata «l’identificazione assoluta della giustizia con l’amore» che sola rende possibili, da un lato, «la compassione e la gratitudine» e, dall’altro, «il rispetto della dignità della sventura nello sventurato da parte di se stesso e degli altri».134 Tale amore per il prossimo, provato dai giusti, come li chiama il Vangelo, ha per sostanza l’attenzione: un’attenzione creatrice, perché essa porge allo sventurato «la qualità d’essere umano di cui la sorte [lo] privava». Riproducendo nei suoi riguardi «per quanto è possibile a una creatura la generosità originaria del Creatore».135 O ancora: «Trattare il prossimo sventurato con amore, è qualcosa di simile al battezzarlo.»136

10. L’amore per l’ordine del mondo

Come l’amore per il prossimo vissuto nella giustizia esige un uso soprannaturale della sventura, l’amore per l’ordine del mondo esige un uso soprannaturale della bellezza. L’armonia miracolosa dell’eguaglianza tra il forte e il debole era stata creata dalla rinuncia al potere (principio collegato al bene e a Dio al centro della persona umana). Ugualmente, come un bambino impara da noi a reprimere l’illusione di un potere totale di movimento riducendosi al «senso dello spazio», noi dobbiamo imparare a fare altrettanto riguardo al senso del tempo, del valore dell’essere; imparare che non abbiamo potere, ma «una responsabilità ».137 Tale coscienza sarà alla base della sua «Dichiarazione dei doveri verso l’essere umano».

Svuotarsi della propria falsa divinità e discernere tutti i punti del mondo come dei centri allo stesso titolo e il vero centro fuori del mondo, è consentire al regno della necessità meccanica nella materia e della libera scelta al centro di ogni anima. «Questo consenso è amore» che, nella sua «faccia» rivolta verso le «persone pensanti» è carità del prossimo e, nella sua faccia rivolta verso «la materia» è amore della bellezza del mondo. Tale bellezza non è un attributo della materia in sé, ma «un rapport [arsi] del mondo alla nostra sensibilità»:138 essa esprime la cooperazione della Saggezza divina alla creazione. Dio ha creato l’universo, e suo Figlio, il nostro fratello primogenito, ne ha creato per noi la bellezza: «La bellezza del mondo è il sorriso di tenerezza del Cristo per noi attraverso la materia.»139

Se comprendiamo quel sorriso malgrado la stanchezza di una giornata di lavoro fisico, dopo la quale il nostro essere sottomesso alla materia «porta nella carne come una spina la realtà dell’universo» (pensiamo a Simone vendemmiatrice in Ardèche), se noi amiamo quella bellezza attraverso lo studio e la ricostruzione del mondo in una scienza che abbia per base la contemplazione, se noi cerchiamo di imitare quel sorriso in un’arte che, tentando di trasportare in una «quantità finita» di materia una immagine della bellezza infinita dell’universo, non nasconde questo universo ma ne rivela la realtà, allora noi proveremo quell’amore. Nel sentire dentro di noi il legame fra «Dio disceso nella nostra anima» e «Dio presente nell’universo». Questo amore ha qualcosa di un sacramento.140

Il senso del bello, benché deformato e contaminato, resta «irriducibilmente» nel cuore dell’uomo come «un movente pieno di potenza». Tale inclinazione naturale è alla radice di ogni «amore carnale», dalla lussuria più sordida al matrimonio più santo; essa ispira ogni avidità di denaro, di lusso, di potere. Poiché, per l’amore carnale, «il desiderio di amare in un essere umano la bellezza del mondo è essenzialmente il desiderio dell’Incarnazione».141 E l’amore del potere risale al desiderio di stabilire intorno a sé un ordine, in un quadro grande o piccolo, d’imprimere a un certo «ambiente finito un assetto che dia l’impressione della bellezza universale».142 Ma la bellezza universale c’è; non bisogna né mascherarla, né imprigionarla, né ridurla. San Francesco (Simone se n’era innamorata al primo incontro), la cui vita intera fu «perfetta poesia in azione»,143 si metteva in contatto con quella bellezza «assolutamente vuota di finalità», da vagabondo e da mendico.144 È proprio attraverso l’esempio di san Francesco che si può capire quale posto potrebbe oggi avere nel pensiero cristiano la bellezza del mondo. Oggi, quando potremmo pensare che la razza bianca abbia perduto ogni sensibilità alla bellezza del mondo. Eppure, essa è l’unica «via» attraverso la quale sia possibile lasciar penetrare Dio.

11. L’amore per le pratiche religiose

Abbiamo potuto vedere che sono sempre approfondimenti di coscienza quelli a cui siamo invitati, per raggiungere il luogo del nostro vero incarico di intermediari fra questa realtà e «l’altra». Così avviene per le pratiche religiose; quella che conta è la nostra reale comprensione della loro funzione, e tale comprensione è legata al nostro rapporto soggettivo con la religione, che da un lato è la religione istituita in cui siamo nati, dall’altro, la fede nel senso più forte della parola. L’amore per la religione istituita, benché il nome di Dio vi sia necessariamente presente, è una forma implicita d’amore di Dio, quanto l’amore per il prossimo e l’amore per la bellezza del mondo. Può prendere forme diverse nell’anima di un essere umano, secondo le circostanze della sua vita; talvolta può essere rifiutato e impedito a causa delle sofferenze subìte ad opera della «crudeltà, orgoglio o corruzione» di alcuni ministri di quella religione, oppure per l’influenza di un ambiente natìo permeato di rifiuto. Normalmente questo amore ha per oggetto la religione dominante del paese o dell’ambiente in cui siamo stati educati; questa religione è come la lingua materna e s’intesse a un’abitudine che entra «nell’anima con la vita».145 Ogni liturgia essendo una forma della «recitazione del nome del Signore», ci si abbandona ad essa con più grande fiducia nella propria lingua natìa.

«La religione è un cibo».146 Per apprezzarla, bisogna averla mangiata. E per mangiarla, bisogna accordarle «tutta la propria attenzione, tutta la propria fede, tutto il proprio amore». Solo allora, potremo trasportarci per la miracolosa virtù della simpatia, al centro stesso di altre religioni che si vogliono conoscere e studiare. Tale simpatia, che, per l’amore del prossimo ignoto, s’innesta sulla capacità di amicizia, per il confronto tra le religioni s’innesta sulla capacità di fede. Allora soltanto potremo «intravedere», con un discernimento che sia sensibile all’analogia, «certe equivalenze nascoste» fra le diverse forme di vita religiosa, e capire che: «Ogni religione è una combinazione originale di verità esplicite e di verità implicite [e] solo colui che conosce il segreto dei cuori conosce il segreto delle diverse forme di fede.»147 Tuttavia si può dire che, di diritto, in modo diretto o indiretto, «la religione cattolica è l’ambiente spirituale natìo di tutti gli uomini di razza bianca».

Nella ferma fede che «la virtù delle pratiche religiose consiste nell’efficacia del contatto con ciò che è perfettamente puro, per la distruzione del male»,148 Simone guida i cattolici a contemplare la purezza al centro della loro fede: l’eucarestia. Nella sua presenza umana e carnale, il Cristo era altra cosa dalla purezza perfetta poiché ha biasimato colui che lo chiamava “buono” e ha detto: «È bene per voi che io me ne vada.» In un pezzo di pane consacrato, la sua presenza è più completa, nella misura in cui è più segreta.»149 E «assoluta» perché è «una convenzione ratificata da Dio stesso».150

La presenza sensibile della purezza perfetta è un bisogno per l’uomo, poiché egli può dirigere «la pienezza della sua attenzione» soltanto su una cosa sensibile. Tutti sentono il male in se stessi sotto una forma che è insieme «sofferenza e peccato», «la radice comune a entrambi […] insieme sozzura e dolore». «L’anima la respinge come si vomita»151 sulle cose che la circondano e queste gliela restituiscono accresciuta: la bruttezza del male. Un malato e la sua camera, un condannato e la sua prigione, troppo spesso un operaio e la sua fabbrica. Il mondo intero ne è avvelenato. È un’operazione di transfert. Ma, se al momento in cui l’anima è invasa dal male, «l’attenzione si porta su una cosa perfettamente pura trasferendovi una parte del male, questa cosa non ne è alterata» e ogni minuto di quella attenzione «distrugge» realmente un poco di male. Piuttosto che una distruzione, ha luogo «una trasmutazione». «La parte del male contenuto nell’anima che è stata bruciata dal fuoco di quel contatto diventa solo sofferenza, e sofferenza impregnata d’amore».152 È il transfert della Redenzione. E la carne, unendosi all’anima, vi recita il suo ruolo.

12. L’amicizia: lo sguardo che crea l’essere prescelto

In tutte queste espressioni della vita cosciente, le forme dell’«amore avviluppato» di Dio, è questione di un «certo sguardo» che è un ponte fra il consenso interiore al nostro particolare ruolo di intermediari e la realtà soprannaturale. Quello che deve dominare, è l’aspetto impersonale del nostro essere. Ma esiste un amore personale e umano che, se puro, racchiude «un presentimento e un riflesso dell’amore divino». Mentre la carità è disponibile in maniera «indiscriminata per tutti gli umani la cui sventura ci propone l’attenzione», l’amicizia nasce da una «preferenza personale».153

Spesso Simone chiama amicizia l’amore fra uomo e donna; la sua visione dell’amore risale alla stessa matrice della sua aspirazione alla verità. Nel 1934, scriveva a un’allieva che il problema centrale inerente all’amore in quanto «bisogno vitale»154 di un altro essere, è il conflitto tra la fedeltà all’amore e il bisogno di libertà. Per lei, il conflitto si era svolto nel segreto dell’essere: fra lei stessa e il suo progetto, fra lei stessa e il suo desiderio struggente d’amicizia.

La preferenza personale verso un essere umano determinato è dettata da questi due moventi: «O si cerca nell’altro un certo bene, o si ha bisogno di lui.»155 Quando un essere umano ti è in qualche misura necessario, non può esservi con lui amicizia. «Là dove c’è necessità stanno costrizione e dominio.» Dato che il bene centrale di ogni uomo è la libera disponibilità di sé, o vi si rinuncia e si commette il crimine di idolatria, o si desidera che l’essere di cui si ha bisogno ne sia privato. Simone evoca legami di affetto che sono gli attaccamenti duri come il ferro della necessità: l’amore materno, spesso; l’amore paterno del Père Goriot (la lettura di Balzac, cominciata presso Alain, era stata per lei fondamentale, anche nel suo insegnamento di filosofia); l’amore carnale nella forma che assume nell’Arnolphe della École des femmes (anche Molière era un altro dei suoi autori prediletti, perché lo considerava «puro») o nella Phèdre (la tragedia di Racine ch’ella giudicava di «prim’ordine»); l’amore coniugale per effetto dell’abitudine; più raramente l’amore filiale o fraterno. Poche cose raggiungono il grado di bruttezza di un attaccamento fra esseri umani che sia costituito dal solo bisogno. L’anima umana possiede tutto un arsenale di menzogne per proteggersi da quella bruttezza e inventare ogni sorta di falsi beni. Quando, in un legame di affetto, esiste necessità, è impossibile che un essere umano desideri «a un tempo la conservazione dell’autonomia in se stesso e nell’altro». Impossibile in senso naturale, ma possibile per l’intervento miracoloso del soprannaturale. «Questo miracolo è l’amicizia.»156

Nell’amicizia occorre una certa reciprocità di «benevolenza» e insieme l’assenza completa del desiderio di piacere o del desiderio contrario. I due amici accettano completamente di essere due. Ecco perché l’amicizia pura, insieme all’affetto, ha in sé qualcosa di una completa indifferenza. Ha «qualcosa di impersonale». Simone pensava a questa specie di amicizia come al fondamento nuovo di tutti i rapporti umani: «L’amicizia ha qualcosa di universale. Consiste nell’amare un essere umano come si vorrebbe poter amare in particolare ciascuno di coloro che compongono la specie umana.»157

«Amatevi gli uni gli altri», diceva Cristo ai suoi discepoli, comandando loro di trasformare i legami della loro vita in comune in amicizia pura. Era un comandamento nuovo e Cristo lo ha aggiunto a quelli dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo poco prima della sua morte: si può dunque pensare che anche l’amicizia pura racchiuda qualcosa di simile a un sacramento.

13. Verso l’amore esplicito

Tutti questi amori sono soprannaturali, e in un certo senso assurdi, e folli. Finché l’anima non ha avuto diretto contatto con Dio, non possono poggiare su nessuna certezza. Tali amori indiretti sono soltanto degli «atteggiamenti amorosi» verso gli esseri e le cose di quaggiù dell’anima orientata verso il bene. Nel periodo di preparazione, l’anima ama a vuoto, sa soltanto che ha fame. «La realtà della sua fame non è una credenza, è una certezza.»158 A poco a poco, raggiunge la conoscenza che non esiste quaggiù bene che possa saziare la sua fame. «Tale conoscenza è mortale più di una spada. […] Con il tempo uccide in noi tutto ciò che chiamiamo io. Per sopportarla, bisogna amare la verità più della vita.»159

Coloro che sono così, non possono dapprima che restare immobili nelle «tenebre totali» (la fede, condizione indispensabile di ogni «progresso spirituale», è «dapprima tenebrosa e senza luce»: questo dice in altro saggio)160 senza distogliere lo sguardo, senza cessare di ascoltare, incrollabili sotto i colpi, urlando il loro desiderio quando il desiderio è troppo forte. Se Dio lascia presagire la sua luce, o anche si rivela in persona, non è che per un istante. Bisogna continuare ad aspettare, restando senza tregua Ýõ ýðüìïõÞ (en hupomonè).161 Il solo tradimento, anche prima di una tale rivelazione, «è il mettere in dubbio che Dio sia la sola cosa che merita di essere amata». È il distogliere lo sguardo. Il continuo apprendistato dell’attenzione in ogni campo conduce a pensare che «L’amore è lo sguardo dell’anima».162 Si giunge allora a vedere, udire e toccare con l’anima stessa la realtà in Dio di quegli amori indiretti. Un’anima riceve un’impressione di bellezza non sensibile, il silenzio diviene cosa infinitamente più reale dei suoni.

Dio è anche il vero prossimo: è colui che si china su di noi, «noi infelici ridotti a un po’di carne inerte e sanguinante», sul ciglio della strada (come nella parabola del Buon Samaritano, ch’ella ha rivissuta come esempio nell’amore per il prossimo), ma è anche quell’infelice corpo inanimato, anonimo e sconosciuto.

«L’amore che noi dobbiamo a Dio, e che sarebbe la nostra perfezione suprema se potessimo attingervi, è il modello divino della gratitudine e della compassione.»163 Dio è anche l’amico per eccellenza, perché ha voluto mettere nelle sue creature un assoluto, «la libertà assoluta di consentire o no all’orientamento ch’egli ci imprime verso di Lui», una libertà che consiste anche nella nostra facoltà di illusione, ad opera della quale, attraverso i nostri errori e le nostre menzogne, dominiamo falsamente nell’immaginazione l’universo, gli uomini e Dio stesso, «fino a quando non sappiamo fare un giusto uso di questo nome».

Così, «il contatto con Dio è il vero sacramento», il significato di tutti gli altri. È soltanto dopo «l’incontro fra l’anima e Dio» che il prossimo, gli amici, le cerimonie religiose, la bellezza del mondo diventano cose reali. «Prima, non c’era nessuna realtà.»164

14. Il Lascito all’Umanità

Se ci chiniamo sui suoi Quaderni di New York (giunti per la prima volta alla nostra attenzione, nel 1950, con il titolo La Connaissance surnaturelle) in cui Simone poté ricominciare a scrivere dopo due mesi e mezzo di pratiche (lettere, visite, implorazioni) vane e angosciate per il suo progetto delle infermiere, troviamo questo pensiero rivelatore: «Sappiamo per esperienza che la verità è esclusivamente universale, e che la realtà è esclusivamente particolare, tuttavia sono due inseparabili, anzi fanno una cosa sola.»165 Pensiero rivelatore in quanto punto d’arrivo del suo rapporto con la verità, lo scopo primo della sua ricerca vocazionale (fin dai suoi sedici anni), come pure del suo rapporto con la realtà ch’ella aveva voluto attraversare in un pellegrinaggio a mani e piedi nudi nella sventura sociale (la fabbrica e la guerra). Lì troviamo riunite l’anima e la carne.

Qual è il posto di ognuno nella realtà, nella creazione? «La creazione è un tessuto dei pensieri particolari di Dio. Noi siamo un nodo di questi pensieri […]. Bisogna che tutti i pensieri nostri, ossia tutti i rapporti della nostra anima con le cose passate, presenti o avvenire a noi unite da qualche rapporto, bisogna che ognuno dei nostri pensieri coincida con un pensiero particolare di Dio.»166

Simone, che era andata fino in fondo alla sua «volontà di essere» e alla sua «volontà di agire», elementi profondi del femminile e del maschile in lei,167 rifiutando ogni culla e ogni cornice, dopo l’incontro con Cristo ha accettato il nutrimento dell’anima, il suo viatico. Penetrata da questo nutrimento di luce, l’opera che è la sua vita, distillerà la sua qualità. Per noi quest’opera si trasmette tutta nei suoi scritti, che ne sono il frutto diretto. Ecco perché, con lei, si può parlare essenzialmente di nutrimento nel senso di scambio vitale.

Due sono i frutti principali della sua fecondità in questa epoca estrema della sua breve esistenza sulla terra: un «Projet d’une formation d’infirmières de première ligne» e il suo «Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain» che è il progetto di una nuova Costituzione.

L’idea del progetto delle infermiere risaliva al 1939, epoca in cui aveva cominciato a presentarlo al ministero della Guerra, coltivandolo in seguito fino al 1940 (primavera: epoca della sua redazione). Dopo lunghe attese, era stato considerato con favore, e lei aveva accettato di partire per gli Stati Uniti, seguendo il consiglio del fratello André, già sul posto con la moglie Éveline, solamente se quel viaggio «ne avesse permesso la realizzazione».168 Ella aveva reclamato da lui la promessa formale di autorizzazioni ufficiali. Invece, già al suo arrivo a New York, si trovò di fronte alle recise informazioni di André: il suo passaggio in Inghilterra, indispensabile alla realizzazione del progetto, era molto difficile, per non dire impossibile. Fu un vero e proprio colpo, dopo il quale, perduta ogni capacità di scrivere, gettò tutte le proprie energie nella ricerca di un ascolto. Cominciò con lo scrivere a Maritain, affinché egli potesse ottenerle dei contatti con le autorità, fino all’ambiente di Roosevelt, rivolgendosi poi all’ammiraglio Lehay, che comandava lo stato maggiore particolare del presidente. Maritain trovò l’idea alta e nobile, non sapeva se realizzabile; avrebbe fatto il possibile per aiutarla. Lehay fece subito rispondere che il piano era stato sottoposto all’esame degli uffici competenti. Contemporaneamente, ella decise di rivolgersi ad antichi compagni di studi che a Londra facevano parte delle forze francesi libere, fra i quali Maurice Schumann. Fondamentali, due lettere a quest’ultimo, l’una inviata per posta e l’altra tramite il capitano Mendès France.

Il progetto prevedeva l’arruolamento di piccoli gruppi di volontarie per un pronto soccorso nelle zone più pericolose del fronte. La preparazione necessaria era di rapida realizzazione; le indispensabili qualità morali («di un genere che non si acquisisce») si sarebbero palesate al primo esame. Simone sosteneva quanto segue.

A prima vista «impraticabile perché nuovo», in realtà il progetto è facile da mettere in opera.

Basta partire da un «piccolissimo nucleo di volontarie» che in caso di riuscita si può accrescere, suscitando l’organizzazione necessaria. Il fallimento potrebbe dipendere solo dall’incapacità di queste donne ad assolvere il loro compito. Le cose da temere sono due: che il coraggio di queste donne venga meno nella battaglia, e che la loro presenza fra i soldati abbia un effetto nocivo sui costumi. Ma non avremo nessuna delle due cose se le volontarie saranno di una qualità corrispondente alla loro decisione. Cioè, se avranno la freddezza virile di andare al di là di ogni considerazione di sé in circostanze di estremo pericolo, e al tempo stesso la tenerezza materna necessaria per confortare i feriti e i moribondi.

Pronte a correre tutti i rischi dei soldati in prima linea, dovranno affrontarli «senza essere sostenute dallo spirito offensivo». Era questo il significato del progetto. Qui, oltre agli indubbi vantaggi pratici (immediatezza di soccorso medico e tempestività di conforto psicologico), risaltavano i vantaggi morali, di ben più vasta «portata simbolica» in rapporto alla condotta generale della guerra. Come Hitler ha capito per primo, «la necessità fondamentale [è] colpire l’immaginazione di tutti». A tale scopo, si è forgiato degli strumenti: le formazioni speciali, le SS, fatte di uomini pronti a morire, perché «animati da altra ispirazione che non la massa dell’esercito, una ispirazione che assomiglia a una fede, a uno spirito religioso».

Riconoscendo l’efficacia dei metodi hitleriani di propaganda, bisognava offrirne degli equivalenti. Si trattava di fare una propaganda analoga, basata su una ispirazione non idolatra, ma religiosa; «non nel senso dell’adesione a una chiesa determinata, ma in un senso ben più difficile da definirsi, al quale tuttavia solo questo termine conviene». Tale ispirazione «autentica e pura» poteva e doveva esprimersi con atti di un coraggio di «qualità diversa, più difficile e più rara». Era il coraggio capace di sostenere «lo spettacolo prolungato delle ferite e delle agonie». «Tale corpo da un lato e le SS dall’altro offrirebbero con il loro contrasto un quadro preferibile a qualsiasi slogan. Sarebbe la rappresentazione più abbagliante delle due direzioni fra le quali l’umanità deve oggi scegliere.»169

In seguito, dinanzi al progetto, de Gaulle avrebbe esclamato: «Ma è pazza170!», respingendolo senza appello.

André Philip, commissario del Comité national de la France libre, venne a New York in ottobre. Ebbe un colloquio con Simone; l’avrebbe presa fra i suoi collaboratori. La partenza era ormai decisa. Simone abbracciava spesso i genitori, con tenerezza più forte. Loro, che l’avevano sempre seguita di nascosto lungo le tappe perigliose della sua vita (Germania 1932, Simone a Berlino, loro ad Amburgo; Spagna 1936, a Barcellona, l’aspettano sulle Ramblas di notte al suo ritorno dal fronte con la gamba ustionata; poi, vedendola mal curata all’ospedale, la portano nella loro pensione e il padre la salva dalla cancrena), architettano piani. Simone si fece promettere che non avrebbero messo in opera nulla fino alla sua partenza. In una lettera del 4 novembre li raccomandò al fratello. «L’aspetto giovanile non impedisce che siano anziani e stanchi, e bisognosi di riguardi […]. Purtroppo la mia partenza sarà per loro un grosso dispiacere…»171

Intorno al 10 novembre, si imbarcò su un cargo svedese, il Vaalaren. I genitori non furono autorizzati a salire a bordo; le dissero addio in una specie di rimessa. Nel lasciarli, Simone disse loro: «Se avessi più vite, ve ne consacrerei una, ma ho una vita sola.»172

15. I tre metodi

A Londra, si presentò a Louis Closon, dell’ufficio di André Philip. «Dapprima era difficile distinguerla dai suoi indumenti di povera: tutto si confondeva in un’unica tonalità. Portava una lunga gonna di un marrone scolorito, e un maglione fatto da sua madre, come seppi poi da André e da Eveline Weil; ma io la vedo vestita di sacco, informe, il corpo fragile lievemente incurvato. Stanca all’apparenza, nell’atteggiamento e nella voce dal tono indugiante, interiorizzato.» Ma quegli indumenti di povera non erano un involucro esterno: Simone aveva integrato la miseria del mondo.

Tuttavia il suo sguardo «esprimeva energia, volontà, insieme ai rifiuti e alle esigenze della sua permanente meditazione. A tratti si irrigidiva visibilmente: allora, senza elevarsi, il tono della sua voce mutava per subito ricadere in più grave stanchezza». Cosa restava dell’antica normalista filosofa amante del canular? «Rare uscite ironiche, subito spente.»

Nei primi incontri, ai quali era presente anche Philip, i due uomini si sentivano a disagio.

«Quella creatura fragile aveva una dimensione che non corrispondeva alla nostra. Malgrado ogni nostro sforzo, la comunicazione con lei rimaneva difficile. Philip mi pregò di occuparmene per vedere in cosa e come occuparla.» I lavori di ufficio, anche se collegati in qualche modo all’azione nella Francia occupata «non le corrispondevano»; l’essenziale «era lasciarla libera di scrivere ciò di cui provava il bisogno».173

Il 1º marzo 1943, ella scriveva ai genitori: «Da quando sono qui, le mie ideuzze personali e la mia piccola concezione del mondo hanno continuato in una certa misura a presentare caratteri di proliferazione cancerosa. Il mio lavoro non disturba il processo, anzi, poiché esistono collegamenti; e la solitudine in cui vivo lo favorisce molto.»174

Ripensava tutta la storia della Francia e dell’Europa; l’aveva prevista e sofferta punto per punto: ora, la fine della Seconda Guerra mondiale, con la vittoria apparente degli Alleati, ma in realtà con la disfatta sia del sistema totalitario sia del sistema democratico, giungeva a un punto drammatico. La giovane francese, redattrice presso la France combattante, si faceva rinchiudere nell’ufficio e scriveva notte e giorno. Era urgente, per la «guarigione» dell’Europa. Bisognava scoprire e diagnosticare la «malattia interna» che la rodeva fin dalla guerra del 1914, senza mentirsi credendosi dalla parte della vittoria o della civiltà illuminata che ha vinto sulla barbarie. Simone Weil ne farà, direi, un testo-orizzonte, fondamento della sua «Dichiarazione dei doveri verso l’essere umano».

La causa principale della malattia esplosa in Europa è stata la soppressione del problema religioso nel cuore dell’uomo. Il problema religioso coincide con il problema della scelta fra il bene e il male, questa coppia di contrari che l’essere umano si trova da sempre a dover affrontare. Tramite la conoscenza e l’esperienza, ha creduto di aver raggiunto la libertà di poter fare a piacimento il bene e il male. Questa libertà è come «un carbone ardente» nella mano di un bambino che nel corso dei secoli ha tentato di sbarazzarsene; per questo ha utilizzato due metodi. L’uno è il metodo «irreligioso» che nega l’opposizione fra bene e male; essendo basato sul principio che «una cosa vale l’altra», tale metodo deruba l’uomo della sua «essenza stessa», che consiste nello «sforzo orientato», e lo precipita nella noia che ha sommerso l’Europa fin dalla guerra del 1914. L’altro è il metodo «idolatra», ossia religioso nel senso di un culto esclusivo nei confronti di una realtà sociale mascherata da divinità. Consiste nel delimitare un recinto in cui i due contrari, bene e male, non hanno «diritto di accesso», e imprigiona l’essere umano (scienziato, artista, prete, soldato) nell’illusione di essere dispensato da qualsiasi responsabilità etica al di fuori di quel recinto protettivo. Entrambi i metodi hanno portato l’Europa alla rovina, il primo generando la sua decomposizione, e il secondo provocando la distruzione totalitaria. Entrambi sono cause di follia, nel senso medico del termine. È la perdita dell’anima, dissolta dalla noia, degradata dall’idolatria. Per fortuna, tuttavia, l’idolo è soggetto a perire. L’illusione della potenza svanisce.

Simone Weil propone un terzo metodo: la mistica. «La mistica è il passaggio al di là della sfera dove il bene e il male si oppongono, e questo tramite l’unione dell’anima con il bene assoluto.» È una unione d’amore, reale, dopo la quale l’anima diventa «tutt’altra per sempre». Perché tale trasformazione venga operata, l’anima deve dare il proprio consenso a Dio. Cos’è Dio? È «l’infinitamente piccolo»: «il granello di senape, la perla nel campo, il lievito nella pasta, il sale nel cibo». «Nella vita di un popolo come nella vita di un’anima, si tratta soltanto di mettere questo infinitamente piccolo al centro.»175

Era la chiave di volta della «persona» intera, poiché «il fine della vita umana è quello di costruire un’architettura dell’anima».176

In L’Enracinement prospetta un’architettura della società che si sviluppi in modo analogo, basata sull’equilibrio dei rapporti fra il bene assoluto e i doveri verso l’essere umano (compresi se stessi).

16. «Professione di fede»

Per Simone Weil, il fondamento della nuova Costituzione si stabilisce sull’incontro fra due realtà: quella che è situata «al di fuori di tutto il dominio che le facoltà umane possono raggiungere» e «quella esigenza di un bene assoluto» che abita «al centro del cuore dell’uomo» e «non trova mai oggetto alcuno in questo mondo».

Riconoscere «l’altra realtà» che è «l’unico fondamento del bene» e questa «esigenza» umana e inoltre, il legame fra loro, è il solo mezzo di far discendere il bene «in mezzo agli uomini». Quello che unisce l’essere umano all’altra realtà è il legame del desiderio. Questo desiderio è tale che può divenire per ogni uomo un intermediario di rigenerazione pratica e interiore, per gli altri e per se stesso. Purché si trasformi in «attenzione e amore», passando dall’inquietudine incosciente, sempre proiettata invano su falsi valori, al consenso alla fame reale del vero bene.

Ed è tale esigenza di bene che rende tutti gli uomini identici, attraverso tutte le disuguaglianze di fatto, divenendo così il solo movente che possa indurci al rispetto universale. Poiché «l’attenzione orientata di fatto fuori dal mondo è la sola ad avere contatto con la struttura essenziale della natura umana. Essa soltanto possiede una facoltà sempre identica di proiettare luce su un essere umano, qualunque egli sia».177 Quaggiù, tale rispetto imbevuto di luce può avere soltanto una «espressione indiretta». Esso si rivela alla parte della creatura situata nella realtà di questo mondo e la sua espressione è resa possibile da «i bisogni terrestri dell’anima e del corpo.»

Tale espressione deve fondarsi sulla coscienza del legame, inerente alla natura umana, fra aspirazione al bene e sensibilità. Quando, a causa di atti od omissioni da parte degli altri uomini, la vita di un uomo è distrutta o mutilata da una ferita o da una privazione dell’anima o del corpo, ciò che «soffre» in lui non è soltanto la sua sensibilità, è anche la sua aspirazione al bene. «C’è stato allora sacrilegio verso ciò che l’uomo racchiude di sacro.»178

La possibilità dell’espressione indiretta del rispetto verso l’essere umano è il fondamento dei doveri verso di lui.

17. I «bisogni dell’anima»

Come per il suo primo «grand œuvre» o «testamento» del 1934, quelle «Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale» che il suo maestro Alain aveva giudicate «di prima grandezza»,179 anche per L’Enracinement ella parte dalla nozione di condizioni d’esistenza, cioè di dati di base per una evoluzione in un ambiente. In L’Enracinement, c’è una nuova serie di dati: i bisogni dell’anima. Non averne tenuto conto ha causato la malattia dell’Europa. Se, in Oppression et liberté, ella ne aveva scoperto i sintomi, qui ella è certa delle cause, pronuncia una diagnosi precisa in seguito alla descrizione clinica e indica una terapia.

La cura deve essere pensata in rapporto alla realtà strutturale dell’uomo. È lunga e difficile, ma indispensabile. Lunga, perché siamo mediocri e poco dotati per il pensiero; difficile, perché preferiamo mentire a noi stessi, non ascoltando i nostri disagi profondi e aderendo piuttosto ai falsi problemi; indispensabile, perché la guarigione dell’Europa significa provare che una maturazione positiva degli uomini sulla terra è possibile.

Qual è questa malattia? — Per la prima volta, Simone usa questo termine: sradicamento, cioè alienazione totale dell’uomo in rapporto a lui stesso. Basandosi su tutti gli avvenimenti interiori ed esterni della sua vita, ella fa l’analisi degli sradicamenti che hanno successivamente frammentato e impoverito l’uomo contemporaneo. Ne definisce tre: lo sradicamento operaio, lo sradicamento contadino, lo sradicamento geopolitico, ossia in rapporto alla «nazione». Dal punto di vista storico ella lo considera riguardo la Francia, ma ciò che dice dell’uomo in quanto essere umano si estende nel tempo e nello spazio fino ai nostri giorni.

Lo sradicamento ha luogo quando i bisogni dell’anima non sono soddisfatti. Dato che non sono mai stati studiati né definiti, la mancanza di un tale studio forza i governi «ad agitarsi a caso». Per prima, Simone «tenterà di definirli» per farne il fondamento del suo progetto di Costituzione.

I bisogni dell’anima rispondono ai doveri verso l’essere umano. Come i bisogni collegati alla vita del corpo, si esprimono quaggiù. Se non sono soddisfatti, «l’uomo cade poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno vicino a una vita puramente vegetativa».180

Il dovere fondamentale verso l’essere umano è il rispetto, che dev’essere «effettivamente espresso, in modo reale e non fittizio».181

Partendo da la fame, che è il bisogno fisico fondamentale e suscita l’obbligo più evidente, Simone enumera i bisogni fisici: essi riguardano la protezione contro la violenza, l’alloggio, i vestiti, il caldo, l’igiene, le cure in caso di malattia. E in seguito i bisogni morali, più difficili da definirsi.

In un primo studio, bisogna discernere i bisogni che, per la vita dell’anima, sono l’equivalente dei bisogni di cibo, sonno, calore per la vita del corpo. Non bisogna confonderli con i capricci, le fantasie, i vizi; riconoscere «le soddisfazioni diverse, ma equivalenti» da procurare loro; e infine, distinguere con cura dai nutrimenti i veleni che possono dare l’illusione di sostituirli.

Simone dà delle «indicazioni». Questi bisogni vitali possono, nella maggior parte, venir valutati per coppie di opposti che si equilibrano e si completano. Essi sono: l’uguaglianza e la gerarchia, l’obbedienza e la libertà, la verità e la libertà d’espressione, la proprietà privata e la proprietà collettiva, la punizione e l’onore, la sicurezza e il rischio. Alla base di tutti questi bisogni c’è il bisogno di ordine. Tutti confluiscono in un altro bisogno fondamentale, forse il più importante e misconosciuto: il bisogno di radici. È su questi due che voglio soffermarmi.

Il bisogno di ordine coincide con l’aspirazione al bene e con il desiderio di quella «saggezza» che vorremmo possedere per realizzare quella aspirazione, calandola in «un ordine umano vero». Il rispetto di tale obbligo fondamentale esige che «chiunque eserciti o desideri esercitare un potere»182 segua la Dichiarazione come regola pratica e tenti con la sua condotta di formare istituzioni atte a favorire la salute della società, ossia l’equilibrio individuale degli esseri umani che la compongono e l’equilibrio dei loro rapporti reciproci.

Le due azioni principali che si ispirino al rispetto da osservare in modo identico verso tutti gli esseri umani in quanto tali sono: il riconoscimento tangibile dell’uguaglianza e l’eliminazione della menzogna.

Al di sopra di tutto, infine, «l’anima umana ha bisogno di essere radicata in più ambienti naturali e di comunicare con l’universo tramite essi». Pensiamo alla patria, agli ambienti definiti dalla lingua, dalla cultura, da un passato storico comune, dalla professione, dalla località… «È criminoso tutto ciò che ha come effetto lo sradicare un essere umano o impedirgli di mettere radici.»183

Gli sradicamenti sono la somma delle «malattie morali da carenza»:184 la causa ne è l’insoddisfazione dei bisogni vitali dell’essere umano. Quale criterio seguire per discernerli? Il criterio che permette di riconoscere che in qualche luogo i bisogni degli esseri umani sono soddisfatti è una fioritura di fraternità, di gioia, di bellezza, di felicità. Dove esistono ripiegamento su di sé, tristezza, bruttezza, vi sono delle privazioni da guarire.»185

Cosa vuol dire per un essere umano avere radici? È il partecipare in modo «reale, attivo e naturale all’esistenza di una collettività che serba vivi certi tesori del passato e certi presagi d’avvenire». Non meno indispensabili sono gli scambi d’influenza fra ambienti diversi. Il radicamento e la moltiplicazione degli scambi sono complementari.186

Si trattava di doveri verso l’essere umano (compresi se stessi). Non di diritti di, e nemmeno di doveri di. L’obbligo del rispetto doveva legare fra loro «tutti gli esseri umani che compongono, servono, comandano o rappresentano una collettività, sia nella parte della loro vita legata alla collettività, sia in quella che ne è indipendente»,187 divenendo così «l’ispirazione pratica della vita del paese».

Tale obbligo, coloro che esercitino o desiderino esercitare un potere particolare, «politico, amministrativo, giudiziario, economico, tecnico, spirituale o altro» erano tenuti a «impegnarsi ad osservarlo come regola pratica della [loro] condotta», aggiungendo «alla formula del loro impegno: “… prestando una più speciale attenzione ai bisogni degli esseri umani che dipendono da me”».188

Poiché «l’uomo non ha alcun potere, eppure ha una responsabilità».189 Bisognava creare una rete di responsabilità viventi. Quindi, bisognava pensare a un «metodo per insufflare ispirazione in un popolo».190

18. Il radicamento

La «portata reale» delle trasformazioni sociali non era mai stata pensata con una coscienza chiara, perché quelle trasformazioni non erano state attribuite alle azioni e reazioni degli uomini. Il progresso era stato collegato a una «mitizzazione» delle forze produttive capaci di uno sviluppo illimitato della produzione, ossia delle cose. Al contrario, l’unico principio possibile del progresso sociale poteva essere soltanto «la buona volontà illuminata degli uomini che agissero in quanto individui».

Si trattava di vedere con chiarezza se tale buona volontà era in grado di affrontare le necessità sociali e di intervenire su di esse, prima di tutto definendo a titolo di «limite ideale» le condizioni oggettive che farebbero posto a una società senza oppressione, per tentare in seguito di trasformarle in modo da avvicinarle a quell’ideale. Allora soltanto l’azione politica potrebbe divenire qualcosa di analogo a un lavoro invece di continuare ad essere «sia un gioco, sia una branca della magia». Poiché «l’ideale è irrealizzabile allo stesso modo del sogno, ma, a differenza del sogno, ha rapporto con la realtà; esso permette, come ipotesi-limite, di collocare situazioni reali o realizzabili nell’ordine che va dal minimo al più alto valore».191

Questi pensieri, che corrispondono alla prima fase della sua meditazione sociale (le «Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale» del 1934), si prolungheranno con estrema coerenza nutrita insieme di lucida esperienza (verifiche della fabbrica, della guerra, del lavoro agricolo…) e d’ispirazione religiosa («amore implicito di Dio», contatto con Cristo) nella concezione di una civiltà degna di questo nome.

André Philip l’aveva incaricata di analizzare tutti i documenti che giungevano dalla Francia, provenendo principalmente da comitati della zona libera, col disegno di preparare il dopoguerra e «di organizzare la pace».192 Il 2 dicembre 1941 de Gaulle aveva creato a Londra quattro Commissioni nazionali per cercare soluzioni ai problemi nazionali e internazionali, sia economici, finanziari e sociali, sia di ordine giuridico e intellettuale, relativi alla politica estera. Simone avrebbe concretato quelle soluzioni in programmi immediati, quali la fondazione di un Consiglio supremo della rivolta, e in progetti di ampio raggio fondati su una dottrina sociale le cui intuizioni formeranno un libro, L’Enracinement. L’uomo sarà il dato centrale sul quale fondare ogni iniziativa.

D’altronde era stato sempre così per lei, fin dall’epoca delle sue «Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale». Ma, se allora l’uomo era l’individuo, colui che «pensa» e non ha mai cessato di sognare la libertà e doveva a se stesso il mutare il sogno in ideale per tentare un lavoro politico di trasformazione, ora egli era diventato un essere umano che doveva a se stesso il percepire il desiderio del «bene impersonale» al centro del suo «cuore». E, risalendo lungo questo desiderio verso un’altra realtà, che è «l’unico fondamento del bene», era un procedere a tale lavoro tramite una rete d’azioni dettate dall’aspirazione al bene. «Affinché il bene passi nell’esistenza, bisogna che il bene possa essere causa di ciò che è già interamente causato dalla necessità193

La concezione della politica doveva cambiare. A tale scopo, bisognava prima di tutto trasformarne la causa, cessando di considerarla come «la tecnica dell’acquisizione e della conservazione del potere». «Poiché il potere, essendo per essenza, natura, definizione solamente un mezzo, esso deve essere per la politica quello che è un pianoforte per la composizione musicale.»

Essa esige dunque una attenzione ai piani multipli delle situazioni dello stesso ordine del lavoro creativo dell’arte e della scienza. La politica decide del destino dei popoli e ha per oggetto la giustizia. Perché esigerebbe un’attenzione minore che non l’arte e la scienza, che hanno per oggetto il bello e il vero? Ora, quanto il linguaggio degli uomini è lontano dalla bellezza divina, quanto le facoltà dei loro sensi e della loro mente sono lontane dalla verità, altrettanto le necessità della vita sociale sono lontane dalla giustizia. Quindi la vita politica ha, quanto l’arte e la scienza, un uguale bisogno di sforzi d’invenzione creatrice.

Per insufflare l’ispirazione a un popolo, non esisteva un metodo (salvo in Platone, il problema non era mai stato posto). Come davanti ad una macchina che si ferma, al fine di capire quella interruzione, bisogna avere alla mente la nozione dei rapporti meccanici, così, davanti agli aspetti quotidiani della mutevole situazione francese, bisognava cominciare a guardarli avendo alla mente la nozione dell’azione pubblica come modo di educazione di un paese.

L’educazione, qualunque ne sia l’oggetto, consiste sempre nel suscitare dei moventi per fornire l’energia propria all’esecuzione di ciò che è vantaggioso, di ciò che è obbligatorio, di ciò che è bene. Simone pensa a tre mezzi di educazione fin qui ignorati: l’espressione ufficiale dei pensieri che si trovavano già realmente nel cuore delle folle o di certi elementi attivi della nazione; l’esempio; le modalità stesse dell’azione e delle organizzazioni da essa forgiate.

Le parole sono un nutrimento fonte di energia. (Penso al concetto chiave di Françoise Dolto: «Tutto è linguaggio.») Nella vita privata, tale nutrimento ci viene «dagli amici o dalle guide naturali» che chiariscono e rafforzano in noi pensieri interiori. Nelle circostanze in cui il dramma pubblico domina, tali pensieri possono lavorare sordamente nel cuore di quasi tutti gli esseri umani che compongono un popolo. Esprimerli risveglierà le

risorse profonde di ogni anima e susciterà la possibilità di un’azione che non è collettiva, ma resta “per essenza” personale [era la trasposizione dei pensieri e dei sentimenti sul piano impersonale]. Si ha bisogno di parole che iniettino il bene; bisogna che esse provengano da un luogo in cui abbiamo posto la nostra fiducia e che formino un linguaggio appropriato, che trae la sua autorità prima di tutto da una elevatezza di pensiero che sia commisurata alla tragedia attuale.

Per operare la scelta delle parole, occorreva una collaborazione costante fra «un organismo ricevitore» di osservatori in Francia e il governo di Londra. Le qualità indispensabili agli osservatori sono ancora attuali: un interesse appassionato per gli esseri umani e per la loro anima; una capacità di mettersi al loro posto e di fare attenzione ai segni muti dei loro pensieri; una certa intuizione della storia nel suo farsi; la facoltà di esprimere per iscritto sfumature delicate e rapporti complessi.

I due criteri di scelta: il bene nel senso spirituale della parola e l’utilità in quanto alla guerra e agli interessi nazionali della Francia.

Il postulato alla base del primo criterio, da esaminarsi a lungo, per adottarlo o rifiutarlo una volta per tutte, era: «Ciò che è spiritualmente bene è bene riguardo a tutto, sotto tutti gli aspetti, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza».194

Sulla base della stessa certezza conquistata «dopo mesi di tenebre interiori» nei suoi quattordici anni e che era sfociata nella sua «Professione di fede» a Londra, Simone pensava che occorresse fare un uso estremamente rigoroso del pensiero, un pensiero basato sulla fede in Dio. Cioè sulla certezza di un altro dominio, «al di sopra del dominio terrestre, impasto inestricabile di bene e di male». Lassù, «il bene è soltanto bene» e «produce soltanto bene». Ogni bene puro che ne discende ha proprietà analoga. Bisognava captare gli echi del bene, e rimandarli «instancabilmente», nella mediazione di parole il più possibile semplici e nude, senza altra verifica se non quella dell’autenticità.195

La realtà dei moventi è messa a prova attraverso le azioni, i cui modi stessi devono essere indicati con il massimo di ampiezza e di precisione, nella coscienza continua della virtù diretta e della virtù indiretta dell’azione. Si tratta di suscitare la virtù diretta: risultato, utilità strategica, di impedire l’esaurimento (da fatica, scoraggiamento…) dei moventi primi, e di favorire l’evoluzione benefica dei moventi successivi (il gusto dell’azione in sé). Intermediaria principale di diffusione: la radio. Anche qui, benché sia impossibile spingere gli altri e se stessi a collegare sempre azioni auspicabili ad auspicabili moventi, vi sono tuttavia azioni buone o cattive di per sé, atte a produrre bene o male nei moventi e nei sentimenti.

Due esempi molto chiari: «Se, per servire la Francia, si uccidono soldati tedeschi e in capo a un certo tempo l’assassinare creature umane diventa un gusto, è chiaro che questo è un male.» Oppure: «Se, per servire la Francia, si aiutano degli operai a evadere dai convogli diretti in Germania e in capo a un certo tempo il soccorso agli sventurati diventa un gusto, è chiaro che è un bene.»196 In senso generale, dunque: «Bisogna sempre scegliere i modi di azione che contengono gli spunti di un tirocinio al bene.»197

Poiché, è raro, ma «quando il bene è divenuto un movente attivo in un’anima, vi rimane come sorgente di un impulso che mai non varia né si esaurisce, ciò che non è mai il caso per il male».198

L’esempio, uno dei tre mezzi dell’educazione pubblica, li unifica tutti e tre.

19. I quattro ostacoli

Un metodo di educazione non è gran cosa se non si ispira alla concezione di una certa perfezione umana. Quando si tratta della «educazione di un popolo», una tale concezione deve essere quella di una civiltà intera.

È qui che l’ampiezza e l’acutezza della lettura weiliana giungono a toccarci, anzi a scuoterci ancora più profondamente, obbligandoci a guardare in faccia la nostra situazione attuale che, lungi dall’avere assimilato le terribili lezioni del malheur (sventura) proprio del XX secolo, ha ceduto alle sue illusioni e ai suoi accecamenti, ignorando con leggerezza la necessità dell’obbedienza ai limiti che ci sono imposti dal mistero e sperperando la libertà in vane e crudeli licenze. Tanto e così fortemente che l’attenzione del pensiero agli «ostacoli» che Simone Weil ci indica è rara, combattuta, distolta dalle ideologie: «Quattro sono gli ostacoli che soprattutto ci separano da una forma di civiltà suscettibile di avere un certo valore: la nostra falsa concezione della grandezza; la degradazione del sentimento di giustizia; l’idolatria del denaro; e l’assenza in noi di ispirazione religiosa199

La tara più grave: la nostra concezione della grandezza. È la stessa concezione che ha ispirato tutta la vita di Hitler. Lui l’ha desiderata con tutta la sua disperazione di sradicato e ha avuto il coraggio di realizzarla. Noi ci limitiamo a sottomettervi con bassezza la mente e, pur continuando a berla nella storia e a tramandarla nell’insegnamento, la condanniamo scandalizzati nei nemici e vilmente ce ne asteniamo nell’azione. Siamo soggetti alla forza, che sola ci costringe ad ammirare nel passato Napoleone, Cesare, Alessandro… Accettiamo la storia come obiettiva, quando invece essa non fa altro che subordinare il pensiero al solo genere di documenti che, per la natura delle cose, possono rimanere: le testimonianze dei vincitori. «I vinti spariscono. Essi sono niente.»200

Si parla di punire Hitler. Nessuna pena esiste per quest’idolatra della storia, che nella storia sopravvive per sempre. L’unico modo di punirlo e di distogliere i giovani assetati di grandezza dal seguirne l’esempio, è una trasformazione così totale del senso della grandezza che Hitler ne sia escluso. Tale trasformazione, prima di tutto bisogna compierla in noi stessi. Sarebbe «semplice» fare con se stessi il patto di ammirare soltanto le azioni e le vite «attraverso le quali splende lo spirito di verità, di giustizia e di amore». Tale spirito è eterno; «la sola distanza che separa da esso le azioni e i pensieri è il male». Una volta tenuto conto delle «circostanze», dei «significati» variabili degli atti e delle parole che sono ad esse collegate, del «linguaggio simbolico» proprio ad ogni ambiente, la crudeltà riconosciuta come tale (sia essa del X o del XIX secolo) deve fare orrore. Invece, «il dogma del progresso disonora il bene facendone una questione di moda».201

Il bene è ugualmente disprezzato nell’insegnamento delle lettere e delle arti. Circola fra bambini e gli uomini una verità passata a luogo comune: il talento non ha nulla a che vedere con la moralità. E solo il talento viene proposto alla loro ammirazione, il talento che in tutte le sue manifestazioni esibisce impudente la mancanza di quelle virtù che, d’altra parte, si raccomanda loro di praticare. Da ciò la persuasione che «la virtù è l’appannaggio della mediocrità» e diventa una parola ridicola, esattamente come le parole «onestà» e «bontà».

«Bisogna disprezzare la falsa grandezza» nello studio della storia che, «unito all’esperienza della vita» ci vale la conoscenza del «cuore umano». Bisogna cercare, con la massima precisione possibile, le testimonianze indirette della «purezza» rara e in gran parte nascosta che vi splende di quando in quando. E per le lettere e le arti, bisogna essere consapevoli che il talento non ha legami con la moralità perché non ha grandezza.

Sul piano della grandezza vera, fra perfetta bellezza, perfetta verità e perfetta giustizia, «vi è una unità misteriosa, perché il bene è uno».202 Non si può distinguere in Giotto il genio del pittore dallo spirito francescano, nei dipinti e nei poemi Zen in Cina, il genio del pittore e del poeta dallo stato di illuminazione mistica.

La degradazione del sentimento di giustizia è legata all’idolatria della forza e proviene dalla concezione moderna della scienza, responsabile come quelle della storia e dell’arte, di tutte le mostruosità attuali.

Da due o tre secoli crediamo di poter vivere insieme a una contraddizione che ci dilania. Da un lato, basandoci sulla scienza moderna quale è stata fondata da Galileo, Descartes… e proseguita nel XVII secolo soprattutto da Newton, nel XIX e nel XX, vediamo la forza come padrona unica della natura. D’altro lato, basandoci sull’umanesimo sorto nel Rinascimento, trionfante nel 1789 e ispiratore sotto forma degradata della Terza Repubblica, crediamo che gli uomini possano e debbano fondare i loro rapporti sulla giustizia riconosciuta dalla ragione.

In realtà, non viviamo; andiamo avanti alla cieca senza guardare in faccia alla contraddizione. Simone Weil indica tre confusi tentativi di risolvere la contraddizione che sono degenerati in errori. Tutti e tre credono nella magia di un «piccolo meccanismo meraviglioso». L’utilitarismo (con la sua espressione, il liberalismo economico) suppone che grazie ad esso, la forza produca immediatamente giustizia: l’unica condizione è che la forza sia sotto forma di denaro. Per il marxismo la forza è battezzata storia, e si esprime nella lotta di classe; la giustizia è relegata in un futuro cui far precedere una specie di catastrofe apocalittica. La nozione di razza eletta è stata scelta da Hitler al fine di piegare tutto, per stabilire poi fra i suoi schiavi «la specie di giustizia che si addice alla schiavitù». Tutte queste concezioni, in apparenza diverse, hanno la medesima tara: sono menzogne.

La forza, meccanismo cieco, non può produrre giustizia. Quindi, se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Invece è reale: «la struttura di un cuore umano è una realtà fra le realtà di questo universo, allo stesso titolo della traiettoria di un astro.»203

Allora la scienza ha torto. Bisogna dimostrarne l’errore e trasformarla, se si vuole cominciare a sperare in una civiltà migliore. È cosa essenziale, dato il prestigio immenso della scienza e degli scienziati. Tutti, increduli e credenti, sono asserviti alla scienza, che coincide da un lato con l’idolatria della forza, il cui simbolo attuale è il denaro, e d’altro lato, con l’assenza di ispirazione religiosa.

La scienza non merita il bel nome di «verità»; è una mera lista di conoscenze da allungare senza motivo. Poiché il desiderio di verità tramite la scienza non è più stato possibile da quando la concezione della scienza è divenuta quella di uno studio il cui oggetto si trova «al di fuori del bene e del male» e soprattutto «al di fuori del bene». Se la motivazione centrale è insufficiente, i moventi intellettuali che vi si aggiungono sono meschini: ad opera di uno stimolo analogo a quelli della caccia, dello sport, del gioco e spinti dal senso di prestigio conferito dalla tecnologia, gli scienziati si inebriano di sentirsi parte di una grande cosa. Ancora più meschini sono i moventi sociali: ci vogliono cattedre, onori, compensi in denaro. Continuando i costumi degli scienziati nel XV e nel XVII secolo, i quali si lanciavano sfide celando le fasi di una ricerca e confondendo il succedersi dei calcoli, così da garantirsi la precedenza di una scoperta, oggi, per la facilità delle comunicazioni, gli scienziati del mondo intero formano l’equivalente di un villaggio planetario, soggetto ai pettegolezzi e alle variazioni della moda. Perfino il grande pubblico percepisce che la scienza è il prodotto di una opinione collettiva e di conseguenza sottomessa ai suoi ordini e capricci. Tuttavia, non ne è scandalizzato. Ma, siamo «troppo abbrutiti per essere sensibili a qualsiasi scandalo». «Soffriamo veramente della malattia d’idolatria; è così profonda da togliere ai cristiani la facoltà di testimoniare per la verità.»204

Cosa studia la scienza? I fatti come tali. I rapporti matematici sono considerati fatti della mente: qui, non c’è nulla che il pensiero umano possa amare. Invece, alla base della conoscenza dev’esserci l’amore: «Desiderare la verità è desiderare un contatto diretto con la realtà. Desiderare un contatto con una realtà significa amarla.» E «l’amore reale e puro è di per se stesso spirito di verità. È lo Spirito Santo».205 Soffio igneo, nell’antichità esso esprimeva il concetto che oggi la scienza indica con la parola energia. L’amore puro è questa forza attiva.

Oggi lo spirito di verità è quasi assente sia dalla religione sia dalla scienza e dal pensiero tutto. Come far sì che ridiscenda fra noi? Prima di tutto riconciliando la scienza con la religione. La condizione è che il movente dello scienziato sia l’amore per l’oggetto del suo studio: l’universo in cui viviamo. Perché e come amarlo? Avendo «il cuore preso» dalla sua bellezza: «Lo scienziato ha per fine l’unione del suo spirito con la saggezza misteriosa eternamente inscritta nell’universo.» Da qui, come vedere «opposizione, o anzi separazione» fra lo spirito della scienza e quello della religione? «L’investigazione scientifica non è che una forma della contemplazione religiosa.»206

Era così in Grecia. I Romani uccisero Archimede e in seguito la Grecia. Il ricordo della scienza greca, trasmesso dal Medioevo tramite il pensiero cosiddetto gnostico, in ambienti iniziatici, rimase solo sotto forma conservatrice. Quando, dopo due millenni di letargo, resuscitò all’inizio del XVI secolo in Italia e in Francia, tale scienza era divenuta materialista. L’avvenimento che aveva prodotto la trasformazione era il cristianesimo (non il cristianesimo originario dei Vangeli, perfettamente atto a essere l’ispirazione di una scienza rigorosa) trasformato nel suo passaggio al rango di religione romana ufficiale. Il pensiero cristiano dominante non ammise più altra nozione della Provvidenza divina se non quella di Provvidenza personale. La nozione di ortodossia, indispensabile alla Chiesa ai fini della sua dominazione temporale, ha rigorosamente separato il dominio relativo al «bene delle anime», in cui vige una «sottomissione incondizionata del pensiero a un’autorità esterna» e il dominio relativo alle cose dette «profane», in cui l’intelligenza è «libera».

La separazione forzata dell’anima e dell’intelligenza «rende impossibile quella mutua penetrazione del religioso e del profano che sarebbe l’essenza di una civiltà cristiana». E qui, Simone ci offre a mio avviso un’altra delle sue meditazioni-intuizioni potenti sul sacramento dell’eucarestia, dicendo: «È invano che tutti i giorni, alla messa, un po’d’acqua viene mescolata al vino.»207

Una «durata» di contemplazione, di pazienza, d’umiltà è necessaria sia all’intelligenza in rapporto alla bellezza dell’universo, sia all’anima in rapporto alla bellezza dell’universo, sia all’anima in rapporto al bene puro. Questo per raggiungere una comprensione del legame inseparabile fra la «verità universale» e la «realtà particolare».

I «meccanismi naturali» sono le condizioni per cui gli avvenimenti si producano come tali.

Le forze di quaggiù sono dominate dalla necessità; la necessità è formata da rapporti che sono pensieri, i pensieri della «Saggezza eterna, unica». La Provvidenza divina è tale Saggezza; per cui «la forza bruta della materia, che ci pare sovranità, non è altro che perfetta obbedienza».208 È questa, sostegno della speranza, «la verità che ci morde il cuore ogni volta che siamo sensibili alla bellezza del mondo», la verità che «esplode con incomparabili accenti di allegrezza» nelle pagine belle e pure dell’Antico Testamento, nei Pitagorici, in Lao-tze, nelle sacre scritture indù, in innumerevoli miti e fiabe: «La forza quaggiù sovrana è dominata sovranamente dal pensiero. L’uomo è una creatura pensante; è dalla parte di ciò che comanda alla forza.»209 Non è certo signore e padrone della natura e, credendosi tale, si sbaglia. Egli è il figlio di colui che comanda alla natura, è «il bambino della casa». La scienza ne è la prova. Quando sta sulle ginocchia del padre, «e si identifica a lui per amore, partecipa della sua autorità».210

La più completa identificazione per amore avviene nella santità, raggiungimento di quella perfezione propostaci dai Vangeli, nei quali troviamo «una fisica soprannaturale dell’anima umana». I «meccanismi soprannaturali» sono le condizioni della produzione del «bene puro» come tale. Anche qui si manifesta una Provvidenza impersonale. La grazia discende da Dio in tutti gli esseri, ma il suo fruttificare dipende da cosa essi sono e la loro maturazione si svolge per tappe lungo una durata in modo analogo a un meccanismo. Così «ogni desiderio reale di un bene puro, a partire da un certo grado di intensità, fa discendere il bene corrispondente».211

I meccanismi soprannaturali (vedi san Giovanni della Croce) sono per lo meno tanto rigorosi quanto la legge della caduta dei corpi. L’esperienza pratica dei santi ci conferma che «il bene discende sulla terra» solo nella proporzione in cui si realizzano certe condizioni concrete. Ne deriva «l’unico fatto soprannaturale quaggiù»: la santità, o ciò che vi si avvicina, ossia il fatto che l’amore di Dio diviene in coloro che lo amano «forza attiva, energia motrice».212

Esistono più specie di energia, distribuite in un ordine gerarchico, dalla forza meccanica, o gravitazione, che ci fa sentire costantemente la sua morsa, fino alla luce impalpabile e senza peso che fa salire, malgrado la gravitazione, gli alberi e gli steli di grano. I fenomeni psichici sono nella stessa misura dei fenomeni fisici, delle «modificazioni nella distribuzione e nella qualità dell’energia» e quindi sottomessi alle leggi dell’energetica. Lo studio dell’anima può diventare una scienza, esattamente come lo studio della società: «Se le scienze dell’uomo fossero così fondate su metodi di un rigore matematico, e al tempo stesso mantenute in rapporto con la fede; se nelle scienze della natura e nella matematica l’interpretazione simbolica riprendesse il posto che aveva in passato: l’unità dell’ordine stabilito nell’universo apparirebbe nella sua sovrana chiarezza.»213

Il ritorno alla verità farebbe tra l’altro risaltare la verità del lavoro fisico. Punto d’incontro fra il pensiero e l’azione, legame che offriva il mezzo di trovare la chiave della necessità, in Oppression et liberté, diventa, in L’Enracinement, il centro spirituale della società, poiché rappresenta il nesso fra la passività della materia e la bellezza del mondo nella sua concreta manifestazione di perfetta obbedienza a Dio.214

20. La «cifra unificatrice»

L’identificazione per amore del figliol prodigo che è l’uomo con il padre ha luogo al centro del cuore. È qui che s’innesta l’universalismo di Simone Weil. Esso ha orientato tutto il suo itinerario. Tale itinerario è la profonda interiorizzazione senza frontiere di tutte le aspirazioni alla giustizia, alla verità, alla bellezza, in una parola, al bene, che sono presenti in tutte le religioni e in particolare focalizzate nel cristianesimo. Simone fu attirata dal cristianesimo giustamente perché lo sentiva come «la più universale delle religioni» e pensava ch’esso poteva, in un certo senso, contenerle tutte nel suo seno, a condizione che venga capito e si capisca in se stesso in un senso ampio e profondo.215

Ella lavorava in profondità. La grande portata del suo lavoro era e resta interna. Nella sua vita terrestre, ella è stata soprattutto una sorgente occultata, un fuoco soffocato dalle reazioni degli altri e dalle sue autonegazioni legate, da un lato, a una tristezza di donna che rinuncia e, dall’altro, all’ossessione della sventura, che giungeva al punto «di annichilire [le sue] facoltà».216 Come definirla, lei che fu inclassificabile nella vita privata come pure nella vita pubblica? Su di lei, siamo senza punti di riferimento in rapporto a un ruolo, un colore, un’idea. Al tempo stesso, l’eredità più chiara ch’ella lascia a ciascuno di noi è l’impegno fedele alla nostra particolare vocazione personale. Solitaria, ella fu tessuta di vulnerabilità e di forza: la forza della vita, della linfa che tormenta e insieme nutre il Piccolo pero in fiore di Van Gogh. Avendo come punto di partenza l’uso cosciente della volontà per raggiungere il vero, volle toccare il fondo delle cose, andare all’essenziale, la sola cosa che può appagarla. Allora, filosofa, nel senso di amante della saggezza. Al tempo stesso, legata come per osmosi agli esseri umani, in particolare ai più indifesi di fronte alla sventura con la sua sensibilità medianica, ella fu fondatrice di città secondo Platone.

Simone Weil è una donna-genio. È un genio morale nell’ambito etico: la sua portata rivoluzionaria è immensa, in quanto ha trovato la chiave di una saggezza che può essere applicata alla vita quotidiana di ognuno sul piano individuale e sul piano sociale. Il suo genio contiene tutti gli aspetti femminili della fecondità spirituale: l’importante è nutrire, curare, proteggere secondo le esigenze fisiologiche degli esseri, degli avvenimenti, delle cose; l’attenzione deve tendere a preservare, a rimediare, a utilizzare; la debolezza deve prevalere sulla forza; l’importante è la parola, il linguaggio che comunica; l’importante è la partecipazione e il calore riguardo la sensibilità nei modi della vita, del lavoro, dello studio, dell’insegnamento; bisogna porre l’accento sull’applicazione pratica della saggezza, al fine della più grande felicità possibile dell’uomo sulla terra.

Il tessuto è personale e al tempo stesso impersonale, poiché l’attenzione penetra le circostanze, trasponendole sul piano dell’amore impersonale verso gli altri e verso noi stessi. È il principio dell’uguaglianza. Come imprimere il segno dell’impersonale alla collettività perché ne derivi il rispetto verso ogni essere umano, corpo, mente, anima? È l’interrogativo che risuona in L’Enracinement. Simone risponde così: «Da una parte amare tutto indistintamente, dall’altra il bene solo. Mistero.»217 E ancora: «Il vero bene è al di sopra della mischia — eppure prende partito; mistero supremo.»218

Il metodo mistico è nel Vangelo, che esprime «una concezione della vita umana, non una teologia».219 Con tutto il suo essere, Simone Weil ha desiderato offrircene un’applicazione che possa adattarsi alla vita individuale e sociale della nostra epoca, in un linguaggio di comunicazione universale. Ella afferma: «Radunare le persone dietro le aspirazione cristiane». E tentare di definire tali aspirazioni con «termini ai quali un ateo possa integralmente aderire», e affinché un cristiano pervenga a «infrangere [il] compartimento stagno non solo fra gli uomini, ma nella [sua] anima».220

Tutti questi pensieri confermano in me il senso di aver trovato per questa donna-genio la sua cifra unificatrice:221 Simone Weil è stata e resta una evangelizzatrice. Tale definizione si è precisata in me grazie all’ascolto «casuale» di una trasmissione radiofonica in cui Mons. Tonino Bello, oggi scomparso,222 parlava con fermezza e precisione del carattere dell’evangelizzazione, a partire da san Paolo.

Sono stata particolarmente colpita dalla sua definizione dei tre elementi dell’essere dell’evangelizzatore. Essi sono:

  1. Una forte esperienza di Dio
  2. La volontà di condivisione
  3. La fede nella trasformazione del mondo tramite la carità.

La presenza di questi tre elementi in Simone Weil mi appare con un’evidenza abbagliante.

Tutte le traduzioni dai testi stranieri sono di Gabriella Fiori. La versione francese del presente saggio è stata pubblicata con il titolo «La Déclaration des devoirs envers l’être humain» in Chantal Delsol (dir.), Simone Weil, 1ª ed., Éd. du Cerf, Paris 2009, p. 23-104.


  1. Marie-Madeleine Davy (1903-1998). In omaggio ai miei due incontri personali con questa gran signora, della quale ricordo lo sguardo intenso e pieno di bontà e l’attenzione totale che mi offriva, voglio qui tracciare un disegno della scia lasciata dalla sua vita straordinaria. Il 31 gennaio 1999 ebbe luogo una prima riunione di coloro che l’avevano conosciuta. Vi erano più di duecento persone. Si scoprì ch’ella aveva «molti amici e dei più vari: domenicani, gesuiti, protestanti, ortodossi, ebrei, indù, buddisti, taoisti, shintoisti, sciamani…e anche agnostici, atei o totalmente irreligiosi!» Un nuovo accostamento è stato la creazione della «Association: Présence de Marie-Madeleine Davy» il 26 febbraio 1999. «Chi era la vera Marie-Madeleine Davy? Si poteva ammirare in lei la latinista, la medievalista, la scrittrice, la romanziera, l’editrice, la conferenziera [l’ho ascoltata due volte, è vero, era “l’eloquenza pura”, parlava in modo pieno e autentico: ha tenuto conferenze fino al 1993, dunque fino a 90 anni], la viaggiatrice [cominciò giovanissima: rotti i rapporti con la famiglia a 21 anni, iscrittasi alla Sorbona, e mantenendosi da sé con lezioni ai bambini e il lavoro di segretaria presso Julien Benda. Grazie a scambi fra studenti, soggiorna in Germania, Stati Uniti, Paesi Bassi, Norvegia e nei paesi dell’Est. Sarà poi assistente all’Istituto Francese di Berlino, all’Università di Manchester, al Bedford College di Londra…], l’amica dell’India e del Giappone, la mistica, ecc.» La sua celebrità fa sì ch’ella appartenga ormai alla storia e debba essere studiata «in modo scientifico per tutti i suoi apporti alla scienza storica del XII secolo [da lei chiamato “il secolo solare”], alla mistica romanica [nel dominio medioevale, ebbe per consigliere e guida Étienne Gilson] e pure alla storia delle idee contemporanee nei filosofi». Lascia un’opera (scritta o registrata) considerevole. Il suo libro Introduction au message de Simone Weil (Plon, Paris 1954-esaurito) è, a mio avviso, fondamentale. Avvincente, diretta, la sua autobiografia: Traversée en solitaire, 1ª ed., Albin Michel, Paris 1989. (Dal sito internet: http://www.europsy.org/pmmdavy/ivano-liberati-ex). Devo molto per queste notizie a Marc-Alain Descamps, presidente dell’ Association: Présence de Marie-Madeleine Davy. ↩︎

  2. Marianne Monestier, Elles étaient cent et mille. Femmes dans la résistance, 1ª ed., Fayard, Paris 1972, p.203. Intervista a Marie-Madeleine Davy. Il corsivo è mio, dato il rilievo che M.-M. Davy, interprete profonda dei mistici e dei pensatori religiosi dal Medioevo ai giorni nostri, dà al concetto di erranza, fissato in immagine. ↩︎

  3. Simone Weil, Cahiers, 2ª ed., Plon, Paris 1970, vol.I, p.73. ↩︎

  4. Simone Weil, «Perspectives: allons-nous vers la révolution prolétarienne?», La Révolution prolétarienne, anno 1933, n. 158 (25 août), p. 3/311-11/319. ↩︎

  5. Simone Pétrement, La vie de Simone Weil, Iª ed., Fayard, Paris 1973, vol. I, p. 416. Saggio postumo. Simone lo cominciò nella primavera del 1934, dopo «Perspectives», nel clima della sua traduzione delle Istorie fiorentine del Machiavelli sulla rivolta dei Ciompi, lavorandoci con un’intensità totale durante l’estate, e in autunno. In una lettera a sua madre dell’inizio luglio [1934], scrive: «[Il tempo in cui redigevo Perspectives] mi sembra oggi un’epoca idilliaca, in cui scrivevo senza fatica…e, insieme, una lontana infanzia in cui non capivo nulla di nulla». ↩︎

  6. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 412. Simone confidò questo sogno a Marcel Martinet, «poeta noto come uomo di sinistra, pur non avendo ruoli politici», secondo una lettera di Simone Pétrement a me, datata 12 gennaio 1978; Simone Weil scrisse a Martinet forse nel luglio 1934: «alla fine, probabilmente lavorerò in fabbrica, il mio sogno da circa 10 anni […]. Forse lei capisce cosa mi aspetti da questa esperienza, l’importanza che ha per me. È difficile a spiegarsi per lettera. Questo posso dire: il solo pensarci mi procura una profonda gioia». ↩︎

  7. André Weil, grande matematico di fama mondiale, scomparso nel 1998. ↩︎

  8. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 46. ↩︎

  9. Testimonianza di André Weil a Malcolm Muggeridge, in Simone Weil, Gateway to God, Collins, Glasgow 1974, p. 153. ↩︎

  10. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 68. ↩︎

  11. Testimonianza personale di Camille Marcoux, compagno di Simone all’École normale, nel nostro colloquio del settembre 1973. Marcoux conobbe Simone nel 1927, l’anno in cui lei non fu ammessa alla Normale; in seguito, ella fece fare per questo compagno, che da Poitiers era venuto a studiare strenuamente a Parigi, una chiave per la turne che, alla Normale, lei condivideva con Simone Pétrement; le ragazze la utilizzavano raramente e serviva anche da camera da letto e studio. In casa Weil, Marcoux suonava il flauto, accompagnando la signora Selma al piano. «Più tardi, con altri compagni, ho volentieri servito da cavia per i corsi di matematica moderna organizzati da André Weil e dal gruppo bourbaki.» Marcoux non è diventato un filosofo, ma un ellenista, professore di liceo, e ha preparato tanti allievi alla Normale, dando loro da studiare i classici greci nelle traduzioni di Simone Weil. ↩︎

  12. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 70. Testimonianza di Jacqueline Cazamian, una compagna per tutto il ginnasio. ↩︎

  13. 1931, villaggio di Réville in Normandia: Simone Weil volle affrontare il mare come fatica, condividere la vita dei pescatori in tutti i suoi aspetti. A tal fine insistette talmente, sostenuta dai genitori, presso Marcel Lecarpentier, proprietario insieme al fratello di un peschereccio con quattro uomini, che, dopo parecchi rifiuti, questi si decise ad accettarla. Così Simone impiegò le sue vacanze, seguendo tutte le fasi del lavoro. «Mi metteva sempre in guardia contro il pericolo di diventare uno sfruttatore. I giorni di pioggia, mi dava lezioni. Dopo, ho continuato a studiare: aritmetica, francese per sei mesi; le mandavo i quaderni e lei me li rimandava corretti da Parigi.» (Dal mio colloquio con M. Lecarpentier nell’estate 1976.) ↩︎

  14. Marianne Monestier, Elles étaient cent, cit. alla nt. 2, p.203; e dal mio colloquio con M.-M. Davy nell’estate 1976. Altro colloquio ebbi con Clémence Ramnoux, la quale, entrata all’École normale superieure nel 1927, vi è contemporanea di Simone Pétrement e di Simone Weil. Agrégée di filosofia nel 1931, dopo anni di insegnamento al liceo, è la prima donna invitata a Princeton nel 1955. Nel 1965, partecipa alla creazione dell’Università di Nanterre con Paul Ricœur e Jean-François Lyotard e vi insegna fino al compimento della carriera, nel 1975. Fin dalla pubblicazione della sua doppia tesi «Héraclite ou l’homme entre les choses et les mots» e «La nuit et les enfants de la nuit», partecipa al rinnovamento in Francia degli studi «presocratici» (v. anche il suo Études présocratiques II, 1ª ed., Klincksieck, Paris 1983). ↩︎

  15. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 322. Da un articolo inedito di Jean Rabaut, «Simone Weil et la IVe Internationale». ↩︎

  16. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 384. «I Trotzki si nascosero presso i Weil alla fine del 1933» (Jacques de Kadt, «Chez Simone Weil, rupture avec Trotsky», Le Contrat social, anno 1967, vol. XI (mai-juin), p. 141-145.) ↩︎

  17. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 353. Da un articolo di Jean Rabaut, L’Âge nouveau, 1951, n. 61 (mai). Boris Souvarine (1895-1984), nato in Russia da una famiglia che emigra in Francia nel 1897, militò giovanissimo nelle file del socialismo durante la Prima Guerra mondiale; è stato poi leninista ed esponente della IIIª Internazionale; ha rotto con l’URSS verso il 1925, subito dopo la morte di Lenin e, in seguito, anche con i trotzkisti. Colpito da un articolo di Simone sulla Germania (dov’era stata per un mese nell’agosto 1932), volle conoscerla per farla collaborare alla sua rivista La Critique sociale. Colette Audry mi ha detto: «Nel 1933, Simone Weil era molto legata a Souvarine e al suo gruppo, per Souvarine aveva una passione intellettuale.» Simone seguiva con interesse la biografia su Stalin che Souvarine andò scrivendo fra il 1930 e il 1935, pubblicata per la prima volta nel 1940 e ristampata nel 1977. È un’opera che dà un quadro straordinariamente completo per quell’epoca del regime russo, anticipando molte esplicite dichiarazioni che troveremo in seguito negli scritti di Solženicyn e di Medvedev, come pure nel rapporto Kruscev. In Italia è uscito in prima edizione per Adelphi nel 1983 col titolo Stalin↩︎

  18. Dal mio colloquio con lui, nella sua casa di Ferney-Voltaire nel 1974. Denis de Rougemont (Neuchâtel 1906-Genève 1985). Scrittore svizzero di lingua francese, ha fondato nel 1951 il Centre européen de la culture, che ha poi diretto a Ginevra. Nel 1938, nel clima dei Nouveaux cahiers, scrisse «in tre mesi» L’Amour et l’Occident, che da allora ha conosciuto un successo crescente (in italiano vi è stata un’edizione nel 1977, presso Rizzoli, Milano). Impegnato nella «difesa dell’uomo totale contro tutto ciò che tende a meccanizzarlo, a squalificarlo, a castrarlo di ogni violenza spirituale e creativa» (Journal d’une époque 1926-1946, 1ª ed., Gallimard, Paris 1968, p. 94), de Rougemont ha affermato che era sua ambizione «aiutare il lettore ad approfondire ciò che vive, ad assumerne la responsabilità, a dominarsi» (dall’intervista di Liana Milella in Euro, 1979, n. 2 (febbraio)). ↩︎

  19. Gilbert Kahn (1914-1995). Professore di filosofia, allievo di Michel Alexandre, della formazione di Alain, specialista weiliano, fra i fondatori dell’Association pour l’étude de la pensée de Simone Weil (1973) che pubblica la rivista trimestrale Cahiers Simone Weil, pensava che il solo mezzo di tentare l’interpretazione di certi aspetti «strani e sorprendenti» della sua vita si trovi nella «comprensione del suo pensiero». ↩︎

  20. Gilbert Kahn (éd.), Simone Weil, philosophe, historienne et mystique, 1ª ed., Aubier-Montaigne, Paris 1978, p. 9-12: «Entrée en matière». Si tratta delle «comunicazioni raggruppate da Gilbert Kahn» del colloque «Vigueur d’Alain, rigueur de Simone Weil» da lui diretto presso il Centre culturel international de Cerisy-la-Salle, 21 juillet-1er août 1974. ↩︎

  21. Simone de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée, Gallimard, Paris 1969, p. 336. ↩︎

  22. Madeleine Chapsal, Les Écrivains en personne, UGE, Paris 1973, p. 271-272. Intervista a Jean-Paul Sartre. ↩︎

  23. Denise-Aimé Azam, L’Extraordinaire Ambassadeur, Iª ed., La Table Ronde, Paris 1967, p. 115. ↩︎

  24. Simone Weil, Attente de Dieu, 5ª ed., Éditions du Seuil, Paris 1977, p. 53. Lettre IV, «Autobiographie spirituelle» (de Marseille, 15 mai environ [1942]). ↩︎

  25. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 38-39. Il corsivo è mio. ↩︎

  26. Alain, pseudonimo di Émile Auguste Chartier (Mortagne 1868-Paris 1951). Una delle sue allieve, Annette Baslaw, dice: «Avrebbe potuto essere tante cose: ingegnere, musicista, pittore, romanziere, poeta. Scelse di essere professore e dedicò tutta la sua vita all’insegnamento.» Cominciò con l’insegnare la filosofia a Pontivy, Lorient, Rouen; poi, a partire dal 1901, con un’interruzione di quattro anni dovuta alla guerra, fu a Parigi al liceo Henri-IV e al ginnasio Sévigné (all’inizio solo femminile). Lasciò l’insegnamento nel 1933. Come giornalista debuttò con articoli brevi su La Dépêche de Rouen («Propos d’un Normand»). In cinquanta righe esprimeva, in maniera incisiva, i risultati delle sue riflessioni sulla vita quotidiana. I Propos sarebbero divenuti il suo principale genere letterario. In Simone Pétrement, che fu sua allieva nello stesso periodo di Simone Weil, troviamo il suo ritratto come uomo politico: «Forse Alain solo rappresentava un radicalismo che non era assurdo designare con questo nome, poiché un radicale come lui era davvero più violento e più scandaloso di un socialista. Le sue passioni più vive le aveva senza dubbio provate per gli eventi politici, dall’affare Dreyfus, in cui si era schierato per Dreyfus, fino alla guerra del ’14, il grande dolore della sua vita, in cui si era arruolato come volontario, pur detestandola. Aveva voluto condividere la sventura comune e pensava che bisognasse pagare quel prezzo per continuare a pensare liberamente.» (Da Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 115-116). Le opere di Alain, con una prefazione di André Maurois, che fu suo allievo, sono raccolte in tre tomi: Propos I (1956) e Propos II (1970), a cura di Maurice Savin, che può essere considerato il suo «figlio spirituale»; Les Arts et les Dieux (1958); Les Passions et la Sagesse (1960), a cura di Georges Bénézé, anch’egli suo allievo (Gallimard, Paris). ↩︎

  27. Fu quello che disse alla sua amica Edi Copeau. ↩︎

  28. Actes du colloque «Vigueur d’Alain, rigueur de Simone Weil», p. 192. Testimonianza di Jeanne Alexandre, «Rencontre de Simone Weil et d’Alain». ↩︎

  29. Actes, cit. alla nt. 28, p. 186. ↩︎

  30. Alain, Morceaux choisis, Gallimard, Paris 1960, p. 278. ↩︎

  31. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 74. ↩︎

  32. Actes, cit. alla nt. 28, p. 194. ↩︎

  33. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 86-87. ↩︎

  34. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 81. ↩︎

  35. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 82. ↩︎

  36. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 17. ↩︎

  37. Simone Weil, La Condition ouvrière, 2ª ed., Gallimard, Paris 1972, p. 34. ↩︎

  38. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 13. Prima parte, che risale al 1933-1934. «Questo quaderno non è numerato […] Il frammento dell’etichetta che è rimasto incollato sulla copertina reca queste parole scritte da Simone: “Non conta”.» ↩︎

  39. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 13. Le maiuscole sono nel testo weiliano. Fra i peccati capitali, in francese Paresse corrisponde all’italiano Accidia, per noi di più forte significato. ↩︎

  40. Anne Reynaud-Guérithault (éd.), Leçons de philosophie de Simone Weil, 2ª ed., Union Générale d’Éditions, Paris 1966, p. 250. ↩︎

  41. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 143. ↩︎

  42. Simone Weil, Oppression et liberté, 1ª ed., Gallimard, Paris 1955, p. 130 e 162. «Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale» (1934). ↩︎

  43. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. I, p. 413. ↩︎

  44. Dal mio colloquio con Albertine Thévenon, a casa sua a Saint-Étienne, nel settembre 1973. ↩︎

  45. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 23. Seconda lettera ad Albertine Thévenon (fine settembre-inizio ottobre 1935). - Albertine Thévenon (1905-1993). Di famiglia operaia - il padre era un metalmeccanico libertario - diceva di aver «vissuto sempre all’interno del movimento sindacale senza militarvi». Al momento dell’incontro con Simone Weil faceva la maestra a Saint-Étienne. Al di là di aspirazioni rivoluzionarie comuni, un profondo affetto reciproco legò Albertine a Simone, che un giorno scrisse all’amica: «Siamo sorelle, non dovrei nemmeno aver bisogno di dirlo.» Albertine era la moglie di Urbain Thévenon (1901-1973), maestro, militante sindacalista rivoluzionario. (Simone Weil, La Condition ouvrière, Gallimard, Paris 2002, p. 466-467. Robert Chenavier, «Notices biographiques sur les correspondants de Simone Weil»). ↩︎

  46. Salvatore Obinu, I dilemmi del corpo - Materia e corporeità negli scritti di Simone Weil, 1ª ed., Lalli Editore, Poggibonsi (Siena) 1989, p. 30. ↩︎

  47. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 19-20. ↩︎

  48. Miklos Vetö, La Métaphysique religieuse de Simone Weil, 1ª ed., Vrin, Paris 1971, p. 105. ↩︎

  49. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 168. «Fragments» (pagine scritte durante l’anno di fabbrica 1934-1935 e l’anno successivo). ↩︎

  50. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 224-228. «La vie et la grève des ouvrières métallos (sur le tas)». Questo articolo comparve dapprima con lo pseudonimo di Simone Galois in La Révolution prolétarienne del 10 giugno 1936 e nei Cahiers de «Terre libre» del 15 luglio 1936. ↩︎

  51. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 144. «Journal d’usine». ↩︎

  52. Robert Chenavier, Simone Weil. Une philosophie du travail, 1ª ed., Éd. Du Cerf, Paris 2001, p. 319 e 328. ↩︎

  53. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 29. ↩︎

  54. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 36. ↩︎

  55. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 39. ↩︎

  56. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 38. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  57. Simone Weil, Oppression, cit. alla nt. 42, p. 162. ↩︎

  58. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 36. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  59. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 62. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  60. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 77. ↩︎

  61. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 87. ↩︎

  62. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 72. ↩︎

  63. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 70. ↩︎

  64. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 70. ↩︎

  65. Dal mio colloquio con Dom Boissart nel 1975 a Parigi, rue de la Source. Simone Weil gli era stata presentata da Élisabeth Flory-Blondel (scomparsa nel 1973), figlia del filosofo Maurice Blondel (1861-1949) e moglie di Charles Flory, il quale, tramite la rivista Nouveaux cahiers, «[aveva] con Simone Weil un rapporto più stretto dell’amicizia che la legava a [sua] moglie» (Ch. Flory). «Élisabeth aveva circa trentotto anni, una madre di famiglia bella e piena di bontà, che aveva vissuto in un ambiente di vasta cultura; Blondel riceveva molto, scienziati e filosofi» (Dom Boissart). ↩︎

  66. Charles G. Bell, The Half Gods, 1ª ed., Houghton Mifflin Company, Boston 1968, p. 296-298. Bell definisce questo suo romanzo un’opera di «finzione narrativa» che tuttavia dipende in larga misura dai «fatti» e mira alla «storia». In esso, Simone Weil è una «necessaria presenza simbolica» per la quale gli è stato difficile trovare un equivalente. E racconta: «La incontrai a Solesmes quando studiavo all’estero, e (come nel romanzo) mi resi conto della cosa solo molto tempo dopo». La chiama Heloïse Frank e spiega: «Sarebbe un errore cercare qui un qualsiasi ritratto di Simone Weil […] anche se, devo confessarlo, avrei desiderato in una creazione indipendente e prendendo una qualche distanza, onorare una persona di cui venero la memoria.» (v. l’introduzione a The Half Gods, p. VII-VIII.) ↩︎

  67. Simone Weil, Seventy Letters, 1ª ed., Oxford University Press, London 1965, p. 102-105. Minuta di lettera in inglese. Attualmente la lettera è stata ripresa, con traduzione francese, in Florence de Lussy (dir.), Simone Weil, Sagesse et grâce violente, 1ª ed., Bayard, Paris 2009, p. 297-305. ↩︎

  68. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 192. Il 7 luglio 1976, Charles G. Bell mi ha scritto a questo proposito: «In The Half Gods, Leflore, il protagonista, lotta con la sconcertante supposizione di essere lui l’angelo messaggero. Ai fini del romanzo, a quell’epoca pensavo che l’anomalia da spiegare fosse quella…provo sollievo nell’apprendere che io ero in realtà il “devil boy”, e che il fardello dell’angelo doveva essere assunto da un altro, del quale non serbo memoria.» In quanto a me, Gabriella Fiori, come biografa weiliana, conoscendo il suo nome, John Vernon attraverso S. Pétrement (p. 192), malgrado tutte le mie ricerche, non l’ho mai ritrovato. ↩︎

  69. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 43-44. ↩︎

  70. Simone Weil, Cahiers, 2ª ed., Plon, Paris 1972, vol. II, p. 135. ↩︎

  71. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 13. V. supra, in rapporto alla «Tentazione della dedizione». ↩︎

  72. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 75. Lettre VI - 26 mai 1942 (de Casablanca). ↩︎

  73. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 45. ↩︎

  74. Simone Weil, Attente de Dieu, 2ª ed., La Colombe, Paris 1950, p. 11. ↩︎

  75. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 135. ↩︎

  76. Simone Weil, Œuvres complètes, 1ª ed., Gallimard, Paris 1988, t. I. «Le Beau et le Bien», topo datato «Février 1926». (Simone ha 17 anni) ↩︎

  77. Jacques Cabaud, L’Expérience vécue de Simone Weil, 1ª ed., Plon, Paris 1957, p. 80. ↩︎

  78. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 45. ↩︎

  79. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 282 e 283. «Ignoro se una versione definitiva della lettera fu spedita e se Dermenghem rispose.» ↩︎

  80. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 168. «Fragments». ↩︎

  81. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 283 e 284. ↩︎

  82. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 289. ↩︎

  83. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 222. ↩︎

  84. Dal mio colloquio con Jean Tortel, a casa sua al limitare della campagna, nel settembre 1973. - Jean Tortel (1904-1993). «Questionneur ostinato della poesia», fu colui che introdusse ai Cahiers du Sud (allora fra le grandi riviste la più aperta alla poesia) alcuni fra i poeti della modernità francese: per esempio Guillevic, Francis Ponge…«Uomo di cuore, non indifferente al mondo e non settario, partecipò alla Resistenza “perché bisognava”. Nato nella Vaucluse, vicino alla terra, figlio di un maestro, fece carriera nell’Amministrazione, in Alta Provenza, poi nell’Est, infine a Marsiglia» dove si manifesta, soprattutto nella sua collaborazione ai Cahiers, il suo talento di critico, di conoscitore d’arte, di poeta. «Stabilitosi in Avignone, fuori le mura [è là che l’ho incontrato] negli anni sessanta, la sua scrittura trova una qualificazione nuova: da allora il suo nome e la sua opera si impongono con indiscutibile fama […]. Le nuove generazioni riconoscono in lui uno dei grandi poeti del nostro tempo.» (Henri Deluy, articolo del 4 marzo 1993, «La mort de Jean Tortel, questionneur obstiné de la poésie»-http://www.humanite.fr). La sua ricca bibliografia sui «vari aspetti» della sua opera e sugli «studi critici che ha suscitato» a cura di Vincent Jean Lambert, pubblicata in Études françaises, vol. 40, n. 3, 2004, p. 93-108 può essere consultata su http://www.erudit.org/revue/etudfr/2004/v40/n3/ 009/38ar.html. ↩︎

  85. Gabriella Fiori, Simone Weil, 4ª ed., Garzanti, Milano 2006, p. 291. Fra le illustrazioni. ↩︎

  86. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 262. ↩︎

  87. Stanislas Fumet (1896-1983). Scrittore cattolico, critico d’arte originalissimo, creatore di raccordi fra pittura, poesia, musica; giornalista («Temps présent»), cofondatore di collane («Le Roseau d’or»), autore dell’introduzione all’Œuvre poétique di Paul Claudel («Bibliothèque de la Pléïade»), nel nostro colloquio del 1976, così mi parlò di Simone Weil: «Un’anima molto ebraica, dalla logica estremamente rigorosa. Mi ricordò Péguy, per la sua cappa [a pellegrina] e gli scarponi da soldato, come lui, per la purezza e la severità verso se stessa. Dissimulava la propria femminilità rendendosi quasi brutta - ma non lo era. Non ho più incrociato questa passante considérable nella quale avevo sentito una mistica totale. Una lunga discussione su Aristotele ci distolse dalla possibilità di parlare di questioni più importanti, più attuali, in cui ci saremmo trovati vicini. Come l’avrei capita meglio ulteriormente, abbordando il suo pensiero scritto!» Si possono ritrovare espressioni analoghe nella testimonianza che Fumet ci offre nel suo unico incontro con Simone Weil, nella sua ricca esuberante autobiografia Histoire de Dieu dans ma vie, 1ª ed., Fayard-Mame, Paris 1978, p. 449-452, forse ancora reperibile fra i suoi numerosi libri, in gran parte esauriti. ↩︎

  88. Gabriella Fiori, Simone Weil, cit. alla nt. 85, p. 309 e 310. Dal mio incontro con Berthe Bruschi Ergas, nel settembre 1976; Berthe insegnava il francese e la filosofia ad allievi con problemi psicologici nei confronti dello studio. Era molto viva e attenta alle correnti dell’evoluzione spirituale contemporanea. ↩︎

  89. Gustave Thibon (1903-2001). Tre cose fanno di lui uno scrittore-filosofo culturale unico e inclassificabile: il legame con la terra attraverso il lavoro dei campi, la sete di conoscenza che lo fa lavorare da autodidatta e gli fa assimilare in maniera organica l’insegnamento dei maestri più vari; la fedeltà alla sua sete di assoluto, che lo porterà a scegliere nella scrittura il modo poetico, e nella vita ad approfondire il radicamento contadino che gli viene dal padre, e a passare dalla psicologia alla sociologia, poi alla metafisica e alla mistica. A tredici anni deve lasciare la scuola per sostituire il padre, vignaiolo mobilitato (1916), e aiutare il nonno nei campi. A quindici anni perde la madre, vittima della spagnola. Tali eventi dolorosi provocano in lui un’indifferenza quasi assoluta al problema religioso e l’abbandono di ogni ricerca intellettuale. A ventiquattro anni (1927) si dedica ad accaniti studi personali: latino, greco, tedesco, matematica, opere di filosofi e di poeti, dei quali conosce a memoria migliaia di versi. Gli incontri importanti con Jacques Maritain e Gabriel Marcel (1930 e 1940) lo spingono a scrivere. In seguito, influenze filosofiche capitali: Simone Weil e Nietzsche. La sua opera Notre regard qui manque à la lumière (Amiot-Dumont, Paris 1955), «una delle tappe più importanti della sua opera, è un esempio dell’ampiezza della sua vita intellettuale e spirituale». Il suo pensiero, «insieme ricco e complesso», come pure la sua espressione «mal sopporta[no] l’inquadramento». Due citazioni mi sembrano poter riassumere il carattere della sua fede cristiana: «la salvezza dell’uomo da parte di Dio passa dal salvataggio di dio da parte dell’uomo» (Au soir de ma vie, 1ª ed., Plon, Paris 1993, p. 192); «Amo la nostra epoca perché ci forza a scegliere fra la potenza dell’uomo e la debolezza di Dio. Religione nuda, in cui l’attesa del miracolo fa posto all’adorazione del mistero…» [pensiero completamente weiliano] (L’illusion féconde, 1ª ed., Fayard, Paris 1995, p. 46). Per tutta questa nota, debbo molto all’introduzione di Benoît Lemaire nella sua opera L’Expérience de Dieu avec Gustave Thibon, Fides, Montréal 2004. ↩︎

  90. Joseph-Marie Perrin, Gustave Thibon, Simone Weil, telle que nous l’avons connue, 2ª ed., Fayard, Paris 1967, p. 131. ↩︎

  91. Joseph-Marie Perrin, Gustave Thibon, Simone Weil, telle, cit. alla nt. 90, p. 131-132. ↩︎

  92. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 306. ↩︎

  93. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 302. ↩︎

  94. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 306. ↩︎

  95. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 208. ↩︎

  96. Simone Weil, Cahiers, 2ª ed., Plon, Paris 1974, vol. III, p. 215. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  97. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 96, vol. III, p. 158. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  98. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 132. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  99. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 96, vol. III, p. 158. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  100. Lanza del Vasto, La Trinité spirituelle, Éd. Du Rocher, Paris 1994, p. 30. ↩︎

  101. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 413. Qui, la data è il 14 maggio, «due giorni» dopo la lettera al poeta Joë Bousquet, datata 12 maggio. ↩︎

  102. Pascal David, «Simone Weil, vivre pour la vérité», Esprit & Vie, 2008, n. 195 (1ère quinzaine juin), p. 1-9. ↩︎

  103. Simone Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, 1ª ed., Gallimard, Paris 1957, p. 74. «Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain. Profession de foi». (1943) ↩︎

  104. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 72, p. 75. ↩︎

  105. Qui, trovo che Simone operi un’interpretazione di se stessa che, per me, è stata smentita da due testimonianze, l’una del suo compagno alla Normale, Camille Marcoux (v. nt. 11) e l’altra della sua amica di adolescenza, Edi (Edwige) Copeau (v. nt. 27). Edi, che ho incontrata come Madre François nel monastero benedettino di Vanves, era cresciuta «divisa in due» fra il padre Jacques, il celebre rinnovatore del teatro francese, cattolico e la madre danese, luterana. Mi ha detto: «Quando mio padre, che per anni non aveva praticato la sua religione, vi si dedicò con tutto se stesso, anch’io ricominciai. A ventidue anni, preparata dai benedettini di rue de la Source, ricevetti la mia Prima Comunione il 12 giugno 1927. Soprattutto a partire da quell’epoca, mi ritrovavo con Simone ogni volta che dalla Borgogna, dove vivevo fin dal 1925, venivo a Parigi. I nostri incontri avvenivano in casa di Suzanne Gauchon-Aron, che ci aveva presentate. Rivedo Simone seduta per terra, che mi interrogava senza tregua; parlavamo molto di religione; Simone sembrava aspettarsi da me qualcosa di importante. Io, che percepivo in lei una grandissima superiorità, ero stupita di quell’ascolto così intenso da parte sua. Inoltre, lei conosceva i testi sacri ben più profondamente di me.» Pasqua 1930: Edi si recò ad Assisi con il padre e, nello stesso anno, a novembre, si fece benedettina a Vanves, alle porte di Parigi. Ne dette notizia a Simone in una lettera. Camille Marcoux ne serba memoria ben precisa: «Non l’avevo mai vista così agitata. Passeggiavamo insieme lungo le cancellate del Luxembourg, in silenzio, secondo il nostro solito. Simone teneva le mani affondate nelle tasche, indovinavo i suoi pugni chiusi. Finalmente, tirò fuori una busta tutta gualcita: la lettera di Edi. Le gote in fiamme, mi disse in tre parole che Edi si faceva suora, ma non riuscì a mostrarmi la lettera; fu più forte di lei.» ↩︎

  106. V. la testimonianza di Marie-Madeleine Davy, all’inizio del presente saggio, stranamente in rapporto con l’affermazione di Simone. ↩︎

  107. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 37. ↩︎

  108. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 213. Lettera a Maurice Schumann, Londra (senza data). ↩︎

  109. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 37. ↩︎

  110. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 171. Esattamente: «parce qu’on ne peut pas faire autrement»: concetto che ritorna anche sotto la forma citata nel testo. ↩︎

  111. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 39. ↩︎

  112. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 36. ↩︎

  113. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 43, 44 e 45. ↩︎

  114. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 44. Simone cita per intero la poesia «in una traduzione che hanno gentilmente fatta per me». ↩︎

  115. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 216. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  116. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 211. ↩︎

  117. Questo sarà il titolo scelto da Albert Camus per i Quaderni di New York. ↩︎

  118. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 73. ↩︎

  119. In seguito, signora Jean-Pierre Blum, oggi scomparsa. - Gaston Fessard (1897-1978), detto Père Fessard, era un filosofo e teologo francese. Gesuita, nel novembre 1941 fu il redattore del primo numero dei Cahiers du Témoignage chrétien, intitolato «France, prends garde de perdre ton âme», che chiamava ad opporsi al nazismo in nome dei valori cristiani. Il rigore delle sue analisi, la sua cura di confronto con il mondo contemporaneo - nella luce della fede cattolica - gli danno una chiaroveggenza poco comune in teologia (per esempio: temporalità e peccato originale), in filosofia politica (fallimento annunciato sia del nazismo sia del comunismo…). L’etica sociale ha grande spazio nel suo pensiero, ma l’asse essenziale si trova in tutto ciò che si riferisce alla storia e alla storicità. Fra le sue opere: Église de France prends garde de perdre la foi, Julliard, Paris 1979 (v. http://fr.wikipedia.org/wiki/Gaston_Fessard)↩︎

  120. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue avec Simone Weil, 1ª ed., Nouvelle Cité, Bruyères-les-Châtel 1984, p. 77-78 e 103. ↩︎

  121. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue, cit. alla nt. 120, p. 104. ↩︎

  122. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue, cit. alla nt. 120, p. 105 e 106. - Malou David (1920-2005). Dal mio colloquio con lei, nella sua casa di Parigi, il 22 settembre 1976, amo aggiungere ciò che segue: «[Dinanzi a Simone Weil], la mia prima reazione fu “borghese”; pensai: “Non mi andrebbe farmi vedere con lei per la strada”. Un basco calcato fino alle orecchie che le premeva i capelli crespi, portava sandali marroni senza tacco, di quelli con gli occhi sulla tomaia, come gli scolari. Era il mese di dicembre. Le sue gambe nude erano viola dal freddo. Immediatamente dopo ho sentito la sua grande intelligenza, la potenza della sua mente, ed ero pronta ad assisterla. “Non se ne parli nemmeno”, rispose lei, pregandomi di integrarla al gruppo dei clandestini, in maggioranza dei responsabili sindacali di Lione. Fui stupita da questo ritrarsi in posizione secondaria, tanto più che, via via che ci conoscevamo meglio, percepii in lei un grande orgoglio. […] L’ho molto amata e ho sentito in lei il genio. Mi irrita sentirla definire un’eccentrica; in lei non c’era nulla di artificioso, di teatrale.» ↩︎

  123. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 46. ↩︎

  124. Simone Weil, Œuvres complètes, 1ª ed., Gallimard, Paris 1994, t. VI - I: Cahiers (1933-septembre 1941), p. 32. Michel Narcy, Avant-Propos I, «Le domaine grec». ↩︎

  125. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue, cit. alla nt. 120, p. 82. ↩︎

  126. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 30-31. Lettre III, 16 avril 1942. ↩︎

  127. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue, cit. alla nt. 120, p. 82. ↩︎

  128. Simone Weil, Intuitions préchrétiennes, 1ª ed., La Colombe, Éd du Vieux-Colombier, Paris 1951. ↩︎

  129. Simone Weil, La Source grecque, 1ª ed., Gallimard, Paris 1953. ↩︎

  130. Joseph-Marie Perrin, Mon dialogue, cit. alla nt. 120, p. 31. ↩︎

  131. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 123. «Formes de l’amour implicite de Dieu». ↩︎

  132. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 124. «L’amour du prochain». ↩︎

  133. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 129. Il corsivo è mio. ↩︎

  134. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 125. Il corsivo è mio. ↩︎

  135. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 130. ↩︎

  136. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 132. ↩︎

  137. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 223. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  138. V. supra, «Il reale come rapporto». ↩︎

  139. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 154. «Amour de l’ordre du monde», in «Formes de l’amour implicite de Dieu». ↩︎

  140. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 139, p. 154. Il corsivo è mio. ↩︎

  141. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 139, p. 163. ↩︎

  142. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 139, p. 158-159. ↩︎

  143. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 139, p. 149. ↩︎

  144. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 139, p. 158. ↩︎

  145. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 176. «Amour des pratiques religieuses », in «Formes de l’amour implicite de Dieu». ↩︎

  146. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 177. ↩︎

  147. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 179. ↩︎

  148. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 180-181. ↩︎

  149. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 184. ↩︎

  150. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 181-182. ↩︎

  151. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 185. ↩︎

  152. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 145, p. 187. ↩︎

  153. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 198. «Amitié», in «Formes de l’amour implicite de Dieu». ↩︎

  154. Simone Weil, Condition, cit. alla nt. 37, p. 35. «Lettre à une élève» (1934). ↩︎

  155. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 153, p. 198. ↩︎

  156. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 153, p. 202. ↩︎

  157. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 153, p. 205. ↩︎

  158. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 209. «Amour implicite et amour explicite», in «Formes de l’amour implicite de Dieu». ↩︎

  159. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 158, p. 210. ↩︎

  160. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 87. Si tratta del saggio «Réflexions sur le bon usage des études scolaires en vue de l’amour de Dieu». ↩︎

  161. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 24, p. 66. Lettre V, de Casablanca. Simone preferiva questa parola greca, che indicava l’attesa, perché «ben più bella» del latino patientia↩︎

  162. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 158, p. 211 e 212. ↩︎

  163. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 158, p. 214. ↩︎

  164. Simone Weil, Attente, cit. alla nt. 158, p. 214. ↩︎

  165. Simone Weil, La Connaissance surnaturelle, 1ª ed., Gallimard, Paris 1950, p. 233. ↩︎

  166. Simone Weil, Connaissance, cit. alla nt. 165, p. 233. ↩︎

  167. Yves-Albert Dauge, «Entretiens sous le figuier ou Initiation à l’ésotérisme», Epignosis, anno 1984, n. IV (1er novembre), p. 86. ↩︎

  168. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 306. ↩︎

  169. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 188. «Projet d’une formation d’infirmières de première ligne», unito a una lettera a Maurice Schumann, datata New York, 30 luglio 1942. ↩︎

  170. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 483. «Anche altri trovavano il progetto folle». ↩︎

  171. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 444-445. ↩︎

  172. Simone Pétrement, La vie de, cit. alla nt. 5, vol. 2, p. 448. ↩︎

  173. Francis-Louis Closon, Le Temps des passions. De Jean Moulin à la Libération 1943-1944, 1ª ed., Presses de la Cité, Paris 1974, p. 32-33. ↩︎

  174. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 232. Lettera ai genitori del 1º marzo [1943]. ↩︎

  175. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 99, 100, 102 e 103. «Cette guerre est une guerre de religions». Come la più gran parte degli scritti riuniti negli Écrits de, questo testo è uno studio destinato ai servizi della France libre e riguarda la riorganizzazione della Francia dopo la guerra. È comparso come articolo con il titolo «Retour aux guerres de religions», nella rivista La Table ronde, anno 1952, n. 55 (juillet). ↩︎

  176. Simone Weil, Connaissance, cit. alla nt. 165, p. 165. ↩︎

  177. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 74 e 76. «Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain - Profession de foi». ↩︎

  178. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 77. ↩︎

  179. Simone Weil, Oppression, cit. alla nt. 42, p. 8. «Note de l’éditeur». ↩︎

  180. Simone Weil, L’Enracinement, 2ª ed., Gallimard, Paris 1962, p. 14. Partie I: «Les besoins de l’âme». ↩︎

  181. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 180, p. 13. ↩︎

  182. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 84. «Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain - Application pratique». ↩︎

  183. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 182, p. 83. ↩︎

  184. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 170. «Fragments et notes»; il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  185. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 182, p. 83-84. ↩︎

  186. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 180, p. 61. Partie II: «Le déracinement». ↩︎

  187. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 180, p. 10. ↩︎

  188. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 182, p. 84. ↩︎

  189. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 223. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  190. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 180, p. 237. Partie III: «L’enracinement». ↩︎

  191. Simone Weil, Oppression, cit. alla nt. 42, p. 113. ↩︎

  192. Jacques Cabaud, Expérience, cit. alla nt. 77, p. 41. ↩︎

  193. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 225. Il corsivo è nel testo weiliano. ↩︎

  194. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 253. ↩︎

  195. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 254. ↩︎

  196. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 268. ↩︎

  197. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 269. ↩︎

  198. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 269. ↩︎

  199. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 277. Il corsivo è mio. ↩︎

  200. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 280. ↩︎

  201. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 288, 289 e 290. ↩︎

  202. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 294 e 295. ↩︎

  203. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 306. ↩︎

  204. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 326. ↩︎

  205. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 319. ↩︎

  206. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 329. ↩︎

  207. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 376. ↩︎

  208. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 359. ↩︎

  209. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 366. ↩︎

  210. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 366. ↩︎

  211. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 331. ↩︎

  212. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 336. ↩︎

  213. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 370-371. ↩︎

  214. Simone Weil, Enracinement, cit. alla nt. 190, p. 377. ↩︎

  215. H.-L. Finch, «L’universalisme de Simone Weil», Cahiers Simone Weil, anno 1983, n. 3 (settembre), p. 275. Si tratta di una comunicazione al colloque di Princeton, organizzato dall’American Simone Weil Society nel maggio 1981. ↩︎

  216. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 103, p. 199. Lettera a Maurice Schumann (New York, senza data). ↩︎

  217. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 69, vol. II, p. 113. ↩︎

  218. Simone Weil, Cahiers, cit. alla nt. 3, vol. I, p. 236. ↩︎

  219. Simone Weil, Connaissance, cit. alla nt. 165, p. 98. ↩︎

  220. Simone Weil, Écrits de, cit. alla nt. 184, p. 169-170. ↩︎

  221. Concetto caro a Lanza del Vasto. ↩︎

  222. Mons. Tonino Bello (1935-1993), Antonio detto don Tonino, perfino quando sarà vescovo. Figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una donna semplice e di grande fede, la sua infanzia si svolge in un paese a economia agricola e impoverito dall’emigrazione. Di mente sveglia, dopo la scuola elementare può continuare gli studi in seminario. A ventidue anni è ordinato prete, a ventitré è già maestro dei piccoli seminaristi; per diciotto anni, saprà trovare un equilibrio fra la severità degli studi e le esigenze della giovinezza. In una pagina del suo diario del 1962, leggiamo: «Dio mio, purificami delle scorie in cui naviga la mia anima, fammi più coerente, più costante.» Vescovo a quarantasette anni, l’anno dopo è nominato presidente di «Pax Christi». Comunione, evangelizzazione e scelta degli ultimi sono i tre perni sui quali si svilupperà la sua idea di Chiesa, la Chiesa del Grembiule. Partecipa alle lotte dei disoccupati, dei pacifisti (contro l’installazione di missili a Comiso; per i lasciati senza tetto)…Rinuncia ai «segni del potere» e sceglie il «Potere dei Segni», fondando la Casa della Pace, la comunità per i drogati Apulia, un centro d’accoglienza per immigrati dove volle anche una piccola moschea per i fratelli musulmani. La sua coerenza era così forte da disturbare anche gli ambienti ecclesiastici. La sintesi epifanica della sua vita fu la marcia pacifica a Sarajevo, di cui egli fu l’ispiratore e la guida, malgrado fosse già malato di cancro. In cinquecento partirono da Ancona il 7 dicembre 1992, credenti e non credenti, di nazionalità diverse, uniti da un solo desiderio: sperimentare «un’altra ONU», quella dei popoli. Nel suo discorso nel cinema di Sarajevo, disse: «Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati.» Morì alcuni mesi più tardi, il 20 aprile 1993, senza angoscia e in una grande serenità. Fra le sue opere: Alla finestra della speranza, Ed. San Paolo, Cinisello B. 1988; Stola e grembiule, Ed. Insieme, Terlizzi 1993. ↩︎