Alle origini della ontologia fenomenologica sartriana. Una lettura de L’imagination

1. Immagine e immaginazione: il controverso lascito della Modernità

Pubblicato nel 1936, al termine dell’intenso apprendistato fenomenologico avvenuto presso l’Institut Français di Berlino, L’imagination è di fatto il testo d’esordio di Sartre. In questo studio ci proponiamo di analizzarne dettagliatamente alcuni passaggi al fine di mostrare il modo in cui l’autore de La nausée non soltanto recepisce e rielabora in maniera già assolutamente personale numerose suggestioni prettamente husserliane, ma arriva anche a declinarne la ricca portata speculativa facendole reagire attraverso la messa in relazione con una serie di posizioni che egli traeva da ambiti di riflessione difformi dalla fenomenologia tedesca.

Pertanto, dopo aver passato in rassegna in un primo paragrafo il mobile excursus storico-critico che Sartre illustra nelle pagine iniziali del testo in questione, esamineremo nelle due sezioni successive in primis il confronto che egli propone tra Bergson e Husserl e in ultimo ciò che l’autore stesso chiama attitudes imageantes, tentando di mostrare in sede di conclusioni quale sia il contributo effettivo che Sartre tramite questo primo scritto riesce a dare a ciò che potremmo definire una filosofia delle immagini in nuce. Ma perché questa filosofia potesse prendere corpo era necessaria una totale rilettura e rivalutazione del ruolo e della funzione dell’immagine in seno alla gnoseologia messa a punto dagli autori della Modernità. Non è un caso allora che proprio nelle battute finali dell’introduzione all’Imagination Sartre osservi:

la théorie pure et a priori a fait de l’image une chose. Mais l’intuition interne nous apprend que l’image n’est pas la chose. Ces données de l’intuition vont s’incorporer à la construction théorique sous une forme nouvelle: l’image est une chose tout autant que la chose dont elle est l’image. Mais, du fait même qu’elle est image, elle réçoit une sorte d’infériorité métaphysique par rapport à la chose qu’elle représente. En un mot, l’image est une moindre chose.1

Con queste parole inizia la mirata operazione di messa in discussione di ben tre secoli di riflessione sull’immagine, annunciando per sommi capi quali siano le conclusioni a cui è giunto l’autore: nonostante l’apparente diversità di impostazioni e approdi caratterizzanti le teorie sull’immagine di vari autori, il trattamento riservato a quest’ultima è stato sostanzialmente sempre il medesimo, almeno fino a Bergson e Husserl, così che non si è mai trovata la via maestra per impostare la questione in modo adeguato e convincente. Si tratta di un’affermazione forte e piuttosto insolita, dal momento che nessuna tradizione, anteriore a Sartre, aveva mai intercettato queste sotterranee analogie tra pensatori così dissimili tra loro e, in certi casi, apertamente contrapposti l’uno rispetto all’altro. Sartre naturalmente è più che consapevole di ciò, ma è anche ben consapevole di un altro fatto posto a fondamento della sua sorprendente rilettura storico-critica: prima di Bergson e soprattutto prima di Husserl le questioni relative all’immagine erano state sempre viziate da carenze e imprecisioni addebitali unicamente all’assenza di una equipaggiamento euristico che annoverasse tra i suoi strumenti la natura fenomenologicamente intenzionale dei vissuti coscienziali.

L’avvio dell’opera è infatti all’insegna di una descrizione puramente fattuale di un evento banalmente quotidiano. Si tratta ora di modificare in modo sempre più radicale i fattori in gioco di quest’esperienza apparentemente insignificante per far emergere strutture e procedure analitiche in grado di cogliere quasi in controtempo l’esistenza in immagine della cosa:

la feuille qui m’apparaît en ce moment a une identité d’essence avec la feuille que je voyais tout à l’heure. Et, par essence, je n’entends pas seulement la structure mais encore l’individualité même. Seulement cette identité d’essence ne s’accompagne pas d’une identité d’existence […]. en un mot: elle n’existe pas en fait, elle existe en image.2

Duplice è pertanto il compito che Sartre sa di dover portare a termine: da una parte ripercorrere alcuni luoghi teorici della filosofia moderna per portare fuori dalle numerose secche speculative di un’ontologia ingenua l’immagine con tutto il ricco sistema di relazioni e stratificazioni che la sostengono e la sostanziano; dall’altra inaugurare una filosofia dell’immagine inedita e organica, la quale permetta non solo di illuminare in modo più funzionale temi e problemi dell’immaginazione ma anche di offrire snodi di riflessione che riescano a penetrare sempre più a fondo le dinamiche e le logiche proprie dei vissuti intenzionali.E così, ricorrendo alla fenomenologia husserliana, Sartre riesce da subito ad isolare quei particolarissimi «fatti di coscienza» che sono le immagini, solitamente a tal punto impastati e quasi dissolti in una dimensione di pensiero più ampia e scarsamente analizzata, da essere rimasti per secoli invisibili alla considerazione prettamente filosofico-psicologico.

Non va dimenticato inoltre che Sartre, pur muovendosi sulla scorta delle posizioni husserliane, ritiene fondamentale l’apporto delle discipline psicologiche, recependo non poche suggestioni utili in particolare dalle opere di Ribot e Binet così come dalle teorizzazioni della scuola di Würzburg, le quali risulteranno per molti aspetti davvero innovative soprattutto nell’opera successiva dedicata all’Imaginaire.È dunque solo attraversando i grandi sistemi metafisici che Sartre sa di poter addentrarsi in modo proficuo all’interno del problema, tentando ciò che oggi potremmo chiamare una calibrata decostruzione della tradizione, deliberatamente orientata a dissolverne quelle malcelate aporie che hanno sempre ostacolato una retta e fruttuosa problematizzazione della dimensione immaginaria.E già l’utilizzo dell’aggettivo metafisico per designare i sistemi all’interno dei quali le varie teorie sull’immagine hanno trovato un posto più o meno ampio nel corso della Modernità appare sintomatico della particolarissima curvatura teoretica che Sartre conferisce immediatamente alla sua rapida ma incisiva rilettura. Muovendosi da Descartes a Hume egli infatti sottolinea innanzitutto le insolite congruenze di carattere gnoseologico che affettano l’immagine durante la Modernità. Se per l’autore delle Meditazioni metafisiche «l’imagination, ou connaissance de l’image, vient de l’entendement; c’est l’entendement, appliqué à l’impression matérielle produit dans le cerveau, qui nous donne une conscience d’image»,3 subordinando così rigorosamente l’immagine alle funzionalità svolte propriamente dall’intelletto, senza tuttavia che tale impianto teorico riesca ad esplicare come il secondo possa applicarsi a questa realtà corporea molto particolare costituita dall’immagine, per Spinoza4 l’immaginazione inizia già a racchiudere un fascio di proprietà che, pur dipendendo dall’intelletto, sembrano tuttavia differenziarsi profondamente dal modus operandi di quest’ultimo.5 Nota infatti Sartre:

l’image chez Spinoza a un double aspect: elle est profondement distincte de l’idée, elle est la pensée de l’homme en tant que mode fini, et pourtant elle est idée et fragment du monde infini qu’est l’ensemble des idées. Séparée de la pensée […] elle tend aussi a se confondre avec elle, puisque le monde des liaisons mécaniques décrit par Spinoza comme le monde de l’imagination n’est pas coupée du monde intellegible.6

È quindi Leibniz che, ereditando tale nodo tematico rimasto insoluto, cerca di rinvenire un’improbabile linea di sutura tra questi due modi di conoscenza — immagine e pensiero — così che la prima presso di lui arriva a caricarsi di una certa dose di intellettualità.

Per Descartes7 e Spinoza quindi la questione cruciale toccava il rapporto binario tra intelletto e immaginazione; con Leibniz le cose si complicano leggermente nel momento in cui egli stabilisce una sorta di misteriosa equivalenza operativa tra immagine e segno,8 entrambi chiamati ad ricoprire un ruolo accidentale e subordinato, il ruolo cioè di semplici ausiliari del pensiero.9

Pertanto, secondo la rilettura sartriana di Leibniz, immagine e segno sono espressioni capaci di conservare all’interno del loro sistema la rete di relazioni e connessioni intrattenute dall’oggetto o dagli oggetti che essi sono incaricati di rappresentare. Naturalmente tanto i segni quanto le immagini, proprio perché devono permettere la raffigurazione di stati di mondo variabili, sono soggetti a una sorta di «grammatica» la cui funzione è quella di permettere all’interno delle congruenze segniche o immaginarie trasformazioni regolate e passaggi coerenti. Osserva tuttavia Sartre:

la seule différence entre image et idée, c’est alors que dans un cas l’expression de l’objet est confuse et dans l’autre est claire; la confusion vient de ce que tout mouvement enveloppe en lui l’infinité des mouvements de l’univers et le cerveau reçoit une infinité de modifications auxquelles ne peut correspondre qu’une pensée confuse, enveloppant l’infinité des idées claires qui correspondraient à chaque détail.10

Il modello leibniziano è dunque marcato da una intrinseca opacità gnoseologica: il rapporto di coordinazione tra oggetto e immagine rimane inindagato proprio perché il filosofo della monadologia non riesce a rendere conto dell’origine dell’esistenza della seconda se non parlandone in termini di «elementi inconsci ma in se stessi razionali» o di «percezioni incoscienti» che aspirano a diventare coscienti raggiungendo la chiarezza dell’idea. Non è un caso che Sartre parli dell’immagine leibnizianamente intesa come di una sorta di «idea degradata»11 quasi “impastata” di sensibile, a tal punto da risultare oscura, vaga, accidentale, se non addirittura a-logica. Siamo di nuovo ad un passo dall’impostazione propriamente cartesiana. L’autore successivo preso in esame da Sartre è Hume, il quale, pur muovendosi secondo una ispirazione ancora leibniziana, arriva a conclusioni diametralmente opposte. Se il filosofo di Lipsia tenta di riassorbire l’immagine nell’idea stabilendo una controversa differenza di grado tra le due e assegnando comunque il primato conoscitivo alla seconda, l’autore inglese si sforza di ricondurre tutto il pensiero ad un sistema di immagini. In tal modo l’intelletto è costituito soltanto di impressioni e copie di impressioni che sono appunto le immagini, legate tra di loro attraverso un sistema di relazioni di contiguità e rassomiglianza. Ecco come Sartre commenta alcuni tratti del sistema humeano:

les images sont liées entre elles par des relations de contiguité, de ressemblances qui agissent comme des forces données; elles s’agglomèrent selon des attractions de nature mi-mécanique, mi-magique. La ressemblance de certaines images nous permet de leur attribuer un nom commun qui nous porte à croire en l’existence de l’idée générale correspondante, l’ensemble des images seul étant cependant réel, et existant en puissance dans le nom.12

Ritorna così il tema del polo immaginario incosciente che sembra ancora una volta dissolvere la coscienza in un pulviscolo di presenze opache prive di funzione consapevolmente attiva ma caratterizzate solo da «una specie di fosforescenza capricciosamente distribuita».13

Volendo tirare le conclusioni emerse sulla base dell’excursus appena ripercorso, Sartre può registrare due grandi fenomeni: da una parte la coscienza cartesiana — che poteva anche prescindere dalle immagini all’interno del processo conoscitivo finalizzato al raggiungimento delle idee chiare e distinte — si è ridotta in Hume ad una sorta di fluida compagine completamente abitata da immagini più o meno incisive e dettagliate; dall’altra, nonostante la divaricazione apparentemente prodottasi da Descartes all’empirismo inglese, l’immagine è rimasta contrassegnata da un unico e ineliminabile carattere specifico, quello cioè d’essere trattata alla stregua di una cosa. Tale contesto teoretico-gnoseologico rappresenta il fertilissimo humus sul quale allignerà e crescerà nell’arco di circa un secolo e mezzo l’associazionismo inteso come quella dottrina ontologica:

qui affirme l’identité radicale du mode d’être des faits psychiques et et du mode d’être des choses. Il n’existe en somme que des choses: ces choses entrent en relation les unes avec les autres et constituent ainsi une certaine collection qu’on appelle conscience. Et l’image n’est rien autre que la chose en tant qu’elle entretient avec d’autres choses un certain type de rapporti.14

Naturalmente Sartre col termine /cosa/ non intende assolutamente stabilire una netta equivalenza materiale tra immagine mentale e oggetto esterno, ma solo esprimere la concezione che sta alla base dei due grandi indirizzi che nascono proprio in epoca moderna — razionalismo e empirismo — e che si rinforzano reciprocamente nonostante le difformità superficiali che sembrano distanziarli sempre di più. Anticipando in parte le conclusioni del saggio del 1936 in modo da rendere leggermente più comprensibile la critica che Sartre muove a tutto il blocco moderno delle teorie dell’immagine appena passate in rassegna, possiamo dire che né Descartes né i suoi eccellenti epigoni o oppositori riescono ad elaborare una teoria dell’immaginazione che non riduca l’immagine ad una sorta di oggetto mentale “incastrato” a metà tra la dimensione puramente concettuale — propria delle facoltà conoscitive afferenti all’intelletto — e quella prettamente reale ed esterna ai fatti di pensiero, a cui ogni immagine irriducibilmente rimanda, come ben messo in luce dalla posizione leibniziana.

Pertanto, nota ancora Sartre, da Descartes a Hume si possono individuare tre grandi filoni: «un regno del pensiero radicalmente distinto dal regno dell’immagine; un mondo di fatti-immagine, dietro al quale si deve rintracciare un pensiero che appare solo indirettamente, come l’unica ragione possibile dell’organizzazione e della finalità che si può constatare nell’universo delle immagini; un mondo di pure immagini».15All’interno di questo sviluppo l’immagine rimane sempre una cosa, conserva la sua struttura cosale mentre a risultare profondamente modificate sono soltanto le sue relazioni col pensiero, le quali mutano di volta in volta a seconda del punto di vista scelto per cogliere i rapporti tra uomo e mondo, universale e particolare, esistenza come oggetto e esistenza come rappresentazione, anima e corpo. Agli occhi di Sartre una sottile e deformante complicità sembra raccordare razionalismo e empirismo, i quali, saldati strettamente l’uno all’altro, costituiscono da secoli una crosta opaca e refrattaria ad ogni sguardo speculativo al di sotto della quale l’immagine aspetta ancora d’essere liberata e riscoperta per ciò che è realmente.

2. Da Bergson a Husserl

La inedita e sotterranea concrezione teorica che filosofie diverse hanno prodotto attraverso tutta la Modernità, rimanendo sostanzialmente intatta e forse invisibile anche durante il Romanticismo, per arrivare a lambire addirittura i primi anni del Novecento. È una formazione tenace ma inavvertita, spesso trascurata o semplicemente accettata come naturale dai vari pensatori. La matrice cosale dell’immagine sembra non trovare smentite, non offre il fianco a contestazioni o critiche, riesce quasi a compattarsi su se stessa diventando un’area tematica talmente resistente ad ogni approccio che voglia provarne la tenuta teoretica da finire quasi coll’essere trascurata all’interno della riflessione successiva poiché ritenuta ormai risolta.

Lo stesso Taine, affrontando tale questione nel suo corposo studio del 1871 dal titolo De l’intelligence,16 si colloca perfettamente nel solco aperto dalla linea continua che va da Descartes a Hume, affermando senza troppe analisi che le immagini rappresentano all’interno della vita psichica «ripetizioni spontanee della sensazione»,17 riducendosi esse in fin dei conti a sole sensazioni rinascenti tali che trasformano l’esprit in una sorta di polipaio d’immagini, anche se in ogni caso subordinate alle attività cognitive superiori. Sebbene infatti il Taine dedichi un intero capitolo alle immagini, le conclusioni a cui questo perviene non riescono in alcun modo a rettificare o a rinnovare la modalità di approccio al fenomeno in questione. L’immagine non solo permane in un conflitto incessante con l’idea, ma anzi costituisce un fenomeno psichico anteriore e di gran lunga inferiore rispetto ad essa.18A distanza di circa due secoli siamo ancora in un’ottica vagamente cartesiana con marcate venature humeane. Tuttavia, nota Sartre, qualcosa stava succedendo nell’ambito degli studi afferenti le capacità intellettuali dell’uomo.

Una disciplina specifica come la psicologia andava radicandosi in modo sempre più articolato all’interno del grande e variegato orizzonte filosofico uscito dalla Modernità. Suddetta disciplina va via via precisandosi mettendo a punto non solo una capacità di penetrazione critica dei fenomeni del tutto nuova e per nulla o scarsamente compromessa con le metodologie della tradizione, ma soprattutto in grado di aprire degli squarci prospettici inediti su temi e problemi che la riflessione precedente non aveva saputo inquadrare in modo corretto. Si tratta naturalmente di un lungo e travagliato processo di preparazione e sviluppo. La psicologia sembra comunque dover prima riattraversare in parte alcuni dei traviamenti e travisamenti operati dalla tradizione per arrivare ad una maturazione piena che sia consapevole di quegli stessi equivoci che essa riesce finalmente a mette in risalto. Per Sartre infatti sarà solo agli albori del Novecento, con Ribot e la sua opera del 191419 che la cosiddetta psicologia sintetica20 riesce a mettere a punto un metodo positivo in seno al quale ricollocare tutti i problemi dell’immagine. La novità del testo di Ribot risiede soprattutto nel suo sforzo finalizzato a calare l’immagine all’interno di una dimensione specificamente motrice21 e pertanto funzionale ai movimenti e agli spostamenti del corpo del soggetto. Enucleata rispetto alla dimensione meramente conoscitiva, l’immagine ora costituisce un elemento importante della controparte propriamente fisico-organica dell’uomo. È tuttavia un’operetta leggermente più tarda del Ribot ad attrarre l’attenzione di Sartre, intitolata non a caso L’imagination créatrice.22 In essa l’autore recupera in parte alcuni elementi dell’associazionismo ingenuo per smontarne i meccanismi interni. Ribot infatti parla di un associazionismo guidato. Se per la versione obsoleta d’associazionismo — per intenderci, quello della tradizione — le immagini sembravano fluttuare sullo schermo della coscienza raggruppandosi e smembrandosi secondo trame per lo più incoscienti,23 secondo Ribot le trasformazioni dell’immaginazione sono dettate da tre fattori: quello intellettuale, quello affettivo e quello incosciente. In effetti anche Ribot non prosegue ulteriormente lungo tale traiettoria, arenandosi su posizioni che ricordano molto quelle del Taine.

Lo snodo importante però rappresentato dall’autore de L’imagination créatrice consiste nell’aver operato una segmentazione più capillare dei fenomeni mentali che presiedono all’organizzazione delle immagini, individuando quei tre grandi poli dinamici intorno ai quali si svolge la vita della coscienza. La soluzione di Ribot dunque non soddisfa assolutamente Sartre, il quale tuttavia gli riconosce il merito d’aver impostato l’analisi dell’immaginazione in modo nuovo, reinnestandola soprattutto in un ambito di ricerca che ne possa permette l’ampliamento e l’approfondimento. Va detto che però, nonostante tale lieve incrinatura interna, l’associazionismo sembra reggere. È pertanto l’irruzione sulla scena filosofica di Bergson che scompiglia radicalmente tutto il torpido panorama speculativo all’interno del quale l’immagine sembrava essersi assopita senza alcun sussulto. Già con le sue due prime opere24 il filosofo dell’élan vital non solo prende posizione contro ogni associazionismo, impegnandosi piuttosto in un’opera di puntuale rimessa in discussione dei molti aspetti che le teorie sull’immagine anteriori avevano creduto di chiarire.

Per Bergson, in rotta con l’intera tradizione precedente, tutto è immagine.25 Il mondo stesso si compone e si disgrega attraverso immagini che sembrano connettersi e proliferare come lungo un immenso reticolo nervoso fatto di rifrangenze e rispecchiamenti più o meno accentuati. La realtà è una solida ma flessibile architettura di immagini che si distribuiscono e si sviluppano secondo leggi proprie, all’interno della quale può emergere il soggetto capace di operare una selezione precisa di esse. Tale selezione non conferisce alcun esse alle immagini ma dà loro soltanto un fioco essere coscientemente percepite. Chiosa Sartre: «per il realismo bergsoniano la cosa è l’immagine, la materia è l’insieme delle immagini».26

Ma in che modo il soggetto seleziona le immagini? Attraverso il corpo, elevato da Bergson a mobile luogo di trapasso e condensazione, scambio e proiezione:

ce centre de réflexion et d’obscurité à la fois qui actualise la conscience virtuelle, c’est le corps. C’est lui qui, en isolant certaines images, les transforme, en représentations actuelles.27

Si tratta, per Sartre, di una tesi spaventosamente controversa, che crea più problemi di quanti sembra risolverne: innanzitutto l’uomo è ridotto ad una specie di epifenomeno di cui si può descrivere l’azione ma la cui origine rimane oscura a tal punto che la differenza tra il mondo senza l’uomo e la realtà attraversata dalla coscienza si riduce «a una luminosità che va dalla cosa al soggetto». Per Bergson infatti all’interno di questa cosmo-ontologia vibratile e sottile:

il y a lumière pure, phosphorescence, sans matière illuminée; seulement cette lumière pure, partout diffuse, ne devient actuelle qu’en se réfléchissant sur certaines surfaces qui servent en même temps d’écran par rapport aux autres zones lumineuses.28

A dispetto quindi di ogni proposta innovativa apportata da Bergson,29 Sartre non può non notare nella sua posizione una massiccia componente prettamente humeana. Per entrambi infatti l’immagine aderisce perfettamente alla percezione, con l’unica differenza che, se nel filosofo inglese la prima è una sorta di copia sbiadita della seconda, nel padre dell’intuizionismo vitalista l’immagine sembra ora un’ombra, un’eco esangue della percezione, ora un oggetto opaco e consistente strutturante insieme a tutti gli altri la totalità del mondo esterno. Sartre si rende dunque conto che nello spostamento da Descartes a Bergson si è assistiti ad un secolare e lentissimo scivolamento, il quale ha fatto sì che si passasse da una prospettiva cosale dell’immagine ad una dimensione immaginifica o, per usare un termine di conio recente nel lessico filosofico, soprattutto di lingua francese, immaginale degli enti strutturanti il mondo esterno. Ma la permutazione avvenuta non risolve affatto la questione afferente alla dimensione specifica dell’immagine, né riesce ad innestare quest’ultima in un terreno disposto a recepire l’azione di elementi e strumenti in grado di offrire un approccio più consapevole. Inoltre Sartre nota quanto l’impostazione bergsoniana risulti farraginosa nel momento in cui il dibattito sull’immaginazione venga a schiudersi su altri vissuti coscienziali come la memoria e il ricordo. Tra immagine esterna, immagine del mondo esterno selezionata dal polo soggettivo del corpo, immagine-percezione, immagine-impressione si insinua un ulteriore specimen, cioè l’immagine-ricordo difficilmente identificabile con le tipologie precedenti e dunque di arditissima collocazione all’interno della già affollata popolazione intenzionale del pensiero. Ciò porta il nostro autore a concludere che se prima:

l’image doublait la perception comme son ombre, elle était la perception même, tombant dans le passé, elle était l’image-chose elle-même isolée seulement de son entourage de façon à devenir une image-tableau; à présent au contraire il semble que la perception contienne synthétiquement une multitude d’images auxquelles la tension du corpsdonne une unité indivisée, mais qui s’éparpillent dès que le corps se relâche.30

Vi è però un grande merito che va riconosciuto a Bergson: quest’ultimo ha posto l’attenzione sul mondo dell’immagine attribuendo ad essa un ruolo sorprendentemente centrale nell’economia dei fatti di coscienza, ha visto cioè che nel travagliato cogito cartesiano l’immagine entrava di diritto come una protagonista assoluta, decisiva, ineliminabile e per nulla trascurabile. Bergson in sostanza sembra rappresentare la grande cesura che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si consuma tra versione tradizionale dell’immagine e ogni imagologia contemporanea.31 La sua filosofia rimane agli occhi da Sartre naturalmente affetta da gravissime lacune e aporie, ma nonostante ciò il filosofo dell’élan vital è riuscito a smuovere in parte il secolare immobilismo teorico sotto cui l’immagine era stata in parte soffocata. Tuttavia egli non è riuscito ad inquadrare l’immagine stessa, provando che essa è radicalmente differente da un oggetto.32 Affievolendo la compattezza della coscienza, lasciando dilagare una fluidità immaginifica in ogni aspetto del mondo, Bergson «ha lasciato sussistere in seno alla durata pura queste immagini inerti, come pietre in fondo all’acqua. E tutto è da ricominciare».33

È così nell’opera husserliana del 1913 — Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica — che Sartre individua senza alcun dubbio il punto di svolta di tutta la questione. La fenomenologia, a differenza delle altre discipline psicologiche, grazie alla sospensione dell’atteggiamento naturale operato dall’epochè non analizza i fatti di coscienza all’interno di un realismo spontaneo che polarizzi in modo troppo netto la dissociazione mondo interno/pensiero, ma piuttosto essa arriva a neutralizzare tale divario addentrandosi in modo inedito all’interno delle pure cogitationes e analizzandone gli elementi portanti solo nel momento in cui questi emergono nell’ambito di configurazioni puramente coscienziali. Quasi in forza di un invisibile paradosso Sartre si rende conto che solo tramite una coscienza pienamente ma dinamicamente ripiegata su se stessa attraverso la riflessione è possibile accedere ad un piano trascendentale della considerazione filosofica che abbia per oggetto i vissuti intenzionali; alla luce di ciò pertanto la fenomenologia consiste nella ricognizione e nella descrizione delle strutture della coscienza trascendentale fondate sulla cosiddetta intuizione eidetica, cioè costitutivamente rivolta a cogliere e “inventariare” le essenze che stanno alla base di tutte le possibili configurazioni empirico-naturali caratterizzanti la coscienza intesa secondo l’atteggiamento naturale e non fenomenologicamente ridotta. Ecco allora come Sartre tratteggia tale stato di cose:

la phénoménologie est une description des structures de la conscience transcedentale fondée sur l’intuition des essences de ces structures. Naturellement, cette description s’opère sur le plan de la réflexion.34

E ancora, richiamandosi direttamente a Husserl, è sempre Sarte ad osservare che «se si amano i paradossi [possiamo dire che] la finzione è l’elemento vitale della fenomenologia, come di tutte le scienze eidetiche, che la finzione è la sorgente da cui la conoscenza delle verità eterne trae il suo nutrimento».35

La coscienza, pur chiudendosi su se stessa, si trova esposta ad una considerazione totalmente inedita, dove il grande tema principale non verte più sulla necessità di trovare e assicurare costantemente un punto di contatto tra pensiero e mondo, immagine e cosa, percezione e realtà, ma piuttosto ruota attorno a latitudini di pensiero forse del tutto inesplorate perché mai messe a contatto col reagente idoneo a renderle presenti. Per Sartre all’interno di questo discorso non può non trovare un posto privilegiato anche e soprattutto l’immagine. Non è un caso che egli verso la fine de L’imagination, dopo aver discusso e passato in rassegna molte posizioni strettamente husserliane,36faccia virare d’improvviso la propria riflessione dirigendola verso una esplicita, e fino ad allora mai neppure azzardata, eidetica dell’immagine. Ma come avviene tale trapasso? In che modo Sartre riesce a liberarsi dalle pesanti ipoteche di una tradizione talmente consolidata da aver condizionato e snaturato, quando non ostacolato radicalmente, tutte le teorie sull’immagine precedenti? A fornire una risposta soddisfacente a queste domande è ancora una volta una nozione propria della “artiglieria” fenomenologica, forse la nozione centrale di tutta la riflessione husserliana, sicuramente quella che più di tutte era destinata ad aprire numerose, e non sempre ortodosse, traiettorie di ricerca: la nozione di intenzionalità. Seguendo fedelmente le Ideen, l’autore de L’imagination si sofferma su alcuni punti chiave dell’opera del ’13 e, articolando il proprio discorso secondo gli snodi logici di una concatenazione deduttiva, riesce a incardinare tutto il problema dell’immagine sulla intenzionalità della coscienza, intendendo quest’ultima espressione come lo strutturale e insopprimibile «tendere a qualcosa» di ogni atto cogitativo. Ma quali sono fattualmente gli apporti offerti dalla impostazione husserliana? Seguendo Sartre possiamo individuare quattro momenti cruciali:

  1. Innanzitutto, come è noto, ogni coscienza è coscienza di qualcosa; in tal modo tutti gli Erlebnisse hanno in comune la proprietà di rapportarsi necessariamente a qualcosa in modo essenzialmente intenzionale.
  2. L’intenzionalità è pertanto la struttura ineliminabile e specifica di tutta la coscienza. Da ciò deriva la distinzione radicale tra la coscienza stessa e ciò di cui essa ha coscienza.
  3. Tale stato di cose fa sì che pur essendovi dei contenuti di coscienza, tali contenuti non sono l’oggetto della coscienza, ma attraverso di essi, l’intenzionalità prende di mira l’oggetto «che è il correlato della coscienza senza essere della coscienza», ovvero appartenente ad un piano di realtà che trascende i contenuti meramente coscienziali tramite cui si presentifica negli atti di prensione:37

tout état de conscience ou plutôt […] toute conscience est conscience de quelque chose. Toutes les Erlebnisse qui ont en commun cette propriété d’essence s’appellent aussi Erlebnisse intentionellen; dans la mesure où elles sont conscience de quelque chose on dit qu’elles se rapportent intentionellement à ce quelque chose.38

  1. Alla luce di ciò Sartre può concludere quasi deduttivamente che ciò di cui vi è coscienza oltrepassa ed eccede la coscienza, si situa al di là di essa sebbene questa per accedervi abbia bisogno di un momento riflessivo che la porta a piegarsi su se stessa per cogliere nella trama delle proprie strutture il momento di formazione dei contenuti che la trascendono:

l’intentionnalité, telle est la structure essentielle de toute conscience. Il s’ensuit naturellement une distinction radicale entre le conscience et ce dont il y a conscience. L’objet de la conscience quel qu’il soit […] est par principe hors de la conscience: il est transcendant.39

Portata in superficie40 la irriducibile infrastruttura intenzionale delle immagini dopo aver riconosciuto la profonda natura finzionale di tutti i vissuti di coscienza nel momento in cui questi diventano oggetto di prensione eidetica41 fenomenologicamente ridotta, Sartre può proporre una serie di esempi o esperimenti in base ai quali egli consolida e conferma la legittimità della sua impostazione teorica. Grazie agli ingenti e rivoluzionari apporti euristici della filosofia husserliana possiamo notare che nell’immaginare un centauro intento a suonare il flauto, l’immagine che affiora alla coscienza è una rappresentazione nella misura in cui col termine rappresentazione si designa propriamente solo ciò che viene raffigurato in quello specifico atto cogitativo e non un certo stato psichico. Il centauro stesso non è nulla di psichico, non esiste né nell’anima, né nella coscienza; non esiste affatto essendo da parte a parte invenzione. Pertanto «Husserl restituisce al centauro la sua trascendenza nel seno stesso del suo nulla».42

Arrivati a questo punto l’immagine pertanto non è più una cosa all’interno del pensiero, ma piuttosto un modo proprio della coscienza di mirare, di cogliere il suo oggetto o, riportando direttamente le parole con cui Sartre prende congedo dall’Immaginazione, «L’immagine è un certo tipo di coscienza, [essa] è un atto e non una cosa. L’immagine è coscienza di qualche cosa».43

3. Approcci alla conscience imageante44

Nell’ultima parte del quarto capitolo dell’Immaginazione, immediatamente prima delle folgoranti conclusioni appena riportate in chiusura del nostro secondo paragrafo, Sartre si sofferma su alcuni aspetti della fenomenologia husserliana al fine di rendere ancora più pregnante il senso di innovazione da questa apportato in un ambito di studi che non aveva mai trovato una contestualizzazione adeguata.

In queste brevi note il nostro autore leggendo en raccourci i grandi testi del maestro tedesco affronta brevemente la questione della differenziazione tra percezione reale e proiezione immaginaria, tra immagine reale e immagine rimemorativa, tra sintesi passiva e sintesi attiva e soprattutto tra immagine mentale e immagine materiale, riportata cioè su un qualsiasi supporto esterno. Sartre non si addentra mai nei meandri della riflessione husserliana, non contesta e non difende le posizioni dell’ortodossia fenomenologica da critiche terze, ma si limita a fare una sorta di rapido resoconto incentrato unicamente sulla messa a fuoco dei gangli vitali della metodologia prettamente husserliana.

Probabilmente all’autore de La nausée preme unicamente evidenziare come l’enucleazione della connotazione specificamente trascendente del portato di coscienza permetta in sostanza non solo di isolare all’interno della vita propriamente psichica dei nuclei intenzionali per nulla compromessi con la rispondenza al dato esterno o reale, ma anche e soprattutto come la natura strutturalmente intenzionale propria di ogni vissuto e in particolare dell’immagine — diventata nella rilettura sartriana il connotato trasversalmente ineludibile di tutta la vita coscienziale — consenta di sviluppare una articolatissima trama di riflessioni e considerazioni sul modo in cui è possibile dar senso a queste compagini intenzionali e come da tale attribuzione di senso sia alla fine il mondo stesso a prendere forma.

Per Sartre la coscienza anima i dati, dà loro organizzazione e continuità, li compagina in formazioni di senso più o meno chiare, più o meno definite, conferisce loro un’articolazione interna mobile e flessibile, ma al tempo stesso stabile e pertanto attendibile. Gli slanci intenzionali intervengono quali modi d’animazione di una materia impressionale le cui configurazioni nascono nelle e dalle stratificazioni più profonde della coscienza.

Soltanto fondandosi su questi tratti distintivi del movimento intenzionale e, potremmo dire, intenzionante Sartre riesce non solo a riformulare in modo nuovo e inedito tutto il problema dell’immagine, ma anche e soprattutto a ricondurre l’immagine — con tutto il ricchissimo plesso di questioni e aporie, strutture e configurazioni, sedimentazioni e connotazioni che essa si porta dietro — al centro di tutta la sua rilettura sempre più obliqua della fenomenologia husserliana. In effetti il grande spazio concesso all’immaginazione misura già la profonda scissione che stava consumandosi tra il filosofo francese e il maestro tedesco. Husserl infatti pur dedicando non poche osservazioni ai precipitati immaginari che si depositano sui vari strati della coscienza non riserva mai loro un posto così centrale nell’economia generale della sua riflessione come farà invece Sartre, preferendo concentrarsi su altri aspetti quali ad esempio la coscienza interna del tempo, la genealogia della razionalità in Erfahrung und Urteil, la duplice natura del metodo fenomenologico (statico e genetico), le difformità noetico/noematiche tra vari tipi di coscienza (tetica, doxastica, ritenzionale) con i rispettivi atti di giudizio. La ripresa sartriana di tutto questo articolato e complesso campo di studi avviene secondo una linea fortemente critica, orientata cioè ad operare una selezione piuttosto drastica in esso e soprattutto ponendo l’accento su aspetti ed elementi rimasti quasi nell’ombra rispetto alle teorizzazioni ortodosse.

Ma perché questa insolita degenerazione sartriana rispetto al dettato del maestro? Perché l’attenzione di Sartre è così attratta dai caratteri apparentemente secondari di tutto il discorso husserliano da trasformare la propria lettura del filosofo tedesco in una versione quasi eretica del dettato originario? I fattori di tale processo d’allontanamento in effetti non possono che essere molteplici e di più varia natura. Innanzitutto è necessario ricordare che nel suo periodo si studi berlinesi Sartre non venne a contatto solo con Husserl, ma conobbe da vicino e studiò anche il pensiero di Heidegger, la cui opera più volte è stata letta come un esplicito ed eccellente parricidio speculativo nei confronti del padre della fenomenologia. Ma va anche tenuto presente che su Sartre influivano massicciamente elementi, apporti, suggestioni d’ascendenza tutta francese, che egli tentò di recuperare innestandoli sulla matrice prettamente fenomenologica. Non è un caso che nel capitolo centrale de L’imagination, dal titolo le contraddizioni della concezione classica, Sartre, pur muovendo da alcune posizioni di Spaier e della scuola di Würzburg, arrivi in ultima analisi a discutere in modo alquanto approfondito tesi proprie del Taine e di Alain.45

Pertanto è proprio ripercorrendo suddetto capitolo che è possibile intercettare il polo effettivamente problematico attorno cui Sartre lascia addensare i principali contributi d’estrazione puramente fenomenologica riletti e innestati però all’interno della sua riflessione dopo aver fatto subire loro una torsione forse innaturale.

Oltre alla controversa natura cosale dell’immagine in tutta la riflessione moderna e primo-contemporanea sull’immagine vi è per Sartre un ulteriore zona d’ombra scarsamente considerata e spesso palesemente dimenticata, se non risolta in modi a dir poco imbarazzanti. Tale nodo si è formato sostanzialmente in corrispondenza delle inadeguate modalità discriminatorie messe in campo per dissociare e riconoscere immagine e percezione. Come già visto, era stato soprattutto Bergson ad interessarsi di ciò, polverizzando il mondo in una fluida massa di apparizioni all’interno della quale l’emergere del soggetto dotato di corpo rappresentava una sorta di centro capace di operare una selezione parziale, momentanea, relativa di immagini e dunque di cose, oggetti, stati di mondo. Si tratta naturalmente di una soluzione per nulla soddisfacente agli occhi di Sartre, il quale è interessato da una parte ad espellere la tradizionale cosalità dell’immagine al di fuori dei vissuti di coscienza e dall’altra a riassorbire nella propensione essenzialmente intenzionale del pensiero la mobile e cangiante vibratilità delle immagini propria di Bergson.

Azzardando tale scambio incrociato tra queste due versioni di immaginazione, Sartre perviene quasi sorprendentemente a far collimare tutti gli elementi in gioco all’interno di un potente affresco teoretico ove immagine e percezione risultano rispettivamente identificabili proprio perché reciprocamente distinguibili sulla base di caratteri specifici. Ma soprattutto Sartre elimina ogni opposizione innaturale e sopprime qualsiasi identificazione indebita ponendo immagine e percezione su di una sottile ma resistente linea di continuità che le raccorda secondo una logica di reversibilità costante e fisiologicamente strutturante il loro funzionamento.

In sostanza di cosa si è accorto Sartre? Innanzitutto egli va subito oltre la semplice osservazione della differenza di natura tra immagine e percezione propria di un realismo ingenuo. Secondo la nuova impostazione sartriana percezione e immagine sono legate da una sottile ma infrangibile complicità teoretico-gnoseologica grazie a cui esse non intervengono per rappresentare semplicemente la realtà secondo una prassi di piatto rispecchiamento, ma entrambe concorrono a costruire, a inventare e strutturare il mondo innervandolo di elementi interpretativi, situati in una sorta di limbo tra l’oggettività del dato esterno e le formazioni coscienziali proprie del polo soggettivo: all’interno di un sistema infinito e continuo di referenze infatti:

il ne s’agit plus d’un rapport de conformité à l’objet externe. Nous sommes dans un monde de représentations. Le critérium est devenu l’accord des représentations entre elles. Nous sommes ainsi débarassés du réalisme naive. Mais l’indice du vrai demeure extérieur à la représentation elle-même […]. L’image, c’est, parmi les données sensibles, ce qui ne peut passer à l’objectif. L’image, c’est la subjectivité.46

Si tratta già di una dimensione plastica, malleabile, strutturabile secondo linee di senso plurali e non rigidamente imposte da una ipotetica ossatura ontologica che aspetta solo di essere registrata dai sensi ed esplicata dall’intelletto. Il nulla dell’immagine tramato sull’essere del mondo ne opera al tempo stesso una specie di sottile e inavvertita decompressione all’interno della quale il soggetto riesce a ritagliarsi degli spazi d’azione più o meno ampi, aspetto quest’ultimo che Sartre svilupperà ampiamente nel suo capolavoro del ’44: «partendo da dati neutri, si tratta di costruire un sistema oggettivo. Il mondo reale non c’è, esso si fa, subisce incessanti ritocchi, s’assottiglia, si arricchisce».47 Ma oltre a questo piano ontologico vi è una nuova atmosfera gnoseologica all’interno della quale l’immagine si trova a gravitare in modo sempre più ampio e che corrisponde più o meno a quanto abbiamo già messo in luce concludendo il paragrafo precedente, vale e dire l’intenzionalità endogena di ogni immagine; ancora una volta, mettendo in frizione la concezione classica con la sua visione del problema, Sartre fa notare che il primo compito di una psicologia concreta deve essere quello di sgomberare il terreno da tutti i postulati metafisici, per ripartire poi da un dato di fatto irrefutabile: alla luce di ciò egli può constatare:

il m’est impossible de former une image sans savoir en même temps que je forme une image; et la connaissance immédiate que j’ai de l’image en tant que telle pourra devenir la base de jugements d’existence […] mais elle est elle-même une évidence anté-prédicative.48

Siamo arrivati così ad uno snodo fondamentale de L’imagination: l’esistenza antepredicativa non è soltanto quella che accompagna ogni nostro vissuto intenzionale ma è anche quella conformazione particolare della coscienza per cui questa è caratterizzata da un’insopprimibile apertura su se stessa e in se stessa, così che, perennemente doppiata e sdoppiata dal proprio strutturale protendersi ad altro, la coscienza si spalanca sul mondo cogliendolo nell’atto stesso di autotrascendersi e, simultaneamente, trascende il mondo nel gesto stesso di cogliersi quale potenza intenzionale infinitamente spalancata sul proprio protendersi verso un dato esterno ad essa.

Pervenuti a questo punto Sartre sa di dover tirare le conclusioni, le quali si sostanziano in tre grandi nuclei teorici:

I. Per un’inflessibile legge ontologica vi sono solo due tipi d’esistenza: l’esistenza come cosa del mondo — cioè inerte opaca, massiva, serrata sulla propria ferma compattezza — e l’esistenza come coscienza, aperta tanto verso il mondo quanto su se stessa.

II. Un’esistenza come quest’ultima deve dirsi spontanea: essa cioè è in grado di autodeterminarsi ad esistere ed è capace d’esistere per sé e da sé; in essa inoltre esistere e avere coscienza di esistere fanno tutt’uno a tal punto che «la sola maniera di esistere per una coscienza è quella d’avere coscienza d’esistere».49

III. Non basta più dire che anche l’immagine è una forma di coscienza intenzionale; a questo punto è doveroso fare un ulteriore passo avanti e sostenere senza alcun timore che «l’immagine è coscienza, è spontaneità pura, vale a dire autocoscienza, trasparenza per sé e non esiste che nella misura in cui si conosce. Non è perciò un contenuto sensibile».50

Per Sartre dunque l’immagine non è più solo uno dei tanti vissuti che si possono avere nella vita della coscienza. L’immagine ora sembra aderire senza residuo alla coscienza stessa, è essa a rappresentare meglio di tutto i tratti salienti di un’esistenza caratterizzata da apertura intenzionale, spontaneità, identità intrinseca tra esistere e aver coscienza d’esistere. Probabilmente l’identificazione tout court può sembrare ad un primo sguardo forzata, non sufficientemente approfondita o decisamente arbitraria. In effetti Sartre sa benissimo di aver proposto qualcosa che può risultare azzardato e non è un caso che verso la fine del terzo capitolo, ritornando sulla natura dell’immagine e marcando una distinzione piuttosto netta tra essa e le altre configurazioni intenzionali, afferma che «il suo modo d’essere è esattamente il suo apparire»,51 segnalando con tale espressione il passaggio forse inavvertito ma recisamente traumatico tramite cui transitare da un’accezione di ontologia intesa secondo le linee teoriche tradizionali ad una dimensione speculativa totalmente altra. E proprio in questo alleggerimento ontologico però che bisogna vedere in nuce tutto lo sviluppo della futura filosofia sartriana. L’apparire infatti permette di sollevare il pensiero dalla morta pastosità dell’essere, lasciando scivolare in seno ad esso delle tenui ma vitali venature di negatività tramite le quali la coscienza del per-sé è libera di scorrere per reinventare, rinsanguare, rivitalizzare la massa inesorabilmente amorfa e inerte dell’in-sé.52 Inoltre è proprio ricorrendo alle statuto specifico dell’apparire che è possibile per la prima volta dissociare non solo l’immagine dalla percezione, ma anche separare e far funzionare in modo indipendente il giudizio di esistenza dalla posizione tetica di un contenuto prettamente intenzionale. Se per Sartre elaborare una teoria dell’immaginazione significa sostanzialmente soddisfare due esigenze — rendere conto della discriminazione spontanea che la mente opera tra immagine e percezione e esplicitare il ruolo che gioca l’immagine nella vita del pensiero — la concezione classica allora ha sempre fallito poiché essa, dando all’immagine un contenuto sensibile, ne ha fatto una cosa soggetta alle leggi delle cose e non a quelle della coscienza. In tal modo tale concezione ha negato sempre alla coscienza la possibilità di distinguerla dalle altre cose del mondo. Alla luce di ciò:

donner à l’image un contenu sensible, c’est faire d’elle une chose obéissante aux lois des choses et non à celles de la conscience; on ôte ainsi à l’esprit toute possibilité da la distinguer des autres choses du monde. Il devient impossible, en mme temps, de concevoir d’une façon quelconque le rapport de cette chose avec la pensée. Si l’on soustrait, en effet, l’image à la conscience, on enlève à cette dernière toute sa liberté. Si on l’y fait entrer, tout l’univers entre avec elle et la conscience se solidifie d’un seul coup, comme une solution sursaturée.53

Invece grazie al delicato lavorìo di lenta e capillare distillazione messo in atto da Sartre, l’immagine fenomenologicamente intesa non solo non può assolutamente essere confusa con una cosa ma non deve neppure necessariamente rimandare in modo certo e diretto ad un referente esterno, reale. Calata nella nuova soluzione teoretica sapientemente ottenuta dall’autore de La nausée possiamo dire che all’interno dei fatti di coscienza vi è un contenuto inassimilabile ad altro che è l’immagine e questo contenuto è «una struttura irriducibile della coscienza».54 Per esplicare meglio tale raffinata e forse anche controversa dimensione intenzionale propria dell’immagine Sartre ricorre ad uno dei suoi esempi tipici:

quand j’évoque l’image de mon ami Pierre, je ne porte pas un jugement faux sur sur l’état de mon corps: mais mon ami Pierre m’apparaît; il ne m’apparaît certes pas comme objet, comme actuellement présent, comme «là». Mais il m’apparaît en image. Sans doute pour formuler le jugement «j’ai une image de Pierre», il convient que je passe à la refléxion, c’est-à-dire que je dirige mon attention non plus sur l’objet de l’image, mais sur l’image elle-même, comme réalité psychique. Mais ce passage à la refléxion n’altère nullement la qualité positionelle de l’image.55

Le conclusioni inoppugnabili a cui non può non pervenire tale serrata concatenazione d’argomenti e dimostrazioni, esempi e ragionamenti si condensano nella naturale costatazione per cui «l’immagine è una realtà psichica certa; in nessuna maniera potrebbe ricondursi ad un contenuto sensibile né costituirsi sulla base di un contenuto sensibile».56La nuova soluzione fenomenologica in seno alla quale gravita ora la nozione di immagine non segna solo una rottura netta con tutte le deformanti compromissioni a cui essa era stata sottoposta dalla concezione classica, ma misura anche la rapidità con la quale Sartre ha assimilato e metabolizzato gli ingenti prestiti husserliani, innestati ora su una precisa traiettoria di indagine che forse a livello di conclusioni e risultati nulla ha a che fare più con l’impostazione del padre della fenomenologia. L’immagine oltre a non essere cosa non è neppure una realtà psichica secondaria nell’ambito dei processi intenzionali con cui l’uomo s’apre al mondo. Essa, sebbene per secoli sia stata il vero punto cieco di tutta la riflessione filosofica, riveste agli occhi di Sartre un ruolo di primissimo piano, così che ogni pensiero che voglia tentare di soppesare fenomenologicamente le possibilità di un discorso rivolto a considerazioni di carattere ontologico non può prescindere da una retta valutazione delle virtualità speculativo-gnoseologiche possedute dall’immagine.

Giunti al termine del lungo tragitto percorso da Sartre ne L’imagination, guardando un attimo alle nostre spalle riusciamo forse a renderci conto quanto travagliato ma al tempo stesso deciso sia stato il cammino che egli ha scelto di percorrere e quali e quanti territori ha dovuto attraversare per pervenire soltanto in vista della terra promessa di una filosofia dell’immagine che resta ancora tutta da decifrare se non proprio da elaborare. L’imaginaire probabilmente non costituisce null’altro che il primo passo all’interno di questo nuovo territorio del pensiero.

Note


  1. J-P Sartre, L’imagination, PUF, Paris 1969, p. 5. Da ora sempre abbreviata in nota con I seguita dal numero di pagina. ↩︎

  2. Ivi, p. 7. ↩︎

  3. Ivi, p. 13. Qual è il posto dell’immaginazione nel sistema cartesiano? Sartre evita di porsi direttamente questo interrogativo poiché lo porterebbe troppo lontano rispetto al suo scopo. Segnaliamo però che nei Principia philosophiae non vi è alcun capitolo specifico dedicato al problema dell’immagine o dell’immaginazione, là dove da Leibniz a Hume, fino a Bergson e Husserl, vi sarà sempre una sezione esplicitamente consacrata alla valutazione della portata gnoseologica dell’immagine. ↩︎

  4. Per quanto riguarda l’immagine è nello Scolio alla Proposizione XLIX della seconda parte dell’Etica che Spinoza espone le sue riflessioni. Tuttavia qui egli non prende qui in considerazione il tema dell’immaginazione che interessa direttamente Sartre. In merito a ciò imprescindibile ancora oggi risulta lo studio di Gueroult sulle differenze tra intellectus e imaginatio nel pensiero spinoziano: cfr M. Gueroult, La lettre de Spinoza sur l’infini, in Revue de Métaphysique et de Morale, N. 4, 1966, pp. 385-411. ↩︎

  5. È nella proposizione XI del quinto libro che Spinoza enuncia i caratteri propri della potenza conoscitiva dell’imago, legati alla sua capacità di riferirsi, tramite la relazione imitativa, ad un numero sempre maggiore di cose. Sartre non si sofferma in modo puntuale su questa oscillazione interna al sistema spinoziano tra imaginatio e imago, ma in ogni caso la sua lettura coglie perfettamente la dialettica interna che raccorda e distingue immagine e intelletto. ↩︎

  6. I, p. 22. Su Spinoza in merito a ciò cfr H. Védrine, Les grandes conceptions de l’imaginaire, Livres de Poche, Paris 1990, soprattutto pp. 63-86. inoltre cfr anche A. Flajoliet, La première philosophie de Sartre, Champion, Paris 2008, pp. 403-421. ↩︎

  7. In relazione a ciò cfr P. Guenancia, Le regard de la pensée. Philosohie de la représentation, PUF, Paris 2009, soprattutto pp. 47-76. ↩︎

  8. Probabilmente anche sulla scorta della sua carachteristica universalis. Va detto però che, allorché Leibniz sente il bisogno di tematizzare in modo sempre più preciso la componente conoscitiva dell’immagine, il progetto della carachteristica universalis risulta fortemente ridimensionato, cfr W. G. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, tr it a cura di E. Cecchi, Laterza, Roma-Bari, 1988, soprattutto il capitolo XXIX del libro secondo in cui si parla delle pitture mentali, p. 350 e sgg.. Notiamo inoltre che per introdurre la sezione sull’intelletto Leibniz si serve di una metafora presa dalle arti figurative: «L’intelletto somiglia assai a una camera oscura» (p. 221), affermazione che entra legittimamente in risonanza con l’incipit del capitolo XIII del libro quarto in cui si dice «La nostra conoscenza ha molta relazione con la vista» (p. 591). ↩︎

  9. Per quanto riguardo lo statuto effettivo dei segni cfr W. G. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, soprattutto il libro terzo, pp. 369-449. ↩︎

  10. I, p. 11. ↩︎

  11. Degradata perché priva di quella chiarezza e distinzione a cui deve tendere l’idea vera↩︎

  12. Ivi, p. 13. ↩︎

  13. Ibid. ↩︎

  14. Ivi, p. 17. ↩︎

  15. Ivi, p. 22. Cfr inoltre C. Poulette, Sartre ou les aventures du sujet, L’Harmattan, Paris 2001, pp. 123-130. ↩︎

  16. H. Taine, De l’intelligence I, Hachette, Paris 1892, pp. 68-155. ↩︎

  17. I, p. 31. ↩︎

  18. H. Taine, De l’intelligence, pp. 152-157. Va però sottolineato che Sartre apprezza lo sforzo del Taine per uscire dalle secche interpretative proprie della Modernità che finivano con il riassorbire la riflessione sull’immagine all’interno della ipotesi chosiste↩︎

  19. Th. Ribot, La vie inconsciente et les mouvements, Félix Alcan, Paris 1914. ↩︎

  20. L’espressione è esplicitamente sartriana, cfr I, p. 37. ↩︎

  21. Th. Ribot, La vie inconsciente et les mouvements, pp. 2-47. ↩︎

  22. Th. Ribot, Essai sur l’imagination créatrice, Félix Alcan, Paris 1900. In relazione a ciò cfr soprattutto M. M. Bertolini, F. Oetheimer, S. Onken, Imagination créatrice et connaissance selon Théodule Ribot, in Revue philosophique de la France et de l’Etranger, N. 1, 1993, pp. 11-25. ↩︎

  23. Come visto poco sopra, è questa la tesi a cui erano pervenuti, pur secondo tragitti differenti, sia Leibniz che Hume, in relazione a quest’ultimo cfr D. Hume, Opere Filosofiche, ed it a cura di E. Lecaldano, Trattato sulla natura umana, tr it di Lecaldano, Mistretta, Carlini, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 46-51. Per i rapporti Sartre-Hume cfr soprattutto V. de Coorebyter, Sartre face à la phénoménologie, Vrin-Ousia, Paris 2000, pp. 216-220. ↩︎

  24. Stiamo parlando naturalmente dell’Essai sur les données immédiates de la conscience (1889) e di Matière et mèmoire (1896). ↩︎

  25. Su questo H. Bergson, Matière et mémoire, in Œuvres a cura di A. Robinet e H. Gouhier, pp. 169-177. Cfr le analisi di F. Caemayex, Sartre, Merleau-Ponty, Bergson, Georg Olms Verlag, 200, pp. 13-36. ↩︎

  26. I, p. 45. Oltre a Matière et mémoire Sartre si sofferma anche su L’énergie spirituelle, una raccolta di scritti pubblicata nel 1919 ove compare un saggio dal titolo Souvenir du présent le cui analisi portano Sartre a vedere in Bergson dei residui humeani. Non bisogna dimenticare tuttavia che nel 1934, cioè appena due anni prima de L’imagination, Bergson aveva pubblicato La pensée et le mouvant, ove la funzione dell’immagine viene rivista ulteriormente rispetto a come era stata tematizzata nel saggio del ’96 e nella raccolta del ’19, cfr H. Bergson, Œuvres, pp. 1347-1355 ↩︎

  27. Ivi, p. 46. ↩︎

  28. Ivi, p. 45. Su questo punto e sui rapporti tra il Sartre degli anni ’30 e Bergson, cfr R. Ronchi Il bergsonismo di Sartre, in J-P Sartre, La trascendenza dell’ego, EGEA, collane di filosofia, Milano 1992, pp. 1-16. ↩︎

  29. Sull’equivoco della soluzione bergsoniana cfr Y. Feldman-Comiti, Structures intellectuelles: introduction à l’étude phénoménologique de l’image à propos d’un ouvrage récent, in Revue de Métaphysique et de Morale, N. 4, 1937, p. 769-773. ↩︎

  30. Ivi, p. 59. ↩︎

  31. È doveroso ricordare che tale snodo cruciale rappresentato da Bergson è riconosciuto e ampiamente sviluppato anche da Gilles Deleuze nel suo testo del 1966 intitolato Le bergsonisme. Estremamente precisa su questo punto anche R-M Mossé-Bastide, Plotin et Bergson, PUF, Paris 1959, pp. 132-138, nonché F. Caemayex, Sartre, Merleau-Ponty, Bergson…, pp. 27-30. Inoltre V. de Coorebyter, Sartre face…, pp. 495-504. ↩︎

  32. Nel momento in cui ogni oggetto è un’immagine l’equazione della tradizione è solo rovesciata a favore del secondo termine — cioè l’immagine — ma non rimossa. ↩︎

  33. I, p. 141. ↩︎

  34. Ibid. Cfr anche A. Flajoliet, La première philosophie…, pp. 367-378. ↩︎

  35. Ivi, p. 135. ↩︎

  36. È doveroso notare che Sartre, pur rimanendo fedele a Husserl, già impiegando la fenomenologia per interpretare l’immagine inizia a discostarsene, dal momento che proprio Husserl in un’appendice della V Ricerca logica aveva escluso che l’immagine potesse diventare un buon terreno di indagine fenomenologica: cfr E. Husserl, Ricerche logiche II, ed it a cura di G. Piana, NET, Milano 2006, pp. 203-212. ↩︎

  37. Ivi, p. 144. ↩︎

  38. Ivi, p. 145. ↩︎

  39. Ibid. Corsivi nostri. Su questo anche J-P Sartre, Structure intentionelle de l’image, in Revue de Métaphysique et de Morale, N. 4, 1938, pp. 543-609. Si tratta del primo nucleo di ciò che in seguito sarà ripreso e ampliato con L’imaginaire. Su questo anche A. Flajoliet, La première philosophie…, pp. 468- 477. ↩︎

  40. Cfr anche Y. Feldman-Comiti, Structures intellectuelles…, p. 776-779. Va detto che Feldman-Comiti incentra il saggio sul problema dell’io che, come sappiamo, Sartre tematizzerà in modo ravvicinato l’anno successivo a quello de L’imagination, lo stesso anno del saggio di Feldman-Comiti. ↩︎

  41. /Eidetico/ qui non fa riferimento all’afferramento delle entità ideali proprie delle scienze, ma al raggiungimento di statuti puri di manifestazione di semplici vissuti coscienziali. ↩︎

  42. Ivi, p. 150. Sottolineature nostre. Su questo cfr soprattutto H. Védrine, Les grandes…, pp. 113-132, nonché F. Noudelmann, Sartre, l’incarnation imaginaire, L’Harmattan, Paris 1996, pp. 189-220. ↩︎

  43. Ivi, p. 98. Interessante è la proposta di Feldman-Comiti il quale usa sovente la formula intention imageante, cfr Y. Feldman-Comiti, Structures intellectuelles…, p. 776. Nell’articolo del 1938 invece Sartre opterà per conscience imageante. Su questo punto cfr anche J-P Sartre, Structure intentionelle…, p. 554. ↩︎

  44. Flajoliet parla di pensée imageante ma non possiamo prende in considerazione la sua proposta perché troppo sbilanciata verso le forme della immaginazione simbolica, cfr A. Flajoliet, La première philosophie…, p. 444 e sgg. Sulla legittimità della formula inoltre Ch. Lapierre, Le temps du désir. Ontologies de l’imaginaire, thèse doctorale sous la direction de Pierre Rodrigo, 2013, pp. 177-185. ↩︎

  45. Evidenti tracce di quest’ultimo sono avvertibili anche nel Sartre de L’être et le néant↩︎

  46. Ibid. ↩︎

  47. Ibid. ↩︎

  48. Ivi, p. 110. ↩︎

  49. Ivi. p. 117 ↩︎

  50. Ibid. ↩︎

  51. Ivi, p. 118. ↩︎

  52. Alcune di queste posizioni sono ancora soltanto nebulosamente chiare al Sartre de L’imagination, ma analizzando retrospettivamente anche in modo sommario il periodo di attività nel corso del quale egli scrive opere quali L’imagination, La transcendence de l’ego, L’imaginaire e L’être et le néant possiamo notare una profonda continuità e una precisa unità di intenti che rendono assolutamente impossibile non vedere nei testi degli anni ’30 la fase di gestazione di molte delle tesi che poi matureranno pienamente solo verso la metà degli anni ’40, su questo anche F. Noudelmann, Sartre, l’incarnation…, pp. 61-108. ↩︎

  53. Ivi, p. 137. ↩︎

  54. Ibid. ↩︎

  55. Ibid. Sartre torna con più precisione su questo punto in J-P Sartre, Structure intentionelle…, pp. 549-554. Illuminanti in tal senso anche le analisi di F. Noudelmann, Sartre, l’incarnation…, pp. 195-211. ↩︎

  56. Ibid. ↩︎