Recensione a Stefano Fontana, Parola e comunità politica. Saggio su vocazione e attesa

Stefano Fontana, Parola e comunità politica. Saggio su vocazione e attesa, Siena, Cantagalli, 2010, 165, € 11, 50.

Fontana dirige l’Osservatorio sulla dottrina sociale della Chiesa intitolato al card. Van Thuân, che fu vittima del regime comunista e gioioso testimone del Risorto. Lo scopo di questo saggio è una peculiare comprensione della vocazione, a partire dalla sua inattualità: la sua tesi di fondo è che la vocazione sia necessaria per un’antropologia conseguente e adeguata alla dignità dell’uomo. Quattro dei cinque capitoli che compongono il libro sono dedicati alla descrizione della vocazione, considerata dal punto di vista della sua fenomenologia, epistemologia, antropologia e, dopo un capitolo dedicato al peccato originale come problema politico, anche dal punto di vista, oggi particolarmente urgente, della sua politica. Si mette in risalto così la tesi della necessaria circolarità e della non autosufficienza tra i diversi piani del reale: in questo senso lo schema della circolarità viene contrapposto al cosiddetto schema a scalini, che l’A. critica per la sua insufficienza nel corso dell’opera a più riprese. La fallace teologia di molti autori può essere considerata come il tentativo di dare alla fede cristiana un’interpretazione non realistica, quasi che il contenuto della fede cristiana non venga dalla Rivelazione divina, ma dal bisogno umano di senso e consolazione. In tal senso anche l’anelito di stabilire un nuovo pantheon o una ONU religiosa quale garante della tolleranza va respinto: come Cristo uomo-Dio fu rifiutato ai tempi dell’impero romano così la sua amorosa pretesa di sequela fino al martirio viene rifiutata dalla finta tolleranza politeista contemporanea, pur teorizzata da alcuni filosofi e persino da alcuni teologi, anche se Fontana non vi fa riferimento (p 47).

Fontana mira ad offrire un affresco della modernità politica come caratterizzata da un ritorno del pelagianesimo, l’antico rifiuto del peccato originale. Alcuni pensatori coinvolti in questa disputa nel XX. secolo sono stati Horkheimer, Gilson, Guardini, Maritain, Del Noce, Taylor, Spaemann e lo stesso Ratzinger, da ultimo nel suo dialogo con Habermas che ha avuto profonda influenza su quest’ultimo. Maritain viene criticato come uno dei principali fautori del succitato schema a scalini (p 56), tentativo di conciliare il cristianesimo con la secolarizzazione, distinguendo tra agire in quanto cristiani e agire da cristiani. Tale tematica non è nuova nel pensiero e nella prassi politica italiana contemporanea, proprio negli ultimi anni chiamata a confrontarsi con le tematiche della vita e della morte, nonché di recente alle prese con una serie di scandali che ne inficiano la dignità. Forse proprio il superamento della pretesa ottimistica di Maritain di poter agire da cristiano senza agire in quanto cristiano, per non apparire poco dialogico, potrà portare vista la particolare urgenza dei tempi in cui viviamo a una certa qual presa di coscienza da parte dei fedeli laici e a un supplemento di umiltà e di fede nella Chiesa.

Kant secondo alcuni suoi interpreti sembra invitare a una fede pratica e politica senza riferimento reale a Dio come coerente conseguenza dell’illuminismo religioso: alla base di questa sta il pensiero, condiviso a partire da Lessing dalla maggioranza dei filosofi e dei teologi dell’illuminismo, che la perdita di realtà della fede cristiana dovesse compensarsi con l’utilità sociale della prassi religiosa, che quindi il passaggio dall’interpretazione realistica a quella irrealistica non tocchi la prassi della fede cristiana vissuta. Una base di partenza per questa impostazione è l’impostazione di Frankl, fatta propria dall’autore, cioè il riconoscimento del fatto che «ogni irruzione è portatrice di senso. Essa ci testimonia che il senso non è mai prodotto.» (p 18). La verità, affermava già Agostino nel De libero arbitrio, (come riferito a p 31) eccede la nostra mente, si presenta come un invito sempre nuovo ad allargare i nostri orizzonti al di là delle precomprensioni cui siamo abituati, in particolare contro la pretesa moderna e modernista di poter conseguire la verità senza aver bisogno della Grazia illuminante.

Una conseguente tesi che viene ripetuta nel corso del testo è che senza vocazione l’uomo perde il proprio orientamento: non sa darselo da solo, pur avendoci provato a più riprese nel corso degli ultimi secoli. Estendendo poi la portata di questa tesi l’uomo è costitutivamente comprensibile come l’attesa di una vocazione. In tal senso giova ricordare come Taylor abbia fornito di recente un affresco stimolante e convincente della secolarizzazione, intesa nel suo A Secular Age come una opportunità e non come una crisi, applicando il detto hegeliano che la filosofia è il nostro tempo compreso dal pensiero, specie nelle sue attese, ci sentiamo di aggiungere. Come è stato notato di recente da G. Mucci (v. quaderno n°3836), Taylor insiste sul tema della vocazione e della ricerca del senso della vita e sul carattere trascendente che tale ricerca suppone. Qui viene ricordato perché ribadisce, contro ogni relativismo semplicistico e contro l’egolatria contemporanea, che «se niente è importante in sé, anche il mio io non è importante in sé, ma solo per me» (p 99).

Il libro si incentra sulla polarità tra attesa e vocazione, e afferma che solo la vocazione che corrisponde ad una profonda attesa dell’uomo è veramente umana. Anche l’eros, come viene illustrato dalla prima enciclica di Benedetto XVI, non va inteso come una mera mancanza, cioè platonicamente come il figlio di Poros e Penìa, ma piuttosto come una attesa, fiduciosa e consapevole (p 35). La fede cristiana ha la pretesa di essere amica dell’uomo, ossia di corrispondere alle sue attese. Aggiungiamo che tale inversione è in primo luogo metafisica, e in questo è paragonabile alle correzioni di Tommaso alla metafisica aristotelica, che alla luce del Cristianesimo fu integrata con il fondamento dell’actus essendi. La Dottrina sociale della Chiesa ha quindi la pretesa legittima di corrispondere alle attese del mondo, come la fede corrisponde a quelle della ragione e la carità a quelle della giustizia. La crisi della vocazione è quindi un fenomeno nuovo e sempre più preoccupante, anche in termini sociali e politici, perché inibisce i tre atteggiamenti fondamentali per la convivenza tra uomini: l’accoglienza, la gratitudine, la gratuità. La tentazione di una profanazione della fede cristiana politicamente motivata sussiste oggi come in passato, e per alcuni teologi cattolici oggi sembra esistere solo una differenza verbale tra sacro e profano: la reazione culturale a questa perdita di alterità reale del sacro è poi indifferenziazione e crescente indifferenza. Non è difficile però vedere che un’interpretazione illuministica e la conseguente prassi di un cristianesimo del come se dovesse di per sé fallire. Tale approccio veniva già criticato da Pieper in riferimento alla temperie neokantiana del primo novecento tedesco, rappresentata in particolare da Hans Vaihinger (1852-1933) promotore della Als-Ob-Philosophie che eguagliava la prassi alla costituzione del mondo come reale. Gli uomini credono di poter fare a meno della Veritas, perché oggi si vuole da parte della alta cultura che essi ignorino che solo con il suo possesso ad essi è dato modo di salvarsi dalla morte e vivere eternamente: forse approfondire le tematiche correlate a tale rifiuto metafisico avrebbe potuto giovare a un più forte fondamento filosofico per la diagnosi storica e culturale proposta dall’A., che altrimenti rimane confinata agli effetti senza ben delineare le cause.

La modernità è nata dal rifiuto del peccato originale e quindi essa ritiene che il cristianesimo sia al massimo utile ma non più indispensabile: questo suo connotato pelagiano è ribadito più volte nel corso del libro: conseguenza di questa coloritura culturale e teologica, sovente incosciente, è il fatto che la modernità secolarizzata sia convinta che la natura umana possa essere autosufficiente. Alla domanda se la ragione sia pienamente tale anche senza la fede, la modernità ha risposto un convinto si, e conseguentemente è stata percorsa dalle più diverse filosofie che hanno avuto come denominatore comune la necessaria estinzione della religione. Un ulteriore interrogativo che il libro avrebbe potuto indagare è la contrapposizione fondamentale tra cosmos e caos, elusa dalla modernità e sostrato della perdita del senso della vocazione nella contemporaneità a volte anche teologica. La scienza del Logos sembra nascosta dalla esaltazione idolatrica dell’arbitrio che si vuole contrabbandare per libertà: presupposto di questo è la declinazione scientista di una concezione che vuole a tutti i costi l’universo nato dal caos, le cui leggi dipendono in tutto dal determinismo irrazionale del caos permette all’uomo di agire similmente.

Interrogandosi sul futuro del cristianesimo, ci si confronta sempre con il razionalismo moderno che comporta l’autosufficienza della ragione. Proprio per questo motivo il Soprannaturale oggi è spesso rimosso dall’orizzonte concettuale, purtroppo anche da molti teologi e filosofi, laici e sacerdoti, quasi fosse solo un’aggiunta ad un quadro già completo in sé, una conseguenza e un attributo della natura e un qualcosa di non necessario per la Salvezza. Il peccato originale, che dice di no ad ogni vocazione, è frutto della stessa hybris.