Pensiero cattolico e idealismi. A partire da una recente ricognizione delle lotte per l’egemonia filosofica nell’Italia fascista

Consistet ergo felicitas in statu mentis quam maxime harmonico. Natura mentis est cogitare; harmonia ergo mentis consistet in cogitanda harmonia; et maxima harmonia mentis, seu felicitas in concentratione harmoniae universalis, id est DEI, in mentem.1

Questa concezione della sintesi implica quindi del tutto essenzialmente una mediatizzazione dell’antitesi; l’antitesi diviene un passaggio dalla tesi alla sintesi, di per sé non è originaria. Il rapporto diventa subito evidente se si pensa ad esempio alla concezione del dogma trinitario in Hegel, dove per lui l’essenziale è riconoscere Dio come spirito e l’uomo-dio significa soltanto il “come” di questa equazione tra Dio e spirito.2

In un testo da poco pubblicato3 Guido Verucci conduce una ampia e documentata ricostruzione della vicenda politica e culturale che condusse alla condanna all’indice dell’opera omnia di Croce e Gentile. Questa vicenda ebbe un’ampia risonanza tanto nella notizia che se ne ebbe, quanto nei suoi prodromi e nelle sue conseguenze: essa vede come protagonisti le maggiori personalità della cultura cattolica, fascista e a antifascista (o presunta tale) dell’epoca. Un precedente interessante è il volume di Gabriele Turi4 di qualche anno fa. In quest’ultimo testo si delineano le relazioni fra tre figure coeve: l’industriale Giovanni Treccani, il filosofo Giovanni Gentile e il padre gesuita Pietro Tacchi Venturi, protagonisti della pubblicazione dell’«Enciclopedia italiana», fondata nel 1925 e realizzata in 36 volumi fra il 1929 e il 1937. Uno dei più notevoli esempi di iniziativa privata che dopo si vuole rendere nazionale, l’«Enciclopedia» riscuote subito l’approvazione di Mussolini prima di ottenere, nel 1933, il sostegno diretto del regime fascista; le sue vicende riflettono il clima in cui è sorta: motivi politici spiegano infatti il rifiuto di collaborare di Croce, Einaudi, Casati o Lombardo Radice. Metodologia simile, anche se con più dettagliata analisi di nuove fonti, e quasi gli stessi protagonisti operano nella ricostruzione di Verucci, con in più l’attenzione sul ruolo non completamente definito ma determinante di Agostino Gemelli: dalla accurata ricostruzione dell’autore appare chiaro come la sua altalenante relazione con Gentile fu l’origine di buona parte del procedimento. Quello che si evince dal testo in analisi è che i sistemi filosofici sembrano più che altro strumenti o entità imprigionate dalle vicende e dalle occorrenze contingenti, piuttosto che entità determinanti per le vicende. Politica e filosofia nel loro intrecciarsi labirintico e ambiguo sono infatti la coppia che viene osservata nel volume oggetto delle nostre osservazioni. Questa è la prima delle impressioni che si ricavano dalla lettura: il paradigma delle politiche culturali in Italia è, in primo luogo, una dialettica tra poteri, e solo in secondo luogo un confronto dialettico tra le posizioni filosofiche. Basti pensare che vengono condannate le opere complete di due filosofi, probabilmente i massimi del Novecento italiano, che però si autocomprendevano come alternativi ed opposti nella loro visione del mondo, della storia, della struttura stessa del pensare. Come ben hanno mostrato i loro discepoli e gli studiosi che vi hanno dedicato vite di studio questi due pensatori hanno rappresentato le due possibili declinazioni del termine “idealismo” a partire da una comune radice ben addentro alla torso del rinascimento italiano, attraverso il confronto con Vico, Campanella e Bruno, piuttosto che con Galileo o Leonardo. Di qui anche le originali descrizioni realizzate da ambienti torinesi, che anche di recente hanno sminuito l’approccio della filosofia dei due autori oggetto del volume.5 Interessante notare come nel procedimento e nelle relazioni presentate alla congregazione entri in questione il concetto stesso di “filosofia italiana”: la posizione di Tommaso viene vista come rappresentativa del sano realismo italico, mentre i due filosofi damnandi vengono visti come seguaci della cerulea nube trascendental-idealista d’oltralpe e di barbarico idioma. Non possiamo non ricordare come una lettura analoga fu ben descritta nella ricostruzione della prima condanna all’Indice delle opere di Kant ai primi dell’Ottocento, per il tramite degli incaricati che però lo lessero solo in traduzione francese: anche in tal caso il problema fu l’estrema complessità dell’argomentare trascendentale, da allora ritenuto sintomo di allontanamento dal reale, quasi una “sindrome tedesca”. Solo negli ultimi decenni si è assistito a un significativo ripensamento, dopo il Concilio Vaticano II, e questo non solo potrebbe portare a una revisione le accuse che da più parti si sono mosse al ‘razionalismo’ della concezione kantiana, fichtiana o hegeliana della religione, ma consentirebbe a queste prospettive un fecondo dialogo con la teologia cattolica contemporanea, dialogo che alcuni teologi (B. Forte, P. Coda, W. Kasper, H. Verweyen) hanno già iniziato, ad esempio con il pensiero di Fichte, Schelling ed Hegel.6 Ripensare questa contrapposizione di alto livello, pur se condizionata da eventi politici e dalla prudenza necessaria al tempo, rende quasi risibile il livello del dibattito sul rapporto tra filosofia e teologia che si è sviluppato negli ultimi anni in Italia, ma non solo in Italia.7 Riteniamo che le posizioni di Croce e Gentile siano le ultime esposizioni degne del nome di “sistema”, vera chiave di comprensione dell’approccio filosofico proprio della filosofia che ha fatto propria la lezione (crediamo non reversibile) di Kant. È la loro una concezione organica (specie quella di Gentile) che abbraccia la storia, ma non si sottomette al suo accadere in maniera evenemenziale, che si interroghi sull’origine e sul fondamento, le due possibili traduzioni italiane del Grund tedesco, che nella sua duplice valenza di significato ben riassume (con Heidegger, ma senza essere succubi della sua interpretazione fin troppo analizzata e interpretata negli ultimi decenni) la vicenda della contemporaneità.

Il tempo delle modernità è il tempo della ragione totalizzante e anche il tempo del trionfo dell’identità, non a caso uno dei testi che più ha influito su Croce e Gentile, la Fenomenologia dello spirito di Hegel, si chiude con una immagine potente tratta dalla poesia di Schiller, l’immagine di un calice che trabocca, che, in qualche modo, continuamente riproduce la sua Unendlichkeit, la sua infinità. Ebbene, questa immagine dice esattamente come il mondo dell’identità assoluta, il mondo della ragione totalizzante, matrice delle varie forme di ideologia che hanno caratterizzato la modernità sul versante della sinistra come su quello della destra hegeliana, questo mondo ha celebrato una sorta di trionfo bacchico dove l’altro alla fine veniva perduto e assorbito nella potenza del Dio totalizzante, dello spirito totalizzante. È evidente che questa questione può sfociare anche in una sorta di nuova esperienza del nichilismo, dopo il lungo oblio dell’essere, il «Sein» di cui parla Heidegger, potrebbe esserci un nuovo oblio del senso e questo oblio del senso potrebbe essere: caduta, abbandono, rinuncia, le forme del nichilismo post-moderno. Vanno in questa direzione il pensiero debole, che esplicitamente parla di un essere che non è ma accade, cioè precipita continuamente nel nulla. Accanto però a questo possibile esito della crisi del moderno, della dialettica dell’illuminismo mi sembra di poter intravedere un’altra forma, un altro esito: quello della ricerca, non in una forma quasi nostalgica di passati che non ritornano più, ma in tutt’altra direzione in quella forma che Ernst Bloch chiama il «principio speranza» e cioè nell’apertura verso un’alterità non catturata e non afferrata; è qui che oggi ci troviamo di fronte alla caduta della totalità ideologica del moderno: l’altro e la sua alterità semplice, pura, forte che ci interroga, che essa si affacci nel volto d’altri come ci richiama a pensare Levinas, o che essa si affacci nell’inquietudine di un inizio imprendibile, come per esempio, qui, in Italia, afferma un Cacciari; che essa si affacci nel Dio della speranza cristiana come la teologia, soprattutto della speranza, che il nostro tempo indica. È comunque una coralità di tracce, di ricerche dell’altro che oggi noi possiamo evidenziare.

La Rivelazione è alla base dell’idea di tradizione fatta propria dal cristianesimo, sin dal De civitate Dei di Agostino, e questa rivelazione definisce la via che gli eventi storici possono intraprendere, e alla luce di questa rivelazione si costituisce anche la possibilità di giudicare eticamente gli eventi avvenuti. La rivelazione e la tradizione, che si definisce proprio in quanto costituita dalla rivelazione stessa, annullano l’indeterminatezza propria del tempo indistinto in cui tutti gli eventi sono qualitativamente equivalenti. Come ha spiegato tra gli altri lo storico S. Mazzarino è questo che distingue la concezione cristiana del tempo dalla concezione pagana, greca in particolare, e non l’astratta e formale contrapposizione tra tempo “ciclico” e tempo “lineare” che viene spiegata da M. Eliade ne Il mito dell’eterno ritorno.8 Solo la rivelazione divina rende possibile l’instaurarsi di una tradizione, che si origina dall’ascolto indagante della rivelazione e del suo attuarsi come provvidenza nella storia. La storia in prospettiva cattolica è la comprensione rigorosa dell’unicità dell’individuo, dell’irripetibilità delle relazioni che si creano nella società, della non circolarità del corso degli eventi. Si tratta — potremmo dire — della comprensione trascendentale della storia cristiana, contrapposta alla circolarità del tempo pagano, e quindi non filosofico. Tale concezione della storia è in parte quella dalla quale muovono Gentile e Croce, eredi non banalizzanti dell’italianissimo Vico, e tale prospettiva ancora oggi è più che degna di problematizzazione e di riscoperta.

Verucci nella sua sintesi fa frequente riferimento a fonti documentali presenti negli archivi delle congregazioni vaticane, come anche ai carteggi e alle opere degli autori coinvolti, assieme ai due filosofi italiani più influenti della prima metà del Novecento. Nell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, il nome che ha assunto da qualche decennio l’ex Sant’Uffizio, si trovano alcuni fascicoli che riguardano il processo in oggetto. Tale procedimento, svoltosi in absentia, vide la partecipazione di padre Gemelli come consultore e coinvolse molti dei più importanti teologi dell’epoca, provenienti dagli ordini religiosi più rilevanti all’interno della Chiesa: gesuiti, francescani, domenicani in particolare. Il giudizio, svoltosi a partire dal marzo 1932, si rivolse innanzitutto alla Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce, condannata e messa all’Indice dei libri proibiti il 13 luglio 1932. successivamente il giudizio venne esteso all’intera opera dello stesso Croce e quella di Giovanni Gentile, condannate e messe all’Indice il 20 giugno 1934. Nella raccolta dei documenti esaminati con perizia dall’autore si trovano anche altri fascicoli che riguardano i controlli, le censure e le condanne di cui furono costantemente oggetto libri e soprattutto manuali scolastici delle scuole superiori, specie per gli insegnamenti di storia, di filosofia e pedagogia. Decine di pagine sono dedicate all’analisi dei giudizi che la congregazione vaticana espresse sui manuali scritti da autori che, come Lamanna, ebbero notevole longevità nel sistema scolastico dell’Italia repubblicana. Questi fascicoli, i primi e i secondi, sono stati la guida per ricostruire una delle vicende più interessanti e probabilmente più importanti che hanno caratterizzato gli anni del fascismo: lo scontro fra la neoscolastica da una parte, l’idealismo e l’attualismo gentiliano dall’altra. Così, la condanna di Croce e quella di Gentile appaiono come momenti cruciali di una contesa filosofica e culturale che non ebbe un momento risolutivo fino alla caduta del fascismo. Il tentativo di una rinnovata cattolicizzazione dell’insegnamento scolastico, per quel che riguarda le scuole secondarie pubbliche, in specie le superiori, sembrava sostanzialmente fallita, per la resistenza che vi oppose una cultura laica e razionalista propria di molti docenti e presente in molti manuali. Il fascismo, intransigente tutore della propria autorità nella scuola, non aveva alcuna volontà e alcun interesse a contrastare tale cultura. Tuttavia la principale vittima del procedimento fu la stessa filosofia che si voleva filosofia del regime: mentre il sistema crociano sopravviveva negli allievi del filosofo, così invece non avvenne per Gentile, le cui intuizioni si sparsero nei rivoli propri dei suoi ex allievi che disinvoltamente transitarono le istituzioni da lui presiedute dall’obbedienza fascista a quella marxista del dopoguerra.


  1. G. W. Leibniz, Confessio philosophi (Fragmentum Dialogi de Humana libertate et justitia Dei), 1673 ↩︎

  2. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, ed. it. Marietti 1985, p. 247. ↩︎

  3. Guido Verucci, Idealisti all’indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. XII-272, € 38.00. ↩︎

  4. Gabriele Turi, Il mecenate, il filosofo e il gesuita. L’«Enciclopedia italiana», specchio della nazione, Il Mulino 2002. ↩︎

  5. Carlo Augusto Viano, La filosofia italiana del Novecento, Il Mulino, 2006. ↩︎

  6. Si vedano per esempio: Bruno Forte, Teologia in dialogo, Cortina, Milano 1999; Id., Sui sentieri dell’Uno. Metafisica e teologia, nuova edizione ampliata, Morcelliana, Brescia 2001; H. Verweyen, La parola definitiva di Dio, Queriniana, Brescia 2002; Piero Coda, Il Logos e il nulla, Città nuova, Roma 2003. ↩︎

  7. Si pensi alle posizioni neo-scientiste di R. Dawkins e D. Dennett, ma anche di P. Odifreddi, per non menzionare che gli autori più recenti e noti. ↩︎

  8. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Milano 1971. ↩︎