L’altro e il terzo. Alcune riflessioni sulla teologia filosofica di Bruno Forte

1. Il dialogo necessario tra teologia e filosofia

Nel panorama teologico europeo ha assunto particolare rilievo negli ultimi due decenni l’elaborazione teologica di Bruno Forte, che si caratterizza per un appassionato dialogo con i principali filosofi viventi e per una rinnovata modalità espositiva dei contenuti della teologia. Espressione di questa sensibilità è la scelta del termine simbolica per definire l’esposizione sistematica della dottrina cristiana. Questo termine vuole sostituire i tradizionali termini di dogmatica o sistematica, che caratterizzano la trattazione teologica nel mondo cattolico e protestante. La dogmatica fa riferimento ai contenuti oggettivi della teologia, la sistematica considera piuttosto una loro ripresa soggettiva ed è più legata al mondo protestante. Il termine «simbolica», al contrario, tiene insieme i due elementi mantenendo costante il riferimento alla tradizione oggettiva dei contenuti della fede unendo ad essa una loro ripresa adeguata e comprensibile per l’uomo d’oggi. Tenere insieme il soggetto e l’oggetto è un’operazione fondativa tipica della modernità occidentale, che si caratterizza per il prevalere della poiesis sulla praxis. La praxis è la tradizionale interazione, indagata a partire dall’Etica aristotelica, tra soggetto e soggetto; la poiesis è invece la considerazione della relazione fondamentale soggetto-oggetto, relazione di creazione o di modificazione, con una parte soggettiva agente e un oggetto passivo. La filosofia metamorfica di Schelling è tra le più acute nel cogliere questo problema, e ne trova la soluzione nella nozione di un originario assoluto non-determinato (si pensi all’Ungrund-abisso del Freiheitschrift 1809). Già però nel sistema dell’identità esposto nella Darstellung meines System del 1801 lo scopo della ragione è pervenire alla comprensione dell’indifferenza originaria tra soggetto ed oggetto, tra finito ed infinito.

Le controversie attuali sul metodo della filosofia sottintendono la questione dell’oggetto della filosofia medesima. Anche la distinzione tra filosofia prima e discipline filosofiche, nonché la questione se l’ontologia o l’etica, o la teoria della conoscenza debbano ricoprire il ruolo una volta assegnato alla metafisica o alla teologia, presuppongono la domanda sull’oggetto.

La filosofia può assumere il ruolo di terapia (lo hanno fatto tra gli altri Wittgenstein e i suoi seguaci, o le varie forme di filosofia del sospetto degli ultimi 150 anni); essa può anche essere una disciplina del pensare, nel senso di costituire un organon, identificare i requisiti e le modalità organizzative dei concetti (identificare un metodo, riconoscere delle evidenze: si pensi al procedere di Husserl). Può esporre i propri elementi nella connessione organica sin da principio, autoaffermandosi come dottrina.

Non a caso le prime due forme di pensiero rifiutano la possibilità stessa di esprimere una dottrina, riducendo i tentativi dottrinari di alcuni filosofi alla denominazione di sistema. Le caratteristiche di un sistema sono in genere espresse in negativo: rigidità, tentativo di sottomettere la realtà recalcitrante, arbitrio: il sistema è una doxa che aspira ad essere svelamento. Il sistema che viene ammesso è il sistema negativo degli assiomi che disgregano gli altri sistemi: si pensi a Kierkegaard che parte dall’irriducibilità dell’individuo per rifiutare in blocco il sistema hegeliano, che per antonomasia è il sistema della modernità.

L’operazione di genealogia simbolica tentata da Forte cerca di mantenere la tensione tra soggetto e oggetto, e di amplificare, è questa la nostra tesi, la relazione tra soggetto e soggetto, caratterizzata ineludibilmente dall’orizzonte dell’assoluta alterità, intesa come trascendenza assoluta che consente l’empiria della relazione tra persone, ma anche come relazionalità teologica trascendentale che inserisce la Chiesa stessa nel cuore della Trinità, modellandola su di essa.1 Includendo e superando modernità e post-modernità, compresa a sua volta come sistema oppressivo del nichilismo, la sua proposta teologica assume quindi anche il valore di una proposta filosofica, quale è stata formulata nei volumi della Dialogica dell’amore,2 denominazione comune alla gran parte delle opere teoretiche di Forte che non rientrano nel piano della Simbolica Ecclesiale. Il metodo proprio della Dialogica è il «dialogare argomentando», e da questo dialogare sorgono la maggior parte delle intuizioni proprie di questa proposta teologico-filosofica. Questa è anche una posizione di filosofia cristiana, che rispetta il criterio enunciato da Gilson:

Chiamo dunque filosofia cristiana ogni filosofia che, pur distinguendo formalmente i due ordini, consideri la rivelazione cristiana come un ausiliario indispensabile della ragione.3

Questa affermazione non è una enunciazione astratta, ma, nello spirito dello stesso Gilson, ma è una realtà storica completa, suscettibile di concretizzazione nelle singole esperienze di pensiero. Proprio dall’esperienza muove Forte: dall’esperienza del dolore e da quella della meraviglia, esperienze originarie della filosofia intesa come vissuto carico di senso, senso che può essere dialogicamente espresso in quanto rimanda ad una alterità irriducibile.

In riferimento al tema che ci siamo proposti di affrontare, cioè il rintracciare l’articolazione della presenza del Terzo nella teologia filosofica di Forte, si può iniziare l’esposizione affermando che una comprensione puramente duale dell’alterità non dà ragione del meravigliarsi, principio della filosofia stessa. Come infatti viene spesso sostenuto da Forte, il pathos fondamentale dell’esperienza del pensare è la meraviglia. Il riconoscere l’altro come prossimo presuppone il riconoscimento dell’alterità di Dio che al suo stesso interno si riconosce come relazione interPersonale, in cui il vincolo stesso del legame è Persona spirante dalle altre due Persone. La relazione sempre triadica che si fonda sull’alterità del terzo, sull’ulteriorità presente in ogni relazione diadica che va sempre intesa come implicante «più di due» si trova quindi a essere fondata a sua volta su un’altra relazione triadica: qualunque relazione io-tu, considerata teologicamente, implica il riconoscimento di un Altro divino, che a sua volta è divino in quanto legame trinitario tra io e tu fondato sull’Amore personificato dallo Spirito Santo.

… ↔ A ↔ B ↔ …

Spirito

Padre ↔ Figlio

Una prospettiva che vuole essere di libertà e di umiltà. Libertà di Dio e libertà dell’uomo stanno insieme. La libertà di Dio si identifica con la sua umiltà.

Con parole di Forte:

La fondazione intradivina della dottrina dell’autolimitazione dell’Eterno è dunque veramente possibile solo nell’ottica del monoteismo trinitario, che colga la relazione in Dio stesso, e non in un preteso «al di fuori» di Lui. La consistenza del mondo non esige un contrarsi del divino che faccia «spazio» all’altro da sé, ma rimanda all’eterno dinamismo dell’amore umile dei Tre, per il quale ciascuno esce da sé e si dona all’altro, perdendosi per ritrovarsi nella comunione con l’altro.4

Non vi è in questa dinamica una necessità metafisica, una alternativa secca tra permanenza divina ed esistenza concessa al mondo: l’umiltà divina è il fondamento della dinamica protologica, come il dolore è la cifra della Simbolica di Forte. La protologia è la storia di un Dio umile e amante, come la risposta ecclesiale è il tentativo di risalire lungo il simbolo della rivelazione divina.

2. Etica e Chiesa nel simbolo

Nel quarto volume della Dialogica, L’Uno per l’altro. Per un’etica della trascendenza,5 Forte tratta la questione etica. Segnalato il passaggio dall’eteronomia all’autonomia, proprio del pensiero moderno e della sua esaltazione del soggetto, l’autore denuncia i limiti di questa impostazione, fatalmente destinata a finire in una qualche forma di utilitarismo. Per questo motivo urge una solida e convincente fondazione dell’etica che Forte rintraccia nelle opere di diversi autori, da Vico, al contemporaneo Vitiello. Tale fondazione non viene individuata né in una norma astratta o in una arbitraria decisione del soggetto, quanto piuttosto nella relazione con gli altri, con ciò che la presenza dell’altro impone ad ognuno: è questa l’etica della trascendenza, dove l’altro trascende ogni io, che può mettere d’accordo credenti e non credenti. A questo riguardo, per chiarire la prospettiva dalla quale muove chi scrive, ci sembra opportuno tracciare un parallelo con un altro pensatore che, pur non presente tra gli ispiratori della posizione di Forte, ci sembra portatore di una prospettiva feconda nei suoi possibili sviluppi.

La trattazione filosofica che vorremmo accostare a quella di Forte è quella di Fichte, che parte dal simbolo per ricostruire geneticamente la sua etica, donando al simbolo un ruolo rinnovato nella ultima fase della sua riflessione filosofica. Nella sua dottrina trascendentale quella di simbolo permane infatti ancora una nozione poco indagata. In particolare essa è fondamentale per comprendere gli esiti della sua dottrina morale, quale si configura nella ultima fase del suo pensiero, in cui la comunità diviene il fulcro dell’agire morale. La comunità originaria è quella che si basa su una comunione nella visione del mondo. Una configurazione storica di questa comunità è la Chiesa. Un simbolo deve essere creduto: il credere implica non solo la convinzione teorica, ma anche la persuasione di dover agire in un determinato modo.

Il simbolo viene introdotto unitamente alla nozione di Chiesa già nella esposizione jenese della dottrina morale:

Questa azione reciproca di tutti su tutti per produrre convinzioni pratiche comuni è possibile solo in quanto tutti partono da principi comuni che esistono necessariamente e ai quali deve essere ricollegata ogni ulteriore convinzione. Un simile scambio d’azione, al quale tutti sono obbligati a partecipare, si chiama una Chiesa, una comunità etica (ein ethisches Gemein-Wesen); e si dice il suo simbolo ciò su cui tutti sono d’accordo. Ognuno deve essere membro della Chiesa. Il simbolo però, se la comunità della Chiesa non rimane completamente senza frutti, deve venir continuamente modificato; perché ciò in cui tutti si accordano, per la continua azione reciproca tra gli spiriti, si accrescerà progressivamente.6

Il fine dell’accordo è l’interazione simbolica tra le opinioni, cioè, con il linguaggio della dottrina morale berlinese, l’interazione tra le diverse prospettive che le differenti individualità viventi, mosse dal concetto, hanno del medesimo oggetto. Il prodotto di questo accordo è un simbolo, una convergenza tra le sfere di visibilità proprie del punto di vista dei singoli individui. Questa visibilità è determinata, e si presenta come diversa tra un individuo e l’altro, tramite le differenti modalità di incarnazione del concetto nell’individuo concreto. Fin dall’esposizione di Jena della Sistema di etica (1798) la comunità è una comunità perché si riesce a identificare un simbolo che ne esprime il carattere, essendo il simbolo il nucleo di ciò che unifica la comunità, le proprie credenze condivise. Il termine usato per esprimere l’idea di una comunità etica non è infatti il termine comune Gemeinschaft, ma il ben più forte Gemeinwesen, termine che esprime l’essere in comune come una comunità d’essenza, non solo di scopi o di origine. Già nella esposizione jenese vi sono quindi le anticipazioni dell’ontologia morale che verrà compiutamente esposta come dottrina della manifestazione morale: un’ontologia morale che parte dal singolo ma riscopre la propria originaria struttura e destinazione comunitaria, in quanto descrizione di una serie compiuta di manifestazioni dell’assoluto che plasmano le forme dell’interazione simbolica e dell’interazione tramite i concetti. Il simbolo permane anche nella tarda esposizione della Etica (1812), perché nella serie genetica non è possibile dedurlo dal concetto, quindi il concetto deve interagire con il deposito simbolico della comunità. Il simbolo media tra i due elementi concettualmente immutabili (verità e Chiesa) e tra le due dinamiche proprie della dottrina morale (l’esposizione filosofica delle forme di possibilità dell’amore e la indefinita perfettibilità della fede della Chiesa). L’elemento filosofico è nella Chiesa che viene intesa non come societas perfecta, ma come comunità sempre da perfezionare, a cominciare dal suo stesso simbolo. Per questo motivo si può così ricostruire l’itinerario conclusivo della dottrina morale superiore: dalla manifestazione del concetto si è dedotta geneticamente tutta la dinamica della volontà del singolo; quindi si è mostrata la serie del visibile irriducibile al concetto: la riunione di queste due serie è la compiuta dottrina della manifestazione che riassume l’intera dottrina morale. Questo processo, dopo essere stato applicato alla volontà formale (qualitativa e assoluta) dell’individuo e della comunità, ha ora per oggetto una comunità che si fonda esplicitamente su di un simbolo: non quindi una comunità statale, oppure una società che abbia per fine un profitto economico o degli scopi politici, bensì una comunità superiore, considerata come tale proprio perché può riassumere compiutamente la propria costituzione originaria secondo un simbolo, una professione di fede. Il simbolo quindi è qualcosa d’altro dal principio teoretico che sta a fondamento di un atto collettivo, come una costituzione statale: esso è l’espressione non solo di ciò che i membri della comunità si aspettano dal loro essere entrati in questo patto, ma soprattutto di cosa si aspettano da loro stessi e di cosa la comunità si aspetta da essi. L’entità cui si fa riferimento per determinare questo punto di vista superiore è quello di una coscienza morale comunitaria fondamentale di tutto il genere umano, una coscienza che si origina dalla comunità più alta, cioè quella che persegue l’idea coerente di una vita morale eterna. Questa è una vita morale che non si interrompe con la morte, perché dal punto di vista trascendentale la vita morale non ha termine temporale, e con la morte non cambia la propria natura. Questa è una comunità che ha coscienza di sé e che aspira a rendere partecipe di questa coscienza morale l’intero genere umano: tutta la filosofia morale di Fichte può culminare con queste due affermazioni.

Il simbolo unifica la vita morale eterna dell’individuo e l’azione storica che caratterizza la comunità morale di cui questi fa parte: il simbolo caratterizza questa comunità come una Chiesa. Tutta l’esistenza del genere umano non ha altro scopo che la propria unificazione simbolica in questa comunità superiore, in questa Chiesa: per essere persone morali secondo questa superiore prospettiva quindi bisogna far parte non di una qualunque comunità che aspiri alla moralità, ma di una comunità che si riconosca in un simbolo morale e che ponga il concetto della moralità in relazione con questo stesso simbolo. Questa ci sembra una possibile via d’uscita dall’ideologia, che si può forse porre in relazione con l’itinerario proposta da Forte nelle sue opere, un itinerario di liberazione dal totalitarismo ideologico, negazione dell’alterità e affermazione assoluta del medesimo, o del terzo onnipresente inteso come Stato o come divinità resa blasfema, affermazione dell’io o dell’Egli, affermazione che oblia sempre la diretta referenza al tu.

Vi è tuttavia un ulteriore passo che Forte compie, in particolare nella sua riflessione più recente, in relazione al totalitarismo ideologico assurto a sistema nel secolo XX: l’affermazione che la scomparsa del totalitarismo dall’occidente con il crollo delle ideologie totalitarie è un’illusione. Infatti il totalitarismo ideologico della modernità trova secondo Forte un superamento che è anche un analogo nel totalitarismo nichilista della post-modernità: questo sia a livello filosofico, che nelle conseguenze politiche che sono sotto gli occhi di tutti.

3. La speranza oltre l’ideologia

Il tempo delle modernità, nota spesso Forte, è il tempo della ragione totalizzante e anche il tempo del trionfo dell’identità, non a caso la Fenomenologia dello spirito di Hegel si chiude con una immagine potente tratta dalla poesia di Schiller, l’immagine di un calice che trabocca, che, in qualche modo, continuamente riproduce la sua Unendlichkeit, la sua infinità. Ebbene, questa immagine dice esattamente come il mondo dell’identità assoluta, il mondo della ragione totalizzante, matrice delle varie forme di ideologia che hanno caratterizzato la modernità sul versante della sinistra come su quello della destra hegeliana, questo mondo ha celebrato una sorta di trionfo bacchico dove l’altro alla fine veniva perduto e assorbito nella potenza del Dio totalizzante, dello spirito totalizzante. Il problema oggi, dopo la crisi anche storica di questo modello è riscoprire l’altro. È evidente che questa domanda può sfociare anche in una sorta di nuova esperienza del nichilismo, dopo il lungo oblio dell’essere, il “Sein” di cui parla Heidegger, potrebbe esserci un nuovo oblio del senso e questo oblio del senso potrebbe essere: caduta, abbandono, rinuncia, le forme del nichilismo post-moderno. Vanno in questa direzione il pensiero debole, che esplicitamente parla di un essere che non è ma accade, cioè precipita continuamente nel nulla. Accanto però a questo possibile esito della crisi del moderno, della dialettica dell’illuminismo mi sembra di poter intravedere un’altra forma, un altro esito: quello della ricerca che io amo chiamare la ricerca del senso perduto, non in una forma quasi nostalgica di passati che non ritornano più ma in tutt’altra direzione in quella forma che Ernst Bloch per esempio chiama il “principio speranza” e cioè nell’apertura verso un’alterità non catturata non afferrata; è qui che mi sembra oggi ci troviamo di fronte alla caduta della totalità ideologica del moderno: l’altro e la sua alterità semplice, pura, forte che ci interroga, che essa si affacci nel volto d’altri come ci richiama a pensare Levinas, o che essa si affacci nell’inquietudine di un inizio imprendibile, come per esempio, qui, in Italia, afferma un Cacciari; che essa si affacci nel Dio della speranza cristiana come la teologia, soprattutto della speranza, che il nostro tempo indica. È comunque una coralità di tracce, di ricerche dell’altro che oggi noi possiamo evidenziare.

Ci sembra però che da questo fato inesorabile fuoriesca la prospettiva fichtiana, per come essa si rapporta ai principali eventi della storia della Salvezza. A questo riguardo si può aggiungere qualche cenno sulla nozione di tempo, e del suo rapporto con la rivelazione.

La Rivelazione è alla base dell’idea di tradizione fatta propria dal cristianesimo, sin dal De Civitate Dei di Agostino, e questa rivelazione definisce la via che gli eventi storici possono intraprendere, e alla luce di questa rivelazione si costituisce anche la possibilità di giudicare eticamente gli eventi avvenuti. La rivelazione e la tradizione, che si definisce proprio in quanto costituita dalla rivelazione stessa, annullano l’indeterminatezza propria del tempo indistinto in cui tutti gli eventi sono qualitativamente equivalenti. Come ha spiegato tra gli altri lo storico S. Mazzarino è questo che distingue la concezione cristiana del tempo dalla concezione pagana, greca in particolare, e non l’astratta e formale contrapposizione tra tempo «ciclico» e tempo «lineare» che viene spiegata da M. Eliade ne Il mito dell’eterno ritorno.7 Solo la rivelazione divina rende possibile l’instaurarsi di una tradizione, che si origina dall’ascolto indagante della rivelazione e del suo attuarsi come provvidenza nella storia. La storia è la comprensione rigorosa dell’unicità dell’individuo, dell’irripetibilità delle relazioni che si creano nella società, della non circolarità del corso degli eventi. Si tratta — potremmo dire — della comprensione trascendentale della storia cristiana, contrapposta alla circolarità del tempo pagano, e quindi non filosofico.

L’indeterminatezza del tempo è infatti uno degli obiettivi polemici della nota descrizione kantiana del medesimo come forma a priori del senso interno, ma anche e ancor di più di Fichte che, nella Dottrina della scienza nova methodo (1796-99) descrive il tempo come originantesi dalla capacità di determinare. Riteniamo che questa linea di pensiero trascendentale possa essere una possibile declinazione della tradizionale riflessione sul tempo propria della cristianità. Per una visione opposta del tema, sempre attuale, si veda quanto afferma Severino: «Il caos implica la necessità del ritorno eterno del caos, della mancanza di senso del tutto. Appunto per questo Nietzsche scrive che "il carattere complessivo del mondo è… caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine metafisico-epistemico».8 È questa una concezione che nega la storia, poiché non è possibile riconoscere un ordine nel corso degli eventi. Il vero filosofo sarebbe quindi necessitato a spingersi «fino al limite estremo della coscienza che l’Occidente, rimanendo se stesso, può avere della propria autentica essenza […] Leopardi e Nietzsche si portano a ridosso di quel limite, perché scorgono ciò che per l’Occidente è l’assolutamente impensabile, ossia che il divenire dell’essere è contraddizione (autocontraddittorietà, impossibilità)».9 Partendo dalle premesse di Severino, che vi sia una impossibilità metafisica di stabilire un ordine conoscibile, le conseguenze sono chiare e inevitabili: la storia è una illusione, e quindi anche la capacità di avere un tempo determinato, ma ancor di più viene meno la capacità di determinare se stessi, rispondendo alla chiamata divina. La concezione monista dell’essere non può che dar luogo ad una concezione monadica dei soggetti, esclusi così dalla relazione comunitaria entro la quale è possibile il manifestarsi della chiamata divina, che è anche una chiamata ad un agire. La chiamata divina è sempre una rivelazione, una manifestazione di Dio che contemporaneamente dice il da farsi ma spesso non gli strumenti di questo fare.

4. La Rivelazione della Gloria nella storia

Forte rivendica la maggior adeguatezza del termine Re-velatio in riferimento a una manifestazione di Dio che si mostra e si nasconde, si svela e rende allo stesso tempo il velo più fitto. La sua polemica è diretta in particolare contro Hegel e il suo concetto di completezza della Rivelazione, che si basa proprio sulla etimologia del termine Offenbarung (completa apertura, che non lascia alcunché di nascosto) , termine che Lutero scelse per tradurre il canonico Revelatio. La filosofia hegeliana della Rivelazione viene da Bruno Forte definita «l’ermeneutica come ripetizione dell’identità»:10 egli fa riferimento a vari passi del testo hegeliano, come ad esempio «Lo spirito che non si manifesta non è spirito […] Dio come spirito è essenzialmente questo: essere per un altro, manifestarsi.» Hegel compie quindi lo slittamento semantico che la Riforma aveva iniziato: la Rivelazione divina diviene la manifestazione di Dio, quasi necessitata e comunque ormai identificata con l’agire dello spirito nella storia. Proprio questa resa dei conti con il paradigma hegeliano per lungo tempo dominante potrebbe lasciar spazio al confronto con la filosofia trascendentale che auspichiamo.

Riporto a proposito della posizione hegeliana il giudizio di Rosenzweig, una delle fonti d’ispirazione della posizione di Forte:

Questa concezione della sintesi implica quindi del tutto essenzialmente una mediatizzazione dell’antitesi; l’antitesi diviene un passaggio dalla tesi alla sintesi, di per sé non è originaria. Il rapporto diventa subito evidente se si pensa ad esempio alla concezione del dogma trinitario in Hegel, dove per lui l’essenziale è riconoscere Dio come spirito e l’uomo-dio significa soltanto il «come» di questa equazione tra Dio e spirito.11

Come riportato sopra non vi è alcuna necessità che ciò che appare incomprensibile (Unverständliche) lo possa diventare in una nuova forma, come secondo Hegel e i suoi seguaci è quella della filosofia (o del concetto). La forma coincide con il contenuto, per la Rivelazione divina non sono necessarie concettualizzazioni, cioè determinazioni (Bestimmungen) ulteriori: l’idolatria del filosofo è tentare di pronunciare queste determinazioni, addirittura spingendosi sino a contemplare «i pensieri di Dio prima della creazione». In aggiunta a ciò è necessario sottolineare come contro ogni stereotipo il Dio della filosofia trascendentale indicata da Fichte non è Spirito nel senso idealista, non abbisogna di alcun divenire automanifestativo per sapersi, né ha bisogno del culto comunitario o della Anerkennung umana, fondamento della religione assoluta hegeliana. L’assolutezza di Dio consiste nel suo essere Vita e nel comunicare questa vita per una propria volontà. Questa comunicazione precede ogni pensiero, così come in generale il vivere precede ogni singola vita. Il primo rapporto tra l’uomo e Dio è quello dell’invito, della vocazione all’agire libero secondo una morale superiore, che non può essere dedotta da una mera intuizione. La rivelazione completa della dottrina (la narrazione degli eventi contenuta è questa rivelazione) non è l’esaurimento della differenza radicale che caratterizza Dio, almeno nella prospettiva di una teologia possibile che consideri gli impulsi di rinnovamento che provengono dalla filosofia trascendentale.

5. L’Altro e la chiamata divina

Solo Dio è e questo si può comprendere filosoficamente solo abbandonando il punto di vista soggettivo e realizzando un nuovo realismo della manifestazione. A questo riguardo vorrei tracciare un breve parallelo testuale. Scrive H. U. von Balthasar:

Nella dottrina della visione del primo volume («visione della forma») l’»estetica» era stata intesa nel senso kantiano come dottrina della percezione. Adesso, invece, a conclusione della «dottrina dell’estasi», dobbiamo capirla come l’autopresentarsi della gloria di Dio (della sua bellezza teologica). Si mostra così definitivamente ciò che il primo volume ha messo più volte in rilievo nella dottrina dell’evidenza soggettiva e oggettiva: la forma posta da Dio porta in se stessa la sua evidenza e può mostrare da se stessa questa evidenza agli occhi della fede: ma proprio questa forza di asserire, dimostrare e imporre se stessa appartiene al senso primissimo della biblica gloria di Dio (come ha mostrato Karl Barth). In tal modo «visione» ed «estasi» non stanno l’una accanto all’altra, ma l’una nell’altra.12

Questo testo viene premesso dall’autore all’ultimo volume del suo opus magnum, e segnala lo spostamento di punto di vista necessario per l’intellezione della gloria veteretestamentaria (Kabod): la gloria di Dio si autopresenta, e questo viene compreso dal teo-logo alla fine di una fenomenologia che completa il percorso estetico e si apre infine alla contemplazione del Neuer Bund, il patto tra Dio e l’uomo. Anche Karl Barth dedica un capitolo della Kirchliche Dogmatik II/113 alla Gloria di Dio, la cui essenza è costituita proprio da questa forza di mostrarsi, di farsi evidente, potremmo dire di convincere chi ha compiuto un atto di fede. I due teologi concordano su questa rilevanza decisiva della automanifestazione Divina come antecedente alla percezione che di questa ha il soggetto. La percezione del soggetto non esaurisce l’automanifestazione della vita divina.

Condizione per elevarsi alla vita cristiana, e quindi alla comprensione della manifestazione di Dio, e la risposta all’invito di Cristo, venuto a convincere gli uomini di essere principio, di essere liberi.

Si può quindi affermare che qui la filosofia tace, in una sorta di ascesi del pensiero che si raccoglie nello stupore davanti alla Differenza, rinunciando finalmente alle catture totalizzanti dell’Identità onnicomprensiva, mentre la teologia ascolta, lasciandosi dire dall’Altro le parole della vita. L’Uno e il molteplice non si mostrano quindi nella separatezza di una disperante estraneità, né si confondono nell’ebbrezza di un abbraccio di riconciliazione totale: fra nichilismo e ideologia, la teologia vuole essere, nella prospettiva di Forte, una parola altra e diversa, che dice tacendo e tace dicendo, alla scuola della rivelazione, il congiungersi della dimensione terrena-temporale e di quella celeste, dove Dio resta Dio, e il Figlio entra nel tempo e il tempo ha accesso a Dio. La teologia si mostra quindi come scandalosa per il filosofo e follia perfino per il credente, in quanto afferma che l’Uno ha dimorato nel molteplice, rivelando come il molteplice abiti nelle profondità dell’Uno. La Trinità del Dio cristiano è il paradosso della relazione in Dio, e perciò della vita, della storia, del dolore, della morte, dell’amore possibili nel cuore dell’Eterno. I Tre sono Uno; l’Uno è Tre; nel gioco dell’Amore eterno un eterno molteplice si raccoglie nell’unità pericoretica ed essenziale di Dio. L’Assoluto e la storia si incontrano in una nuova, inaudita profondità. Rimane aperto a questo punto il problema dell’accesso alla filosofia, da dove essa cominci, visto che è chiaro che l’inizio della teologia è la parola della rivelazione. Se Forte afferma risolutamente di fatto il primato della teologia nell’ascolto, il filosofo deve affermare con altrettante risolutezza l’anteriorità della filosofia nel delineare le condizioni di possibilità di questo ascolto primigenio. L’alternativa netta tra nichilismo e ideologia non riassume la molteplicità di posizioni filosofiche possibili, per lo meno non riesce a includere una filosofia che si voglia centrare non sul primato del sapere, ma sul primato doxico-pratico del fare. Il sistema dell’identità di Schelling, il sistema logico hegeliano, le derivazioni e le negazioni di questi sistemi che la contemporaneità ci ha dato nel secolo XX hanno avuto una alternativa nella tradizione del «nuovo pensiero», tradizione alla quale si rifece Levinas per contrapporre l’infinitezza alla totalità dell’ideologia o, come affermerebbe Forte, alla ancora più infida totalità del nichilismo. Solo una lettura trinitaria della logica hegeliana, intesa come «storia di Dio», potrebbe far rivedere questo giudizio che viene formulato da Forte sul totalitarismo hegeliano. Come ha infatti affermato Semplici

Sbarazzarsi di Hegel, guardando con simpatia a Kant, significa dunque dover fare i conti con questa dichiarata estraneità del tempo […] l’alternativa radicale alla onto-teologia è la ridislocazione della domanda sul fondamento dalla sostanza-oggetto, da ciò che è, a ciò che avviene.14

La temporalità dell’avvenire è il portato della logica hegeliana, come spazio di progresso indefinito, poiché anche se il presente è sempre in marcia verso il futuro, in esso non c’è più nulla da scoprire. La nozione di tempo permane forse da indagare per cercare di restituire alla filosofia sistematica hegeliana quello spazio di apertura che le viene negata, e questo la avvicinerebbe alla prospettiva morale superiore propria di quel Fichte che abbiamo voluto porre come inizio in questa linea di sviluppo del pensiero congiunto di alterità e terzietà.

La temporalità è di fatto negata da una ulteriore forma di pensiero totalitario, con la quale si confronta Forte. Questa forma di totalità è quella primigenia nelle sue intenzioni e autoglorificantesi nei suoi esiti di Severino. È interessante osservare che proprio Severino dedicò alla filosofia di Fichte la sua unica monografia impegnata a sostegno di un sistema diverso dal suo,15 e che nella filosofia di Fichte è centrale proprio la necessità di costituire praticamente le strutture che Severino ritiene impossibile trovare nel reale, cioè nell’essere non contraddittorio. Un tentativo di dare una risoluzione ad alcuni problemi aperti dalla filosofia di Severino si trova nella sua ultima opera di spessore teoretico, Gloria (2001), in cui soggetto della trattazione, la Gloria appunto, sembra tanto simile alla beatitudine, cioè alla Seeligkeit intesa come sapienza pratica che si realizza nella tarda filosofia di Fichte. Mi limito a rilevare inoltre come il linguaggio adottato in questa ultima opera di Severino sembra debitore alla tarda esposizione berlinese della dottrina della scienza.

Levinas apre al vero ingresso nella filosofia, non solo nella teologia, della alterità, ed insieme a questa all’ingresso del terzo, inteso come orizzonte comunitario irriducibile di ogni considerazione del soggetto e del suo altro.

Il povero, lo straniero si presenta come eguale. […] La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo, così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da Altri. […] Egli si unisce a me. […] Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o di segni, ma grazie alla sola espressione del volto. […] Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute. […] La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà. […] Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce là dove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.16

Per il pensatore che forse più di ogni altro ha influenzato la posizione etica di Forte l’anteriorità dell’altro trova la propria fondazione nell’anteriorità della società, unica garante della sussistenza non solo del «tu» con il quale condividere convinzioni o appartenenze, ma del terzo che solo ci interpella con il suo assoluto distacco da ogni relazione con noi.

6. Alterità e avvento del terzo sorgente dell’amore

L’inclusione del terzo è la comprensione geneticamente originaria che la terzietà è insieme lo spazio della trascendenza e il vero trascendentale che rende possibile e descrivibile questa stessa esperienza. Rifacendoci alla tradizione del pensiero trascendentale ci troviamo quindi ad affermare che ancora una volta questa è una derivazione di uno degli assunti fondamentali della tradizione trascendentale: l’esperienza è più grande della percezione. La disponibilità ad accogliere un terzo è quindi fondata su un’esperienza possibile? L’accoglienza del terzo è la possibilità stessa di concepire una societas, e la possibilità e il compito di pensare una societas potrebbe essere il risvolto politico-pratico conseguente dalla posizione di Levinas e di Forte. Questa cesura tra comunità e società è colta da Olivetti:

Non il «noi», ma la «terza persona», non la comunità ma la società è — come la «prima persona» e la «seconda persona» — una forma irregredibile e compresente in quel fenomeno irriducibilmente complesso che è la presenza.17

La presenza complessa è al centro del pensiero di Olivetti, che attribuisce l’inverso di questa, argomentando «l’assenza del terzo» e giungendo alla nozione di «terzo escluso» a significare le conseguenze pratiche di questa assenza, ribaltando la logica tradizionale in una logica dell’anteriorità dell’etica.

È proprio Olivetti che nota come sia tuttavia possibile tracciare una genealogia, che dal pensiero di Levinas risale fino alle sue origini teoriche:

Ora bisogna notare che, nel corso della storia della filosofia, un tentativo di risalimento, di trascendimento, di cambiamento di piano, o come altro si voglia dire, per vari aspetti simile a quello tentato da Levinas fu già tentato da Fichte. […] Il carattere fondativo che la filosofia «pratica» ha rispetto a quella «teorica» anche in Fichte si esplicita e si sviluppa nella tesi che l’essere, essendo mediato e potendo venir dedotto, non è l’oggetto immediato di quella che potremmo chiamare «filosofia prima». Anche in Fichte il tentativo di risalire oltre l’essere si concreta nel tentativo di passare ad un piano diverso da quello su cui si svolge il gioco della determinazione reciproca degli opposti.18

La logica della determinazione reciproca, la teorica Wechselbestimmung, cede infatti il passo nella filosofia di Fichte alla pratica Wechselwirkung, in cui vi è una efficacia dell’agire reciproco che si può qualificare come «genetica». Solo della pratica vi può essere scienza, e questo fa si che la dottrina trascendentale sia un sistema, ma un sistema della libertà, da principio alla fine, in quanto non parte dalla coppia di categorie di relazione sostanza-accidente o causa-effetto, proprie della nozione di filosofia prima proprie della metafisica aristotelica o moderna, ma inverte questa dinamica movendo proprio dalla Wechselwirkung, che a parere di chi scrive è la vera novità introdotta nel sistema delle categorie da Kant.

Fondamentale per comprendere la posizione filosofica di Forte è il confronto con Kierkegaard e con la ripresa di questo pensatore operata per la teologia filosofica da von Balthasar.19 Il danese infatti conduce un vigoroso attacco alla nozione di filosofia come sistema proposta ed elevata al suo grado sommo da Hegel, e contemporaneamente getta le basi di quell’approccio filosofica-esistenziale che Forte fa proprio. In questo egli si ispira a von Balthasar, il cui approccio ispira anche l’intima congiunzione tra teologia e orazione, tra metafisica e mistica, che, ben più dell’esperienza del tardo Heidegger, ci sembrano proprie del teologo italiano. Von Balthasar apre con una citazione tratta dai Diari di Kierkegaard il quinto e ultimo volume della sua Teodrammatica, descrizione del compimento del dramma divinoumano che è la prassi della storia della salvezza. Riportiamo integralmente per la sua pregnanza la citazione:

Le chiacchiere di Hegel, secondo cui il reale è il vero, sono perfettamente eguali all’inverso: imporre a un poeta che le parole e le azioni dei suoi personaggi drammatici siano le sue proprie parole e azioni. Da fermamente ritenere è solo questo: dove Dio decide, se così posso dire, a far della poesia, ciò non avviene per ammazzare il tempo, come ha pensato il paganesimo. No, no, la serietà consiste proprio nel fatto che la passione di Dio è di voler amare ed essere amato, quasi che — o infinito amore! — Egli stesso fosse legato a questa passione, quasi che questo fosse una debolezza, mentre è invece proprio la sua forza, il suo amore onnipotente, a tal punto che il suo amore non sottostà ad alcuna alterazione. C’è un travisamento sconcertante in tutte le categorie umane applicate all’uomo-Dio. Giacché, se si potesse parlare solo umanamente di Cristo, bisognerebbe poter dire che le parole «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» sono false e impazienti. Solo se è Dio che le dice, possono essere vere, quindi anche se le dice l’uomo-Dio. E veramente vere. Ed essendo vere, sono anche il culmine del dolore. Il rapporto con Dio è evidentemente un peso di beatitudine così immenso che, se lo comprendessi, la mia beatitudine [sarebbe] assoluta nel più assoluto dei sensi, ed essa diviene al contrario più piccola a causa di questo paragone mondano: che i miei nemici devono esserne esclusi.20

Veramente si può applicare a questo passo il titolo di un’altra celebre opera di Balthasar: Il Tutto nel frammento. Sono infatti contenuti in questo passo i temi più rilevanti della riflessione del filosofo danese sulla fede, esperienza prima che pensiero, esperienza che lacerò con il suo peso dolce e tremendo tutta la sua vita. Riteniamo che questi sia il pensatore che per primo colse il totalitarismo onnipervasivo e in fin dei conti eretico del pensiero hegeliano. La sua riflessione fu attraversata dallo scontro con il sistema filosofico per eccellenza, che dagli anni ’30 dell’ottocento iniziava dominava le accademie d’Europa.21 L’ambizione del filosofare era in questo sistema giunta al suo culmine: l’automovimento dell’idea include infatti la totalità dei fenomeni del cosmo: dalla fisica alla storia, sino alla concettualizzazione dei pensieri di Dio prima della creazione, che, viene dichiarato al principio della Wissenschaft der Logik, sono appunto l’oggetto vero del sistema logico hegeliano. La soggettività in Hegel era un predicato dell’Idea, e questa era anche la chiave di volta della radicale critica di Kierkegaard: per la sua esperienza pensante la soggettività non sussiste da sola, ma dinanzi a Dio ed alla sua infinita donazione di amore si risolve nella certezza della beatitudine altrui, e nell’angoscia della propria dannazione. La croce secondo Kierkegaard, come nota Moltmann in Teologia della speranza (altro autore cui Forte si ispira sovente) è il «sigillo della presenza paradossale dell’eternità in ogni momento»: questa è nel pensiero del danese l’abisso del pensiero, abisso che non può essere incluso in alcun sistema, sistema che diviene blasfemo in questa sua pretesa di includere l’alterità nella soggettività dell’Idea. È questa pretesa alla base del pensiero che il reale sia interamente razionale: questo lo si può concepire solo al prezzo di svuotare di senso l’avvento dell’altro, nonché dell’Altro per eccellenza che è Cristo. Questa tesi viene declinata con forza nella Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di Filosofia, opera complessa e tormentata, che bene esprime lo sforzo distruttivo del sistema proprio di Kierkegaard.

La poesia dell’opera di Dio è il creare degli esseri che sono il suo opposto, e tale opera non è dominata da costrizioni dettate dalla ristrettezza della razionalità umanamente concepita. L’excessus mentis che venne cantato dai mistici consiste prima di tutto nel farsi rapire dall’abisso della divina passione, passione voluta da Dio nella sua scelta di legarsi al destino di creature ontologicamente incommensurabili a Lui nella loro piccolezza, creature che si volgono all’eterno dalla loro prigione temporale. Questa è la poesia di Dio, mai riducibile ad un sistema, ma, come comprende bene von Balthasar, descrivibile come la narrazione archetipica, l’inserimento dell’uomo nel subabbraccio della Trinità, fino al compimento del mondo in Dio. Questa è anche l’origine del pensiero che sempre risorge nella storia della teologia, nella sua terribile insostenibilità, da Origene a Leibniz, sino da ultimo nel pensiero di von Balthasar stesso: l’apocatastasi, l’impossibilità di pensare la dannazione nella finale presa di possesso del mondo da parte dell’Amore trinitario. Kierkegaard non cade però in questo vicolo cieco, con il suo ennesimo paradosso: «sono letteralmente certo che ogni altro da me sarà facilmente beato, soltanto io no.» La volontà santa sa che la beatitudine può essere garantita a chiunque altro, in quanto l’altro è dominio della provvidenza di Dio: a noi è dato in affidamento solo il piccolissimo dominio dell’incertezza più assoluta, quello della nostra volontà sempre a rischio di cadere. L’abbandono di Dio è vero in primo luogo per il Figlio, per l’uomo invece non vi è abbandono, ma esclusione del proprio nemico, e questa è la causa di tutte le sofferenze. Questa è la terribile barriera sempre ripresentatasi nella storia degli uomini, la scusa per sfuggire al peso della beatitudine, l’esperienza soave e terribile dei santi, capaci di patire le parole della Fiamma viva d’Amore di San Giovanni della Croce: «rompi la tela a questo dolce incontro!».

Da questo approccio si può quindi comprendere quanto afferma von Balthasar commentando Hölderlin:

Una densità nuova acquista il termine dove si tratta del Mistero superiore che vige fra gli amanti (Così noi dobbiamo offrire di tanto in tanto un sacrificio alla divinità che è tra me e te), ma la cosa si chiarirà del tutto solo nella visione del comune Spirito Santo di cui si tratterà alla fine.22

L’esclusione dell’altro è una esclusione teorica, compensabile solo nella prassi includente. Questa prassi è l’unica possibile esperienza della alterità più irriducibile, quella di un Dio che si è fatto terzo a se stesso, nella ipostasi dello Spirito Santo. Forse è proprio questo il discrimine tra gli approcci di Forte e Olivetti, che come abbiamo cercato di illustrare brevemente, muovono entrambi da una esperienza della necessità di riflettere su un campo di ricerca dischiuso da Levinas, ma già concepibile solo all’interno della svolta pratico-trascendentale inaugurata da Fichte, come rimarcato a quanto da Olivetti.23 L’approccio teologico e l’approccio filosofico alla terzietà trovano in questi due autori i loro più densi interpreti, con due esiti differenti. Da un lato il terzo si configura per la filosofia come inesorabilmente assente per un pensiero che voglia uscire dalla logica tradizionale e riconoscere l’anteriorità dell’etica, sulla scia di Levinas e Fichte. Nell’approccio teologico-filosofico di Forte invece il terzo non viene mai nominato, se non come alterità di Dio, del Dio trinitario, che imprime una movenza trinitaria agli eventi della storia, che è sempre storia e dramma della Salvezza. Si potrebbe quindi dire che l’assenza descritta dalla filosofia è una presenza non detta nella teologia, scienza dell’ascolto nella prospettiva di Forte. Una descrizione possibile di questa presenza si ha nel fatto da tutti percepibile che chi comincia ad amare troverà sempre mancante il suo amore, e vorrà persino desiderare di morire, perché non sarà contento finché rimarrà qualcosa, fosse anche la sua stessa esistenza, a contraddire l’assolutezza dell’oggetto amato. In questo i due approcci sembrano veramente complementari. Dire la terzietà è infatti affermare una presenza non verificabile se non per ispirazione di fede, ispirazione che viene dallo spirare, cioè dal movimento proprio dello Spirito, la terza persona dell’inizio trinitario di ogni narrazione teologica.


  1. B. Forte, La Chiesa icona della Trinità, Queriniana, Brescia 1984; inoltre si veda il volume 5. della Simbolica, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione , San Paolo, Torino 1995. ↩︎

  2. I quattro volumi fondamentali della Dialogica sono: 1. Sui sentieri dell’Uno. Metafisica e teologia, Brescia 2001(1a ed. 1992); 2. In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, Brescia 1995; 3. La porta della Bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia 20024; 4. L’uno per l’Altro. Per un’etica della Trascendenza, Brescia 2003. Ad essi vanno aggiunti almeno i due testi in cui questa dialogica viene praticata con pensatori che hanno accettato di compartecipare al dolore e alla meraviglia originari proposti da Forte: Trinità per atei, con interventi di M. Cacciari, G. Giorello e V. Vitiello, Cortina Editore, Milano 1996; Delle cose ultime e penultime. Un dialogo, con S. Natoli, Mondadori, Milano 1997. ↩︎

  3. E. Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1947, p. 44. ↩︎

  4. B. Forte, Trinità per atei, cit., pp. 70-71. ↩︎

  5. B. Forte, L’uno per l’Altro. Per un’etica della Trascendenza, Brescia 2003. ↩︎

  6. J. G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, edita da R. Lauth, H. Jacob, E. Fuchs, H. Gliwitzky, Stuttgart 1962 sgg. (GA) I,5,213. ↩︎

  7. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Milano 1971. ↩︎

  8. E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999, pp. 340-1. ↩︎

  9. Ivi, pp. 429-430. ↩︎

  10. «Offenbarung» aut «Re-velatio»? Dalla Scrittura alla Parola ed al silenzio di Dio in «Archivio di Filosofia» 1992, Religione, Parola, Scrittura, pp. 389-402, p 390. ↩︎

  11. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, ed. it. Marietti 1985, p. 247. ↩︎

  12. H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica. Volume 7 - Nuovo Patto. Jaca Book 1977, p 32. (Versione italiana di Herrlichkeit. Theologie: Neuer Bund. Johannes Verlag 1969. ↩︎

  13. K. Barth, Kirchliche Dogmatik II/1 (1940) pp. 722-762. ↩︎

  14. S. Semplici, La logica e il tempo. Il «nuovo pensiero» e Hegel, Marietti, Genova 1992, p. 128. ↩︎

  15. E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960. ↩︎

  16. E. Levinas, Totalità e infinito, trad. di A. dell’Asta, Jaca Book, Milano, 1980, p. 217-219. ↩︎

  17. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Laterza 1992, p. 49. ↩︎

  18. M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, cit., pp. 76-77. ↩︎

  19. Al riguardo si veda in particolare Fare teologia dopo Kierkegaard, Morcelliana, Brescia 1997. ↩︎

  20. H. U. von Balthasar, L’ultimo atto. Teodrammatica V, Jaca Book, Milano 1985, p. 9. ↩︎

  21. Kierkegaard studiò a Berlino e seguì anche le lezioni tenute dall’anziano Schelling, che, proprio in risposta alla filosofia di Hegel, elaborò la sua celebre Filosofia della Rivelazione, ultimo monumento dell’idealismo tedesco degli anni ’50 dell’Ottocento. Questa prendeva il nome di filosofia positiva, in risposta al dogmatismo speculativo-negativo di Hegel, e veniva introdotta dal dato positivo della filosofia puramente razionale della mitologia. Questa impresa però non suscitò l’entusiasmo di Kierkegaard, che vi vedeva sempre, pur nel riconoscimento dell’irriducibile alterità, la ragione all’opera, non il dramma dell’esperienza della fede. ↩︎

  22. H.U. von Balthasar, Gloria. Vol. 5, Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna, Milano 1981, p. 279. Devo questo riferimento al dott. Lorenzo Marras. ↩︎

  23. Si può vedere al riguardo anche il contributo di Hans Georg von Manz, L’experience de l’autre en tant que constitution première et etique du sujet. Le tournant interpersonnel du concept d’experience chez Levinas et Fichte, in I. Radrizzani, Fichte et la France, Beauchesne, Paris 1997, pp. 247-270. ↩︎