Recensione a Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte

Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, a cura di Elio Grazioli, Abscondita, Milano 2012, 67 pp., € 12.

Proviamo per un attimo a rovesciare il nostro punto di vista soggettivo nel suo opposto oggettivo. Anzi, ancora meglio, proviamo a mettere tra parentesi il nostro essere soggetti e lasciamoci trasportare dal mondo degli oggetti, non più fenomeni rappresentati ma pure cose che si autorappresentano in noi. Chiunque di noi penserà che è un’impresa impossibile, totalmente assurda, ma è a ciò che ci invita, seguendo soltanto una delle tante vie tracciate nei suoi scritti, il pensiero di Baudrillard. Non si tratta però soltanto di fare epochè, di sospendere il giudizio, né tantomeno di entrare a contatto empaticamente con l’oggetto. Qui è l’oggetto che entra in contatto con noi. Non siamo noi a pensare l’oggetto, ma è l’oggetto che ci pensa (per parafrasare un importante saggio di Baudrillard fotografo sulla fotografia). Invertire il rapporto soggetto-oggetto significa rovesciare il senso e accettare l’insignificanza del mondo e, ancora di più, di ciò che noi rappresentiamo. L’arte è un esempio evidente di tutto questo.

Questo volumetto riunisce due conferenze di Jean Baudrillard tenute negli Stati Uniti nel 1987, ed è la ristampa del volume già uscito nel 1988 soltanto in edizione italiana. Nella prima conferenza Baudrillard spiega il vanishing point dell’arte (che è anche il titolo significativo del suo intervento), in particolare quella degli anni ottanta, riprendendo Baudelaire e la sua trasfigurazione della merce che lo ha portato, per reazione alla mercantilizzazione dell’arte, verso una concezione oggettiva assoluta. Bisogna, in altri termini, «forzare» il meccanismo di alienazione dell’opera d’arte fino a concepirla come merce assoluta, perdendo in questo modo del tutto il suo valore estetico.

Il paradosso della scrittura di Baudrillard consiste proprio nel mutamento di funzione interna, che trasforma un atto di volontà non gratuito in una semplice constatazione di un processo in atto assolutamente oggettivo. In questo processo il Benjamin dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (e grande conoscitore di Baudelaire) viene appena citato, ma in modo significativo (Baudrillard è un lettore attento di Benjamin): la perdita dell’aura dell’opera d’arte autentica di cui parla il primo diventa ora, in un mutamento di segno significativo dal negativo al positivo, un’aura del simulacro, della simulazione. Ma attenzione, ammonisce Baudrillard, a distinguere una «vera» simulazione da una «falsa». In realtà non c’è una presa di posizione chiara (né può esserci del tutto) nel passaggio dal negativo al positivo — non logicamente almeno — perché il positivo (l’aura) può essere negativo e viceversa. Così in Benjamin, in cui la perdita dell’aura può essere sia negativa (perdita dell’autenticità dell’opera d’arte) che positiva (l’arte come opportunità di emancipazione delle masse).

Il vero punto di collegamento del discorso di Baudrillard diventa la figura e l’opera di Andy Warhol, definito una «macchina» assoluta per la capacità di realizzare «l’estasi negativa della rappresentazione», conseguenza finale della concezione baudelairiana dell’arte come merce assoluta e, quindi, della sua decadenza. Come ci ricorda Elio Grazioli nella Postfazione, Baudrillard continuerà a riflettere sull’opera di questo artista anche negli anni successivi (a mio avviso approfondendo più che modificando i suoi giudizi). In particolare, ne Il delitto perfetto del 1995 (nel capitolo dal titolo Lo snobismo macchinale) Warhol diventa il campione di uno «snobismo macchinale» e di «un feticismo radicale», in cui l’immagine e l’oggetto diventano fittizi: l’artista scompare insieme al suo atto creativo e rimane soltanto l’oggetto-feticcio/simulacro, frutto della tecnica come illusione radicale.

L’ironia oggettiva del mondo della merce porta all’ironia oggettiva della sparizione dell’arte, che non a caso è il titolo emblematico di questo volumetto. Siamo nell’era della transestetica, in cui l’immaginazione (e la sua rappresentazione) «è morta per overdose di immagini» (p. 23). L’arte non è più in grado di sedurre, ma di esercitare la sua fascinazione attraverso la sua sparizione. Il meccanismo di ciò è abbastanza semplice: non vuole significare più niente e, allo stesso tempo, si sforza di voler significare ciò che non ha senso. Eccesso di senso e di significazione in un mondo senza senso né significato. Abbiamo ormai superato «l’orgia» della modernità, che ha portato a tutte le varie forme di liberazione, da quella sessuale a quella politica e all’arte, lasciando spazio soltanto alla simulazione di quanto è stato realizzato. Paradossalmente, l’arte sparisce proprio per eccesso di estetizzazione, proprio in quanto presente ovunque nella realtà. Siamo al «grado Xeros della cultura» (p. 28).

La grandezza di Baudrillard è la capacità di introdurre formule ad effetto tutt’altro che banali, in quanto veicolano un senso di ciò che non ha più senso, un significato direi nullo che significa esattamente il nulla di ciò che siamo e viviamo. Se l’arte è sempre stata simulacro, ha perso ormai la sua illusione: la sua sparizione è una constatazione su cui non vale la pena riflettere, anzi è persino inutile e pericoloso farlo. Simulacro significa ormai per l’arte ripetizione delle sue forme, cioè totale mancanza di originalità. Possiamo leggere come ironico l’atteggiamento di quelle correnti artistiche contemporanee che hanno fatto di Baudrillard un loro punto di riferimento teorico importante: se lo avessero letto davvero, avrebbero capito che la loro non può essere considerata arte.

Il carattere dell’artista è letteralmente attraversato da una doppia pulsione: annientare ogni traccia del mondo e della realtà e resistere a questa stessa pulsione. La conseguenza di ciò è la nuova iconoclastia moderna, che incarna il paradosso della distruzione delle immagini attraverso una continua proliferazione, persino saturazione di immagini «in cui non c’è niente da vedere» (p. 33). In questo senso Baudrillard è «iconoclasta» (e tale si professa apertamente): l’occhio del critico non deve più giudicare, bensì constatare e dire il fenomeno che si manifesta al di là del bene e del male, ancora di più oltre il senso stesso e lo spazio del reale. Perché il mondo in cui viviamo è un mondo di simulazione, «in cui la più alta funzione del segno è di fare scomparire la realtà e di mascherare al tempo stesso questa sparizione» (p. 34).

Come ribadisce anche nella seconda conferenza, dal titolo significativo Transestetica, ormai tutto è nello stesso tempo sessuale, politico, estetico. È questo eccesso, di fatto, questo superare ogni limite che ha decretato definitivamente la liquidazione della modernità. Qui a mio avviso Baudrillard descrive la situazione di «limbo» in cui ci troviamo: quello che lui chiama il transpolitico, il transessuale, il transestetico (tutte facce della stessa medaglia) forzano il linguaggio a dire l’eccesso senza tuttavia fuoriuscire dalle stesse categorie logiche e linguistiche che ci ancorano al Moderno. In altri termini, la forzatura del linguaggio, proprio in quanto tale, esprime un al di là del significato che ancora non basta per lasciarsi alle spalle la modernità. È una crisi della logica, del linguaggio, del segno che non riesce a trovare il modo giusto di esprimersi in quanto li eccede. C’è la diagnosi ma non c’è la cura (ma esiste davvero una cura? Forse non per noi). L’arte contemporanea rappresenta proprio questo: il suo eccedere, proliferare ovunque, significa la sua scomparsa come capacità, nel gioco seduttivo delle sue illusioni, nell’andare oltre la realtà verso una forma in qualche modo ideale.

L’arte non esiste più non solo malgrado ma anche per la proliferazione enorme di eventi e di opere artistiche. Non c’è più ispirazione, la qualità ha lasciato spazio ad una quantità che non significa più nulla. Il paradosso profondo dell’arte, tra stasi e proliferazione, realizza in pieno il suo carattere utopico: «attraverso i media, l’informatica, il video, tutti sono diventati creativi in potenza». (p. 46). La quantità ha sottratto all’arte il diritto di esistere; anzi, l’anti-arte senza significato che rimane in vita si scambia per il suo opposto, come nell’essere macchina di Andy Warhol e nello scolabottiglie di Duchamp. L’estetizzazione del mondo comporta l’insignificanza del mondo. Tutto ormai è puro segno veicolato dalle immagini, specialmente dei media e della pubblicità: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini, ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere» (pp. 47-48).

Dire che tutto è immagine non significa soltanto, per Baudrillard, sancire l’impossibilità del giudizio estetico, ma anche liberarsi della realtà mediante un plus di realtà: l’iperreale di cui sono testimonianze dirette le correnti artistiche contemporanee, come l’iperrealismo e la pop art. Siamo nello «stadio frattale del valore», in cui il valore prolifera e si disperde in ogni direzione rinunciando a se stesso. Il tempo in cui viviamo è il tempo dell’apparenza, del look, in cui l’individuo diventa un mutante potenziale e solitario, come Andy Warhol e Michael Jackson, personaggi artificiali e meticci.

L’arte, votata ormai all’oggetto-feticcio decorativo persino nei suoi protagonisti assoluti, si smaterializza nell’idea: questo è il sintomo del suo definitivo tramonto come attività specifica avente uno scopo e una funzione. Crede di significare quando ormai non significa più niente. Il non accorgersene è la sua ironia, maschera della sua morte.