L’apertura emozionale in Edith Stein e Max Scheler

1. Premessa

In un’epoca storica in cui apparire sembra – appunto - più importante che essere e nella quale l’incremento del benessere si sta rivelando inversamente proporzionale all’affermarsi del ben-essere, particolarmente interessante è la possibilità di riconsiderare la preziosa lezione proveniente da due dei più illustri fenomenologi del Novecento, Max Scheler ed Edith Stein. Il tentativo di fondazione di un’etica materiale dei valori compiuto del primo e la tematizzazione dell’atto empatico ad opera della seconda, valorizzando entrambi la Persona e restituendo alla sfera dell’emozionale la dignità che le è propria, si configurano come occasione di fertile riflessione in virtù del carattere di attualità che è loro proprio, come risposta all’appello di una società che necessita urgentemente del recupero e dell’eventuale riadattamento di un’etica che permetta di vivere bene con se stessi e con il proprio ambiente – quindi, con gli altri.

A soffrire a causa delle tendenze polarizzatrici del nostro tempo risultano essere principalmente due dimensioni: quella della diversità e quella del sentimento. La prima è vittima di due atteggiamenti opposti, ma parimenti dannosi: quello che insiste nel calcare le differenze al fine di demonizzarle, da un lato, e quello che si sforza di negarle, misconoscendole e conducendo alla deriva di una sterile omologazione, dall’altro. Il secondo campo d’interesse che andremo ad indagare, invece, ossia quello dell’emozionalità, viene oggi relegato, nella migliore delle ipotesi, a funzione secondaria dell’essere umano, rispetto al primato del quale gode l’onnipervasiva ragione, ormai considerata come l’unica facoltà che possa definire l’uomo. Nel peggiore dei casi, esso è invece sottoposto ad un’umiliazione ancor più grave: ridotto ad una serie di impulsi incontrollabili e forieri di esiti drammatici, com’è evincibile dalle modalità spesso scelte per riportare i casi di cronaca e reso oggetto di spettacolarizzazione, soprattutto quando declinato nella forma del dolore.

Scopo del presente articolo è dunque quello di dimostrare, attraverso la guida di Scheler e Stein, l’insussistenza delle principali presunte dicotomie, ovvero umanità/individualità e ragione/sentimento, imposte dalla società contemporanea, il cui abbaglio risulta estinguibile mediante la disponibilità a re-imparare la possibilità di assumere un atteggiamento di umile apertura ed ascolto emozionale verso l’Alterità come occasione di armonica costituzione di Sé.

2. Max Scheler: il rigore di un’etica materiale emozionalmente intuibile

In controtendenza rispetto a quella tradizione filosofico-culturale da secoli e tutt’ora predominante in Occidente, la quale identifica nel proprium dell’essere umano la facoltà dell’esercizio della ragione, nella principale opera scheleriana che prenderemo a riferimento nella sede del presente lavoro, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, il Fenomenologo muove invece una decisa critica alle posizioni che assolutizzano la razionalità ed il formalismo, argomentandone l’inefficacia e finanche la pericolosità in ambito etico. Tra queste, sebbene nel testo non venga espressamente dichiarato, figura anche la prospettiva husserliana, la quale, nonostante abbia apportato dei felici contributi a partire da cui lo stesso Scheler muove i passi per strutturare la propria originale riflessione (la riduzione, la trascendenza dell’oggetto, il legame intenzionale fra coscienza e cosa), in definitiva riconsegna, per così dire, «l’ultima parola» a quella ragione legislatrice della quale è portatrice non una Persona «in carne ed ossa», bensì un Ego «senza volto» ed alla quale viene ri-accordato il primato sulla sfera dell’emozionale.

È tuttavia lapalissiano come l’emblema delle filosofie bersaglio dell’attacco condotto dal Nostro sia rappresentato dal pensiero kantiano, il quale ne incarna esemplarmente i tratti oggetto di contestazione nel Formalismus. L’imperativo categorico, trattando infatti la persona come persona di ragione e rivolgendosi ad essa in questi termini, finisce con lo spersonalizzarla, sottintendendo ed imponendo che tutti si comportino allo stesso modo, indipendentemente dalle proprie inclinazioni particolari. L’Autore si chiede dunque «se l’etica formalistica, basata sulla ragione e sulla legge, non privi a sua volta la persona della sua dignità […] ponendola sotto il dominio di un Nomos impersonale al quale, appunto, dovrebbe obbedire per diventare veramente una persona»1 e osserva: «non è un caso che, dal punto di vista terminologico, l’etica formale caratterizzi innanzitutto la persona come “persona di ragione” […] la persona in fondo non è altro che l’indifferente soggetto logico di un’attività razionale, che obbedisce, cioè, alle leggi ideali indicate. In breve: la persona è la x di una qualche attività di ragione».2

Non soltanto quindi il formalismo, non fornendo un valore morale, ma – appunto – formale, logico, non sarebbe in grado di fondare un’etica buona, giusta, funzionale all’uomo per vivere meglio, ma rischierebbe persino d’instaurare un’etica schizofrenica, nell’ambito della quale si agirebbe in nome del senso del dovere e non perché convinti della correttezza morale di ciò che si compie. Argomenta, su questo punto, il Filosofo: «dalla rigida accettazione […] della falsa definizione di persona deriva un’etica che non conduce affatto al riconoscimento della cosiddetta “autonomia” o “dignità” della persona in quanto persona. Ciò che ne consegue logicamente, non è l’auto-nomia (dove l’“auto” indica necessariamente l’indipendenza della persona), ma la logonomia o, addirittura l’eteronomia della persona. […] La persona si riduce all’indifferente punto di passaggio verso un’attività di ragione impersonale».3

L’errore del formalismo consiste dunque nel mancare completamente di considerare la dimensione emozionale dell’essere umano e nel relegare ogni vissuto caratterizzato da tale valenza nella categoria delle datità sensorialmente esperibili. Alla luce di ciò, due risultano essere i pregiudizi da combattere, secondo Scheler: quello intellettualistico, stando al quale l’apriorismo può connotarsi esclusivamente come formale e mai come materiale ed il pregiudizio sensualistico, il quale riduce ogni etica materiale all’edonismo e la recezione assiologica a stati d’animo di piacere o dispiacere sensoriale scaturiti dall’incontro con i beni.

Ciò che il Fenomenologo vuol fondare è infatti «un’etica rigorosamente assoluta e obiettiva»,4 al pari di quella kantiana, ma basata su un «apriorismo materiale»,5 rispetto al quale egli precisa che non necessariamente esso determini il configurarsi dell’etica stessa come un’etica dei beni, in quanto tale carattere può essere altrettanto validamente associato ad un’etica dei valori: i beni, secondo Scheler, sono infatti portatori, messaggeri di valori universali, che sono «le qualità più semplici che possiamo afferrare»6 attraverso un’intuizione che si ha con occhi molto diversi da quelli del raziocinio e tale per cui è come se riconoscessimo quei valori, senza bisogno di esporli formalmente. Donde, l’altra espressione attraverso la quale l’Autore stesso definisce la propria posizione: «intuizionismo emozionale».7

Egli s’interroga infatti circa la possibilità dell’esistenza di una gerarchia universale di valori, al di là delle differenze vigenti tra le varie epoche storiche, civiltà e culture – in altre parole, valida per l’intera umanità, nella sua totalità: un ordine assiologico che, valendo per tutti e sempre, costituirebbe il riferimento per ottenere delle certezze in ambito etico, nonché la garanzia del rigore che Scheler si propone di ricercare al suo interno. La prospettiva sviluppata da quest’ultimo, nel suo riferimento alla «materialità», non dà ragione del pregiudizio sensualistico, in quanto, sebbene i valori siano portati, per così dire, dalla materia, non s’identificano con essa e non vengono colti mediante un sentire sensoriale: al contrario, tale modalità di afferramento, che concerne il mero livello vitale, in quanto permette ad un organismo di orientarsi con successo nell’ambiente circostante, deve essere «messa fra parentesi» perché possa aver luogo un retto coglimento valoriale.

3. Dall’ambiente-proprio all’apertura al mondo: sentire il valore

Anziché nella ragione, dunque, il discrimen fra il mondo animale e l’essere umano risiede per Scheler nella capacità di quest’ultimo di svincolarsi dal legame con i rapporti organici tra le cose ed elevarsi al di sopra dell’ambiente-proprio, nel quale l’animale resta invece estaticamente immerso. Spiega l’Autore: «il carattere principale di un tale essere “spirituale” (non più legato alla pulsione e all’ambiente-proprio) è allora quello di essere “libero dall’ambiente-proprio”, il che significa “aperto al mondo”: un tale essere ha il “mondo”».8 Proprio in virtù di tale facoltà, appannaggio esclusivo dell’uomo, quest’ultimo è in grado di oggettivare quei centri nei quali l’animale rimane invece calato, potendo così, diversamente da esso, coglierne l’essenza e, questo, attraverso una percezione di stampo affettivo che, nella prospettiva scheleriana, molto più del raziocinio, verrebbe a configurarsi come il proprium della Persona, attualizzata a seguito del conseguimento dell’autentica Weltoffenheit, condizione raggiungibile dalla natura umana soltanto, attraverso la messa in atto della riduzione catartica.

Rispetto a quest’ultima occorre innanzitutto precisare che «essa viene sorretta da un preciso “slancio morale” in cui si attua una messa fra parentesi dell’ego (catarsi) che è al contempo una estasi dell’ego. La riduzione come slancio catartico-estatico dal centro egologico al centro personale diventa l’indiscusso momento costituitivo della filosofia scheleriana. Eppure questo aspetto risulterebbe assolutamente incomprensibile senza un ulteriore importantissimo momento: quello rappresentato dalla Demut come epochizzazione egologica».9 Secondo il Nostro, infatti, in virtù di un movimento contro-intenzionale, che procederebbe dunque dalla cosa alla coscienza, sarebbe per noi possibile cogliere l’essere soltanto nella misura in cui quest’ultimo si rivelasse disposto ad apparire e a farsi cogliere, il che richiederebbe, come conditio sine qua non per l’afferramento, la disponibilità da parte dell’uomo ad abbandonare la tendenza a rapportarsi alla natura come ad un oggetto da dominare (la qual cosa avviene invece quando non si è reciso il vincolo con il livello organico dell’esistenza), ponendosi al contrario in un atteggiamento di ascolto umilmente accogliente rispetto a ciò che si staglia dall’esterno come opportunità di costituzione di sé.

Dunque, «la riduzione catartica è propriamente una “riduzione ascetica”, eppure si tratta di un “ascetismo” tanto particolare da tradursi in un’esaltazione della vita stessa, in quanto percorso da una sublimazione capace di riferirsi ad una classe di valori superiori più complessa: i valori personali. Valori che lungi dal negare la realtà consentono un enorme potenziamento della nostra apertura estatica al mondo, ed è proprio tale violenta apertura estatica che consente l’atto dell’ideazione».10 Posto che si debba in primo luogo separare i beni dalle cose materiali, dagli oggetti pratici, d’uso (Sache o res) e che «solo nei beni i valori diventano effettivi»,11 l’Autore avverte riguardo la necessità di «distinguere i beni, cioè le “cose di valore”, dai semplici valori che le cose “hanno” o che “spettano” ad esse, cioè i valori della “cosa”».12 Le prime, ossia le cose portatrici di valore, vengono indicate con il termine tedesco Wertdinge, mentre le cose che hanno un valore sono designate come Dingwerte. In quest’ultime, il Wert, cioè il valore, è consegnato alla caducità, ai periodi, alla cultura, alla mutevolezza e, pertanto, dev’essere compiuta un’epoché dello stesso.

Sebbene anche un’ipotetica cosa che io stia utilizzando, che «mi serva per», avendo un valore pratico, nel momento in cui mi stimola va a sollecitare la mia coscienza emozionale, dato che ne percepisco in maniera intuitiva e «pre-e-a-logica»13 l’utilità, essa occasiona tuttavia un sentire che è ancora, per così dire, di primo livello, legato all’empirico. Si accede ad un sentire di secondo livello quando compiamo l’epoché del contenuto materiale.

È allora che emerge l’assolutezza del valore, una gerarchia del valore, che va dai valori sensoriali a quelli civili dell’utile e del dannoso, ai valori vitali, a quelli spirituali (conoscenza della verità, valori estetici, giuridici, culturali), sino ai valori più elevati, ovvero quelli religiosi. Afferma, infatti, l’Autore: «nell’intero ambito dei valori regna un preciso “ordine gerarchico”, in base al quale un valore è “superiore” o “inferiore” rispetto a un altro. Questa distinzione, come quella tra valori “positivi” e “negativi”, appartiene all’essenza dei valori stessi, e non vale soltanto per i “valori che ci sono noti”».14 Scheler, infatti, parla di «una gerarchia oggettiva di essenze valoriali, un “ordine dell’amore” strutturante l’intera realtà, che possa diventare nell’uomo regola del desiderio e dell’azione».15

La suddetta gerarchia si disvela dunque da sola nel momento del preferire. Quest’ultimo non si configura come una preferenza empirica del tipo “al garofano preferisco la rosa”, piuttosto, in esso, sento che il valore religioso è più alto rispetto a quello estetico o dell’utile: è un raffinarsi nel quale gli oggetti non ci sono più, perché li ho messi fra parentesi. Allora l’essenza del valore emerge, l’epoché ci restituisce il vero valore, purificato. Nell’atto del preferire, che consiste nell’anteporre e nel posporre, si delinea una preferenza che è universale, in quanto, indipendentemente dalla scelta, tutti riconoscono emozionalmente che il valore religioso sia il più elevato e, in questo, siamo quasi passivi razionalmente.

Ancora una volta, dunque, non è nella ragione che viene identificato il proprium dell’uomo, ciò che lo caratterizza in maniera peculiare rispetto all’animale, bensì nella facoltà d’intuire emozionalmente in modo corretto l’ordine assiologico del mondo, a seguito del raggiungimento di un’autentica apertura nei confronti di quest’ultimo grazie alla riduzione catartica: «ciò di cui […] l’animale sicuramente risulta sprovvisto è quell’atto del preferire un valore al posto di un altro, indipendentemente dai singoli beni concreti: è incapace di porsi al livello necessario per poter preferire ad es. il valore dell’utile al posto del valore del piacevole».16

4. La simpatia come accensione di una luce

Nella prospettiva scheleriana, sarebbe auspicabile che tale universale gerarchia assiologica venisse rispecchiata da quell’ordre du cœur personale e descrittivo che va a determinare quegli stessi atti attraverso i quali la persona individuale si comporta nei confronti del mondo: «solo la possibilità che l’ordo amoris personale rispecchi quello oggettivo permetterebbe infatti all’uomo di fare esperienza delle cose secondo la loro reale struttura qualitativa, garantendogli una rettitudine del cuore che gli consenta di portare a compimento le possibilità del proprio esistere».17

Da tale microcosmo valoriale interno dunque la persona trae la propria caratterizzazione individuale, da esso dipendono i suoi atti, ossia gli atti propri di questa particolare Persona «qui ed ora», «in carne ed ossa», non gli atti di una persona in generale: è da tale aspetto che emerge in tutta la sua portata il significativo superamento che Scheler fa di Husserl, il quale aveva meramente affermato che la persona si caratterizzasse dagli atti. L’aggettivo possessivo introdotto dal Nostro esprime invece la dimensione dell’individualità personale, la cui peculiare sfumatura, trascendente ed inoggettivabile, può essere intravista soltanto da quanto i suoi atti ne rivelano: «persona è la concreta, essenziale unità di esistenza di atti di essenza diversa».18

Afferma l’Autore: «uno sguardo rivolto alla persona stessa e alla sua essenza […] lascia che l’unicità del contenuto originario a priori affiori immediatamente in ogni atto che sappiamo compiuto da lei - ovvero, ogni contenuto dei suoi atti, permette di approfondire la conoscenza del suo “mondo”».19 Ed è attraverso l’esercizio della simpatia che ci è dato di condividere il mondo spirituale dell’altro, in un legame nel quale ad entrare in gioco è, ancora una volta, il sentire emozionale: l’espressione stessa scelta dal Filosofo per descrivere la relazione simpatetica, ossia l’atto di «rivolgere uno sguardo», attesta che non si tratti di un’operazione costruita «a tavolino» dalla ragione.

Vediamo dunque più da vicino le caratteristiche di questa peculiare esperienza. A differenza dell’amore, la simpatia «è di principio cieca al valore»:20 se ci si duole nel caso in cui la persona da noi amata sia crudele, è possibile invece provare il sentimento simpatetico anche nei confronti di chi goda della sofferenza altrui o si dispiaccia della felicità degli altri, fermo restando ovviamente che abbia comunque un valore moralmente positivo soltanto il con-gioire di una gioia che sia intrinsecamente portatrice di un valore positivo.

Ma veniamo ad una delineazione più compiuta di tale atto e, ciò, partendo da un’irrinunciabile premessa. Secondo Scheler, in un primo momento gli esseri umani si troverebbero in un flusso indifferenziato di esperienza, nel quale non sarebbe possibile distinguere i propri vissuti da quelli altrui: «si tratta […] d’un flusso di esperienze, indifferente per rispetto all’Io-Tu, che “in un primo tempo” scorre e mantiene di fatto indivisi e commisti l’un nell’altro il proprio e l’estraneo. E in questo flusso si formano, solo gradualmente, vortici più precisamente configurati, che lentamente attraggono nei loro cerchi sempre nuovi elementi del flusso, e in questo processo vengono associati successivamente e assai gradualmente diversi individui».21

Perché l’autentico atto simpatetico possa aver luogo, esso richiede il comprendere, l’immedesimazione affettiva e l’immedesimazione vitale, nondimeno, lo stesso risulta anche presupporre, nella prospettiva scheleriana, la distanza tra le persone, oltre all’autocoscienza, al sentimento di sé e alla vita propria dell’uomo. A dimostrazione di ciò, il fatto che non sia necessario aver vissuto l’esperienza di emozioni psichiche e spirituali – le più prettamente umane - per comprenderle e dar luogo alla simpatia, la quale, anzi, spesso permette che la nostra intera esperienza interiore si palesi proprio a partire dalla condivisione di un mondo spirituale altrui radicalmente diverso dal nostro.

Così, da sempre vissuto nel lusso e negli agi della reggia paterna, ignaro anche solo dell’esistenza di qualsivoglia male, una volta fuggito dal fastoso palazzo, a Gautama Buddha bastò incontrare per la prima volta un vecchio, un malato ed un funerale per comprendere la sofferenza che accomuna l’umanità tutta ed operare la propria conversione. Analogamente, il ricco signore senza scrupoli del racconto di Lev Tòlstoj, Il padrone e il lavorante, alla vista del bracciante intirizzito dal freddo, viene improvvisamente colpito ed investito da un sentimento di inaspettata umanità, che non solo fino a quel momento gli era stato del tutto estraneo, ma che si configurava addirittura come diametralmente opposto rispetto al suo abituale modo di essere.

Nel caso di quest’ultimo esempio, ciò che di sorprendente può essere apprezzato dell’esperienza simpatetica non è soltanto il fatto che essa sia dia nonostante il padrone non avesse mai sperimentato sulla propria pelle le tribolazioni dovute alle intemperie dell’impietoso clima russo, costantemente patite invece dal lavorante, ma piuttosto che essa sia occasionata dal fatto che il signore assista alle pene subite dal proprio sottoposto, sebbene le difficoltà di quest’ultimo non fossero nuove al primo, il quale aveva già in precedenza senz’altro notato la durezza dei patimenti ai quali era esposto il lavorante: è proprio per questo che, nel momento in cui per la prima volta scocca ed accade, la simpatia è tanto più erompente.

Chiarisce, a tal proposito, l’Autore, utilizzando un’immagine di grande bellezza ed efficacia: «lo vediamo ogni giorno nella nostra vita che c’è un ritmo tra la riservatezza e la comunicatività, un ritmo per l’isolamento idiopatico e per l’accoglimento e la con-passione della vita degli altri uomini; vediamo che la simpatia non fa presa su di noi soltanto in dipendenza del variare degli stimoli esterni, ma in ampia misura varia indipendentemente da essi, spesso anzi non insorge nemmeno alla presenza d’un grande dolore, ad esempio e dei suoi segni esterni, e che sovente, quindi, anche senza questi forti stimoli, basta una piccolezza per aprire tutta intera la nostra anima, per giorni e addirittura per settimane, alla gioia e al dolore degli uomini - come se all’improvviso, in una stanza buia, si accendesse una luce o sia aprisse una finestra».22

5. La svolta steiniana

Dunque, «il comprendere, il capire e il con-patire sia le situazioni altrui che i valori e i comportamenti dotati di valore, di cui gli altri hanno esperienza (un intreccio di pura simpatia e di senso dei valori), può veramente ampliare la nostra vita e condurci fuori dalle strettoie della nostra esperienza reale; ma nello stesso tempo può anche mettere il formarsi di questa o di quella esperienza reale sotto il controllo determinante di tutta la pienezza della vita, quale è data al cuore aperto alla comprensione e alla simpatia per la situazione e i valori dell’ambiente e della storia».23

Riconosciuta in tutta la sua portata la profondità dell’interesse nutrito dall’Autore nei confronti della questione inerente alle possibilità insite nell’esperienza dell’apertura al mondo ed all’alterità, nonché – e, anzi, soprattutto - la grandezza del contributo da Questi offerto a tal proposito, la prospettiva scheleriana risulta tuttavia nondimeno segnata da un limite che preclude che l’Altro eserciti un vero e proprio ascendente sul nostro mondo spirituale. Tale ostacolo risulta esser rappresentato da quell’assunto scheleriano che vede nell’estasi dionisiaca la condizione originaria dell’uomo, nella quale non si ha ancora una distinzione tra gli individui, che vivono, in questa fase, in uno stato d’indifferenziazione esistenziale ed «in una fusione emotiva con il principio vitale».24

La simpatia dunque pur portando spesso ad evidenza la nostra intera esperienza interiore grazie all’intreccio con un’Umwelt molto distante dalla nostra, si configura come un sentire partecipativo connotato, sì, dall’apertura e dalla condivisione, ma non - caratteristica che risulta invece essere propria all’atto empatico - occasionante un’effettiva modificazione, la quale potrebbe essere resa possibile soltanto dalla distinzione fra originario e non-originario. L’introduzione di quest’ultima, che determinerà una svolta rispetto alla tradizione di pensiero precedente e consentirà il superamento della prospettiva scheleriana, verrà operata da Edith Stein nella tematizzazione ch’ella, per prima, compirà dell’atto empatico nella sua Dissertazione di dottorato del 1916.

Rispetto alla prospettiva di Scheler, infatti, la Filosofa commenta: «ogni vissuto, checché se ne dica, è essenzialmente il vissuto di un Io ed ogni vissuto da un punto di vista fenomenico è, in modo assoluto, inscindibile dall’Io. È solo per il fatto che Scheler non conosce l’Io puro - e quando dice “Io” intende sempre “Individuo psichico” - che egli può parlare di un’esperienza vissuta antecedente alla costituzione degli “Ii”».25 Se, infatti, - si chiede Stein - il flusso esistenziale originario del quale parla Scheler è indifferenziato e non relativo ad un Io, in quanto muoversi della natura, evoluzione creatrice, se dunque non riconosciamo un Io puro, trascendentale, soggetto del vissuto, come possiamo distinguere un Io dall’altro? Siamo, sì, in continua simpatia, ma non abbiamo empatia: posso empatiazzare col mio corpo o col mio passato, ma non mi muovo oltre la mia percezione interna.

Sebbene il ruolo di quest’ultima sia nell’atto empatico fondamentale, dal momento che permette di identificare il sentire dell’altro come un sentire «empaticamente riconosciuto come estraneo, perché non proprio»,26 l’empatia non va però confusa con la percezione di quest’atto, ossia con la riflessione che si fa su tale atto nella percezione interna, errore che commette invece, appunto, Max Scheler e rispetto al quale Stein conclude: «è proprio la non-originarietà dei vissuti empatizzati che m’induce a rifiutare il titolo comune di “percezione interna” per indicare l’afferramento tanto dell’esperienza vissuta propria quanto di quella estranea».27 La percezione interna infatti non rivela niente circa quello che l’altro stia sentendo, si limita meramente ad informarmi della presenza di un sentimento estraneo.

L’empatia dunque non deve essere assimilata alla simpatia, ma neppure al cosentire (Mit-fülen), atto che si dà nel momento in cui io, ad esempio, gioisco in maniera originaria per il fatto che un mio amico abbia superato un esame e, nel mentre, continuo ad empatizzare la sua gioia e riconosco la sua promozione come un fatto gioioso per lui. Tuttavia, io potrei gioire del fatto che il mio amico sia stato promosso in virtù di un valore intermedio: se, ad esempio, il superamento dell’esame da parte sua costituisse la condizione per fare un viaggio insieme. Infatti, mette in guardia Stein, «non è detto che la gioia cosentita e la gioia empatizzata debbano essere la stessa cosa per quanto riguarda il contenuto (tant’è vero che non sono della stessa qualità, in quanto una è un vissuto originario, l’altra un vissuto non originario)».28

Solitamente, inoltre, la gioia di chi partecipa più intimamente si configura come più intensa e duratura rispetto a quella degli altri, ma questi potrebbero co-gioire più intensamente nel caso in cui, poniamo, siano molto altruisti o se il motivo della gioia ha perso valore per ragioni delle quali essi non sono a conoscenza. La differenza fra il co-sentire e l’empatia risiede, in definitiva, nel fatto che «la gioia empatizzata presume in ogni caso, soprattutto quello ideale (in cui non vi sono inganni), di essere veramente identica in ogni suo punto alla gioia còlta: ha lo stesso contenuto, mentre soltanto il modus di datità è diverso»,29 in quanto in me è non-originario, mentre nell’altro è originario.

Precisa Ales Bello: «non si tratta di gioire insieme, questo può anche accadere, ma è necessario isolare un momento o un atto, che è un sentire, senza che però avvenga una immedesimazione, e che è necessario distinguere dalla simpatia»,30 in quanto, a differenza della simpatia, «il vissuto empatico è per così dire “neutro” anche se sempre accompagnato da coloriture affettiva, che rappresentano, però, a loro volta altri vissuti. Ad esempio posso “sentire” che l’altro sta vivendo una gioia e ciò può farmi piacere - in questo caso condivido il suo stato d’animo - o posso provare invidia o contrarietà; il cogliere la gioia di per sé si potrebbe definire un fatto oggettivo - tenendo conto, naturalmente che posso essere ingannato dalle manifestazioni esteriori, infatti nulla a livello empatico è assolutamente garantito - ma, ammesso che si colga veramente ciò che l’altro sta vivendo, in primo luogo avviene l’incontro con quel vissuto o quella serie di vissuti che l’altro mi presenta e che debbo individuare prima che si realizzi una “reazione” di qualsiasi tipo da parte mia».31

6. L’eliminazione della fusionalità come condizione per la comunicazione empatica

Quelli appena considerati sono due degli atti nei quali l’empatia non può dirsi meramente risolta, analizzati dall’Autrice in una sorta di via negativa propedeutica a pervenire ad una compiuta definizione della stessa. In tale fase dell’argomentazione, l’importanza della distinzione fra originarietà e non-originarietà viene ulteriormente chiamata in causa al fine di chiarire i rapporti fra l’atto empatico e gli altri, con i quali esso viene raffrontato.

Per quanto riguarda il ricordo, esso condivide con l’atto empatico il fatto che, come nell’empatia, non ho a che fare direttamente (in maniera originaria) con la gioia - poniamo - dell’altro, ma con il mio vissuto della sua gioia e la stessa cosa avviene quando ripenso, ad esempio, alla gioia di aver preso un 30 e lode l’anno scorso, dal momento che «il ricordo di una gioia è originario in quanto atto di presentificazione che si compie ora, mentre il contenuto del ricordo - la gioia - è non originario; il ricordo possiede tutte le caratteristiche della gioia, tanto che io potrei analizzarlo come se fosse la gioia stessa; quest’ultima però è non-originaria e sta là non in carne ed ossa, bensì come è stata vissuta una volta».32

Tuttavia, nel caso dell’empatia la gioia non è originaria in me, ma nell’altro: miei ed in me originari sono invece la percezione della sua gioia ed il mio ricordo. La gioia dell’altro non si configura come un ricordo, in quanto non è soltanto in me, bensì nell’altro. Rileva, a tal proposito, Ales Bello: «l’empatia si distingue perché non c’è la ripresentazione di un mio stato d’animo, ma di uno stato d’animo vissuto da un estraneo».33 Inoltre, che sia il mio vissuto della gioia dell’altro ad essere in me originario e non la gioia dell’altro stessa risulta evidente dal fatto che per me la gioia possa consistere in uno stato x di serenità, mentre per un altro in uno stato y di serenità, sulla base dell’individualità personale che ci distingue gli uni dagli altri: alcuni fanno cose allucinanti, eppure a loro dà serenità, nondimeno anche se per me quella non è gioia, riconosco in loro la gioia, indipendentemente da quale sia il suo contenuto.

A questo livello si colloca l’obiezione che Stein muove nei confronti di Theodor Lipps, il quale descrive l’empatia come “partecipazione interiore” ai vissuti estranei, definizione, questa, che coinciderebbe con il grado di attuazione più elevata dell’empatia descritto dalla stessa Autrice. Il problema risiede tuttavia nel fatto che, stando al concetto di unipatia (Eins-fülen) da Lipps sostenuto, nel momento in cui l’Io sta ricordando, l’Io che sta vivendo la ripresentificazione del ricordo e l’Io “del passato”, il soggetto che viveva quell’azione nel passato sarebbero lo stesso Io: avrebbero entrambi lo stesso vissuto. Precisa, a tal proposito, Stein: «Lipps confonde due atti distinti: l’essere tratto dentro un vissuto dato prima oggettivamente e il riempimento delle tendenze implicite con il passaggio dall’esperienza vissuta non originaria all’esperienza vissuta originaria».34 Difatti, il nostro atteggiamento attuale rispetto ad una situazione del passato il cui ricordo viene da noi riportato vivo nel presente potrebbe essere totalmente diverso rispetto a quello avuto allora in quella medesima circostanza.

Inoltre, se è vero che sia possibile un salto dal vissuto ricordato a quello originario, non è tuttavia possibile affermare che il ricordo continui a sussistere, in quanto se, ad esempio, mi presentifico intensamente la gioia di un avvenimento trascorso e mi trasferisco all’interno di quella gioia, io - l’Io attuale che ricorda - nel rievocare l’avvenimento gioioso, provo la gioia originaria relativa a quel ricordo, ma «la gioia evocata nel ricordo e l’Io ricordato sono scomparsi, al più possono continuare ad esistere accanto alla gioia originaria e all’Io originario».35

Secondo Lipps, anche l’Io proprio e l’Io estraneo sarebbero interessati dalla condizione di unipatia e non più distinti l’uno dall’altro fintanto che l’empatia permane nella sua pienezza. Tale prospettiva, che verrà - come vedremo - contestata da Stein, è dalla stessa prima così chiarita: «ad esempio [stando alla concezione dell’unipatia di Lipps]: io sono un unico io con l’acrobata allorché, guardandolo attentamente, seguo dell’interno i suoi movimenti. Solo quando io esco dalla pienezza dell’atto empatico e rifletto sul mio “Io reale” avviene la scissione ed i vissuti non provenienti da me appariranno come vissuti appartenenti “all’altro” ed immanenti nei suoi movimenti».36

Secondo la Filosofa, Lipps non riconosce la differenza fra originarietà e non-originarietà: due modi di datità che determinano che non si tratti dello stesso sentire, dal momento che l’uno si sviluppa in me, mentre l’altro è prodotto in me in maniera indiretta, in quanto io non sono il protagonista di quell’azione, anche se l’oggetto è lo stesso: «io non sono un unico essere con l’acrobata, ma sto solo “presso” di lui; io non compio realmente i suoi movimenti, ma “quasi”, vale a dire che non solo non compio i movimenti dall’esterno (cosa del resto rilevata pure da Lipps), ma quel che “interiormente” corrisponde ai movimenti del corpo proprio - ossia il vissuto dell’“io muovo” - non è originario per me, bensì è non-originario».37

Se non operiamo questa distinzione, non descriviamo l’empatia, che è apertura proprio in quanto io sento la gioia dell’altro e non la mia e, nell’ambito della quale, dal momento che di fronte allo stesso oggetto io e l’altro lo viviamo in maniera diversa, attraverso tale processo ci distanziamo, siamo trascendenti l’uno rispetto all’altro: c’è comunicazione, ma non identicità. Spiega Ales Bello: «il sentire l’altro, il comprendere ciò che sta vivendo, lo stabilire un rapporto analogico, non implica un processo di immedesimazione […] Per quanto la comprensione dell’altro possa realizzarsi in profondità, la sua trascendenza nei miei confronti è costitutiva, non mi identificherò mai nell’altro, la sua individualità e la mia individualità rimarranno sempre separate e diverse, anche se simili e comunicanti».38 Se vige l’indistinzione fra il mio Io e l’Io dell’altro, non c’è infatti empatia, non c’è comunicazione reale rispetto al momento di gioia che stiamo condividendo, in quanto siamo tutti e due protagonisti della stessa gioia, la stiamo vivendo in maniera egologica.

7. Empatia come sentire l’altro

Ed è ancora il processo negativo del quale si è detto a permettere d’individuare la natura emozionale di questa peculiare forma di comunicatività, in cui la sfera che si rivela versare in uno stato di passività è quella logico-razionale. Stein avverte circa la disfunzionalità della tendenza a «giudicare gli altri con il proprio metro» nel tentativo di conoscerne la costituzione psichica, il che equivarrebbe ad assegnare ad un daltonico le percezioni cromatiche di una persona che veda correttamente i colori, ad un selvaggio la sensibilità estetica di un uomo civilizzato o ad un bambino la capacità di giudizio di un adulto. Ebbene, discende da questa stessa matrice quel tipo di errore che va ad invalidare la teoria genetica dell’inferenza per analogia, la quale, dalla considerazione del mio vivere, inferisce – appunto - che gli altri abbiano un vissuto analogo al mio. Pur partendo dall’esperienza, essa si configura come una spiegazione logica, attraverso la quale non sento nulla del vissuto dell’altro.

Così come di tipo logico, analogico (oltre a prevedere la presenza di un rappresentante, non contemplata invece nel legame empatico), risulta essere anche la natura di un’altra teoria genetica: quella dell’associazione. Stando ad essa, «l’immagine ottica di un gesto estraneo riproduce l’immagine ottica di un proprio gesto e questa riproduce l’immagine cinestetica che, a sua volta, suscita il sentimento con cui era in precedenza collegata».39 In altre parole, un gesto altrui viene riprodotto come proprio e da esso viene dedotto che, nelle medesime condizioni, anch’io potrei compiere quel gesto.

Non ho un’offerenza del vissuto dell’altro, nemmeno nell’ambito di un’altra teoria di psicologia genetica: quella dell’imitazione, della quale parla Lipps e che pretende di spiegare l’atto empatico nei termini di un rapporto causa/effetto, tale per cui se un bambino ne vede un altro piangere, piange anche lui. In questo caso, a verificarsi è piuttosto un contagio, una trasmissione di sentimenti: una simpatia «fisica» e non emozionale. Chiarisce Stein: «la teoria di Lipps fa una distinzione fra esperienza vissuta propria ed esperienza vissuta estranea solo in quanto esse sono legate a diversi corpi propri, mentre, per la verità, risulta che sono diverse in se stesse le due esperienze vissute. Attraverso tale via io non giungo al fenomeno del vissuto estraneo, ma giungo al mio vissuto proprio, determinato in me dal gesto estraneo che ho visto compiere».40

Nemmeno l’ideazione, atto offerente che ci permette di cogliere intuitivamente le relazioni essenziali (è grazie ad essa ad esempio che, sebbene i triangoli non esistano in natura, abbiamo in noi l’idea di triangolo), risulta equivalere all’empatia in toto, nonostante ne faccia parte. L’ideazione, infatti, dà qualcosa che non è effettivamente presente qui ed ora, in carne ed ossa e, quindi, la stessa non può identificarsi con l’empatia, in quanto oggetto di quest’ultima è invece qualcosa che si dà hic et nunc, che non sia nell’astrazione, ma nella realtà.

A permettere di cogliere qualcosa che si dà qui ed ora, in carne ed ossa è invece la percezione esterna, la quale costituisce difatti un momento dell’esperienza empatica, che tuttavia non può considerarsi risolta in essa, dal momento che l’atto empatico non concerne un oggetto propriamente fisico: il contenuto di tale legame «“si esprime” per così dire in un individuo psicofisico»,41 in quanto attraverso l’espressione di un volto sconvolto dal dolore, ad esempio, non mi viene a datità il dolore stesso. «L’empatia è piuttosto l’afferramento di una emozione che non è astratta, separata da un corpo, ma che proprio attraverso un corpo “qui ed ora” si manifesta e diventa percepibile. Può dirsi dunque afferramento di una originarietà, ma non astratta, non intellettuale, bensì esprimentesi nella sfera emozionale appartenente ad un Leib».42 Dunque, sebbene la percezione esterna abbia qualche analogia con l’empatia, nel senso che anche il suo oggetto si rileva “hic et nunc”, essa mi dà un dato oggetto nel suo essere “in carne ed ossa”, mentre non posso, ad esempio, propriamente toccare il dolore, sebbene di esso si dica talvolta che sia tangibile.

Chiariamo meglio questo punto. Stein invita ad immaginare che un amico - e non un Ego trascendentale - venga da me e mi comunichi di aver perso un fratello; «io mi rendo conto del suo dolore»43 e vedo anche nei suoi gesti, nella sua espressione, «attraverso la percezione del suo volto pallido e sofferente, della sua voce sommessa o quasi afona»44 una corrispondenza con ciò che mi dice. Io riconosco cosa vuol dire soffrire per la morte di un fratello, anche se non ho mai attraversato un’esperienza di questo tipo. Sebbene il dolore altrui non mi si pari di fronte in carne ed ossa, è reale: io vedo il dolore dell’altro, ma non come se fosse una cosa. Pur non potendo «mettere le mani», nel senso letterale dell’espressione, sul dolore del mio amico, nel legame empatico ne ho una percezione, occasionata – sì – dall’esternazione verbale del suo vissuto e dalla vista della fenomenologia del suo corpo, coerente con ciò ch’egli condivide con me della propria interiorità attraverso il parlato, ma fondata in definitiva – e questo è il nodo essenziale - sulla possibilità degli esseri umani di entrare tra loro in vibrazione, di riconoscere quella frequenza, quella situazione.

Il dolore dell’altro non è qualcosa che ho costruito dentro di me, perché egli continua ad esserne portatore reale. È una realtà che colgo in maniera indiretta: il suo viso contrito è un rimando intenzionale al suo dolore, quello dentro di lui ed io sento cosa sia il dolore attraverso quello che si configura quindi come un procedimento analogico, una realtà sui generis. In altre parole, «indirettamente, passando per me stesso, posso comprendere ciò che direttamente l’altro vive sulla sua pelle».45 Indirettamente, sento che l’altro prova dolore, sono entrato dentro di lui. Ho un vissuto del suo vissuto in base a ciò che l’altro mi sta raccontando e mi interessa questo comportato che instaura una comunicazione fra me e lui, in quanto al fenomenologo non importa se l’altro stia fingendo.

8. L’inoggettivabile trascendenza della Persona

La fertile attualità delle posizioni dei due Filosofi, che rende le stesse efficacemente spendibili come spunti di riflessione e proposte a fronte delle principali falle della società dei nostri tempi, esprime il proprio valore innanzitutto nell’avvenuto recupero, da parte delle speculazioni di entrambi, della dimensione della Persona, livello dell’essere umano propriamente caratterizzato da un mondo spirituale – dal suo mondo spirituale -, connotato da un sentire emozionale.

Sarebbe infatti proprio quest’ultima facoltà, secondo Stein, a costituire la chiave d’accesso alla possibilità di rendersi conto non soltanto dello stato d’animo di chi ci stia di fronte, ma anche di quel centro individuale immutabile che è il carattere, che consente di cogliere qualcosa dell’anima dell’Altro allorquando un suo gesto od una sua reazione dischiudano quella che si configuri come una sua disposizione abituale e non soltanto come manifestazione emotiva od interiore meramente legata alla circostanza del momento presente. Asserisce la Fenomenologa: «una singola azione e altrettanto una singola espressione corporale - uno sguardo o un sorriso - possono perciò offrirmi la possibilità di gettare uno sguardo nel nucleo della persona».46

Come abbiamo già avuto modo di apprezzare nel corso della nostra trattazione, anche Scheler, per sottolineare la natura emozionale e non razionale della facoltà che permette d’indagare l’altrui Umwelt, utilizza la metafora dello sguardo che registra le peculiari attitudini dell’individualità personale nel suo comportarsi nei confronti del mondo. Dopo aver chiarito che «persona è la concreta, essenziale unità di esistenza di atti di essenza diversa»47 e, più precisamente, «un ordine monarchico di atti, e [che] fra questi uno soltanto ha di volta in volta la guida e l’orientamento»,48 egli dichiara infatti – e di seguito citiamo direttamente l’Autore, trascrivendo una sua frase già da noi in precedenza menzionata - : «uno sguardo rivolto alla persona stessa e alla sua essenza […] lascia che l’unicità del contenuto originario a priori affiori immediatamente in ogni atto che sappiamo compiuto da lei - ovvero, ogni contenuto dei suoi atti, permette di approfondire la conoscenza del suo “mondo”»,49 che pure non ci è mai dato di oggettivare completamente e rimane dunque sempre trascendente rispetto ad ogni nostro possibile tentativo di afferramento.

Argomenta, infatti, Scheler: lo spirito «è lasciato alla sua libera descrizione di rendersi percepibile e di darsi come conoscibile - oppure no. Le persone possono, appunto, tacere e tenere nascosti i loro pensieri. E questa è tutt’altra cosa che il puro non-parlare. È un comportamento attivo, mediante il quale le persone possono anche tener nascosto, nella misura che vogliono, il loro esser-così ad ogni conoscenza spontanea - senza che per ciò debba necessariamente unirsi al corpo un’espressione instaurantesi automaticamente e la manifestazione della medesima».50

Nonostante questo, sulla scia della necessità di decostruire l’atteggiamento oggettivante dell’uomo contemporaneo rispetto alla natura, come oggetto – per l’appunto - dal quale diffidare e da dominare, la prospettiva sostenuta dal Filosofo continua ad affermare come valevole quella disposizione d’animo che è volta ad accogliere, in virtù della Demut della quale si è detto, quanto di proveniente dall’esterno si prospetti come formativo per la nostra interiorità e, a tal proposito, lo stesso Autore dichiara: «è possibile stare in ascolto di quanto il sentimento ci dice quando sentiamo la bellezza di un paesaggio e di un’opera d’arte, oppure quando sentiamo le qualità peculiari di una persona che ci sta davanti; intendo dire che è possibile percorrere questo sentimento stando in ascolto ed accettare in modo sereno l’esito a cui tale percorso ci conduce».51

Agli aspetti che concernono la trascendenza dell’alterità personale dei quali si è detto, si aggiunge, in Stein, quel limite nel coglimento della costituzione psichico-spirituale altrui che va riconosciuto alla sua formulazione d’empatia, ossia il fatto che la verifica della veridicità di ciò che viene sentito durante l’esperienza empatica venga riconsegnato al linguaggio. È quest’ultimo, nella prospettiva steiniana, a confermare quanto viene manifestato attraverso il corporeo e, conseguentemente, ciò determina che l’empatia «funzioni» soltanto nel momento in cui si abbia a che fare con un «onesto», ossia con una persona che esprima autenticamente ciò che provi, attraverso il linguaggio sia corporeo, sia verbale, dal momento che fra i due risulta dover vigere un rapporto di coerenza.

Nel caso in cui tuttavia quest’ultima condizione, come non di rado accade, non si verificasse, non mi starei, allora, rendendo contro, ad esempio, della gioia altrui, bensì piuttosto di che cosa significhi a livello verbale, di significati, valori e sensi provare gioia; starei empatizzando non con quello che l’altro sente, ma con quello che mi dice di sentire, perché potrebbe appunto fingere e, in tal caso, mi renderei conto non, poniamo, del dolore altrui, ma di che cosa significhi provare quel dolore che l’altro sta descrivendo.

Infatti, se la corrispondenza fra l’espressione del volto e l’espressione verbale è il rendersi conto, se l’altro sta fingendo, anche se ciò che sta dicendo ha un significato, non è vero e quindi all’altro non ci arrivo, ma mi fermo al significato delle sue parole. In questi casi, potrei cogliere dell’altro soltanto la sua menzogna, ma dovrei comunque essere molto acuto per poterlo fare. In caso di finzione da parte dell’altro, dunque, io non starei sentendo veramente quest’ultimo, ma me stesso che sente l’altro, ossia tradurrei nel mio linguaggio ciò che starebbe dicendo l’altro, ma saremmo comunque separati.

9. Individualità personali nella comune umanità: quali prospettive?

Ciò posto, la preziosità della tematizzazione dell’atto empatico da parte della Pensatrice tedesca non viene meno ed anzi, oggi più che mai, essa s’impone come salvifica soprattutto nella promozione del dialogo interculturale, ostacolato, quando non del tutto precluso, dalla paura del diverso, che drammaticamente conduce alla negazione della dignità spettante alle differenze, quali che siano, da un lato, od al misconoscimento delle stesse e ad un loro sterile livellamento, dall’altro, che impedisce lo sprigionamento del potenziale arricchente in esse insito. Osserva Ales Bello: «si diceva prima che non si dà mai la “garanzia” di aver colto stati d’animo autentici nell’altro, ma al di là di questa constatazione, lo stesso “inganno” ci rende consapevoli dello scarto esistente fra ciò che si coglie in modo genuino - e quindi si può cogliere - e ciò che falsamente viene proposto o attribuito. E tutto ciò conduce ad avere come punto di riferimento la comune umanità».52

È proprio quest’ultima ad esser spesso dimenticata quando si costruiscono barriere, ed è proprio la stessa ad occasionare invece l’opportunità di formare il proprio Sé. Scheler, d’altronde, s’interroga riguardo le possibilità, in ambito morale, dell’esistenza di un ordine assiologico oggettivo ed universale, una «gerarchia metafisico-assiologica dell’universo»53 che, come si è detto, al di là delle differenze tra le culture, i popoli, le civiltà e le epoche storiche, possa essere riconosciuta da tutti gli uomini ed il cui retto coglimento da parte di quest’ultimi ne permetta la realizzazione autentica.

Questo, oltre a sottolineare come, sebbene la simpatia possa esercitarsi nei confronti dell’«intero mondo della vita»,54 la sua efficacia vada deteriorandosi man a mano che ci si avvicina al mondo animale, dato che, perché possa darsi la comprensione delle emozioni a livello sensoriale, è necessaria la riproduzione degli atti e noi abbiamo una diversa organizzazione sensoriale rispetto, ad esempio, ad un uccello. La necessità di tale condizione di possibilità va, invece, via via dissolvendosi per le emozioni che riguardano il piano vitale e scompare del tutto per quel che concerne le emozioni psichiche e spirituali, le più specificamente umane. Allora «la passione di Gesù nel Getsemani è comprensibile e con-patibile indipendentemente dalle barriere storiche, dalle barriere tra i popoli, ed anche dalle barriere fra gli uomini».55

Analogamente a Stein, dunque, affermando che la simpatia elimini il solipsismo, Scheler fa riferimento al fatto che essa conduca all’acquisizione della consapevolezza della parità valoriale tra gli uomini in quanto persone e, su questo punto, si esprime così: «soltanto la comprensione, che si ha nella simpatia, dell’eguaglianza del valore dell’uomo come uomo […], che naturalmente non esclude affatto la diversità di valore, data secondariamente “degli” uomini […] in ragione del loro esser-così, è solamente questa comprensione che ha e che solo può avere essenzialmente come conseguenza la scomparsa di questa illusione della realtà. Con l’eguaglianza di valore l’altro “diventa” per noi anche egualmente reale e viene a perdere quella sua forma esistenziale soltanto “sfumata” e rapportata all’Io».56

Anche Scheler dunque riconosce la natura umana come denominatore comune che sta alla base di ogni possibile differenza fra gli uomini, ma anche, appunto, quelle particolarità che connotano in maniera peculiare e propria ogni persona, dal momento che il preferire stesso fornisce la misura dell’individualità e che gli esseri umani vengono riconosciuti come persone che, con i loro diversi preferire nei quali però si manifesta la medesima gerarchia di valori, hanno un senso nel mondo, data da quella presa di posizione valoriale che si esprime nell’ordo amoris individuale, ed un diverso modo di approcciarsi ad esso. E, proprio perché tra le persone stesse non vi è identificazione, le diverse Umwelten possono, in qualche modo, intessersi tra loro.

D’accordo con la formulazione di un’armonica cooperazione fra dimensione individuale ed universale della Persona umana, un adeguato riempimento empatico si dà solo se si rinuncia a valutare gli altri con i propri standars e se s’istituisce – anche qui - a proprio parametro di riferimento il typos «Uomo», dal momento che nei confronti del mondo animale, come nel caso della scheleriana simpatia, è possibile solo una qualche trasposizione come l’endosensazione del dolore ad una zampa, ma certi altri atteggiamenti o movimenti «ci sono dat[i] soltanto come vuote rappresentazioni senza cioè la possibilità di un riempimento».57 Quando si dà tra gli uomini, invece, l’empatia permette di considerare i punti di contatto e di divergenza che caratterizzano la nostra individualità personale rispetto all’alterità che ci troviamo di fronte, la quale pur essendo altra – appunto – da noi, si configura comunque tuttavia come un alter ego, dell’interiorità del quale ci è dato di cogliere alcuni aspetti, sebbene non la totalità, proprio perché, avendo le sue stesse strutture, possiamo inscriverci in lui. Per questo «nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me».58

Uscendo da noi stessi, come l’idea hegeliana nel momento dell’antitesi, quando si manifesta in qualcosa di apparentemente non-razionale, ossia la natura, per poi rientrare in sé nella sintesi, ma arricchita dalla propria autoconsapevolezza, così noi, aprendoci all’alterità, una volta - per così dire - tornati da questa esperienza, non ci riaffermiamo meramente, ma ci riaffermiamo ricomprendendo in noi sia il sapere di ciò che eravamo, sia quanto acquisito dall’esperienza del diverso, forti di quella coscienza di noi stessi di cui quest’ultima ha occasionato la scaturigine e che costituisce il punto di partenza dal quale muovere i passi per lavorare a ciò che si vuole e può divenire.

Argomenta l’Autrice: «da quanto abbiamo detto risulta anche quale significato rivesta la conoscenza della personalità estranea ai fini della nostra “autoconoscenza”. Essa non solo c’insegna, come abbiamo visto in precedenza, a porci come Oggetto di noi stessi, ma porta a sviluppo, in quanto empatia di “nature affini” ossia di persone del nostro tipo, quel che in noi “sonnecchia” e perciò ci rende chiaro, in quanto empatia di strutture personali diversamente formate, quel che non siamo e quel che siamo in più o in meno rispetto agli altri. Con ciò è dato al tempo stesso, oltre all’a u t o c o n o s c e n z a, un importante aiuto per l’a u t o v a l u t a z i o n e».59

10. Ragione e sentimento: l’armonica totalità della persona umana

A proposito di quanto si è fin qui esposto, preziosa risulta essere la rilevazione effettuata da Cusinato: «qui il distinguere si sostituisce al discriminare».60 In quanto alter ego, infatti, come si è più volte ribadito, l’altro è simile a me, ma al contempo diverso ed è in questa distinzione che risiede la possibilità di quel confronto con questi che, nel caso dell’empatia, promuove una comparazione che conduce all’autoconoscenza ed all’autovalutazione, nel caso della simpatia, consente un «mutamento nel modo di sentire [mutamento del cuore]».61

Particolarmente significativa si rivela la parola “cuore”, in quanto essa costituisce la metafora che, insieme alla denominazione “sentimento” - e ricordiamo, a tal proposito che in Stein «“Gemuet” è quel fulcro della personalità che noi definiamo con “animo”, o con “cuore”: il complesso degli affetti, degli stati d’animo e dei sentimenti» –62 fa riferimento a quella dimensione del sentire che, nella concezione scheleriana, accanto a quel sentire attraverso il quale avviene l’intuizione emozionale della gerarchia oggettiva ed universale dei valori, qualifica invece l’individualità personale.

Tale immagine viene dunque riferita ad un assetto interiore, come emerge dall’espressione che il Nostro prende in prestito da Pascal, “ordre du cœur”, che dischiude un’altra sfera il cui valore, analogamente a quello della diversità, è andato incontro ad un radicale deprezzamento a favore dell’imposizione della supremazia di un’impostazione marcatamente razionale. Nella sua Introduzione ad Ordo amoris, il curatore dell’opera, Edoardo Simonotti, mette infatti in evidenza come l’originalità della riflessione contenuta nel testo si basi sul fatto che l’Autore s’interroghi, in quella sede, «con straordinaria intensità sul significato di un concetto apparentemente tanto paradossale com’è quello di ordo amoris».63 E subito dopo aggiunge, per chiarire in cosa consisterebbe l’inconguenza di una simile formulazione: «l’amore, comunemente inteso come passione spontanea e di indole ribelle, non si oppone forse costitutivamente a qualsiasi approccio che lo voglia ricondurre ad un freddo ordine già costituito? E soprattutto: ridurre l’amore ad un qualche ordine di carattere etico non implica forse il forzato restringimento della sua originaria vitalità e della sua incontenibile eccedenza?».64 La dicotomia che qui viene decostruita grazie, ancora una volta, all’apporto di Stein e Scheler, è quella che vorrebbe l’ordine e l’emozione come due aspetti inconciliabili, quasi formassero una contraddizione in termini.

Contro questa posizione, introducendo Essenza e forme della simpatia, Gianfranco Morra chiarisce: «la convinzione di Scheler si radica nella scoperta pascaliana di un “ordre du cœur” (o “logica del cuore” o “ragione del cuore”), distinto dall’ordine della razionalità. Esiste una sfera di atti, che non ha nulla a che fare con la ragione e tuttavia non può essere detta irrazionale, ma solo non-razionale».65 Dunque, le leggi che risultano essere inscritte nel cuore hanno una propria autonomia rispetto alla logica dell’intelletto: i due ambiti sono nettamente distinti e gli oggetti che rientrano nel campo del sentire emozionale non sono in realtà neppure coglibili dall’intelletto: «nella frase di Pascal l’accento si trova […] proprio su ses e su raisons. Il cuore ha le sue ragioni: sue, di cui l’intelletto non sa e non può mai sapere alcunché; e ha ragioni, cioè oggettive ed evidenti convinzioni su fatti rispetto ai quali l’intelletto è totalmente cieco - così “cieco” come il non vedente lo è per i colori e chi è sordo lo è per i suoni».66

Inoltre, il fatto che tale, per così dire, “assetto del sentimento” prescinda totalmente da quello della ragione non significa assolutamente che, con ciò stesso, esso si configuri come un caos privo di senso, o comunque come una dimensione imprecisa ed approssimativa, un “mondo del pressappoco”, come se esclusivamente l’intelletto fosse in grado di garantire qualsiasi forma di esattezza e disciplina: al contrario, in ambito etico, soltanto l’ordo amoris può rispondere ed ottemperare a quell’esigenza di logicità che comunque Scheler riconosce anche a questa sfera dell’esperienza umana. Il cuore viene dunque accreditato come «un rigoroso sistema autonomo di leggi […] che opera in modo preciso, esatto, puntuale; e proprio nelle sue funzioni appare davanti ai nostri occhi una sfera rigorosamente oggettiva di fatti che è più oggettiva e più fondamentale di qualsiasi altra».67 E, ancora, Scheler si esprime nei termini di «un amore singolare - un amore che è sete ardente e al tempo stesso somma oggettività realmente orientata in senso assiologico».68

Vediamo, dunque, come sia le individualità personali che compongono l’umanità nel suo insieme, sia le due dimensioni – ragione e sentimento – di natura diametralmente opposta, che però parimenti costituiscono l’essere umano, non si configurino come poli di un’inconciliabile antinomia, ma come determinazioni che non soltanto possono, ma devono coesistere e collaborare al fine di garantire una vita sana dal punto di vista relazionale e psico-emotivo ed una formazione equilibrata del proprio Sé autentico.

Concludiamo quindi l’indagine da noi condotta con una brillante riflessione di Ales Bello: «le differenze si danno, come i molteplici si danno, ma è proprio la stessa nozione di differenza che rimanda ad un’unità. Differenza è da intendersi come tratto particolare che distingue e la distinzione è un momento nuovo che si fonda sempre su un terreno ulteriore il quale si sposta in profondità secondo le differenze stesse. […] Si è sospinti sempre ad un comune denominatore che, di volta in volta, può essere rintracciato, fino alla ricerca del comune denominatore ultimo, il senso profondo di tutte le cose».69


  1. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013, p. 721. ↩︎

  2. Ib., pp. 721-723. ↩︎

  3. Ib., p. 725. ↩︎

  4. M. Scheler, Prefazione alla Seconda edizione de Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013, p. 13. ↩︎

  5. Ibidem. ↩︎

  6. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 63. ↩︎

  7. M. Scheler, Prefazione alla Seconda edizione de Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013, p. 13. ↩︎

  8. M. Scheler, La Posizione dell’Uomo nel Cosmo, a cura di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2009, p. 121. ↩︎

  9. G. Cusinato, Katharsis. La morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, pp. 70-71. ↩︎

  10. Ib., p. 70. ↩︎

  11. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p.67. ↩︎

  12. Ib., p. 66-67. ↩︎

  13. C. Ruggeri, La critica di Scheler all’etica formale kantiana, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 15 (2013), https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  14. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 189. ↩︎

  15. A. Piazza, Il problema dell’ordo amoris in Max Scheler, in Dialegesthai, Rivista telematica di filosofia, anno 13 (2011), https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  16. M. Scheler, La Posizione dell’Uomo nel Cosmo, cit., p. 117. ↩︎

  17. A. Piazza, Il problema dell’ordo amoris in Max Scheler↩︎

  18. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 754. ↩︎

  19. Ib., p. 753. ↩︎

  20. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, tr. it. di L. Pusci, Città Nuova, Roma 1980, p. 50. ↩︎

  21. Ib., p. 347. ↩︎

  22. Ib., pp. 107-108. ↩︎

  23. Ib., p. 106. ↩︎

  24. G. Cusinato, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 121, nota 6. ↩︎

  25. E. Stein, Il problema dell’empatia, a cura di E. Costantini ed E. Schulze Costantini, Studium, Roma 2014, p. 105. ↩︎

  26. N. Ghigi, L’orizzonte del sentire in Edith Stein, Mimesis, Milano - Udine 2011, p. 62. ↩︎

  27. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 104. ↩︎

  28. Ib., p. 84. ↩︎

  29. Ib., p. 85. ↩︎

  30. A. Ales Bello, Fenomenologia dell’essere umano. Lineamenti di una filosofia al femminile, Città Nuova, Roma 1992, p. 117. ↩︎

  31. A. Ales Bello, Empatia e dialogo: un’analisi fenomenologica, in Dialogo Silenzio Empatia, a cura di A. Dentone e M. Bracco, Bastogi, Foggia 2000, cit., pp. 81-82. ↩︎

  32. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 74. ↩︎

  33. A. Ales Bello, Prefazione a Il problema dell’empatia, cit., p. 7. ↩︎

  34. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 81. ↩︎

  35. Ib., p. 82. ↩︎

  36. Ib., pp. 86-87. ↩︎

  37. Ib., p. 87. ↩︎

  38. A. Ales Bello, Empatia e dialogo: un’analisi fenomenologica, cit., pp. 73-74. ↩︎

  39. Ib., p. 98. ↩︎

  40. Ib., p. 97. ↩︎

  41. N. Ghigi, L’orizzonte del sentire in Edith Stein, cit., p. 56. ↩︎

  42. N. Ghigi, L’alterità tra analogia e trascendenza. Una introduzione alla fenomenologia dell’intersoggettività in Edmund Husserl e Edith Stein, Carabba, Castel Frentano 2017, p. 147. ↩︎

  43. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit. pp. 71-72. ↩︎

  44. Ib., p. 72. ↩︎

  45. N. Ghigi, L’alterità tra analogia e trascendenza, cit., p. 145. ↩︎

  46. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 218. ↩︎

  47. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 754. ↩︎

  48. M. Scheler, La Posizione dell’Uomo nel Cosmo, cit., p. 150. ↩︎

  49. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 753. ↩︎

  50. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 321. ↩︎

  51. M. Scheler, Ordo amoris, cit., p. pp. 89-90. ↩︎

  52. A. Ales Bello, Empatia e dialogo: un’analisi fenomenologica, cit., p. 82. ↩︎

  53. A. Piazza, Il problema dell’ordo amoris in Max Scheler↩︎

  54. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 105. ↩︎

  55. Ib., p. 106. ↩︎

  56. Ib., p. 121. ↩︎

  57. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 151. ↩︎

  58. Ib., p. 79. ↩︎

  59. Ib., p. 228. ↩︎

  60. G. Cusinato, Introduzione a Formare l’Uomo, Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, tr. it. e cura di G. Mancuso, Franco Angeli, Milano 2009, p. 18. ↩︎

  61. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 121. ↩︎

  62. E. Stein, La vita come totalità, Scritti sull’educazione religiosa, a cura di L. Gelber e P. Michael Linssen, tr. it. di T. Franzosi, intr. di L. Gelber, Città Nuova, Roma 1994, p. 25, nota 2. ↩︎

  63. E. Simonotti, Introduzione a Ordo amoris, cit., p. 5. ↩︎

  64. Ib., p. 6. ↩︎

  65. G. Morra, Introduzione a Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 16-17. ↩︎

  66. M. Scheler, Ordo amoris, cit., pp. 84-85. ↩︎

  67. Ib., p. 85. ↩︎

  68. M. Scheler, Le forme del sapere e la formazione, in Formare l’Uomo, cit., p. 56. ↩︎

  69. A. Ales Bello, Edith Stein o dell’armonia, Esistenza, Pensiero, Fede, Studium, Roma 2009, pp. 238-239. ↩︎