Il simbolismo dell’acqua tra immaginario di viaggio e dimensione del sacro

Nella letteratura di viaggio del Medioevo e del Rinascimento, il lato favoloso dello sguardo incantato sui paesi all’altro capo del mondo e l’osservazione obiettiva sono completamente intrecciati fra loro. Ha poco senso cercare di scindere le fantasie dalle realtà effettivamente incontrate: solo un sognatore può avere l’ardire di abbandonare la patria per dirigersi verso l’ignoto. Il sogno, è, quindi, un aspetto costitutivo dell’esperienza di viaggio. Per Bachelard nei nostri occhi è l’acqua che sogna. E, per lui, l’acqua continua a sognare nella natura (G. Bachelard, p. 36). Ciò che affascina dei resoconti di viaggio è la magica manifestazione di una natura umida in cui si riverberano sia le meraviglie raffigurate sia gli occhi di chi le racconta. Pure Narciso, nello specchio di un lago, contempla insieme la bellezza della sua immagine e quella della natura in esso riflessa. E le immagini di viaggio acquistano un’inaspettata ricchezza di significati se le interpretiamo alla luce del simbolismo dell’acqua.

1. Il sogno della fluidificazione di tutte le delimitazioni tra le immagini delle stirpi ignare del tuo e del mio e il simbolismo dell’acqua

In numerose tradizioni religiose un’amorfa estensione d’acqua precede l’esistenza delle molteplici sostanze che riempiono l’universo, quasi che tutte le forme non siano altro che la manifestazione di un liquido primordiale. La Genesi ci mostra lo Spirito di Dio che, prima della creazione, aleggia sulle acque (Genesi, 1, 2); gli antichi Greci vedono nell’Oceano l’origine degli dèi e di tutte le creature (R. Graves, p. 24); nel poema babilonese della creazione, Enuma Elish, tutto deriva dall’unione di Apsu, l’Oceano d’acqua dolce, e di Tiamat, il mare salato popolato da mostri (E. Bianchi, p. 32, citato da C. Clerici, p. 11); nei Veda, i più antichi testi sacri dell’induismo, leggiamo che al principio di tutto sta una distesa d’acqua senza luce (Rg Veda, X, 129, 3, citato da Zimmer, p. 40). In un mito induista compare un’immagine della realtà come magica conseguenza di un sogno dell’acqua. Mârkandeya è una figura leggendaria di santo brahmano dalla vita interminabile. Esisteva, quindi, anche mentre il dio Vishnu, immerso in un profondo sonno, giaceva sul serpente Ananta, che galleggiava sulle acque in cui si era dissolto il cosmo precedente e da cui doveva ancora scaturire quello successivo. Vishnu è insieme le acque, il serpente che lo sostiene e il nuovo cosmo da lui sognato. Mârkandeya vagava, sperduto nell’amorfo Oceano primordiale, quando scorse il dio addormentato e gli si avvicinò talmente che finì per essere risucchiato dalla sua bocca. Nel corpo di Vishnu il santo brahmano contemplò il multiforme spettacolo dell’universo, la visione del dio addormentato. Chi vide il sogno del dio, coincidente con la distesa infinita delle acque, non era che una delle figure del sogno. Tutto ciò che contempliamo è un sogno della potenza delle acque divine, è la mâyâ (l’illusione magica) di Vishnu, l’illusione da cui noi stessi siamo sognati. Poiché periodicamente il cosmo viene riassorbito nel liquido primigenio, un’unica sostanza sta, ciclicamente, all’origine e alla fine di tutto (H. Zimmer, pp. 41-50). Spesso i viaggiatori del Medioevo e del Rinascimento assomigliano a Mârkandeya che vaga nell’Oceano primordiale: anche le loro fantasie rivelano l’esigenza della liquefazione di tutte le forme. Nei resoconti di viaggio, le raffigurazioni di genti che hanno tutto in comune fungono da schema dinamico capace di rendere evanescente ogni demarcazione: nelle regioni in cui viene meno il confine che distingue il tuo dal mio tutte le delimitazioni diventano evanescenti. Qui la stessa natura varca ogni limite e, in una s-modata fertilità, produce contemporaneamente un’enorme sovrabbondanza di frutti, ricchezze mirabolanti e innumerevoli mostri, in cui si con-fondono le parti di specie diverse, come se un vero e proprio horror vacui la spingesse a colmare perfino gli spazi vuoti che separano tra loro le specie. Troviamo così i Cinocefali, uomini con la testa di cane, in genere dediti all’antropofagia, le Sirene, i Centauri, gli Ippogrifi. In altre figure mostruose vengono meno l’ordine e la proporzione fra le parti del corpo: è il caso degli uomini con la testa al posto della pancia o di quelli con un piede enorme, utile per proteggersi dal Sole dei tropici. Solo il simbolismo dell’acqua è in grado di spiegare sia l’esuberante fecondità della natura sia l’aspirazione alla compenetrazione reciproca di tutte le forme, la pulsione verso il caos che precede l’ordinata organizzazione del cosmo. L’acqua non è semplicemente il primo elemento: per il pensiero simbolico essa è una forza capace di sciogliere e unificare in sé ogni determinazione, come nei diari di viaggio le immagini della comunione dei beni non rivelano soltanto il desiderio del venir meno dell’ingiustizia, ma costituiscono anche lo schema dinamico in grado di fluidificare tutte le distinzioni, non solo nella società ma nell’intera materia del cosmo. In greco materia si dice hyle, che significa selva. L’oscurità delle selve simboleggia bene il venir meno della luminosa chiarezza solare, che permette la nitida individuazione delle molteplici forme. Ma hyle è un termine strettamente legato alla radice indo-germanica , che è presente pure in , bagnare, far piovere (C. G. Jung, pp. 208-26, citato da G. Durand, p. 228). La materia di tutto ciò che esiste, quindi, è associata all’acqua, simbolo sacro del caos che racchiude in un’unità indivisa la virtualità di tutte le diverse realtà (M. Eliade, p. 194). Quando il tempo ha reso esauste le forze della natura, esse hanno bisogno di sciogliersi nel loro principio, per attingere di nuovo la potenza vitale dalla sostanza liquida di un sogno divino. «La perennità della vita è salvaguardata dalla periodica dissoluzione di tutte le sue manifestazioni nell’acqua, che, fluidificandole, ogni volta le rigenera» (G. Bossi, p. 218). Vishnu addormentato sull’Oceano primordiale simboleggia il riassorbimento di tutto nel suo principio pre-cosmico, con una valenza affine a quella della comunione dei beni intesa, nei resoconti di viaggio, come principio dinamico della fluidificazione di tutti i limiti. Come i singoli esseri umani, immersi nel liquido amniotico prima della nascita, l’intero cosmo è stato racchiuso nell’umidità di un principio materno prima di venire alla luce che rende visibili le forme. D’altro canto, mater-ia deriva da mater. Il viaggio verso il paese felice, in cui sono assenti le distinzioni dei possessi privati, appare, allora, come regressus ad uterum, come bisogno di ritrovarsi in una natura talmente feconda che nutre i suoi figli dall’interno del suo ventre materno, ricolmandoli di ogni ben di dio e risparmiando loro la fatica del lavoro. La nostalgia di una patria materna, un vero e proprio sogno amniotico, spiega le immagini di una vita beata nell’ozio, in paesi in cui le risorse eccedono i bisogni, dove la smodata quantità di oro impedisce di fare della moneta coniata la misura della ricchezza e dove la ridondanza di beni a disposizione di tutti toglie qualsiasi senso alla delimitazione del mio dal tuo. La materia è mater per la sua incessante prolificità (M. Eliade, p. 262): per questo la liquida origine della molteplicità delle forme è un felice principio di opulenza. Il sogno dell’età dell’oro, non come antecedente della storia ma come meta di un viaggio, è, fino in fondo, un sogno materno. Sono le immagini di illimitata abbondanza, richiamate nel mito dalle dee madri dal ventre abnorme, a togliere senso a qualsiasi gerarchia tra grande e piccolo, tra superiore e inferiore: al di là delle delimitazioni dei possessi, come nel caos amorfo, non esistono parametri a cui raffrontarli. Un sapiente taoista del IV secolo a. C., Zhuang-zi, può così spiegare, quasi alludesse a viaggiatori spintisi al di là di ogni orizzonte, che chi ha abbracciato il vicino e il lontano sa che ogni misura è infinita, che non può essere diviso dal calcolo ciò che è privo di determinazioni, che, quindi, tra il bene e il male, tra il piccolo e il grande non c’è distinzione assoluta (Zhuang-zi, pp. 145-46). D’altronde, agli antipodi geografici, tutto è sottosopra. All’altro capo del mondo non solo gli abitanti vivono capovolti rispetto a noi, ma l’intero ordine delle cose è un ordine alla rovescia nei confronti del nostro: bene e male, alto e basso, nobile e volgare, si trapassano uno nell’altro. Gli Antipodi, le genti con i piedi all’incontrario, sono una figura mostruosa: i loro piedi sono capovolti sia nel senso che chi vive nell’altro emisfero ha i piedi sopra la testa sia nel senso che hanno il calcagno davanti e le dita di dietro. Questo duplice rovesciamento della giusta gerarchia tra superiore e inferiore e tra anteriore e posteriore fa di loro non solo una figura mostruosa, ma anche il paradigma di ogni capovolgimento del mondo. Si tratta di un paradigma altrettanto potente del simbolismo dell’acqua nel rendere evanescente ogni limite (G. Bossi, p. 222). In modo analogo all’assenza di misura in Zhuangzi, il regime dei rovesciamenti impersonato dagli Antipodi non consiste in uno stabile e definitivo capovolgimento del mondo: verrebbe meno la sua corrispondenza con il simbolismo dell’acqua. È vero, per noi è male ciò che è bene presso gli Antipodi e bene ciò che presso di loro è male; analogamente si scambiano tra loro le parti nobile e ignobile, elevato e infimo. Ma chi ha abbracciato il vicino e il lontano conosce la relatività di ogni parametro e di ogni valore. D’altra parte, se il mondo è sferico, non esiste alcuno stabile punto di riferimento per distinguere chi sta con i piedi ben saldi per terra e chi, invece, a gambe all’aria, vive in un mondo sottosopra. Gli Antipodi fungono da portentoso specchio in cui la nostra immagine all’inverso è in grado di riflettersi nuovamente a rovescio.

2. La reversibilità di vita e morte e il simbolismo battesimale della rigenerazione

Anche l’immagine degli Antipodi diviene più chiara se la consideriamo come un’immagine d’acqua. Una pozza è stata, infatti, il primo specchio in cui l’uomo ha osservato tutto all’inverso. Il riflesso è un fattore di rovesciamento: vediamo il cielo nel fondo di un lago e gli uccelli del cielo potrebbero essere i pesci del lago (G. Durand, p. 210). Per gli Egizi il regno dei morti è un mondo notturno, in cui la gente cammina con i piedi sopra la testa. I morti appaiono come gli Antipodi, perché il loro mondo è il riflesso speculare del nostro e perché la nostra notte coincide con il giorno presso gli Antipodi (G. Durand, p. 219). Agli occhi di Dio, insegna San Paolo, stoltezza e follia sono sapienza e la sapienza è stoltezza e follia (1 Corinzi, 1, 20-2, 14): in certo qual modo la luce della ragione si scambia le parti con il suo ottenebramento, come per gli Egizi l’oscurità che succede al tramonto si rovescia nella nuova aurora del regno di Osiride. Così, nel cristianesimo, le tenebre della morte si capovolgono nella luce della vera vita. Guardandone il riverbero sulla superficie di un lago, potremmo vedere il mondo come lo vede Dio e accorgerci che la più autentica ascesi è, in realtà, una discesa, forse una discesa nel profondo dell’acqua. A questo allude il simbolismo del battesimo, specie allorché questo sacramento è amministrato attraverso un’immersione completa. È l’acqua, infatti, a insegnare la reversibilità della morte. Nel fonte battesimale muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo. Il simbolismo indica il dissolversi di un ente corrotto perché riemerga un essere incontaminato. Ogni regressus ad uterum di una rigenerazione deve attraversare la morte e ogni itinerario verso l’Oriente (da orior, avere origine, nascere, scaturire) allude proprio a una rigenerazione. E il viaggio a Est, insegna Colombo, è volto a Occidente con il medesimo percorso notturno del Sole, che soltanto così può ri-sorgere (G. Bossi, p. 14). Come, nel fonte battesimale, partecipando alla morte di Cristo partecipiamo alla sua resurrezione, così un viaggio ci rende partecipi del tramontare e del ri-sorgere del Sole. L’itinerario di Colombo è una vera e propria immersione battesimale (G. Bossi, p. 217). Incontriamo qui l’ambivalenza dell’acqua, sostanza che dona la vita attraverso la morte. Non solo negli archetipi mitici o nei segni sacramentali, ma anche nell’esperienza delle civiltà agricole, l’acqua può recare sia la vita sia la morte. Senza le piene dei fiumi o le piogge monsoniche, la terra, disseccata, perde la sua fertilità; ma il liquido vitale può rivelarsi un terrificante apportatore di morte. Tutto ciò era già contenuto, implicitamente, nella contemplazione di Mârkandeya. In Vishnu addormentato si sono dissolte tutte le forme viventi: senza disfacimento non esiste creazione. Nella sostanza primigenia la vita e la morte si convertono l’una nell’altra e, nella ciclicità del riassorbimento e della rigenerazione, la morte cessa di essere un viaggio senza ritorno. Uno dei metodi di sepoltura tradizionali è quello di affidare le salme a dei tronchi incavati, per poi abbandonarle nell’acqua, quasi per far sì che i defunti possano essere cullati dalle onde. In questo rituale funerario traspare un’immagine della morte come ritorno nel grembo materno. Ed è, contemporaneamente, un’immagine di viaggio, che ricorda la figura di Caronte, il primo navigatore, colui che traghetta i defunti nell’al di là. Come indica il proverbio «partire è un po’morire», morte e viaggio si richiamano a vicenda (G. Bachelard, pp. 52-55). Su scala cosmica, un analogo significato ha il mito del diluvio universale, diffuso in moltissime tradizioni sacre. Vi troviamo l’acqua come elemento di distruzione, ma dalle acque del diluvio emerge, poi, la salvezza di una natura rinnovata e purificata dal male che aveva provocato la catastrofe. Il diluvio estende all’intera natura il simbolismo battesimale di morte e rinascita attraverso l’immersione nell’acqua. Il segno della salvezza della vita dalle acque del diluvio è, ancora una volta, un’immagine di navigazione: l’arca, talora sotto l’aspetto di falce lunare, che trasporta l’eroe destinato a diventare il capostipite di una progenie rigenerata. La falce lunare è sia l’imbarcazione mortuaria sia l’arca della salvezza. La ciclicità, che fa della morte una nascita nuova, sta, insieme, sotto il segno della Luna e sotto quello dell’acqua. La Luna che cresce, decresce, muore e, infine, riappare luminosa nel cielo notturno offre l’immagine esaltante di una morte che non ha più l’ultima parola. La fine del vecchio mondo per opera del diluvio corrisponde ai tre giorni di tenebre notturne prima della comparsa della Luna nuova. Nel cristianesimo si tratta del simbolismo pasquale della resurrezione di Cristo dopo i tre giorni nelle tenebre del sepolcro. La Luna possiede il segreto del ciclico rinnovamento della natura, restituita alla fertilità dal diluvio (M. Eliade, pp. 164-66 e 219-21; G. Durand, pp. 250-53).

3. La sorgente dell’eterna giovinezza e la sua valenza nutritiva: dal sogno dell’Eden a quello della Cuccagna

Battesimo e diluvio mostrano un’altra valenza dell’acqua: quella della purificazione. L’immersione nel fonte battesimale e l’inondazione che sommerge ogni cosa rigenerano in quanto purificano l’uomo o la natura dalla corruzione. Il liquido purificatore è, per eccellenza, quello che zampilla dalle sorgenti (G. Bachelard, pp. 128 e 131-36). Nella religione islamica, nata e sviluppatasi nel deserto, la sacralità dell’acqua sorgiva è particolarmente sentita. La stirpe araba deve la sua stessa esistenza alla fonte sacra di zam zam: essa ha salvato dall’arsura Agar, la schiava cacciata da Abramo, che portava in grembo Ismaele, il capostipite della nazione. Ancora oggi, i pellegrini diretti a La Mecca sostano alla polla di zam zam, in cui si purificano prima di raggiungere la Città Santa. La sorgente apportatrice di vita è tradizionalmente legata al Paradiso terrestre, che, come tutti i giardini, è creato dall’acqua. E la parola Paradiso, che dobbiamo all’Islam persiano, deriva da Pardes, che significa proprio giardino. Per i mussulmani ogni giardino terrestre è un’immagine di quello celeste. Il rapporto fra vegetazione rigogliosa, acqua e Paradiso si trova anche nell’Ebraismo, un’altra religione legata al deserto: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente […]. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Genesi, 2, 8-10). Nel folklore, non solo europeo, dal tema sacro dell’acqua di vita è scaturita la leggenda della fonte dell’eterna giovinezza. I viaggiatori diretti a Oriente, nelle regioni edeniche, incontrano (o cercano) regolarmente la magica sorgente nei pressi del Paradiso terrestre, dove pure Colombo è convinto di essere giunto. L’aspirazione alla comunione dei beni, intesa come principio capace di rendere evanescenti tutti i limiti, si unisce all’incanto delle regioni paradisiache, rese fertili dalle acque edeniche, che apportano stupefacenti ricchezze e perenne giovinezza all’uomo e un’ininterrotta primavera alla natura. Nell’acqua che dissolve le forme il viaggiatore sogna il venir meno del corso del tempo che porta la vecchiaia e la morte. A questo alludono le immagini dell’eternità della giovinezza e della primavera (G. Bossi, pp. 16, 41-43, 83; G. Cocchiara, pp. 139-45). In un paesaggio perennemente primaverile, i viaggiatori raffigurano stirpi ignare della decadenza della vecchiaia e della fatica necessaria per sostentarsi. Ciò è possibile per la valenza nutritiva dell’acqua di vita. Per esempio, San Brandano viene convinto di avere raggiunto la meta delle sue peregrinazioni, il Paradiso terrestre, da un eremita che gli fa notare come sia stato sull’isola per più di un anno senza sentire alcun bisogno di mangiare: e ciò perché ha bevuto l’acqua della sorgente (G. Bossi, p. 43, nota 71). Se l’acqua è un principio femminile che evoca la vita nel grembo materno, nel liquido amniotico, per l’immaginario essa deve essere nutriente. L’immagine del primo alimento conferisce all’acqua la dolcezza del latte (G. Bachelard, pp. 98-118). Nella mitologia induista l’amrita, la bevanda d’immortalità degli dei, viene estratta attraverso la burrificazione di un Oceano di latte, simbolo del caos fertile che racchiude, in germe, la latenza di tutte le sostanze viventi (S. Nivedita e A. Kumarasvami, pp. 234-236). L’acqua diventa latte quando assume il colore della Luna: il soma, bevanda sacra inebriante degli antichi Arii Indo-iranici è identificato con la divinità lunare. Il liquido che ricostituisce periodicamente la giovinezza è lunare in quanto solo la Luna partecipa al divenire della vita rimanendo immortale. La Luna, che attrae a sé le acque, possiede il segreto della magica sorgente posta al centro del rigoglioso giardino dell’Eden. Ma un tale simbolismo dà origine al complesso Lunaacquevegetazione, che, nell’antica Grecia, sta sotto il segno di Dioniso. La bevanda sacra alimenta la perennità della vita grazie all’ebbrezza offerta dal vino (M. Eliade, pp. 167-68). D’altra parte, il primo miracolo di Gesù a Cana è consistito proprio nel tramutare l’acqua in vino. Cristo, che ha promesso alla Samaritana un’acqua viva d’immortalità, rende l’uomo partecipe della sua resurrezione attraverso il vino eucaristico (Giovanni, 2, 1-12 e 4, 1-14; Matteo, 26, 27-29; Marco, 14, 23-25; Luca, 22, 20). Nella cultura popolare la valenza nutritiva dell’acqua di vita, connessa alle immagini del latte e del vino, conduce alla trasformazione del viaggio verso il Paradiso terrestre in quello verso il Paese di Cuccagna. Le regioni paradisiache del nuovo mondo, la cui bellezza ha incantato Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci, assumono l’aspetto di un paesaggio alimentare, come attesta un canto popolare tedesco del XVI secolo, in cui troviamo l’esclamazione: «Quant’è buono quel paese!» (D. Richter, p. 34). Qui la comunione dei beni diviene comunione alimentare del mondo: una bocca spalancata divora la totalità della natura perdendosi in essa. L’uomo che inghiotte il mondo ritrova l’intera realtà dentro di sé, proprio mentre trova se stesso nel ventre materno della natura che lo alimenta. A Cuccagna, divengono evanescenti non solo tutti i limiti, ma anche il confine che separa interno ed esterno. La ghiottoneria, in questo paradiso alimentare, non ha una valenza diversa da quella del dissolvimento di tutte le forme nel liquido primigenio, in cui era già latente l’abbondanza offerta da una natura feconda (G. Durand, pp. 257-63). La digestione del mondo assimila in un’unica sostanza nutriente la molteplicità di tutto ciò che esiste. Il sogno di Cuccagna ha un significato analogo a quello dell’intero universo assorbito nell’Oceano primordiale, con Vishnu addormentato su di esso. Il nostro itinerario fra immagini di viaggio e immagini acquatiche ci ha ricondotto all’inizio, quasi che la direzione ci sia stata indicata dalla ciclicità dei simbolismi della Luna e dell’acqua.

4. Bibliografia

  • Bachelard G., Psicanalisi delle acque: purificazione, morte e rinascita, trad. it. di M. Cohen Hemsi, Red, Como 1987.
  • Bianchi E., Adamo dove sei?, Qiqajon, Maiano 1990. Bibbia (La) di Gerusalemme, EDB, Bologna 1974.
  • Bossi G., Immaginario di viaggio e immaginario utopico. Dal sogno del paradiso in terra al mito del buon selvaggio, Mimesis, Milano 2003.
  • Clerici C., Il simbolismo dell’acqua nel Gaðgâ Mâhâtmya e nel commento di S. Agostino al Vangelo secondo Giovanni. Confronto dialogico, tesi in Magistero di Scienze religiose, Istituto di Scienze religiose, Milano 1998.
  • Cocchiara G., Il Paese di Cuccagna e altri studi di folklore, Boringhieri, Torino 1980.
  • Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, trad. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari 1987.
  • Eliade M., Trattato di storia delle religioni, trad. it. di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1976.
  • Graves R., I miti greci, trad. it. di E. Morpurgo, Longanesi, Milano 1955.
  • Jung C. G., La libido: simboli e trasformazioni, trad. it. di R. Raho, vol. V (1965) di Opere di C. G. Jung, ed. diretta da L. Aurigemma, 18 voll., Boringhieri, Torino 1965-1993.
  • Nivedita S. e Kumarasvami A., Miti dell’India e del Buddhismo, trad. it. di A. Odierno, Laterza, Bari 1994.
  • Richter D., Il paese di cuccagna. Storia di un’utopia popolare, trad. it. di A. Fliri Piccioni, La Nuova Italia, Firenze 1998.
  • Zhuang-zi [Chuang-tzu], senza titolo, a cura di Liou Kia-hway, trad. it. di C. Laurenti, Adelphi, Milano 1992. Zimmer H., Miti e simboli dell’India, trad. it. di F. Baldissera, Adelphi, Milano 1993.