Recensione a Francesco Tomatis, Verso la città divina. L’incantesimo della libertà in Luigi Einaudi

Francesco Tomatis, Verso la città divina. L’incantesimo della libertà in Luigi Einaudi, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 303.

Nelle pagine del libro che Francesco Tomatis dedica alla figura ed all’opera di Luigi Einaudi emerge il profilo di un pensiero solido, di una nettezza che non cede all’inutile complessità della retorica, un pensiero che si alimenta all’unità del Semplice. Economista insigne, giornalista autorevole, uomo politico coraggioso e probo, già governatore della Banca d’Italia e poi Presidente, dal 1948 al 1955, della neonata Repubblica, Einaudi attraversa gli anni della sua vita terrena consapevole del costante lavorìo che ogni uomo deve compiere, se vuole conservare intatto il suo bene più prezioso: la libertà. Intatto, ma generosamente offerto all’altro, agli altri, il bene della libertà acquista allora la dignità di un valore che si effonde sugli atti, qualificandoli, nei campi in cui l’uomo si trovi ad esercitarla, siano questi quelli duri, da lavorare col sudore della fronte, o gli ambiti difficili, in cui si sorprende nella trama del coesistere.

Attraverso citazioni puntuali dalle opere di Einaudi, ricordate nell’ampia e utile ricostruzione bibliografica, il lavoro di Tomatis non si sottrae al confronto con un percorso che si fa pensiero; un pensiero di una morale che sostanzia gli studi einaudiani, sui fattori dell’economia, sulle vicende della politica e della storia, sulle istituzioni del diritto. Sempre, così come sottolinea Tomatis, si fa strada in Einaudi l’esigenza di affermare la centralità dell’esistenza umana, che rischia di perdersi se non sta vigile, a presidio di una libertà, che è tale se resta condivisa, da tutti esercitabile, nella responsabilità.

È questa la traccia potente che orienta il discorso di Tomatis: «L’ideale che principalmente, archetipicamente ha guidato Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 — Roma, 30 ottobre 1961) economista e giornalista, politologo e statista, storico e imprenditore, patriota e agricoltore, banchiere e padre di famiglia, persona vivente in società e singolo pensatore, cittadino e uomo libero è quello dalla libertà» (p. 11).

La libertà, per Einaudi, costituisce l’essenza della persona, nel suo triplice appartenere a se stesso, agli altri, a Dio. Quanto viene in rilievo, dalla lettura di Tomatis, è che ogni elemento costitutivo della libertà ha, meglio, è realtà spirituale, concreta, vivente. Già nel suo lavoro, concepito negli anni della sua docenza torinese, Einaudi elegge autori affini al suo itinerario speculativo. Nello scozzese Thomas Carlyle, esemplarmente, Einaudi rinviene un ascetico ed eroico sforzo di assimilarsi a Dio, non per sottrarsi alla propria umanità, ma per meglio incarnarla, testimoniarla, nelle opere del quotidiano. È questo uno dei primi passi ‘verso la città divina’, non senza attraversare classici come Platone, Agostino, John Stuart Mill, e poi Le Play e Gobetti, etc. Si delinea allora un pensiero sullo Stato, che deve definirsi liberale, al patto di significare, con tale espressione, un presidio giuridico e politico ad una morale della libertà.

Il concreto svolgersi della vita sociale convoglia le riflessioni di Einaudi sui pericoli di uno Stato centralista e centralizzatore, assuefatto all’anonimo volto dei burocrati, preludio ad una tirannia del ‘tutto’ sul singolo. Lo scopo da prefiggersi, rileva Tomatis, è dunque quello di veder realizzata, in questa vita, una «ideale anarchia di coesistenti spiriti liberi in unità spirituale» (p. 26), sottratti all’assorbente dialettica del padrone e del servo.

Quanto va mantenuto, infatti, resta il tratto della libertà, che qualifica, col suo segno, le opere dell’uomo, e che si esprime nel molteplice: sta col pluralismo e con esso cade. Non si tratta, d’altronde, di omettere il conflitto, che la libertà, nel suo molteplice darsi, sempre comporta come possibilità. Perché la libertà è tale se è possibilità di compimento del male, un male da affrontare e condannare, ma non da elidere in quanto possibilità, poiché verrebbe meno, a un tempo, la scelta del bene, e la sostanza dell’essere liberi.

Quindi, sottolinea Tomatis, tale «visione realistica einaudiana va intesa come volta allo sforzo di valorizzazione del contrasto, attraverso la ricerca dell’equilibrio fra le forze contrapposte» (p. 31), un equilibrio sempre incerto e sempre di nuovo da conseguire, a partire da se stessi.

Tutto stride, allora, in Einaudi, con l’esaltazione di una forza intesa come mera affermazione di potenza, che asserve e non libera, com’è tipico delle ideologie illiberali, bersaglio della critica einaudiana, il fascismo ed il nazismo, il comunismo ed il capitalismo. Assume centralità, pertanto, la ricerca di quegli ‘uomini divini’, raccomandata da Platone, uomini rari, mescolati nella folla, che hanno saputo rendersi puri da corruzione ed alla cui saggezza deve affidarsi la guida della repubblica (cfr. p. 39).

In effetti, il pensiero einaudiano converge verso l’anelito a formare una classe eletta, di uomini capaci «di guidare gli uomini al bene» (p. 42), come è proprio dei discepoli di Cristo, nell’esemplare figura di Francesco, il Santo (cfr. pp. 230-231), ma che si trovano anche tra quanti profilano la propria vita sulle tracce di figure come Gândhî (cfr. p. 226) o di Lao Tsu (cfr. p. 228), palesando un’irrestrittibilità, un’universale volontà, non di potenza, ma di libertà, che affratella e non divide.

In tale ideale ecumene della libertà, Einaudi esalta la funzione della prudentia (cfr. p. 46), virtù non sottomessa ai dettami di una ragione precipuamente economica, mossa unicamente dall’interesse, di un singolo o di una classe, ma che si esercita nell’inter-esse, di tutti e di ciascuno. ««

La ragione economica, certo, nell’analisi di Einaudi, attraversata dall’interpretazione di Tomatis, non può essere elusa, ma neppure elevata al rango, che non le compete, di guida unica dell’agire. Occorre, allora, riformulare i tópoi di un ideale pericléo (cfr. p. 55 ss.), di politica intesa come perno dell’agire sociale, garantito dalle istituzioni giuridiche. Pertanto, come osserva Tomatis, affinché «la libertà sia veramente tale, per tutti e non solo per pochi eroi o santi, non è sufficiente l’indipendenza della coscienza individuale, ma è necessaria anche la relazione e affermazione sociale della libertà, la quale dipende dunque da come il moto verso l’alto della libertà personale sappia creare leggi e istituzioni, città e comunità a sé consone e conformi all’ideale superiore, alla ‘città divina’ verso cui il dovere morale che ispira gli uomini eletti, gli spiriti liberi, anela» (p. 59).

Per questa via, si incontrano uomini e donne che hanno rinunciato, evitato, rifiutato il primato del successo economico e del dovere fine a se stesso, un dovere che perde di vista gli altri uomini e le altre donne, e che si afferma, vanamente, in quanto tale. Emerge la figura di una coscienza felice, quella dell’anacoreta economico (cfr. p. 60 ss.), singolo che senza clamori ha messo in pratica quanto, con Jünger, può definirsi il ‘passaggio al bosco’: «Sorgono — scrive al proposito Tomatis — ai margini delle metropoli massificate, all’ombra cupa di idoli a cui conformare ogni stile di vita, già o non alienati nei meandri delle burocrazie statali e fra uniformi e seriali ritmi di produzione industriale, anacoreti economici» (p. 62), donne e uomini che sanno il lavoro e la libertà. È nell’opera di costoro che si istituiscono le forme di una società autentica, che emancipa la terra dal giogo della natura e la consegna alle cure dell’uomo, che la fa fruttare, se non la sfrutta. Si tratta, pertanto, osserva Tomatis, di un’«umile e immane, lenta e capillare opera di antropizzazione mite della terra» (p. 66), estranea alla ‘colossale’ volontà di appropriazione e di esproprio, espressione di un «appiattimento politico ed economico, una egalitarizzazione uniformante, conformista e livellante verso il basso ogni attività e coscienza, persona o istituzione» (p. 220).

Solo con il lavoro delle donne e degli uomini la terra può accedere alla proprietà, acquisendo alla vita quotidiana la certezza del possesso, che non traligna mai, allora, nella smodatezza dell’abuso. Ecco che può affermarsi che «il diritto di proprietà è vincolo sacro, inestirpabile della persona» (p. 72), e lo Stato che voglia fagocitarne i frutti disattende i diritti fondamentali, conducendo «alla fine della società e dello stesso uomo» (p. 73).

Seguendo il profilo che Tomatis traccia dell’opera di Einaudi, non appare secondario rilevare i modi in cui la proprietà conserva il suo carattere inscindibile con la persona, il suo lavoro, il suo diritto. L’analisi verte allora sulle proprietà rurali (cfr. p. 77 ss.) e sul maso chiuso (pp. 86-87), simboli di una proprietà intessuta con il lavoro quotidiano, che rischia l’estinzione dovuta ad una tassazione iniqua, poiché, se «non è pensabile uno stato che, in una qualsivoglia forma, non esiga tributi dai suoi membri per il proprio funzionamento, tuttavia non è ammissibile che esso non fornisca servizi ai propri cittadini in proporzione alla contribuzione complessiva e addirittura ne ostacoli il lavoro e il risparmio, la vita e l’economia» (p. 84).

A tale proposito, assumono perenne attualità le riflessioni sulle priorità del prelievo fiscale: per Einaudi la prosperità economica passa per la non tassazione del risparmio, dovendosi invece dirigere l’attenzione erariale sulle forme dello sperpero (p. 88 ss.).

Nel contesto del pensiero economico einaudiano, Tomatis rileva l’importante filone dedicato agli studi sulla moneta. La moneta costituisce il nucleo degli scambi economici, e sui modi storici del suo concepimento si fanno e si disfanno le economie di paesi e di epoche. «Dal IX al XVIII secolo, in Europa e nel mondo — osserva Tomatis, seguendo il ragionamento di Einaudi — ossia da Carlomagno alla rivoluzione francese, vigeva lo strumento economico e politico della “moneta immaginaria”» (p. 94), una moneta di conto cui Einaudi attribuisce notevoli pregi, in quanto espressione della storia materiale dei popoli europei, e non di astratte teorie economiche. La moneta immaginaria costituiva l’unità di valore simbolico, nella consapevole scissione tra segno e merce, così da rimanere lo stabile elemento di riferimento universale, rispetto alla particolarità di commerci effettuati attraverso la moneta materiale, soggetta ai mutamenti negoziali.

Con l’ingiunzione, di matrice illuministica, che ebbe a legare la moneta di riferimento del valore degli scambi, alle quantità di oro seppellite nei depositi, si verificò il crollo di una stabilità economica legata ai commerci, innescando l’onnipotenza di un arbitrario diluvio monetario (cfr. pp. 98-103) prodromico alle ricorrenti crisi belliche e finanziarie del XX secolo, da cui ancora il secolo nuovo stenta a liberarsi.

Anche in queste vicende, dell’economia e della storia, delle istituzioni giuridiche e della politica, Tomatis segue il filo delle analisi einaudiane, facendo sempre emergere come l’unica risposta da opporre alle modalità totalitarie in cui gli uomini si vedono privati della loro dignità, sia il riferimento alla libertà, concreta e spirituale a un tempo, da esercitare nel quotidiano alimentare i luoghi in cui essa può svolgersi. Si tratta allora di riflettere sulle forme istituzionali in cui la libertà si forma e si manifesta, quindi, in primo luogo, sull’autonomia dell’università e sull’indipendenza della stampa (cfr. pp. 170-174), oltre che sul decentramento del potere politico che si trasforma, altrimenti, in tirannia dei burocrati (cfr. pp. 175-178), inaugurata dal centralismo napoleonico (cfr. pp. 214-218).

Una particolare attenzione è da riservare anche ai presìdi della libertà, propri di un diritto reso autonomo dalla politica, esemplarmente, di una magistratura suprema slegata dalle nomine parlamentari, come avrebbe dovuto essere, nella prospettiva di Einaudi, la stessa Corte costituzionale (cfr. pp. 179-182).

Quanto soprattutto rimane dalla lettura del lavoro di Tomatis, è la passione di Einaudi per la libertà, quindi la sua attenzione per il concreto svolgersi delle vicende umane, per una libertà da innalzare ad incantesimo, così da sottrarsi alle misere trame di un potere che perde di vista l’esistenza, da restituire, nella politica, nel diritto, nella storia, al ruolo di principio ispiratore di una comunità spirituale, di una ‘città divina’.