La morte e l’amore. Presupposto e fenomenologia erotica ne La stella della redenzione

1. Presupposto e parola-matrice

Dio parlò. Questo è il secondo momento, non l’inizio. È già l’adempimento, il compimento del silente inizio. È già il primo miracolo. L’inizio è: Dio creò […]. Questo è il nuovo […], [che] il Dio creatore è in principio.1

Alla base di questo esplicitarsi in racconto dell’incipit assoluto d’ogni parola, et ergo d’ogni essere, c’è, per Rosenzweig, un manifestarsi del Dio-vivente, un esplicitarsi dell’absconditas per eccellenza, e un suo declinarsi negli attributi propri della creazione. Anche secondo la lettura cattolica dell’Antico Testamento, nella parola iniziale di Dio — in sé Logos giovanneo e Arché filosofico — «si concentrano tutti i sensi che il Faust di Goethe vorrà dissociare: il Wort-parola è anche Kraft-potenza, Sinn-significato e Tat-azione».2 Il «Dio vivo della vita» ha dunque da manifestarsi, nella prospettiva della Stella della redenzione, come Dio della parola, e quindi dell’amore: «Dio creò»; questo appunto è il primus per eccellenza, il ri-cominciamento a partire dall’emergere della parola dal silenzio assoluto del cosmo. Alle spalle del Dio del Genesi — il creatore — sta dunque il Dio «creato», in sé conchiuso, absconditus — quasi un Dio prima di Dio, se ciò non lacerasse a fondo l’assioma irrinunciabile del monoteismo ebraico — che potrebbe bene, come infinito arbitrio, non creare affatto altro da sé; ma che, insieme e ancora, come Dio manifesto, non può fare altro che creare secondo il giuoco della necessità e della libertà.3

È quella storia endodivina tipica dell’ebraismo che Whitehead, anche se su altri regesti, fa sua quando appella Dio come «il vuoto» (God the void), l’abissale matrice che balugina, per differenza, solo come Altro dall’uomo, ed inizialmente proprio quale «nemico» (God the enemy) e, solo tramite l’Amore e la Legge, quale «compagno» (God the companion).4 Ed è in fondo la storia stessa di Giacobbe-Israele, l’uomo che lotta con Dio e, in tale scontro ottiene il suo nome come diverso, o del JHWH biblico che si presenta come Sabaot (Signore degli eserciti) e go’ El (vindice sino al limite dell’herem, dello sterminio).

Si tratta di un incipit filosofico che poco concede — e condivide — con l’esemplare «essere» di matrice greca. L’essere qui ha da raggiungersi come pienezza futura — in qualche modo postuma nella maturazione di sé e dell’esperienza del mondo — nell’escatologia pro-messa da principio. Escatologia di salvezza, ché ogni promessa è dono di sé ancora tutto da frequentare, e giammai possesso certo. Nell’opus dell’inizio, quindi — stando alla fenomenologia rosenzweighiana —, il creatore lascia nel mondo ampia traccia del suo «fare» peculiare, tramite il medium di un linguaggio in grado di leggere e di raccontare l’evento. Linguaggio non «altro» dal «fatto» stesso del creare, ma tutt’uno; anch’esso pars integrata nell’ontologia dell’inizio, attraverso «il tempo passato» e «la terza persona singolare» che rendono «doppia» l’oggettività del fatto.5 In ciò emerge una nuova concezione del vincolo temporale: il tempo mitico ha ceduto il passo ad un nuovo eone, e non solo; il nuovo eone si è schiuso adesso ad una piena e radicale rilettura delle tre coordinate classiche in cui è scandita la temporalità, e cioè: il passato, il presente ed il futuro. Per la prospettiva inaugurata da La stella della redenzione, il tempo è determinato sub specie aeternitatis, o meglio, a parte Dei, poiché è la realtà tutta a «parlare» — nel tempo — la lingua di Dio: un Dio il cui detto è fatto; un Dio che è anzitutto Parola: «Egli disse e la cosa fu», come recita il Salmo 33; un Dio che annuncia l’opera dell’inizio fondando un linguaggio comune tra sé, il creatore, e l’altro da sé, da Lui posto, la creatura. Tale linguaggio dell’inizio è, appunto, Zeit-Wort, parola-tempo; poiché è all’interno della prospettiva cronologica, così nuovamente intesa, che ogni evento della creazione avviene; il tempo s’è dunque rinnovato, ha cambiato la sua declinazione classica per farsi breccia sull’eterno, sigillo fondante della creazione; esso è non più tempo della duratadivenire aristotelico o hegeliano;6 ma temporalità escatologica nata, in Principium (Bereshìt) dallo scaturire del mondo dalla potenza di Dio. E la potenza a cui allude La stella della redenzione è di certo più vicina alla Sekinah regale7 che al vortice della possibilità tipico della libertà occidentale. Essa è piuttosto somma scelta di indigenza, ripiego — tzim tzum8 —, esilio esso stesso, contrazione interna finalizzata alla concessione dello spazio e del tempo all’essere del mondo.

In ciò stesso è posto — primo tra tutti nell’ordine d’importanza attribuito alle creature — l’Altro, l’interlocutore (o, meglio, l’interlocuzione stessa), Adam, un uomo fatto proprio come Dio — simul Dei — l’unico dotato di un linguaggio comune, l’unico invitato alla festa della parola, dopo che Dio ha squarciato — con il «fiat» — il silenzio dell’inizio, e — con la creazione di un uomo — l’oggettività solitaria del creato.9

2. Parole matrici e nomi propri

La parola fattiva di JHWH può farsi declinazione, invito, dialogo, ovvero comunicazione soltanto quando Egli pone di fronte a sé un «tu», creando l’uomo, un unicum; non l’uomo in generale, ma un uomo determinato e singolo, un «questo qui» a cui Dio dà finanche un nome: Adam. L’attribuzione del nome proprio, Adam, è dunque tutt’uno con il momento derivante dalla costituzione dell’identità singolare, ed unica, dell’altro da Dio: le parole matrici dell’inizio, l’articolarsi del fiat e il corollario del bonum est, sono ancora risuonanti in un universo muto, ove aleggia solitario «lo spirito di Dio»:

L’espressione dice: «buono!»; ed è e sarà «buono!». In questo assenso divino all’esserci creaturale consiste la creazione. Questo «buono!» è la sonora parola conclusiva di ciascun giorno della creazione, poiché non è altro che la muta parola originaria del suo inizio.10

Le parole successive, quelle con cui JHWH designa l’uomo «come sua immagine e somiglianza», si indirizzano ad un interlocutore fatto di terra e d’alito di Dio, un interlocutore cui la parola matrice della creazione può rivolgersi appieno, e che, al contempo, ne determina il necessario rafforzamento: la creazione dell’uomo, unicum nei sei giorni della creazione, è, infatti, definita cosa molto buona.11 La parola comune, medium tra la creazione di Dio e l’ascolto dell’uomo, segna dunque un doppio livello di differenza: la differenza tra Dio e l’uomo, poiché il secondo parla esclusivamente la lingua rivelatagli da JHWH; e, al contempo, la differenza dell’uomo rispetto ad ogni altra creatura del mondo, poiché è prerogativa esclusivamente umana quella dell’ascolto e della comprensione della parola. In questa radicale affermazione dei «diversi», Dio e l’uomo passeggiano insieme nel giardino di Eden — mondo incompiuto ancora sottratto al dolore ed alla morte — ed è facoltà piena di Adam quella di nominare a sua scelta tutte le creature — pezzi di quello stesso mondo in fieri — che vivono nel suo stesso ambito. Nell’imposizione del nome proprio, Adam partecipa incredibilmente al «fare» divino; egli, fatto della adamà, la semplice polvere del campo, scopre anche d’essere una creatura unica ed irripetibile, il vicario di Dio nell’ordinamento del mondo:

Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia potere sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra.12

E questo vicario di Dio ha piena facoltà di nominare ogni altra creatura del mondo:

Fece dunque il Signore Iddio dal suolo ogni sorta di animali terrestri e tutti i volatili del cielo, li condusse all’uomo, per vedere come costui li avrebbe chiamati: qualunque nome infatti avesse posto l’uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome. E l’uomo impose nomi a tutti gli animali domestici e ai volatili del cielo e a tutte le fiere della terra.13

L’evento della creazione, dunque, è riferibile ad un doppio livello, eppure contemporaneo, di leggibilità: è un’azione libera del Dio che si manifesta varcando la tenebra della propria absconditas onnipervasiva; ma è anche una presa di coscienza sempre rinnovata da parte del mondo della propria necessità di vita. Entrambi i piani di lettura si esprimono, e quindi si realizzano, attraverso il linguaggio. A tale fine è essenziale, per Rosenzweig, individuare quelle «parole-matrici» che «stando come parole determinate ancora in stretta sintonia con le parole originarie, tuttavia sono capaci di trovare fuori da sé tutta l’intera normatività che abbraccia il regno della lingua reale».14 Chiarisce ancora Rosenzweig:

È questo il tesoro di-forme-verbali della creazione. Ma non dimentichiamo, per seguire tante parole, la parola. La creazione stessa non avvenne forse nella parola? Non «parlò» Dio forse? […] Certo, la creazione, almeno all’inizio, è interiormente più ampia della rivelazione; in essa vi è molto che ancora per molto tempo non si è manifestato come profezia; nessuno sa quanto tempo dovrà ancora trascorrere fino a che, infine, tutto ciò che fu creato abbia aperto la bocca e divenga percepibile come predizione del miracolo.15

Il linguaggio della Creazione si pone, infatti, il fine di istituire «il mondo trasparente senza destituirlo di realtà»,16 poiché il factum del mondo, sempre rimanda al facere di Dio; in ciò necessitando di un linguaggio capace di «narrare» tanto la stabile necessità del factum, quanto la libera dinamicità del facere che ha creato il mondo. La transcreazione dell’uomo — factum peculiare all’interno del facere della Creazione — pone quindi Adam in una relazione esclusiva con JHWH. Dio crea Adam dalla polvere del suolo, ma gli immette nelle narici l’alito della vita e — compiuto all’apice del sesto giorno il capolavoro della creazione — esclama con gioia: «è cosa molto buona!». Adam è propriamente vivo; di più, Adam è vivo al cospetto di Dio, il «vivente» per antonomasia. Tramite il suo gesto iniziale, tramite la sua parola originaria Dio stesso, il Re della presenza, condivide col mondo non solo l’essere sensu lato, ma propriamente la vita. Di fronte al respiro umano JHWH esclama «buono proprio molto»! Adam è la vita, e JHWH lo pone persino in un giardino fatto apposta per lui. Eden, infatti, è anche questo: il luogo dell’incontro tra uomo e Dio, il luogo ancora sottratto all’orribile baratro della morte — apice e conclusione della Creazione —, il luogo ove la vita si svolge ancora senza alcun dolore. Ma Adam è anche il segno vivente che

per la prima volta è rotto l’incantesimo dell’obiettività, per la prima volta, dall’unica bocca che finora ha parlato e parla nella creazione, risuona, invece di un illud impersonale, un «io».17

Il «molto buono» profferito nel racconto del Genesi, a commento dell’ultima delle opere divine, pone, infatti, Adam in una situazione di privilegio: egli potrebbe — nell’abisso della sua libertà — evadere dal destino delle cose che, nella loro datità, sono soggette ad esaurirsi e morire, per restare in comunione con Dio, senza dover passare attraverso la dimensione del labor, del patior, dello shabbat ed, infine, della morte.18 Ma egli è vita; vivente in modo similare a Dio, ma esistente secondo l’essere del mondo, e può dunque, da solo, dentro la responsabilità etica e ontologica che il divieto impone, cadere. E la caduta — caduta d’un vivente — risolleva ex abrupto il velo divino posto sull’abisso. Molto buona, transcreaturale nell’iter della creazione, nel tempo dell’inizio, è di già la morte.19 La morte, dunque, primo incipit antropologico de La stella della redenzione, ricompare finanche nella costituzione del rapporto teandrico, come ineludibile sprone alla filosofia della vita:

la morte creata dalla creatura è il presagio della rivelazione della vita trans-creaturale. La morte […] spinge impercettibilmente la creazione nel passato e così la rende una silenziosa, costante predizione del miracolo del proprio rinnovamento. Per questo il sesto giorno della creazione non vien detto che era «buono», bensì: «ecco, buono proprio molto!». […] «Proprio molto»: questa è la morte.20

3. Rivelazione: il «dialogo» tra amante e amato

La morte, noto incipit de La stella della redenzione, ritorna all’interno del percorso filosofico rosenzweighiano come trait d’union tra la vita e la Vita, dunque. Essa stessa rinnova i suoi tratti di «Orco» per farsi profezia. Se da un lato, infatti, designa la «piccola porta» attraverso cui è segnata la fine stessa della creazione, dall’altro lato, essa assurge a nuovo incipit, a nuova collocazione meta-cronica e meta-empirica, in grado di condurre ad un «altro» ordine dell’essere. Se con essa è segnata la fine dell’oggettività interna al mondo delle cose create, attraverso essa prende inizio la fondazione dello status proprio della persona nonché l’affermazione della propria dimensione d’esistenza, maturata nella Rivelazione et ergo nel comandamento dell’amore. Sullo stesso piano della morte, quindi, e per ciò stesso, anche al di sopra della sua efficacia eterna, si erge la realtà vivente dell’amore che JHWH rivela, donandosi, nel suo incontro con l’uomo.21 E qui il «dio degli eserciti» («vindice», «sterminatore», «giusto che castiga») fa posto all’amante geloso, al dio tradito, a colui che incredibilmente ha messo nelle mani dell’uomo la parola matrice della creazione, perdendosi nella storia del mondo in un’eterna rivelazione d’amore.

Centrale, nella lettura di questa parte de La stella della redenzione è il versetto — tratto dal Cantico dei Canticiforte come la morte è l’amore: esso significa per l’uomo, ad un tempo, l’accendersi di uno spiraglio «oltre» il ritorno dell’orribile realtà della morte; di uno spiraglio «forte come la morte», ovvero più forte, poiché in grado di offrire all’uomo un varco in grado di ri-condurlo ins Leben; ma la sua citazione all’interno de La stella della redenzione è rivelativa finanche di un «altro» tragitto: di un’azione certa — cioè — che, da Dio, giunge sino al più incallito degli uomini per rafforzare l’emunah nella promessa, l’amore. La Rivelazione è dunque un vero e proprio farsi atto del Dio ebraico nei confronti dell’ipseità caparbia del singolo; un movimento fortissimo ed incontenibile di cui è lecito dire non tanto che abbia l’amore come suo movente, ma, piuttosto, che sia esso stesso «l’amore» del Dio-amante che, così rivelandosi, si mette alla ricerca finanche del più piccolo ed incallito tra gli uomini. Spiega Levinas:

Non che ci sia amore in un primo tempo e rivelazione successivamente; la rivelazione è immediatamente amore.22

Lo stesso Rosenzweig ribadisce:

l’amore non è un attributo, ma un evento

in ciò dischiudendo il cuore stesso della sua filosofia ed un’avvincente fenomenologia del volto.23 La rivelazione di Dio all’uomo, «oltre» ogni gesto d’amore — amore essa stessa — non ha da fissarsi in sterili attributi. La libertà abissale del Dio-vivente (l’absconditus che liberamente crea l’«altro» da sé), divenuta — in piena dialettica con la necessità — Creazione fattuale (oggettiva) nega adesso la sua stessa essenza nascosta per farsi epifanìa piena del Dio-amante. Si tratta di una vera e propria fenomenologia dell’erotica divina quella che Rosenzweig intesse in queste pagine dedicate alla Rivelazione; una fenomenologia tutta intesa a dimostrare (contro il concetto greco della perfezione divina intesa come assolutamente priva della capacità d’amare, ovvero come priva di manchevolezza e bisogno) come l’amore di Dio non debba essere inteso platonicamente come segno di una ricca indigenza (derivante dalla dialettica tra poros e penia), ma piuttosto come «gesto» che, motu proprio, si mette alla ricerca del «sì» umano, fino a pro-vocare finanche il più indurito ed indifferente dei cuori tramite il comandamento dell’amore.

4. La legge e il tempo: per una fenomenologia erotica

Abbiamo parlato, con Rosenzweig, di «comandamento dell’amore», come se, in realtà, il dono gratuito di sé che qualcuno rende presente a qualcun altro potesse essere dettato da una regola o da una legge impositiva. Ma, contrariamente all’ottica occidentale, nel mondo ebraico

l’amore può essere comandato e la sua stessa, intera essenza consiste nel comandare la reciprocità. Solo l’amore può comandare l’amore, L’amore comanda l’amore nell’adesso privilegiato del suo amare.24

Secondo la lettura che ne dà Levinas, è proprio questo «adesso» a rendere «presente» l’amore, e quindi la Rivelazione stessa. L’amore non è dunque un’esperienza confinabile ad una definita e ristretta parte della vita umana, né può intendersi come breve momento vissuto nell’ottica epicurea del carpe diem; anzi, esso è il costitutivo arché dell’esistenza tutta. Per questo «amore» e «legge» non sono affatto antinomici nell’ottica ebraica, anzi «la Legge è l’assillo stesso dell’amore», per cui

la Mitzwah — il comandamento che tiene in ansia l’Ebreo — non è un formalismo morale, ma è la presenza vivente dell’amore, la «temporalizzazione» stessa del presente […], esperienza originaria del presente e della presenza.25

Ma anche nei confronti del «tempo» in cui avviene la Rivelazione, le categorie dell’Ebraismo instaurano un nesso originale: la Rivelazione non avviene in un momento della storia, né in un tempo preciso o circoscritto; ovvero essa non avviene affatto nel tempo, secondo la prospettiva diacronica che l’Occidente è aduso adoperare; ma è il tempo stesso ad accadere, a farsi presenza; presenza, cioè, di quell’amore che è interamente e pienamente la rivelazione stessa, perché:

l’amore di Dio è sempre tutto nell’istante e nel punto in cui egli ama, e solo nell’infinità del tempo, passo passo, esso raggiunge un punto dopo l’altro e anima il tutto.26

Dalla prospettiva umana — quella dell’amato — quindi, si può soltanto esclamare: ecce Deus fortior me qui veniens dominabitur mihi.27 Ma in tale rispecchiamento, in tale riconoscimento dei fuggevoli ed imprevedibili raggi in cui l’amore divino si irradia, v’è anche — se non proprio logicamente lucida, almeno filosoficamente esperiente — la coscienza umana d’essere, in ogni caso, «l’altro polo della rivelazione», il destinatario su cui «si riversa l’amore divino».28 Ma questa coscienza — per un Ebraismo che deve erompere dagli argini degli steccati confessionali per incontrare il mondo — ha da tramutarsi in compito, non soltanto in splendida aureola d’elezione. E il compito dell’uomo è questo: uscire dal mutismo caparbio del proprio sé, rinunciare alla propria ipseità, e corrispondere amore all’Amore; ovvero, ascoltare la Parola laddove essa s’esprime, e vedere la luce di Dio laddove essa risplende. Ancora una volta, nei percorsi teo-sofici della fenomenologia dell’amore, ci si imbatte nell’esperienza dell’incontro con l’«altro da sé», con il diverso: Dio si fa «diverso» per essere amore nell’amore; l’uomo deve farsi «diverso» dal suo sé più elementare, deve fuggire alla prospettiva eroica, deporre le armi della hybris, della caparbietà e del carattere, e rimettere in discussione le certezze sapienziali del suo daimon. Tale serie di constatazioni sul ruolo dell’amato-uomo in relazione al Dio-amante assurgono, finanche, a delineare un’interessante ed ardita prospettiva antropologica inscritta nel rapporto teandrico. «Se voi mi date testimonianza, allora io sono Dio, altrimenti no»: così si pronuncia l’antica saggezza del Midrash; in ciò potendo scorgere tanto l’implicazione necessaria dell’uomo nel grande progetto che si compone di Creazione, Rivelazione e Redenzione, quanto la necessità divina di avere un suo contraltare, un suo rispecchiamento, sul piano più propriamente umano.

Ritornano alla mente certe espressioni della mistica cristiana, come quelle esposte nel Pellegrino cherubico di Silesius, o quelle rappresentate da Meister Eckhart ne La via del distacco.

So che senza di me Dio non può un istante vivere: se io divento nulla, deve di necessità morire29

scriveva Silesius all’acme di un percorso mistico di comunione assoluta con l’Altissimo. Qui — certo, senza le ricchezze stilistiche proprie del linguaggio mistico — si dice qualcosa di molto similare e, al contempo, di tangibilmente eterogeneo: s’afferma, in sostanza, una implicazione, una cum-plicazione erotica di Dio e dell’uomo nel rapporto rivelativo; e questo, al di là del semplicistico uso antinomico dei ruoli di «amante» o di «amato», ed al di là finanche del fatto, eppure significativo, che l’uno — Dio — emana il comandamento dell’amore, l’altro — l’uomo — è tenuto ad applicarlo nel mondo:

Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente.30

Ma, sul versante della lettura che della mistica cristiana fornisce Rosenzweig, si attesta anche un’incolmabile differenza con Eckhart e Silesius, ed in genere con ogni misticismo occidentale: l’abisso concettuale intercorrente tra l’identificazione a Dio, vissuto come annullamento di sé e unione tout court all’assoluto, e la cum-plicazione erotica con Dio, all’interno della quale, Dio e l’uomo, l’amante e l’amato, l’amore e la legge, restano impliciti nel «cum» del rapporto, nel «mit» che li rende reciproci, ma — in ciò e tramite ciò — salvaguardando in toto la loro alterità irriducibile. L’uomo che ama Dio, rispetta la Legge, e per ciò risponde «sì e amen» alla pura gestualità che si rivela nella storia come Amore.

Ma Iddio dell’incontro, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe — come sembra suggerire Buber31 — rigetta da sé ogni accostamento descrittivo, ogni idea di Dio. Egli è Dio nella sua piena rivelazione gestuale. Di più, Egli è l’Altro: colui che nella differenza dall’uomo sancisce la vicinanza con l’uomo e proprio lì, nel plesso originario del rapporto, stabilisce la sottile lamina della berith, l’alleanza tra due che camminano insieme ma ognuno sulle orme dei propri passi. Appare dunque indubitabile il fatto che la costituzione del «tu» dell’uomo si delinei in corrispondenza al dispiegarsi dell’amore dell’Amante, anche in virtù di una sorta di «diminuzione» del carattere umano, del suo «orgoglioso tuttavia». Una diminuzione «vivente» dell’alterigia umana correlabile, forse, all’originaria scelta divina — scelta di ciò che non è parafrasando Paolo (1 Cor 1, 28) — e ad una vera conversione alla parola come uscita dal mutismo del sé. È questa, di sicuro, la fondazione più vera e stabile di una Parola comune tra Dio e uomo, quale emerge dal silenzio del pre-mondo, attraverso la creazione dell’uomo e la rivelazione del nome. Si tratta in fondo di una vera definizione del «dialogo» come asse portante della Rivelazione: alla chiamata divina Adam risponde come un «tu» nient’affatto tragico, timoroso adesso della propria hybris. Inoltre, la Legge dell’amore, nell’uomo, viene a tradursi nell’amare incondizionatamente il proprio prossimo; e nel volto del «prossimo» prende effige il simile e il diverso; così, il vettore principale del «dialogo» tra Dio e uomo — avente il suo apice nella «chiamata» ed il suo fulcro nel Comandamento dell’Amore — ritorna a Dio per una via «indiretta», mediata: l’uomo ama davvero Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima e con tutta la propria mente, attraverso l’espandersi del Comandamento dell’Amore al proprio prossimo — ovvero nell’amore incondizionato verso il proprio simile e verso il proprio dissimile — che è, in tutto, «immagine e somiglianza» dell’unico JHWH, signore del cielo e della terra.

Inutile soffermarsi sulle evidentissime suggestioni che un tale percorso dell’erotica rosenzweighiana abbia suscitato in pensatori come Buber o Levinas. Ma in Rosenzweig il rapporto tra JHWH e Adam, nel declinarsi del linguaggio, e nel maturare della comunicazione, tende a trascendere il senso ristretto del «dialogo tra due», per farsi prima rapporto tra JHWH e il Popolo eletto, e poi «relazione-noi» tra un Dio (che rinuncia persino al suo nome rivelato) e l’umanità dalle mille voci, ma dall’unica Legge, dai mille volti ma dall’unica alleanza: l’umanità — o meglio il vero Israele — che attende «in coro» il futuro del Regno, l’avvento del Messia, nell’unificazione del Nome del Signore e nell’inverarsi della pro-messa.32

Dunque, nell’unificazione del Nome di JHWH — l’impronunciabile per antonomasia nell’ambito della storia — da parte di un’umanità che lentamente ha recuperato il senso stesso di una comunione linguistica ed effettuale, avviene anche la riconversione unitaria della Parola, dopo la diaspora e la frammentazione di Babele. Avviene, come disposizione dell’uomo e di Dio stesso all’avvento della redenzione; movimento di mondo e di uomini, non concetto né, meno che mai, metafora. Semmai «nome», per quanto di assoluto i simboli ebraici concedono a tale parola. Fondamentale, infatti, nella graduale edificazione del «dialogo» della Rivelazione — ovvero del manifestarsi e del ritornare dell’Amore — è la prospettiva linguistica:

fondamento della Rivelazione, centro ed inizio insieme, è la rivelazione del nome divino. Dal nome rivelato da Dio vivono la loro vita la comunità costituita e la parola scritta fino ai nostri giorni, fino all’istante attuale e fino all’esperienza vissuta di ciascuno. Poiché in verità il nome non è [···] mero rumore e fumo, ma è parola e fuoco. Occorre invocare il nome e confessare: io credo questo nome.33

5. Esiti: lo spazio etico del «prossimo»

Nella redenzione del mondo tramite l’uomo, dell’uomo nel mondo, Dio redime se stesso;34

con queste parole si stabilisce, e anzi si conferma, il rapporto di immanenza che lega l’uomo al mondo, e Dio, infine, ad entrambi. Soltanto nella relazione tra la creazione e la rivelazione — l’una emergenza del «fatto», l’altra realtà dell’amore e legge — può infatti intravedersi la verità della redenzione. Entra quindi, nell’itinerario rosenzweighiano, il problema etico della relazione tra uomo e uomo; ovvero il rapporto tra singoli che hanno ben scontato il silenzio della propria caparbietà e si sono aperti, nella rivelazione di JHWH, alla risposta. Tale risposta, riconoscendo tutto il peso della peccaminosità — vita essa stessa ma nella caduta — ha dischiuso la ricerca sempre rinnovata dell’Amore. JHWH ha comandato l’amore; e l’Amore ha dischiuso all’uomo la porta che immette sull’altro, quasi ad inglobare e recuperare, in ottica ebraica, anche la predicazione di Cristo: «amerai il prossimo tuo come te stesso», comandamento, tra l’altro, ben vivo — nel suo duplice orientamento: verso Dio e verso l’uomo — nella tradizione del Levitico.35 Amare il prossimo (ovvero ogni uomo), integrando — nel gesto dell’amore — la Legge che viene rivelata al mondo; e qui non si tratta affatto di soppiantare la Legge, ma di dischiuderla ermeneuticamente al ripensamento della dimensione antropologica. Un uomo che è il padrone della legge poiché «la legge è istituita per l’uomo, non l’uomo creato per la legge».36 E questo soggetto, padrone del labor e dello Shabbat, è un uomo simul dei, che — seppure Caino — non può essere ucciso né oltraggiato. Infatti, il prossimo a cui l’amore e il suo comandamento si rivolgono

è solo il rappresentante, non viene amato per se stesso, per i suoi begli occhi, bensì soltanto perché si trova proprio qui, perché è proprio il mio prossimo.37

Nell’amore si è così del tutto conclusa la prospettiva della solitudine tragica del «sé», e s’è aperta la breccia che conduce all’umanità intera, e con essa, al mondo. Il mondo, a differenza di Dio e dell’uomo, è un mondo non ancora compiuto, perennemente in fieri, soggetto al divenire: è un non-ancora, non un «dato» certo e rigido facilmente digeribile dalle categorie della logica o dalle leggi universali del pensiero; esso è alla radice il cosmo plastico degli elementi. Ma, lo stesso Rosenzweig giunge a dire che

il mondo […] è, palmo dopo palmo, qualcosa che viene, anzi un venire. È ciò che deve venire. È il regno.38

Questo coacervo straordinario di forme e di vite sempre nuove e scandalose per l’ordine sterile delle logiche del pensiero, è dunque un perenne divenire altro da sé, un futuro farsi regno. Il mondo, insomma, va considerato «sotto il senno del poi», nella prospettiva futura di ciò che ha da venire. In quest’ottica Levinas può leggere la redenzione rosenzweighiana come «movimento senza ritorno, puro avvenire», come ciò che «porta a compimento il giorno del Signore». Infatti, uomo e mondo — collegati a un Dio distante nella relazione triangolare degli elementi, ma implicati ad un Dio straordinariamente vicino nel farsi della rivelazione — entrano in relazione,

mediante la Redenzione, con un’Eternità intesa in termini di compimento, con un’Eternità in qualche modo futura.39

Ancora una volta emerge chiaramente come l’eternità rosenzweighiana non appaia al pensiero quale ennesimo scandalo in cui dissolversi o abbandonarsi, ma piuttosto come il progressivo e graduale stabilizzarsi e fluttuare del comandamento dell’Amore che, rivelato ad ogni creatura dall’Amante, insegna all’uomo-io come farsi gradualmente comunione- «noi», senza che, tuttavia, si perda nulla delle specifiche individualità.40 L’eternità, allora, per la weltanschauung ebraica, non è più una categoria, finanche teologica, posta a spartiacque tra il tempo, la sua fine, e un presunto aldilà; essa è piuttosto «il volto rinnovato del tempo».41 È quantomai evidente come la discrasia ebraica nei confronti della concezione ellenica e cristiana si delinei in tutto il suo spessore nell’analizzare la prospettiva cronologica; con Rosenzweig, il concetto di una temporalità che si eternizza nell’istante stesso in cui s’instaura il rapporto con l’assoluto della fede, così come lo formulò ad esempio Kierkegaard, non ha più ragion d’essere. È semmai l’eternità a costituirsi come tempo, a temporalizzarsi, e a farsi declinazione visibile ed esperibile, ovvero presente, passato e futuro, e quindi, nella prassi del facere e del factum, creazione, rivelazione e redenzione.

Ma, ancora una volta, il piano antropologico s’innesta sulla prospettiva escatologica e teologica; l’amore chiede dunque osservanza e stabilità, mentre le voci singole, che hanno intessuto il dialogo con JHWH, rinunciano adesso alla linguistica apofantica per liberare all’unisono il proprio coro — così ispirato nei Salmi — che riconosce come «tu» soltanto l’Altro, il Signore della Verità:

infatti che altro sarebbe la redenzione se non questo: che l’«io» apprende a dire «tu» al «lui»?42


  1. Cfr. F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, edite da M. Nijhoff a Haag/Dortrecht, ordinate in quattro sezioni: I. Briefe und Tagebucher, 2 voll., Haag 1979; II. Der Stern der Erlösung, Haag 1976; III. Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, Dortrecht 1984; IV. Sprachdenken im Übersetzen, 2 voll., Dortrecht 1984. Per l’edizione italiana di Der Stern der Erlösung, dalla quale traiamo le citazioni testuali (salvo quando indicato diversamente) cfr. Id., La stella della redenzione, Marietti, Genova, 1985, p. 119 (di seguito indicata con la sigla [SR] seguita dalla sola indicazione della pagina). ↩︎

  2. Cfr. G. Ravasi, Il racconto del cielo, Mondadori Milano 1995, p. 13. ↩︎

  3. Nel Dio rosenzweighiano convergono arbitrio, potenza, necessità e destino: egli può, quindi, infinitamente tutto. Come nota Adriano Fabris è in potere del Dio del Genesi sprofondare l’intero paganesimo, resdiduo sottostante la creazione: «Egli può tutto fino a scuotere il vasto Olimpo con un battito di ciglia». Cfr. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, filosofia e teologia in Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990, p. 36. D’altra parte è interpretazione diffusa — e nei commentari rabbinici, e in quelli cristiani — che il JHWH biblico s’imponga sull’abisso primordiale con un’onnipotenza tale da rendere irriconoscibile, dal punto di vista dialettico, ogni avversario. (Per queste letture si veda D. Arenhoevel, Introduzione all’Antico Testamento. Il libro sconosciuto, Cittadella, Assisi 1989 e Id., Genesi, Cittadella, Assisi, 1986; G. Ravasi, Antico Testamento, Mondadori, Milano 1990; S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991). Pur tuttavia il JHWH rosenzweighiano conosce bene anche il verdetto estremo della Moira: egli vive, ed è questa sua vita l’argine liberamente scelto ed eletto come necessario. D’altra parte la sua vitalità si traduce ben presto nell’infinito essere «vincolato entro la costrizione della Moira». Per questo egli è il Dio vivente. La suggestione schellinghiana è non solo evidente ma rivelativa. Non a caso «l’ultimo» Schelling, quello tornato in cattedra dopo Hegel, battezzerà come «positiva» l’ultima sua produzione svincolatasi oramai dall’idealismo «oggettivo» della filosofia della natura (e di positività della filosofia parla diffusamente anche Rosenzweig). Nelle Ricerche sulla libertà si legge: «poiché c’è in Dio un fondamento indipendente di realtà, e perciò sono in lui due principi di autorivelazione ugualmente eterni, così egli deve essere considerato anche secondo la sua libertà rispetto a tutti e due. Il primo inizio di un moto verso la creazione è il desiderio dell’uno di generarsi, ossia il volere del fondamento. Il secondo è il volere dell’amore, con cui viene espresso il verbo della natura, e attraverso cui Dio si fa personale. Perciò il volere del fondamento non può essere libero, nel senso in cui è libero il volere dell’amore». Cfr. F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e sugli oggetti che vi sono connessi in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1987, p. 121. Si vedano però anche le Lezioni di Stoccarda, in special modo la II parte, ivi, pp. 151-171, e, per l’ interpretazione del «dio prima di dio», si veda l’introduzione di L. Pareyson, Ivi, pp. 5-32 e, sempre di L. Pareyson, Schelling. Presentazione e antologia, Marietti, Genova 1975. Per un confronto si rimanda a X. Tilliette, Rosenzweig et Schelling, in «Archivio di filosofia», 53, 1985, pp. 141-152; S. Moses, Système e révélation. La philosophie de F. Rosenzweig, con pref. di E. Levinas, Seuil, Parigi 1982; M. Cacciari, Sul presupposto. Schelling e Rosenzweig in «Aut Aut», 211-212, 1986, pp. 43-65; Id., Errante radice in Icone della legge, Adelphi, Milano 1987; Id, Franz Rosenzweig in AA. VV., Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, Marzorati, Milano 1991, vol. V, pp. 187-212; Id, Filosofia e teologia, in P. Rossi (a cura di) La Filosofia, vol. II, Garzanti, Milano 1996, pp. 365-421 e F. Popolla, «Nuovo Pensiero» e «Filosofia narrante». Rosenzweig interprete di Schelling in «Annuario Filosofico», XIV, 1998, pp. 253-280. ↩︎

  4. Cfr. A.N. Whitehead, Il divenire della religione, Paravia, Torino 1963. ↩︎

  5. «L’esserci [della cosa] viene affermato quando Dio dice “buono!” del proprio operato; egli lo ha fatto, è buono. Egli creò: questa forma narrativa attraversa l’intero capitolo: egli creò, egli disse, egli separò, egli vide e così via. Tempo passato e terza persona singolare, doppia oggettività. Nessun soggetto all’infuori di quell’unico, sempre identico, divino. […] Dio creo. Ed il mondo creato? “Esso fu”». SR, p. 161. ↩︎

  6. Nella filosofia aristotelica, il divenire (concepito come successione di momenti contraddittori, incanalati in un’unica prospettiva temporale) era ricondotto ad un fondamento divino nel quale non c’è più contraddizione, né cambiamento, né tempo, perché a Dio ogni moto si riconduce, ma Dio non è soggetto ad alcun movimento. In Hegel — o almeno nello Hegel che Rosenzweig interpreta — la contraddizione si ripresenta come molla del divenire, ma quest’ultimo è possibile solo perché un positivo si ripropone dopo e attraverso la negazione, e positivo è anche il risultato dell’intero processo temporale mosso dalla contraddizione. Nota Adriano Fabris come la differenza tra Hegel e Rosenzweig s’inscriva nella stessa valutazione del positivo e del negativo all’interno della dialettica. In Hegel «questo positivo che il processo stesso è, assume a sua volta — in quanto risultato complessivo e globale — uno statuto diverso rispetto ai momenti precedenti: ha in sé la contraddizione ma si afferma come positivo, abbraccia il corso temporale ma in sé è eterno». Sul fronte de La stella della redenzione: «contro siffatti esiti hegeliani, Rosenzweig fa vedere come in Dio, mondo e uomo, il “sì” e il “no” della contraddizione siano tendenzialmente da porsi sullo stesso piano, come sono da porsi sullo stesso piano la fattualità positiva dei tre elementi». Cfr. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990, p. 111. ↩︎

  7. È da notare che la Sekinah ebraica è sì la «presenza» di Dio nella storia, ma una tale presenza che si rende percepibile — o meglio, si amplifica addirittura — solo nell’assenza del divino. La Sekinah è una sorta di aura, di traccia di Dio particolarmente percepibile nell’esodo o nella cattività. Il Dio che permette l’essere dell’uomo e del mondo non coincide affatto con l’uomo e col mondo. Ogni panteismo è bollato come arbitrario dall’Autore de La stella della redenzione. Il vortice della possibilità infinita di un Dio infinitamente libero, d’altra parte, riproporrebbe pesantemente il problema leibniziano del perché ci sia questo mondo e non un altro, o addirittura il nulla. Contro ogni teodicea conciliativa, riassumibile nella formula del migliore dei mondi possibili, Rosenzweig fa valere l’istanza segreta della kabalàh ebraica: la presenza di Dio. Quindi, in principio è Dio, suo tramite è la parola e, per mezzo di questo tramite, ha vita l’essere dell’uomo e del mondo; ovvero, in principio è l’Eterno, suo tramite è il tempo dell’accadere. In termini filosofici: è nella transcreazione della libertà dell’uomo, all’interno della creazione stessa, che è già posta, eo ipso, la necessità che ogni vita porta seco. Per questo il Dio rosenzweighiano è assolutamente libero, ma ben conosce la necessità dettata dalla Moira. ↩︎

  8. Di Tzim Tzum (da alcuni traslitterato Simsum) parla il filosofo ebraico Yishaq Luria che, pur movendosi concettualmente nell’ambito dello Zoar (la summa del misticismo ebraico precedente il XIII secolo), riuscì a tracciare una cosmogonia cabalistica del tutto originale rispetto alla lettura rabbinica della Scrittura. Lo Tzim Tzum è la «contrazione» del Creatore che, in tale autolimitazione, pone l’essere e gli fornisce lo spazio ed il tempo vitali per venire ad un’esistenza quanto più possibile autonoma, diversa, comunque, da quella divina. Il maggior interesse di questa teoria sul principio può rilevarsi nella sua provocatorietà tipicamente ebraica. Secondo Luria l’essere non sarebbe affatto originario, bensì un risultato, un residuo di un’azione implosiva di Dio. Per ulteriori riferimenti si veda G. Busi — E. Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995. Per un approccio agile e schematico si veda anche G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999. ↩︎

  9. SR, p. 164. ↩︎

  10. Ivi, p. 161. ↩︎

  11. Ivi, p. 165. La parola matrice della creazione, quella che risuona ad eco di ogni opera compiuta da Dio — è cosa buona — nella creazione di Adam sembra appositamente rafforzata: l’uomo è, infatti, cosa molto buona; e, per Rosenzweig, è come se questo «molto» decreti l’inizio di «una transcreazione entro la creazione stessa». Ibidem. ↩︎

  12. Genesi, 1, 26. ↩︎

  13. Genesi, 2, 19-20 (corsivo mio). ↩︎

  14. SR, p. 134. ↩︎

  15. Ivi, p. 163. ↩︎

  16. Ivi, p. 143. ↩︎

  17. Ivi, p. 164. ↩︎

  18. Genesi (3, 16-19). Quella che ho indicato come la dimensione del labor, costante costitutiva dell’essere creaturato, è il tema centrale della «maledizione» pronunciata da JHWH nei confronti del peccare stesso di Adam: «[…] maledetta sia la terra per causa tua. Con fatica ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi ti germoglierà e tu mangerai l’erba dei campi» (3, 17-18). Anche la dimensione del patior è faccia integrante della vita umana; così JHWH si rivolge ad Eva: «Moltiplicherò i tuoi travagli e le doglie delle tue gravidanze, nella sofferenza partorirai figlioli […]» (3, 16). In relazione al lavoro dell’uomo ed alla sua sofferenza resta incisa a chiare lettere anche la dimensione dello Shabbàt; ovvero non soltanto la dimensione della festa, ma principalmente del riposo comune di JHWH e dell’uomo, poiché Dio stesso «[…] nel settimo giorno si riposò da ogni sua opera intrapresa e benedì il settimo giorno e lo rese sacro, perché in esso si era riposato da ogni sua opera […]» (2, 2-3). Infine, quella che ho indicato come ultima dimensione costitutiva della creaturalità, ovvero la morte come risultato della scelta e della peccaminosità dell’uomo — ovvero come la fine stessa della Creazione — è a chiare lettere testimoniata nel Genesi: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: infatti sei polvere e in polvere ritornerai» (3, 19). ↩︎

  19. Per maggiore intellezione preferiamo avvalerci dell’intero passaggio rosenzweighiano: «Per l’ultima volta Dio guarda ciò che ha creato. E questa volta: ecco, è “molto buono”. La parola-matrice esce da se stessa. Resta un aggettivo, rimane nell’ambito della propria essenza, ma cessa di designare la semplice qualità, singola, incomparabile: esprime gradazione, paragona. All’interno dell’universale “sì” della creazione […] si delimita un ambito cui si assente diversamente, cui si assente “molto”, cioè, a differenza da tutto il resto, qualcosa che è nella creazione e tuttavia rimanda al di là della creazione. Questo “molto” che annuncia una transcreazione entro la creazione stessa, un ultraterreno entro la dimensione terrena, qualcosa di altro dalla vita che tuttavia appartiene alla vita e solo alla vita, qualcosa che è stato creato insieme alla vita come il suo estremo e che tuttavia le fa presagire un compimento solo oltre la vita stessa: questo qualcosa è la morte». SR, p. 165. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. «La morte, vincitrice di ogni cosa, e l’Orco, che gelosamente trattiene nelle sue mani quanto è trapassato, sprofondano davanti alla sua forza [dell’amore] e all’intensità del suo ardore». Ivi, p. 217. ↩︎

  22. Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno in Fuori dal Soggetto, Marietti, Genova, 1992, p. 60. Ma anche Id, «Fra due mondi» (La via di Franz Rosenzweig), in Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, La Scuola, Brescia 1996, pp. 93-119. In particolare: «Non v’è presente se non perché v’è rivelazione», Ivi, p. 107. ↩︎

  23. SR, p. 175. «“Dio ama” non vuol dire che l’amore inerisce a lui come un attributo; […] amore non è una forma fondamentale, stabile, immutabile, nel suo volto, non è la maschera rigida che il modellatore ricava con il gesso dal volto del morto, bensì il gioco fuggevole, inesauribile dell’espressione del volto, il guizzo luminoso, sempre giovane, che percorre i lineamenti eterni. L’amore ricusa di farsi un’effigie dell’amante, l’effigie farebbe sì che il volto vivo si irrigidisse in un viso morto. “Dio ama” è il più puro presente: l’amore stesso non sa se mai amerà, anzi neppure sa se hai amato. Gli è sufficiente sapere una cosa sola: che ama». Ivi, p. 175. ↩︎

  24. Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno, in op. cit., p. 60. Ma anche Id, «Fra due mondi» (La via di Franz Rosenzweig) in op. cit., pp. 93-119. In particolare: «L’amore di Dio per l’ipseità è, ipso facto, un comando d’amore. Rosenzweig pensa che si possa comandare l’amore: l’amore si comanda, contrariamente a ciò che pensava Kant. Si può comandare l’amore, ma è l’amore che lo comanda, e lo comanda nella “attualità” del suo amore». Ivi, p. 106. Identica lettura del rapporto tra amore e comandamento anche nello scritto Amare la Torah più di Dio presente solo nell’edizione francese di Difficile liberté. Essais sur le judaisme, Albin Michel, Parigi 19631 e 19952. Di questo scritto si trova una traduzione italiana come postfazione al monologo di Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997. L’amore per la Legge è, per Levinas, la più alta forma di aderenza all’etica del precetto; la Mitzwah comanda l’amore poiché Dio ha comandato all’uomo di corrispondere, sempre, amore all’amore che gli si rivela ed impone come Legge. ↩︎

  25. Cfr. E. Levinas, Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno, in op. cit., p. 61. Anche la Storia dell’ebraismo di Caquot, Gugenheim e Sestieri inquadra in tal senso il significato dell’inveramento della legge: «[Rosenzweig], dentro una posizione esistenzialista sostiene che le leggi della Torah sono comandamenti da compiere in quanto diventano comprensibili nell’esperienza del compimento. Secondo Rosenzweig non esiste un precetto (Mitzwah) che “non mi parla”, perché “mi” parlerà nell’esperienza del compimento». Cfr. Caquot — Gugenheim — Sestieri, Storia dell’ebraismo, Mondadori, Milano 1994, p. 249. ↩︎

  26. SR, pp. 175-176. ↩︎

  27. Cfr. F. Rosenzweig, Cellula originaria de «La stella della redenzione», ovvero lettera a Rudolf Ehrenberg del 18.XI.1917 in La Scrittura, saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, p. 241. ↩︎

  28. SR, p. 178. ↩︎

  29. Cfr. A. Silesius, Il Pellegrino cherubino, a cura e tr. it. di G. Fozzer e M. Vannini, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989, I, 8. È disponibile anche un’edizione dei primi due libri de Il Pellegrino cherubino, sempre curata e tradotta da G. Fozzer e M. Tannini, dal titolo Il silenzio felice, Mondadori, Milano 1997, p. 42. Per una esposizione complessiva della mistica di Silesius si veda M. Vannini, Introduzione a Silesius, Cardini, Firenze 1992, in particolare il cap. III, pp. 63 ss. ↩︎

  30. Deuteronomio (6, 5). ↩︎

  31. Cfr. M. Buber, L’eclissi di Dio, Edizioni di Comunità, Milano 1961, in particolare il saggio «L’amore per Dio e l’idea di Dio» in esso contenuto. ↩︎

  32. La promessa, si badi, può solo inverarsi, ovvero farsi vera, non già compiersi, esaurirsi, né tantomeno essere nella storia secondo la logica cronologica della storia stessa. La promessa inverata, fattasi verità, s’esprime — nella storia — soltanto come utopia, come erranza, come nomadismo della radice, e non come radicamento del «sé», o come fatto. Allo stesso modo la preghiera comunitaria per l’avvento del Regno è priva della particolarità tipica della supplica: la preghiera del popolo, il coro che «forza» la venuta del regno, è piuttosto una profezia, un’anticipazione, del tutto svincolata da qualunque contenuto finito e particolare. ↩︎

  33. SR, p. 201. ↩︎

  34. Ivi, p. 256. ↩︎

  35. Levitico (19, 18). Di questa legge, secondo quanto Matteo riferisce della predicazione di Cristo, non sarà spostato neppure uno iota: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti, non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della Legge neppure uno iota o un segno, fino a quando tutto sarà compiuto». Matteo (5, 27 ss). ↩︎

  36. SR, p. 14. ↩︎

  37. Ivi, p. 235. ↩︎

  38. Ivi, p. 236. ↩︎

  39. Cfr. E. Levinas, Franz Rosenweig: un pensiero ebraico moderno in op. cit., p. 61. ↩︎

  40. Problematica la lettura di Cacciari sulla proposta rosenzweighiana di una dimensione corale del «noi»: «Il “Noi” non riproduce semplicemente né l’individuo, né il Singolo. Il “Noi”, che conclude la festa, ri-crea. Neppure si tratta di mero compimento della creazione. È vero che il mondo non è compiuto prima del tempo della redenzione che quest’attimo “anticipa”. Ma il rapporto tra questa vita e quel compimento non va inteso come lineare sviluppo-progresso». Cfr. M. Cacciari, Errante radice, op. cit., p. 40. ↩︎

  41. SR, p. 340. La disamina di Sergio Quinzio su uno dei Leitmotiv dello Judesein, la linearità della concezione dello spazio e del tempo: «Come il tempo pagano, così anche lo spazio pagano è circolare, va da Itaca a Itaca richiudendosi su se stesso: sono il tempo e lo spazio dell’eterno ritorno, in cui nulla di realmente nuovo può accadere. Viceversa, come il tempo ebraico, così anche lo spazio ebraico è lineare, va dalla terra di schiavitù verso la terra della promessa: sono lo spazio e il tempo del continuo andare, realmente aperto a ogni imprevedibile rischio». Cfr. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adeplphi, Milano, 1990, p. 51. ↩︎

  42. SR, p. 295. ↩︎