Alterità, coscienza del tempo e soggettività in Husserl

1. Il tempo, promessa dell’alterità

Nicolas de Warren, uno dei più noti fenomenologi contemporanei, attivo da anni anche nella ricerca fenomenologica svolta in Italia e attualmente professore alla Pennsylvania State University, ha scritto un saggio1 che si presenta come uno dei più originali, creativi e profondi lavori sui temi husserliani cruciali, alter-ego, tempo, coscienza assoluta del tempo e soggettività, in cui i primi due convergono come nel luogo della costituzione radicale di quest’ultima. Il libro (nonostante la traduzione italiana non sia sempre perfetta, come se l’italiano stesso non fosse del tutto padroneggiato dal traduttore) merita di essere letto, seguito e «ripetuto» con attenzione. È quello che mi propongo di fare quando parlo di una operazione di «ripetizione» delle tesi de Warren: capire il meglio possibile la tesi fondamentale del libro, senza decidere di sottoporla a critica o di modificare l’assetto ermeneutico di base del lavoro, ossia pensare, con il libro e grazie ad esso, in maniera fenomenologicamente adeguata secondo il suggerimento implicito ma costante dell’autore, lo svolgimento spesso complesso di un’argomentazione rigorosamente fenomenologica e altrettanto nettamente antimetafisica che merita di essere «ripetuta». Essa ruota sulla «interpretazione» di una nozione, il tempo, che nella fenomenologia husserliana viene «promesso», ossia costituito in quanto appunto «promesso», non immediatamente presentato, secondo una modalità di esibizione correttamente attribuita a Husserl che tuttavia non ha trova nella letteratura il rilievo e forse neanche la denominazione che le spetta. Tale progetto di comprensione ricostruita ed esibita del libro, che chi scrive spera di poter realizzare, circoscrive limiti e finalità del proprio lavoro. Quest’ultimo, mentre avverte di poter ricavare essenziali stimoli di pensiero dall’idea che il tempo venga appunto «promesso», senza che la promessa risenta in sé in alcun modo della eco di un qualche significato di tipo psicologico, etico o futurologico, ma funzioni piuttosto come espressione dello scarto o della differenza ritenzionale–protenzionale che fa del tempo (visto dallo sguardo dell’ego originario ossia dalla coscienza assoluta che è tempo e si sa come tempo costituito quale presenza costantemente rinnovantesi nel punto mobile di svolta dell’«ora»), l’autentico tempo fenomenologico, si arrende tuttavia alla competenza testuale di de Warren e non pretende di sfidarla. Ne consegue che, dopo aver circoscritto la propria attenzione ai capitoli centrali, del libro, dal quarto al settimo compresi (La ritenzione del tempo passato, Il puzzle impossibile, Le vite degli altri, La vita della coscienza), la «ripetizione» del libro, come ho deciso di chiamarla, si manterrà strettamente nei limiti delle fonti testuali utilizzate e anche delle citazioni che ne vengono fatte. Non approfondirò le pur importanti pagine2 intitolate Nota sulle fonti testuali e relative al tema della coscienza del tempo, cui vanno aggiunte le Meditazioni cartesiane e le Lezioni sulla sintesi passiva, non citate nella Nota perché non presentano i problemi della stesura, elaborazione, rielaborazione e sintesi dei testi sul tempo sfocianti nell’edizione heideggeriana del 1928. Questa limitazione ha lo scopo di realizzare il massimo di concentrazione teoretico-ermeneutica consentita dalla mia ripetizione – modello o paradigma non ovvio di come possa essere letto un libro come questo, sintesi fortunata di acribia testuale e di creatività nell’uso dei testi. Sia consentita invece una considerazione ulteriore di carattere introduttivo. Tornerò più dettagliatamente sul punto che ora anticipo riassuntivamente, senza appesantire lo scritto con richiami frequenti alle pagine del libro, secondo un metodo che mi pare seguito dallo stesso de Warren e che salvaguarda la compattezza dell’argomentazione. Una lettura diretta del libro resta ovviamente a disposizione di chi intenda seguire, e verificare più puntualmente di quanto possa chi scrive fare in questa sede, il rinvio dell’interpretazione ai testi husserliani, spesso citati brevemente, più spesso riassunti e già risolti in una analisi interpretativa.

Ogni studioso serio delle fenomenologia husserliana conosce e riconosce ogni volta che torna ad incontrarla la grande difficoltà di comprendere il senso fenomenologico dell’alter-ego di cui Husserl tratta nella Quinta delle Meditazioni cartesiane. Si tratta di una elaborazione del problema che intrattiene, come de Warren mostra bene (questo è appunto il tema, questa la novità ermeneutica dell’analisi, della sua riflessione nel libro) una finora assai poco rilevata connessione con il tema del tempo, da cui emerge tanto che l’alter-ego è strutturato come il tempo, tanto che è esso stesso declinazione del tempo e dunque modo fenomenologico del tempo e della sua fisionomia intrinsecamente alterata, fratturata e insieme connessa, connessa esattamente perché alterata, segnata da una differenza. Non sto parlando, si badi, di una analogia, di un parallelismo tra struttura fenomenologica dell’alter-ego e struttura della coscienza interna del tempo. Una simile strumentazione logica – quella basata sul rinvio analogico tra alterità dell’alter-ego e strutturazione ritenzionalmente alterata del tempo – manca in Husserl, sebbene vi si alluda come ad una possibile maniera di comprendere il rinvio dell’ego «primordinale» esito della riduzione al «proprio», all’altro ego, che gli sta di fronte sebbene comunque distante da lui. Ma essa manca anche in de Warren che non si contenta né dell’analogia, né della pure importante «empatia» affinchè abbia luogo e riesca la copertura con l’alterità dell’alter-ego dello spazio che si apre oltre l’ego primordinale e il suo «proprio». È il tempo, piuttosto, che entra, con la struttura che ci accingiamo ad esibire e a cui abbiamo fatto cenno, esattamente a coprire per via ermeneutica ciò di cui l’analogia e il rapporto empatico tra ego ed alter-ego sono semmai l’esito, ma certamente non la base e la precondizione della comprensione stessa. È facile intendere infatti che se la fenomenologia è il procedimento della costituzione dell’alter-ego, come di ogni fenomeno, e non del suo rinvenimento empirico, non della sua dissoluzione nella vita della soggettività dello spirito, come accade ad esempio nel neoidealismo italiano, nè della sua descrizione oggettiva, l’analogia di cui parliamo presuppone che un alter-ego analogico all’ego si dia già come suo altro analogico e non sia dunque costituibile e costituito per via analogica. È di tale entrata del tempo, della coscienza del tempo e del tempo come coscienza quale strumento fenomenologico capace di dare «corpo fenomenologico» all’alter-ego costituendolo che dovremo parlare sulla scorta di de Warren, al quale si deve appunto la scoperta che tale costituzione comporta la radicale internità della struttura della coscienza del tempo e anzitutto della sua ritenzionalità nella determinazione dell’alter: dunque, nessuna relazione analogica sussiste tra i due fenomeni, tale che il tempo possa fungere da strumento teoretico o epistemico esplicativo dell’alterità dei soggetti diversi dall’io. Vi è invece qualcosa che si potrebbe definire come una sorta di apertura dell’alter-ego che si incontra, nel luogo centrale in cui l’apertura si rende visibile, ossia disponibile, con una differenza di cui solo la coscienza del tempo offre il modello, e ciò per il motivo che essa ne è non un esterno archetipo, ma la sola ed unica anima fenomenologica, quella che dice, nel linguaggio fenomenologicamente articolato del tempo, ciò che l’alter-ego è: e questo, non grazie ad un passaggio o a una traduzione di linguaggi da un fenomeno all’altro, ma perché piuttosto l’alter-ego è tempo, ossia contiene la differenza della coscienza del tempo che lo costituisce.

Proverò ad anticipare di nuovo quel che ho osservato fin qui. Ma mi preme rilevare che l’angosciata affermazione agostiniana citata e presente all’inizio delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo del 1905 (se nessuno me lo chiede so che cosa è il tempo, mentre se mi si chiede di spiegarlo non so dirlo dato che non lo so che cosa sia il tempo) condiziona nella stessa misura la domanda sulla essenza del fenomeno dell’alter-ego. Che la condizioni vuol dire qualcosa che Husserl osserva nel corso dell’analisi dell’alter-ego e a cui de Warren dà adeguato rilievo: per molto di quello che diciamo sul fenomeno dell’alter-ego (ed esempio ed essenzialmente: come si configura la presentazione per me ma non in me né nella mia coscienza, di quella che è in effetti la presentificazione di una assenza) mancano le parole. Tale avvicinamento di fenomeni non immediatamente sovrapponibili (la coscienza del tempo e l’alter-ego) si produce in virtù dell’intrinsecità delle due domande l’una rispetto all’altra, e non invece perché esse siano estrinsecamente, oggettivamente simili o analoghe e qui empiricamente avvicinabili. Il tempo husserliano, ossia la nozione del tempo che è a tutti gli effetti il fenomeno del tempo, il tempo come fenomeno, non è pensabile come qualcosa di dato ma piuttosto come qualcosa di «promesso», il che vuol dire che la sua datità, ossia niente altro che la sua costituzione, possiede l’aspetto di una datità costitutivamente promessa, in certo senso in bilico o in transito, in quanto «ora» sempre rinnovantesi, tra il passato ritenzionale e il non ancora protenzionale. D’altra parte, l’alter-ego delle Meditazioni cartesiane si manifesta come la «presentificazione» (dunque come la non presenza e la non presentazione, né nell’ora né nello spazio primordinale dell’ego) di una «assenza». Quello che stringe intrinsecamente l’uno all’altro il tempo e l’altro, come alter-ego dell’ego, in un modo che rende fenomenologicamente visibile e dicibile l’alter-ego è la circostanza, su cui insistiamo perché rappresenta il centro motore del libro, che la struttura del tempo coincide con la struttura (temporale) dell’alter-ego stesso. Ciò che, come si comprende, comincia a gettare luce sul dato fenomenologico che il tempo sia promesso, ossia protenzionalmente atteso sulla base dinamica del sua radicamento ritenzionale, così come promessa, attesa e fenomenologicamente virtuale, è l’assenza dell’altro, promesso e atteso quale fenomeno non della coscienza o dell’ego, ma appunto ‘solo’ per l’ego.

Abbiamo evocato una sorta di frattura connessa quale struttura portante della soggettività fenomenologica e ne abbiamo indicato la presenza nel tempo e nell’altro. Nel caso del tempo come «promessa» abbiamo osservato con de Warren che tempo promesso significa tempo atteso e anticipato lungo la sua linea orizzontale o longitudinale rinviante al diagramma husserliano, ma abbiamo anche detto che attesa e promessa del tempo, se intendono ‘avvolgersi’ attorno al taglio o alla scansione di un «ora» sempre rinnovantesi devono vivere, radicandovisi, nella fisionomia ritenzionale del non-ora che abbandona, sfugge via dall’ora, il quale tuttavia ne viene mantenuto, ritenuto. Per questo motivo lo accreditiamo di una vita intenzionale che lo distingue dal mero ricordo: accade così che il non-ora, il non-più-ora venga presentificato, ossia fatto presente non essendo presente come l’ora che ha abbandonato, nella presentazione dell’«ora» sempre nuovo, alterato e mantenuto o ritenuto nella ritenzione. È questo che vieta di pensare la nozione del tempo fenomenologico come esprimibile nella immagine metafisico-naturalistica del «flusso» continuo. Non si comprende infatti come il tempo possa essere concepito quale flusso di fasi, senza cancellare la circostanza che il tempo è tanto coscienza assolutamente costituente il tempo stesso quanto coscienza del tempo costituito: una circostanza che, per quanto rinvii al «puzzle impossibile» trattato da de Warren nel quinto capitolo, implica comunque che una coscienza costituisca il tempo, non lo ‘trovi’ come un flusso e mantenga quindi fisionomia fenomenologica tanto all’«ora» della presenza sempre nuova, quanto allo sfuggimento ritenzionale, quanto, ancora, all’anticipazione protenzionale, che non sono fasi di un flusso ma gli elementi della struttura dinamica costituente-costituita della coscienza del tempo. La nozione di flusso deve almeno mutare fisionomia e senso.

Nel caso dell’alter-ego tale frattura è esattamente ciò cui dà accesso la coscienza primordinale che lascia fuori di sé, lascia residuare l’altro come assenza, una sorta del ‘mancare alla presenza’ che modifica, deforma e condiziona la coscienza come io, che è per lei ma non in lei. Che l’alter-ego sia un altro ego, ma sfugga alla dinamica oggettivante dell’intenzionalità costituente il suo oggetto e per questo motivo, abbiano appena osservato, non sia fenomeno appartenente all’ego che in esso incontra il suo-non suo altro lasciandosi deformare nella propria solitudine solipsisitica, è quello che ci si chiede di intendere. Per questo ci pare che l’immagine di una frattura connettente che prende le mosse dalla chiusura dell’ego nella «propria» primordinalità sembra rendere conto tanto della fisionomia fenomenologica dell’alter-ego, quanto della continuità spezzata che, escludendo il flusso, esprime la temporalità della coscienza interna del tempo. Ribadiamo che le due fratture che abbiamo delineato riferendole rispettivamente all’alter-ego e al tempo sono in realtà una sola frattura, dato che la struttura alterata dell’alter-ego (se così ci si può esprimere, ma è lecito avanzare qualche dubbio) è costituita della stessa materia fenomenologica della coscienza interna del tempo. Si potrebbe consolidare questa tesi osservando che se la coscienza come ego è in sé tempo, e dunque la «coscienza interna del tempo» non fa del tempo un oggetto della coscienza, e dunque se ciò di cui parliamo è la struttura stessa della soggettività, lo spazio fenomenologico dell’altro non può che inscriversi all’interno di tale struttura. E dunque, non vi è una possibilità del darsi dell’alter-ego, diversa da quella che discende da tale originaria iscrizione.

Il tempo come «promessa» fenomenologica è il tempo che si dona come esito di una comprensione di una forma originaria di autotrascendenza temporale. Il tempo è dunque autotrascendenza di sé come tempo ed è relativo alla coscienza costituente il tempo stesso. La coscienza costituente il tempo accade come assoluta soggettività entro cui si apre, costituendosi, la differenza tra soggettività e oggettività (si noti che qui cito o parafraso senza una costante specificazione di pagine il testo di de Warren e i testi husserliani da lui richiamati), Per tutto, questo scrive Husserl, «mancano i nomi»,3 i quali ci riporterebbero alla lingua della metafisica, così come mancano per la determinazione dell’alter-ego che non può né costituirsi in me senza perdere la propria alterità, né abbassarsi all’empiria non fenomenologica, non ridotta, dell’altro empirico. Ma perché, ci siamo già chiesto, la differenza fenomenologica interna alla coscienza assoluta costituente il tempo e (d’altra parte) essenziale per esibire, grazie alla incarnazione della soggettività pre-oggettiva, pre-data e pre-teoretica nel mio corpo proprio (per cui l’altro è per me ma non è in me, è un me che non è me) viene, secondo de Warren, «promessa»? Abbiamo delineato già una prima risposta, che ribadiamo: perché tempo e altro si collocano nel punto della frattura connessa (e non istituiscono quindi una semplice rottura differenziante), che, entro la coscienza assoluta del tempo, e come sua forma essenziale, stabilisce e realizza il ruolo della differenziazione, tra soggettività e oggettività, tra passato e futuro, tra ritenzione e protenzione. Ciò fa sì che il tempo e l’alterità dell’alter-ego siano tenuti come una acquisizione sempre promessa e sempre di nuovo cercata nella faglia che unisce e separa la coscienza assoluta del tempo.

Si può aggiungere qualcosa che radicalizza il senso di ciò che può essere il fenomenologicamente (non psicologicamente, non eticamente) promesso ma non posseduto con il nome metafisico di «flusso». Nel caso dell’alter-ego la riduzione originaria che apre il campo fenomenologico diviene riduzione primordinale a ciò che è mio proprio, che è il mio ‘qui’ corporeo vivente, rispetto a cui si colloca il ‘là’.Presso questo ‘la’ io sono con il mio ‘qui’, ma in questo ‘qui’ che è ‘là’ vive l’auto-differenziazione dell’ego dall’alter-ego: un’autodifferenziazione che non trova e non aggiunge naturalisticamente un altro all’ego, ma gli promette, anticipandola, l’apertura metafisicamente innominabile di un ‘non-me’, nel senso del ‘per me’, e nella forma di una ‘non costituzione’ di una pre-datità pre-oggettiva. Qual è allora il punto cruciale?4 Nell’ambito del penultimo capitolo (Le vite degli altri), il paragrafo Fra noi ci dice che la datità dell’altro in quanto alter-ego si presenta «nei limiti della coscienza co-presentante». Esso «ha la forma della doppia costituzione», grazie al fatto che solo tale duplicità consente di evitare che la «presentazione» si risolva nell’atto di costituzione singolo della coscienza intenzionale, in assenza di ogni intenzione o co-intenzione differenziante. Ne consegue che «la costituzione dell’altro esibisce una somiglianza formale con vari atti di Vergegenwärtigung» («presentificazione»), giacchè… il ricordo, l’immaginazione e la coscienza di immagine rappresentano ciascuna un tipo particolare di doppia coscienza».5 De Warren osserva che «esiste una significativa differenza tra ‘co-presentazione’ (Mitgegenwärtigung) e presentificazione (Vergegenwärtigung): quest’ultima si struttura nell’interazione di intenzioni vuote e riempite. Nel caso della ‘co-presentazione’ invece l’intenzionalità dell’altro si fonda in modo singolare sull’impossibilità strutturale di un qualsiasi riempimento intuitivo dell’ ‘oggetto’ intenzionato. Il senso in cui l’altro è intenzionato elimina la possibilità di un riempimento all’interno dell’immanenza del suo orientamento costitutivo proprio». Come mi viene dunque dato l’altro, in assenza della possibilità del riempimento intuitivo? «L’altro mi è dato come impossibilità di darsi nel modo in cui egli si dà a se stesso, cioè come auto-datosi in se stesso. Questa impossibilità», come accade nel caso del tempo, «… non è né una restrizione imposta dall’esterno sulle mie ambizioni costitutive, né un fallimento dall’interno del senso o della prestazione costitutiva. L’altro rimane una promessa di datità – di presenza – per la quale mi astengo da qualsiasi attesa definita o determinata». L’apprensione dell’altro, tuttavia, non può prescindere come dal suo punto di appoggio, dalla «soggiacente apprensione del corpo altrui come oggetto materiala costituito», il che non significa che la sua qualità di «promessa di datità» sia in questo modo fenomenologicamente soddisfatta. «Il corpo dell’altro, quando descritto all’interno della riduzione primordinale, appartiene alla sfera primordinale del proprio per ragioni costitutive…: la costituzione della spazialità è opera del mio corpo vivo», ciò che consente alla promessa di datità o presenza quale luogo che si apre per lei e per me, ma non in me, la collocazione in cui la spazialità stessa ospita la datità dell’altro promessa ma non determinatamente definita. Questo si vuol dire quando si afferma che «tutti gli oggetti spaziali, inclusi i corpi altrui, sono immanenti in un senso trascendente», ossia sono per me, percettivamente per me, ma insieme oltre me, e quindi che «l’apprensione dell’altro si fonda su un’esperienza percettiva (Gegenwärtigung)» che ne legittima la qualità di promessa, di attesa indeterminata derivante dalla impossibilità di un riempimento intuitivo. L’altro è percepito come corpo all’interno dell’ordine primordinale del mio corpo proprio, ma non appartiene alla sua ragione costitutiva, al suo essere un fenomeno, il suo darsi come si dà a se stesso. La mia percezione di cui come corpo è l’oggetto non viene portata a riempimento come accade all’altro assunto nel suo «autodarsi». La trascendenza nell’immanenza che connota i fenomeni i quanto costituiti si radicalizza nel caso dell’alter-ego, immanente bensì ma in un senso trascendente, perché la sua percezione come corpo, percepita, resta tuttavia data solo come promessa indeterminata.

L’altro e il tempo dunque, ripetiamo ancora, sono promesse non determinate, aperte e non teleo-logicamente definite. Si noti ancora la rivoluzione che la fenomenologia introduce nella nozione di promessa (vi abbiamo fatto cenno sopra). Ne viene meno, come letteralmente estrinseco all’orizzonte del linguaggio usato da Husserl, ogni valore di impegno morale, giuridico o politico, così come ogni obbligazione affettiva che lega il promettente a un chi che riceva la promessa. Resta il valore di intenzionalità temporale, come se si stabilisse una distanza non empirica ma trascendentale tra il promettere (senza donare ora alcunché, senza che l’altro si dia), e una datità mai compiuta come presente riempimento della promessa. In tale distanza costitutiva di una promessa di datità che non si attua determinatamente e che, per questo motivo, può essere definita «aperta», sta l’altro o, meglio questa promessa che apre a una datità non riempita è l’altro. L’altro è promessa non definita, non necessitata, di presenza. Quando prometto, allora costituisco (non in me e quindi non costituisco) l’altro. La dimensione temporale è essenziale: la promessa aperta che l’altro è, ha un carattere protenzionale. Ben si comprende in quale abisso di stravolgimento metafisico si finisca declinando l’altro non nei termini temporali che gli sono propri, ma in termini etici. L’etica dell’amore per l’altro (promesso all’altro) distrugge la distanza ossia l’assenza di presenza che l’altro è per me. Emmanuel Lévinas che distrugge l’etica dell’amore per l’altro ha intuito questo punto. Il volto come altro è non presenza a me, non disponibilità etica di ciò che, per questo motivo, può essere pensato come autenticamente altro.

2. Ritenzione del tempo passato e coscienza d’immagine

Avendo fornito una presentazione di massima del nucleo della tesi di de Warren cercherò ora di seguirne l’argomentazione, ripetendola (come ho già detto) con lo scopo programmatico di impossessarmi io stesso meglio possibile di tale nucleo. La scelta di procedere a una ‘ripetizione’ (ovviamente molto abbreviata e mirante a cogliere i punti centrali) non deriva soltanto dalla indubbia difficoltà teoretica della scrittura (tale almeno essa appare a chi scrive), ma anche e in primo luogo dalla convinzione che i testi husserliani non possano essere propriamente commentati come accade quando su di un testo ci si dispone ad intervenire con un’apposizione di chiose miranti a chiarirlo (e dio sa se proprio i testi husserliani sul tempo e sull’alter-ego non sollecitino un aiuto per dipanarne in qualche modo la difficoltà, sia che si tratti di testi pubblicati come le Meditazioni cartesiane, sia di testi come le Lezioni sulla coscienza interna del tempo, frutto di molteplici elaborazioni poi sfocianti nell’edizione heideggeriana del 1928). Ne farò cenno tra un momento. Quello che interessa ora è stabilire il punto metodologicamente significativo che il ripetere un testo critico come questo, e dunque innestare eventuali chiarimenti, chiose critiche, elaborazione di spunti problematici, eventuali dissensi nel corso della ripetizione significa disporsi nel modo migliore per capire criticamente. Questo perché, in linea generale, la comprensione critica di un testo fenomenologico che prende ad oggetto almeno tre dei temi fondamentali della sua ricerca fenomenologica (la coscienza del tempo, l’alterità dell’alter-ego, la soggettività), esige una disposizione peculiare che corrisponde essenzialmente al procedimento costantemente ‘esperiente’ del pensiero husserliano, ossia al suo non fissarsi mai in costruzioni teoretiche parziali o totali che restano in attesa di una penetrazione comprendente che ne sciolga le difficoltà. Abbiamo detto che «aperta» è la connotazione essenziale del fenomeno del tempo e dell’alter-ego. Da qui discende la centralità di nozioni come distanza, crinale separante-connettente, differenza, intrinseca dinamicità sia dell’ora sempre nuovo sia del distanziamento che come una Entfernung separa e congiunge il qui e il là del corpo proprio e del corpo altrui. Ora, quel che vogliamo dire è che tutto ciò non può essere compreso se non viene fenomenologicamente rivissuto, ossia appunto ripetuto. E che lungo questa via, se l’operazione riesce, può prendere forma una approfondimento della comprensione dei testi di Husserl mediati dalla loro lettura.

Ho già detto che tralascio di ripetere i capitoli dal primo al terzo6 per iniziare col capitolo quarto dedicato a La ritenzione del tempo passato. Ma non posso far mancare almeno un accenno alla Nota sulle fonti testuali, in appendice al libro.7 In assenza di un manoscritto compiuto dedicato alle lezioni sulla Fenomenologia della coscienza interna del tempo, si deve supporre che la composizione delle lezioni sia il frutto della raccolta da parte di Husserl di materiali ed appunti precedenti. Dopo il 1905 questi e nuovi materiali furono da Husserl incorporati nel faldone dal titolo Zeitbewusstsein. Affidando questo materiale nel 1917 ad Edith Stein, Husserl si proponeva di ottenere con l’aiuto dei suoi assistenti un testo da pubblicare come esito di un lavoro collettivo di ricerca che assolvesse al compito di «individuare i dettagli complicati delle disamine fenomenologiche». Il faldone di manoscritti affidati alla Stein nel 1917 era in condizioni «caotiche». La Stein si ripromise di mantenere la struttura di pensiero delle lezioni del 1905 integrandole con le continue revisioni di Husserl. Nel 1928 Martin Heidegger decide la pubblicazione, dopo il suo Sein un Zeit, sullo Jahrbuch, della rielaborazione della Stein, ma resta in dubbio «fino a che punto la versione di Edith Stein sia o non sia fedele espressione della pubblicazione immaginata da Husserl…data la relazione di lavoro molto stretta tra i due e l’assenza di un ‘testo originario’… per le lezioni del 1905 con cui paragonare l’edizione del 1928». In realtà quest’ultima è, secondo Rudolf Boehm, «solo in minima parte basata sui manoscritti stesi per le lezioni del 1905. Il testo del Stein è basato principalmente su testi scritti durate gli anni 1907-1911…Piuttosto che una fedele ricostruzione delle lezioni di Husserl del 1905, l’edizione del 1928 rappresenta l’amalgama del pensiero di Husserl nel periodo che va dal 1905 al 1917, durante il quale l’analisi della coscienza del tempo si sottopose e notevoli cambiamenti». Ne derivano problemi seri tanto in merito alla sostanza quanto in merito all’evoluzione storica del pensiero husserliano, soprattutto perché, incapace di «rappresentare accuratamente le originarie lezioni del 1905, l’edizione del 1928 ‘maschera’, in realtà, lo sviluppo del pensiero di Husserl durante il decisivo periodo dal 1905 al 1911, comprimendo insieme testi provenienti da diversi stadi dell’evoluzione di questo pensiero». È allora evidente (e ciò in questa sede ci preme rilevare) che il lavoro di de Warren si sottrae ai rischi della lettura di un semplice «amalgama» e «mascheratura» del pensiero husserliano dal 1905 al 1917, solo utilizzando i materiali dell’Appendice di Husserliana X. L’edizione del 1928 in se stessa, senza questi materiali, «è … una fonte insufficiente per capire l’analisi di Husserl, giacchè parti sostanziali di quell’analisi sono contenute in manoscritti che erano stati esclusi, o inclusi solo parzialmente, nell’edizione del 1928». L’importanza assegnata al riordino dei manoscritti sul tempo da parte di Rudolf Boehm costituisce dunque l’avvertenza metodologica essenziale per la lettura del suo libro. Il lettore che si serve della traduzione italiana delle lezioni Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di A. Marini, Franco Angeli, Milano 1981, che traspone in italiano Husserliana X ha dunque a disposizione per il proprio lavoro di verifica e di controllo dei testi tanto il testo originale quanto la versione italiana.

Nell’affrontare nel quarto capitolo l’analisi husserliana della «ritenzione del tempo passato», de Warren affronta, utilizzando soprattutto Hua X il tema della «de-presentazione» e della «datità dell’assenza», centrali nell’analisi della coscienza del tempo, ma essenziali anche nelle analisi del ricordo, dell’immaginazione e della coscienza d’immagine. In questi casi, un oggetto viene appreso come «assente», che si tratti dell’assenza di ciò che è stato, bensì, ma in passato o invece di ciò che è presente in forma di immagine. Indagando immaginazione e memoria si rende chiaro per Husserl la nozione di «doppia coscienza» o di «doppia intenzionalità». Essa gioca un ruolo essenziale per le definizione della Vergegenwärtigung, la «presentificazione» che offre la datità di ciò che non è presente e che dunque richiede insieme l’intenzionalità di ciò che viene dato e l’intenzionalità della non-presenza, intrinseca alla prima al punto di formare una coscienza o una intenzionalità del tutto peculiare, unitariamente doppia. Alla luce della constatazione strategica per de Warren, che anche nella costituzione dell’alter-ego opera una doppia coscienza (quella costitutiva dell’ego primordinale e quella connessa alla prima che costituisce non in me ma per me, tramite il passaggio per il mio corpo proprio, l’altro corpo che si colloca nel là dove si ‘sposta’ il mio ‘qui’), «Husserl è condotto a mettere a fuoco la doppia intenzionalità di ciò che ora chiama ‘coscienza ritenzionale… La nozione di coscienza ritenzionale a sua volta, offre uno spunto per risolvere il problema del regresso infinito connesso all’idea di una coscienza assoluta che costituisce il tempo».8 Mentre infatti la coscienza assoluta costituente il tempo rinvia all’infinto alle proprie spalle, dove trova una sempre ulteriore coscienza costituente, con il tempo che funge da strumento del rinvio all’infinito della coscienza dietro di sé, e quindi la coscienza definita assoluta si rivela piuttosto aporeticamente infinita e dunque non assoluta, la coscienza ritenzionale che apre nell’assolutezza della coscienza del tempo lo spazio e la funzione della propria alterità (espressiva della differenza del ‘non ora’ nell’’ora’ in cui il primo viene presentificato), mentre spezza tale rinvio esibisce la funzione essenziale della differenza. Quest’ultima infatti appare a de Warren l’elemento concettuale fondamentale tanto della coscienza d’immagine quanto della coscienza ritenzionale, che svolge un ruolo essenziale nella distinzione tra immagine, immaginazione e percezione, quanto infine della costituzione dell’alter-ego. I tre fenomeni (coscienza ritenzionale, coscienza d’immagine e costituzione dell’alter-ego) sono intrinsecamente legati l’uno all’altro attraverso la funzione della presentificazione, il rendersi presente di una assenza, che, resa presente, resta un’assenza: presentificata, non presentata e quindi non percepita. Si tratta, come si è detto, del cuore della lettura di Husserl da parte de Warren.

Diviene essenziale, in questo contesto intrinsecamente temporalizzato e temporalizzante, comprendere la coscienza di immagine, poiché in essa è cruciale la temporalizzazione del tempo e il ruolo che vi gioca la differenza della coscienza ritenzionale. Ma ancora una osservazione si può fare per comprendere la ragione del rinvio regressivo all’infinito della coscienza assoluta del tempo e della necessità che una differenza nel tempo, collocantesi nel punto di svolta in cui cade l’’ora’ sempre nuovo, annulli il ‘destino hegeliano’ di un assoluto trasformato in un «cattivo infinito». Sembra infatti che nella coscienza assoluta costituente il tempo, l’assolutezza della costituzione venga sopraffatta dal tempo che ne è l’oggetto intenzionale, con il risultato che quella assolutezza si rovescia in rinvio temporale regressivo, che sottrae alla coscienza la sua assolutezza costituente facendola precedere all’infinito da quel tempo antecedente (e successivo) che essa era destinata a tener fermo come oggetto intenzionale. È dunque la triplice intenzionalità dell’ora, della ritenzione e della protezione che si ‘avvolgono’ intorno all’ora quel che inibisce il regresso infinito della coscienza assoluta del tempo.

Che cosa è la coscienza di immagine? È nella elaborazione della domanda e nella risposta alla domanda (svolta commentando essenzialmente le pagine di Hua XXIII, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, ampiamente utilizzate da chi scrive nel saggio Fenomenologia e poesia, citato sopra) che incontriamo il punto per de Warren, e per noi, essenziale perché ci conduce nel cuore dell’alterità: «La coscienza d’immagine è una coscienza di alterità (Bewusstsein des Anderssein) basata su un conflitto (Widerstreitsbewusstsein) e su un’ raddoppiamento di coscienza’ (Verdoppelung des Bewusstseins) attraverso una modificazione temporale della coscienza e del suo oggetto intenzionale».9 Ma come si giunge a questo punto? Anzitutto tenendo fermo che «la coscienza di immagine richiede l’apprensione di questa immagine-cosa in quanto immagine», ossia avendo ben chiaro che l’immagine che apprendiamo, è una cosa bensì,ma in quanto la cosa che supporta un’immagine è un’immagine, lasciando per così dire la cosa dell’immagine-cosa da un lato rispetto al fatto che quel che apprendiamo come cosa è in realtà un’immagine la cui qualità di cosa non viene più in rilievo. Si rifletta sul senso fenomenologico radicale letteralmente inaudito con cui si esprime la circostanza che l’immagine- cosa va appresa, anzi costituita, nella coscienza di immagine in quanto immagine. È questo «in quanto», su cui ha richiamato l’attenzione lo Heidegger fenomenologo di Essere e tempo, a portare in sé la funzione fenomenologico-ermeneutica. Ma nell’«in quanto» fenomenologico-ermeneutico che realizza propriamente la coscienza di immagine è altresì presente un analogon della differenza tra separa e congiunge ego ed alter-ego: l’immagine è costituita in quanto coscienza di immagine nell’ambito della differenza con l’immagine cosa, così come l’alter-ego è costituito in quanto coscienza dell’alter-ego stesso in virtù della differenza rispetto all’ego, una differenza, si badi, che non procede ad accostare per distinguerli due oggetti, ma li costituisce originariamente come coscienza intenzionale del differenziare quel che nell’ambito dell’intenzionalità differenziante diventa rispettivamente il fenomeno alter-ego e il fenomeno immagine. Non è piccolo merito di de Warren l’aver aperto la via alla comprensione di questo punto, vero nodo cruciale del suo libro, come già detto. A cui si può aggiungere che quello che propriamente viene reso visibile è la circostanza essenziale che dietro la «de-temporalizzazione»10 dell’oggetto-immagine che rende disponibile l’immagine (oggetto immagine detemporalizzato, sottratto alla presenza attuale) agisce l’operazione fenomenologica fondamentale, quella denaturalizzazione che senza cancellare il ruolo della percezione per il coglimento della cosa, è la espressione basilare della de-oggettivazione fenomenologica. Anche il coglimento dell’immagine cosa è un atto fenomenologico costituente, che non si risolve nel naturalismo di una esperienza oggettivo-naturale, ma il coglimento dell’immagine si differenza da esso in quanto atto fenomenologico costituente, nella differenza, in quanto differenza, l’immagine, ossia attuante la coscienza di immagine.

La coscienza di immagine dunque «è una doppia apprensione: vedere un soggetto dell’immagine raffigurato all’interno dell’oggetto-immagine» (guardo un’immagine, ma percepisco l’oggetto percettivo, la cosa, in quanto immagine, ciò che ne fa appunto l’oggetto-immagine che è a sua volta l’immagine impercepibile e inconfutabile, puramente immaginaria, di qualcosa, ossia il soggetto dell’immagine) «è un’esperienza che si basa, pur differendo da essa, sull’esperienza di vedere un’immagine–cosa in quanto oggetto-immagine».11 L’oggetto-immagine, è ciò per cui un oggetto è un’immagine, che non è né percettivo né separato dal dato percettivo, come accade al soggetto dell’immagine, un albero raffigurato ad esempio, puramente immaginario, mai reale nè percepibile. Quindi non è visibile né invisibile del tutto, essendo «situato a cavallo tra la visibilità dell’immagine-cosa e la invisibilità puramente spirituale del soggetto dell’immagine. L’oggetto-immagine, si potrebbe dire, vive del suo interno differenziarsi, come una «finzione percettiva», come una «immagine-invenzione» che si distingue da una semplice «illusione», perché mantiene un carattere percettivo, anche se modificato dall’immaginazione. Come si vede, tutto si gioca lungo il filo che conduce la coscienza d’immagine e l’immagine stessa a determinarsi in una differenza rispetto all’esistenza effettiva, ciò che costituisce la sua caratteristica essenziale: quella, come è ormai chiaro, che contribuisce alla determinazione della sua collocazione nell’orizzonte dell’alterità conflittuale a fronte della presenza attuale – e che la conduce a convergere con la determinazione per differenza dell’alterità dell’alter-ego, anch’esso un fenomeno segnato dall’assenza. Seguiamo allora il percorso che conduce, nelle due pagine che qui citiamo e commentiamo, alla coscienza dell’alterità. L’immagine, scrive Husserl in Hua XIII p. 490, il volume dedicato alla fantasia e alla coscienza d’immagine (la citazione in de Warren, cit., ibidem) è «una finzione (ein Fiktum), ma non una finzione illusoria, dal momento che non si tratta –come nel caso dell’illusione – di qualcosa di concordante con se stesso che viene poi annullato dalla realtà circostante (oppure, correlativamente qualcosa di concordante che confligge con qualcos’altro di concordante».

3. Immagine e de-presentazione

L’oggetto-immagine si colloca in una posizione intermedia, all’incrocio di differenze. De Warren descrive così la sua posizione, la sua fisionomia specifica e segnala quindi il ruolo cruciale che gli viene assegnando nella propria argomentazione. «L’oggetto-immagine non viene posto come ‘qualcosa di effettivamente esistente’; il suo modo di datità viene neutralizzato dall’immaginazione (c.m.) nella misura in cui l’oggetto-immagine è data all’interno della coscienza di una ‘finzione’ o ‘invenzione’, immune e indifferente alla posizione di esistenza effettiva, e mediante la quale (finzione o invenzione) un soggetto dell’immagine viene raffigurato». Dunque un soggetto dell’immagine viene raffigurato come puramente immaginario in base alla circostanza che la datità dell’oggetto-immagine di riferimento è modificata in senso privativo dall’immaginazione che offre una raffigurazione inventata o fittizia, indifferente rispetto ad ogni posizione di esistenza. Questo è un lato della differenza in cui è preso. Ma l’altro lato della differenza ci riconduce alla circostanza che l’oggetto-immagine mantiene un carattere percettivo, sia pure modificato. È su questa modificazione che bisogna tener ferma l’attenzione poiché la «irrealtà» dell’oggetto-immagine di cui Husserl parla non si determina nel rapporto con il soggetto- immagine puramente immaginario, dato in senso «spirituale»,ma rispetto alla percezione di cui esso si può dire che partecipi purchè se ne colga la modificazione. È su questo piano che cogliamo l’alterità, che in certo senso separa l’oggetto percepito dall’oggetto-immagine pure esso percepito ma, ripetiamo, con una modificazione essenziale. L’alterità articola il piano orizzontale della percezione modificabile e modificata dall’immaginazione che mette in questione la sua datità come «qualcosa di effettivamente esistente». Vedremo subito la distinzione tra la coscienza di immagine e l’immaginario, vedremo come quest’ultimo costituisca quella radicalizzazione dell’alterità che dà accesso ad una coscienza «data a se stessa come non presente, nella modalità specifica dell’irrealtà»12 Con l’esame dell’oggetto-immagine iniziamo il percorso che conduce alla radicalizzazione dell’alterità, come non presenza della coscienza a se stessa, come irrealtà, che non prevedevamo ci si presentasse come tale nell’oggetto-immagine, per il quale è già legittimo tuttavia il richiamo alla irrealtà di tale oggetto rispetto al presente. Evidentemente Husserl avverte e de Warren ripete la necessità della modificazione della coscienza temporale in quanto forma temporale dell’immaginazione, in mancanza della quale la distanza dell’alter-ego dall’ego cui si deve pervenire non viene attinta per quel che essa è: una forma della coscienza interna del tempo di cui l’immaginazione fornisce il modello, o, meglio, una delle articolazioni.

«L’oggetto-immagine», scrive Husserl in Hua XXIII, p. 47, citato da de Warren alle pp, 139-140, «è comunque dato all’interno di un’apprensione percettiva modificata dalla caratteristica dell’immaginazione…La manifestazione che appartiene all’oggetto immagine si distingue in un punto dalla manifestazione percettiva normale. Questo punto è essenziale ed è ciò che ci rende impossibile considerare la manifestazione che appartiene all’oggetto-immagine come normale: essa porta in sé la caratteristica dell’irrealtà del conflitto con il presente attuale». Ecco dunque, finalmente la prima esplicita irruzione dell’irrealtà nel suo conflitto con l’attualità: ciò avviene nell’oggetto-immagine come si è più volte detto. De Warren parla di questo esito, del quale con Husserl rileva l’essenziale anormalità, osservando che qui abbiano uno «sconfinamento» dell’immaginazione entro la coscienza percettiva che ne viene alterata al suo interno. Il dato percettivo modificato dall’immaginazione entra in conflitto con la percezione. È chiaro dunque che l’alterazione dell’oggetto-immagine contaminato della immaginazione costituisce il nucleo fenomenologico dell’alterità che prende le mosse da un attacco della immaginazione (destinata come si è detto a ricoprire il ruolo di portatrice di una più radicale alterità) al dato percettivo, che destabilizza la percezione. Tale destabilizzazione prende la forma di una modificazione della «forma temporale del modo di datità dell’oggetto-immagine», rispetto a quella percezione cui spetta, non dimentichiamolo, la caratteristica della presenza come ‘ora’ attuale. E dunque, sempre nella parole de de Warren, qui a p. 140, «ponendosi in confitto con il presente percettivo (quello che contraddistingue l’apprensione percettiva sottostante dell’immagine-cosa) la coscienza ‘de-temporalizza ‘ l’oggetto immagine, modifica la forma temporale del modo di datità dell’oggetto-immagine». Ma detemporalizzare significa qui investire, alterandola, la fisionomia dell’’ora’ ed è esattamente questo il senso dell’alterazione che adesso si affaccia e che ci spetta di seguire. Il nostro obiettivo non può che essere quello di individuare e di enfatizzare la funzione costitutiva assegnata al tempo nella determinazione del fenomeno della coscienza d’immagine. Non che cosa sia la coscienza d’immagine ci chiediamo, come se fosse possibile dare alla domanda una risposta che sorvola la sua funzione fenomenologica, come se voglio dire, si potesse in qualche misura mettere da parte l’anima temporale della fenomenologia per cogliere un quid che già nella sua formulazione impone un passaggio dell’attenzione dal «che cosa» di un oggetto presente al «come» di un fenomeno la cui manifestazione evoca la coscienza fenomenologica (di«coscienza d’immagine», infatti, parliamo con Husserl e de Warren e non di semplice immagine). È solo così che vediamo all’opera la faglia che l’immagine apre nell’’ora’, come conseguenza della circostanza che, con l’immagine la coscienza si pone in conflitto col presente e che la «detemporalizzazione» dell’oggetto-immagine coincide con l’assegnazione a quest’ultima di una datità che è non più quella del presente percettivo. Lo abbiamo già osservato, soffermandoci sulla pagine 139- 140 del libro di de Warren ma lo ribadiamo data la crucialità del passaggio. Ciò che stiamo per citare, sempre da Hua XXIII, p. 47, ha infatti la sua premessa nella rottura del modo della datità temporale che accade nell’oggetto-immagine, nell’introdursi per suo tramite di una ‘deformazione’ detemporalizzante del tempo, di cui l’oggetto-immagine fa ‘saltare’ l’»ora». Senza l’esibizione della dinamica ‘esplosiva’ dell’oggetto-immagine, che si esplica grazie all’accostamento in lui della doppia pretesa, ossia di una doppia intenzionalità, di una doppia coscienza parimenti cogente, quell’»ora» e quella del «non-ora», non un solo passo verrebbe compiuto nella direzione della installazione della base di alterità e di alterazione sotto il fenomeno del tempo «promesso». Questa collocazione, in quanto accensione del nucleo esplosivo del tempo, del nucleo della rottura che esso porta in sé conduce nella triplice direzione della determinazione della fisionomia del tempo nel punto di intersecazione di ritenzione e protezione sul crinale dell’»ora», ma poi anche delle determinazione della via che conduce alla estrema radicalità della immaginazione, nonché infine all’anima temporale dell’alter-ego.

La coscienza d’immagine, possiamo adesso finalmente dire, è la «manifestazione del non-’ora’ nell’ora». Siamo nel cuore dell’alterità dell’oggetto-immagine, che si colloca come la nullità dell’’ora’ all’interno dell’’ora’, alterandola. Tale alterazione consegue da una frattura dell’ora’ stesso, una frattura che non distrugge la percettività intrinseca dell’ora’, ma ne frantuma la continuità, dando vita alla specifica temporalità dell’oggetto-immagine e della coscienza che la intenziona. Tale situazione di alterazione, esito di una relazione interna all’ ‘ora’ tra ‘ora’ e ‘non- ora’ richiede di essere spiegata. «Nell’ ‘ora’, poiché l’oggetto-immagine si manifesta nel bel mezzo della realtà percettiva e avanza una pretesa, come se gli spettasse realtà oggettiva …. D’altro canto, tuttavia un non-’ora’, poiché il conflitto rende l’oggetto-immagine un nulla (zu einem Nichtigen) che certamente si manifesta e tuttavia è nulla, e che può soltanto servire ad esibire qualcosa di esistente».13 Dunque è in virtù del conflitto che oppone la pretesa (irrealizzabile) dell’oggetto-immagine alla realtà oggettiva nell’’ora’, al non-’ora’ che pure nell’ora si manifesta, che la configurazione temporale del non-’ora’ fa dell’oggetto-immagine un nulla. Tale conflitto è appunto la relazione che nullificando nell’ora l’oggetto-immagine, ne fa appunto un non-’ora’ chiuso nell’ ora, trasformandolo fenomenologicamente (ossia senza che una sua presunta sostanza venga chiamata in gioco) in un nulla che si manifesta come nulla e che, all’interno della relazione-conflitto con l’ora percettivo, sottrae all’oggetto-immagine la pretesa all’oggettività, ma la tempo stesso rende il conflitto funzionale alla esibizione di qualcosa di esistente. Tale qualcosa di esistente è la relazione-conflitto entro il quale il nulla del non-’ora’ dell’oggetto immagine si manifesta come nulla, un nulla che non annulla la relazione-conflitto esistente tra sé, privo di realtà percettiva e la realtà percettiva stessa. Credo si debba insistere sulla funzione del conflitto come nullificante in un non-’ora’ l’oggetto-immagine, perché solo l’orizzonte del conflitto tra percezione non percezione può far dire a Husserl che l’oggetto-immagine, che come percezione reale si annulla, tuttavia si manifesta come nulla: il conflitto, infatti, è ciò che rende nullo l’oggetto-immagine, ma al tempo stesso lo manifesta come nulla perché lo mantiene nell’orizzonte del conflitto come un nulla relativo alla percezione, un nulla nel conflitto che dunque esibisce qualcosa di esistente, la percezione e il suo nulla. Che d’altra parte questa sia l’illustrazione o il commento corretto della pagina husserliana, lo si evince dalla considerazione che Husserl contrappone il non-’ora’ dell’oggetto-immagine all’’ora’ che lo contiene e che ricava da tale contrapposizione ora-non-ora la nullità di quest’ultimo. Non lo isola dalla relazione-contrapposizione perché è soltanto da essa e in essa che l’oggetto-immagine ricava la sua nullità manifestantesi. E questa, è forse superfluo ribadirlo, la specificità del procedimento fenomenologico che incontra e mostra la nullità manifestantesi del non-ora’ dell’oggetto-immagine, ma la fa appunto solo come evento fenomenologico che si produce nel corso del procedimento e dell’apparizione dell’alterità del non-’ora’. Inimmaginabile sarebbe in Husserl una condensazione nel ‘non’ del non-’ora’ in un nulla categoriale. Ed è d’altra parte evidente che il nulla del non-’ora’ è concepibile solo entro la dimensione della temporalità che infatti tiene in sé incorporati l’’ora’ della realtà percettiva e il non–’ora’ correlativo di ciò che come oggetto-immagine deve lasciar cadere la sua pretesa alla realtà percettiva.

De Warren14 ha ben presente che tre sono i poli dell’argomentazione che conduce via via più a fondo sulla via della determinazione dell’alterità di ciò che, appunto come immaginazione, conduce oltre l’ora percettivo frantumandone la presenza, tramite l’attivazione della piena funzione della temporalità. Abbiamo «il conflitto interno alla doppia apprensione di immagine-cosa e oggetto-immagine», ma abbiamo anche, come terzo polo «il soggetto dell’immagine» (ossia ciò che propriamente l’oggetto-immagine raffigura, in quanto invenzione indifferente alla posizione di esistenza effettiva), il quale «è in grado di saturare o penetrare (durchdringen) l’apprensione dell’oggetto-immagine». Husserl, osserva de Warren muovendosi lungo la via della più precisa determinazione dell’esito della coscienza di alterità riconosciuta alla coscienza di immagine, e dunque preoccupato di fondare in questo modo il campo fenomenologico della fantasia, dell’immaginazione e della coscienza di immagine, «concepisce la relazione dinamica sussistente tra oggetto-immagine e soggetto dell’immagine in termini di gradi di riempimento intuitivo: l’apprensione del soggetto dell’immagine attraverso l’oggetto immagine può approssimarsi, senza mai raggiungerla, all’idealità del soggetto dell’immagine stessa». I due finiscono per somigliarsi sempre di più, sebbene l’intenzionalità vuota dell’oggetto dell’indagine non possa mai essere riempita completamente. Questo vuol dire che l’idealità del soggetto dell’immagine (ossia la sua lontananza dalla percezione) non può essere attinta senza tener ferma l’intenzionalità vuota dell’oggetto-immagine, ossia senza tener ferma l’alterità che vive nel suo essere un nulla che si manifesta.

Ne consegue che anche lungo il percorso che conduce al soggetto dell’immagine in cui qualcosa di inventato o fittizio è effettivamente raffigurato, è necessario seguire il senso della «coscienza d’alterità» (des Anderseins) che è proprio della coscienza d’immagine. La coscienza d’alterità in quanto coscienza di immagine è «basata su un conflitto (Widerstreitsbewusstsein) e su un ‘raddoppiamento di coscienza’ (Verdoppelung des Bewusstseins) attraverso una modificazione temporale della coscienza e del suo oggetto intenzionale».15 Immagine implica alterità, alterità significa propriamente conflitto basato sulla duplicazione della coscienza, il quale a sua volta presuppone che la coscienza sia modificata temporalmente, non nel senso che si diano due coscienze irrelate, ma che il tempo della coscienza si duplichi in corrispondenza al darsi di una alterità coincidente con un conflitto della coscienza stessa. Tutto ciò accade fenomenologicamente perché la coscienza viene modificata in quanto coscienza-tempo: infatti il tempo dell’ora si sdoppia e si contrappone a se stesso aprendosi al non-ora, come si è visto. De Warren persegue lo scopo di condurre alla sua radicalizzazione la differenza che separa oggetto e soggetto dell’immagine, una differenza che si installa sulla previa manifestazione del non-’ora’ nell’ora’, che istituisce l’oggetto-immagine sulla distanza dalla percezione e dal suo ora. È per questo che abbiamo rilevato una sorta di percorso della differenza, che approfondisce, sia pure nel senso della continuità e della coerenza la differenza che, de-temporalizzando l’oggetto-immagine, lo distingue in un primo momento dalla manifestazione percettiva normale. È lungo questa linea della differenza attraversata dalla modificazione del tempo-ora grazie all’innesto del non manifestantesi non-ora che Husserl giunge a stringere il fenomeno del soggetto dell’immagine – quel che propriamente viene rappresentato in un’opera d’arte pittorica ad esempio.

Dicevamo appena sopra che de Warren illustra in questo modo la situazione su cui ci stiamo trattenendo: «La coscienza si trova ‘raddoppiata’, in conflitto con se stessa: l’immagine è più della sua incarnazione fisica nella misura in cui quello che vedo nell’immagine è più del semplice oggetto fisico considerato in quanto immagine». Un ‘non’ differenziante separa, distingue e distanzia i due lati, l’uno dei quali soltanto mi offre l’immagine che non coincide con l’oggetto fisico preso in quanto immagine. Solo in questo caso, io ho l’immagine, dopo che,in un momento idealmente precedente, l’oggetto-immagine mi ha offerto, grazie all’intervento della de-temporalizzazione un fenomeno (il nulla del non-ora che si manifesta come nulla) che si distacca dalla manifestazione percettiva normale. «Occorre che io percepisca le linee, le pennellata, e così via, nella loro somiglianza con il soggetto dell’immagine che raffigurano, poiché ciò che costituisce la coscienza di un’immagine è precisamente la coscienza della differenza che sussiste tra l’oggetto-immagine e il soggetto dell’immagine».16 È chiaro dunque: coscienza di immagine è coscienza di una differenza, temporalmente determinata, quella differenza grazie a cui il soggetto immagine rappresentato, costruito sulla incarnazione fisica di un oggetto-immagine non percettivo, si distacca da quest’ultimo e offre a noi propriamente l’ immagine raffigurante un soggetto. Se si perde il ruolo della differenza e della coscienza della differenza per la determinazione del soggetto dell’immagine e dell’immagine quale soggetto, quest’ultima viene fenomenologicamente perduta. «La coscienza di questa differenza costituisce una distanza temporale interna alla manifestazione nel senso specifico della ‘manifestazione di un non-‘ora’ in un ‘ora’ ‘(eine Erscheinung eines-Nicht-Jetzt im Jetzt) ovvero», si faccia attenzione all’equivalenza qui stabilita tra non-ora e non manifestantesi e, insieme, tra ora e ciò che si manifesta, «di ‘qualcosa che non si manifesta in ciò che si manifesta’».17 La manifestazione di un non-ora nell’ora equivale al fenomeno per cui il non manifestantesi si manifesta in ciò che si manifesta. Ripeto: quel che conta qui è comprendere il darsi della differenza che separa e comprende tanto il non-ora e l’ora, quanto il non manifestantesi non-ora nel manifestantesi ora: il manifestarsi di un non-ora è un non manifestarsi che tuttavia avviene nell’ora del manifestarsi del manifestantesi.

È la differenza che stabilisce le parti del manifestarsi del non-ora nell’ora, ossia di ciò che non si manifesta in ciò che si manifesta. «Non appena la differenza, o distanza, che sussiste tra oggetto-immagine e soggetto dell’immagine collassa, l’immagine diventa per così dire un idolo; l’alterità di quel ‘qualcosa che non si manifesta’, si manifesta, in questo caso, come coincidente con l’immagine presente». L’indice di nullità temporale, di non-ora, proprio dell’immagine, si perde insieme alla sua alterità. E una l’alterità senza differenza e senza indice di nullità temporale si deforma nella pura presenza di un idolo, immagine senza negatività, senza differenza: pura presenza, una «cosa tra le altre» per cui l’immagine stessa diviene «irrilevante» come «non-immagine».18

4. L’alterità ulteriore dell’immaginazione e dell’immaginario

L’immaginazione non presenta la medesima forma di costituzione, ossia la medesima forma di doppia coscienza della coscienza di immagine. De Warren ricorda che la coscienza di immagine rinvia ad una duplice apprensione conflittuale, ossia ad una raddoppiamento del conflitto immanente nella coscienza di immagine. La doppia apprensione interviene a spezzare conflittualmente il rapporto tra immagine-cosa e oggetto – immagine: non si dà coincidenza, pur nella cornice unitaria della coscienza di immagine, tra l’immagine che è una cosa (ad esempio la base di tela su cui viene dipinta l’immagine di un albero), e l’oggetto preso come immagine nella sua determinazione temporale di non-ora. Ma non si dà neanche coincidenza tra l’oggetto-immagine e quel soggetto dell’immagine, per cui l’immagine rappresenta qualcosa, che va oltre il grado rappresentativo dell’oggetto-immagine in quanto lo riempie, riempie il suo nulla, fornendogli appunto un soggetto rappresentato. Ma se noi prendiamo come esempio un unicorno immaginato, cade ogni possibile riferimento ad una qualche coscienza d’immagine: «la coscienza di un unicorno immaginato non si fonda sulla percezione di un’immagine cosa e di un oggetto-immagine»,19 o come meglio si sarebbe dovuto dire, non si fonda sull’innesto della nullità, in quanto percezione dell’oggetto-immagine, nella percezione dell’immagine cosa. Altro è l’immagine di un unicorno, altro è immaginare di vedere un unicorno, dato che nel primo caso l’immagine non evoca qualcosa di presente, mentre nel secondo caso l’immaginazione di vedere un unicorno si staglia rispetto ad un vedere qualcos’altro di presente. L’immaginazione non evoca una dimensione temporale di presente, ma presuppone piuttosto, e conflittualmente rispetto alla prima prospettiva, di distinguere il suo vedere senza presenza (l’immaginare un che di immaginario, appunto) da un vedere una qualche presenza. È evidente la preoccupazione di Husserl di radicalizzare la temporalità del fenomeno che comunque trascende l’ora della presenza grazie alla modalità della cancellazione e dunque dell’assenza di ogni presenza percettiva. Siamo sempre con Husserl sullo stesso sentiero indicato dalla emersione della nullità del non-ora dell’oggetto-immagine, ma adesso, nel trattare l’immaginario, si accentua la radicalità della perdita del riferimento ad una qualche presenza.

«Nel caso dell’immaginazione, la relazione che sussiste tra l’unicorno immaginario e qualunque altro dato percettivo è una relazione di separazione; la datità dell’unicorno immaginario non si fonda su ‘qualcosa di presente (Gegenwärtiges)».20 Con le parole di Husserl21 diremo che «nell’immaginazione non abbiamo nulla di presente (Gegenwärtiges) e, in questo senso, non abbiamo un oggetto-immagine…Nella manifestazione (di qualcosa di immaginato) il nesso col presente manca del tutto, ciò che non accade con l’oggetto-immagine che è essenzialmente il non delle presenza e dell’ora ma nella presenza percettiva rispetto a cui si staglia. «Come per la coscienza d’immagine, Husserl parla di coscienza d’alterità anche nel caso dell’immaginazione». Ma vi è una radicalizzazione dell’alterità dell’immagine, che non deve essere taciuta: «Tuttavia, il senso di alterità che entra in gioco in ciò che viene immaginato ha una forma più radicale, data l’assenza di una fondamento in qualcosa di presente», come accade nell’oggetto-immagine che si fonda sulla propria differenza rispetto a qualcosa di presente. «Ciò che è immaginato è certamente dato in una coscienza intuitiva di ciò che non è presente (c.m.), tuttavia esso non ha il senso di qualcosa che è stato presente in precedenza (come nel caso di oggetti del ricordo), bensì in un senso più forte: quello di qualcosa che non potrebbe mai essere attualmente presente». L’immaginario di qualcosa di immaginato non è come un ricordo perché non è mai stato e mai potrebbe essere presente. «Quanto alla forma di intenzionalità, l’immaginazione è un atto di apprensione oggettivante e auto-trascendente, in cui un oggetto intenzionale viene inteso come irreale». La sua irrealtà trascende la coscienza, ma in un senso diverso (quello dell’irrealtà intenzionata) rispetto alla «trascendenza percettiva», in cui la trascendenza della coscienza sfocia sul piano della percezione reale o del reale.22

5. Il «puzzle impossibile» della coscienza trascendentale del tempo

Nell’incontrare, come ora ci accingiamo a fare i Manoscritti di Bernau del 1917-1918, analizzati da de Warren nel fondamentale quinto capitolo, ci attende un non facile compito di sintesi, così come non è facile cogliere e soprattutto esibire dove si colloca in questi testi stesi nella Foresta Nera, l’autocritica husserliana rispetto alla coscienza interna del tempo come l’abbiamo anche semplicemente colta per tratti essenziali in ciò che abbiamo detto fin qui. Evocando la Crisi delle scienze europee, ancora lontana nel futuro di Husserl, de Warren introduce un veloce ma importante riferimento alla «crisi della razionalità europea», cui la fenomenologia si riprometteva di dare un risposta e che faceva sentire i suoi effetti nel primo dopoguerra. «Nel suo soggiorno nella Foresta Nera, Husserl ritorna al tema della coscienza del tempo proprio quando la grande promessa per la crisi della razionalità europea rappresentata dalla fenomenologia trascendentale comincia a prender forma nella sua mente».23 È al tempo, dunque, che viene affidata la funzione della riscrittura della ragione in chiave fenomenologica e per questo motivo la prospettiva dischiusa dai Manoscritti di Bernau apre un percorso che giunge fino alle più tarde analisi della fenomenologia genetica. Qual è la difficoltà principale delle lettura di tali manoscritti, mai giunti fino alla maturazione del più ampio progetto su «Tempo e temporalizzazione»? Quel che de Warren dice in risposta a questa domanda indica che qui la rottura fenomenologica del pensare, realizzantesi entro la cornice del problema fino a questo momento definito come quella della coscienza assoluta e trascendentale del tempo, investe il senso stesso del «vedere» ossia del pensare il tempo. «I manoscritti di Bernau non sono un apparato tecnico di concetti fenomenologici appositamente coniati, un ‘gergo’ in cui i concetti sono costruiti su misura per il solo scopo di una coerenza reciproca: attraverso la coerenza dei concetti ci è chiesto di vedere (c.m.)». Ma tra l’invito a vedere e a «guardare» il tempo in senso tanto noetico quanto noematico, ossia tanto nella intenzionalità soggettiva, quanto nel suo riempimento oggettivo, non basta ad aprire uno spazio di pensiero che infrange «le nostre normali abitudini mentali». «L’analisi unilaterale della temporalizzazione noetica è riproblematizzata con una bilanciata riflessione su entrambi i poli della coscienza del tempo, quello noetico e quello noematico». La dimensione ontologica ottiene un suo spazio fenomenologico,24 che tuttavia non segue il filo delle analisi della coscienza del tempo). «Lungo questa espansione noematica, l’importo ontologico della coscienza del tempo viene portato a fruibilità trascendentale», ossia vie sottratto alla cattura nell’ontologia del tempo reale-ordinario. «La connessione di forme diverse di oggettività con diverse ferme di temporalità è costruita con un’enfasi sul contributo della temporalità rispetto al problema dell’individuazione. Diverse regioni dell’essere –reale, irreale, ideale – sono correlate con forma diverse di temporalità».

V’è nei manoscritti di Bernau una forte attenzione alla «flessione ontologica» del problema della coscienza del tempo, ed è questo punto che dobbiamo tentare di capire nel mutamento della configurazione del problema del tempo. «Le fasi ‘ora’» scrive de Warren, cit. pp. 168-169, da cui cito anche in quel che segue, «dell’oggetto temporale sono descritte come ‘modi d’essere’ (Seinsmodus) di un oggetto noematico», ossia appunto di un oggetto fenomenologico preso nella sua configurazione obiettiva. Non la coscienza del tempo nella sua configurazione soggettiva, ma il tempo fattosi oggetto dell’intenzionalità della coscienza diventa oggetto di attenzione. Ma questo non toglie che si debba guardare al modo in cui, entro la relazione noetico-noematica che Husserl non dimentica mai quale struttura dell’intenzionalità della coscienza, il modo di orientamento della soggettività che è nel tempo si riferisce ad oggetti o eventi nel tempo. Ogni apertura ontologica, resta, in Husserl, condizionata fenomenologicamente, il che vuol dire che la premessa costituita dalla coscienza del tempo e dalla sua attività noetica non cade in alcun modo ai margini. Il tempo e le sue fasi volta a volta presenti come ‘ora’, riferite ad un oggetto temporale, sono, abbiamo detto, «modi d’ essere» di un oggetto che in quanto noematico rappresenta il lato oggettivo della sua costituzione intenzionale di coscienza. Ogni oggetto temporale ‘riempie’ una durata determinata e occupa una determinata posizione temporale, sulla base delle quali misurazione e determinazione dell’ordine temporale diventano possibili. Si apre una tensione tra la rigidezza della forma temporale noematico-oggettiva e la corrente o «flusso» della corrente originaria del tempo, cui appartengono i «modi di datità» del tempo, non passibili in quanto tali dell’irrigidimento proprio di una «rigida forma» oggettiva del tempo che occupa una determinata posizione temporale.

Il «tempo oggettivo», ossia il tempo dell’orologio presenta una rigidezza nel suo ordine temporale che gli impedisce di essere né presente, né passato, né futuro. Il che vuol dire che se si isola la funzione della coscienza costituente il tempo dal tempo fattosi, o visto come oggettivo (il tempo dell’orologio) le stesse determinazioni temporali del tempo, il suo essere il crinale presente da cui sfugge la ritenzione e si anticipa la protezione, sono destinate a scomparire. «La forma di temporalità di un oggetto è di conseguenza inseparabile da possibili modi di datità temporale della coscienza e quindi questi modi di datità temporale sono ‘modi di orientamento’ della soggettività stessa». Le determinazione temporali sono inseparabili da e conseguite sulla base della soggettività costituente il tempo. Dunque, «solo una soggettività che è in se stessa nel tempo può incontrare eventi nel tempo». Vi è una formulazione noetico-noematica della attività costitutiva della coscienza del tempo, come abbiamo detto, mettendo in rilievo l’importanza che nei manoscritti di Bernau assume la dimensione noematica. Ciò significa che la sfera della temporalità trascendentale vede espandersi la «gamma delle oggettività» che la temporalità trascendentale comprende sotto di sé. Quel che si è osservato sopra trova conferma al livello della oggettività trascendentale noematica: immaginazione, coscienza d’immagine e ricordo rivelano «una relazione costitutiva tra il senso della datità di un oggetto e la sua forma di temporalità».25 La datità di una oggetto trova ora il suo senso nella struttura formale della temporalità che volta a volta gli conviene. Abbiamo detto e ripetiamo che qui entra in gioco in maniera determinante il riferimento alla ontologia trascendentale, alle sue diverse regioni, ai suoi diversi oggetti, quale sponda della temporalità. Infatti, «regioni ontologiche diverse sono costituite come diverse forme di temporalità. I molti sensi dell’essere sono costituiti come diverse forme di datità temporale o temporalizzazione». La temporalizzazione stessa costituisce i sensi dell’essere, la struttura fenomenologico-trascendentale degli oggetti, il che rende chiaro ora il modo in cui Husserl affronta la determinazione della «individuazione», ossia dell’essere un oggetto identico con se stesso e diverso da ogni altro. Identità e diversità tra oggetti individuali e individualizzati, passano attraverso il modo della loro rispettiva temporalizzazione (non quindi della loro identità e relazione spaziale).26 «La determinazione di un oggetto» osserva de Warren»27 dipende dall’identificazione di un’identità, o ‘sostrato’ e … tale sostrato identico individualizza l’oggetto. Abbiamo così la delineazione della genealogia trascendentale della logica, perché «mentre la predicazione logica e l’articolazione del giudizio presuppongono il sostrato di un oggetto come individuo», qui è l’individuazione dell’oggetto che viene esibita nella sua genesi e struttura temporale: «L’analisi della coscienza del tempo disvela l’origine dell’individuazione e per ciò il fondamento dei ‘sostrati’ delle strutture di predicazione». Da un lato, sul piano della predicazione logica il sostrato di un oggetto è presupposta, dall’altro lato, qui, invece, il fondamento temporale del sostrato o dei sostrati viene colto nella sua struttura sottostante alla predicazione. Diversa risulta quindi la tipologia d’individuazione temporale (perché di questo si tratta: di fornire all’individuazione dell’oggetto la base temporale che lo identifica, un gesto teorico che va oltre la determinazione solo noetica della forme della coscienza costituente il tempo) per gli oggetti immaginari, gli oggetti percettivi e gli oggetti ideali, questi ultimi forniti di «onnitemporalità». È nella coscienza originaria del tempo che si istituiscono le differenze tra le forme-base di temporalità, reale, irreale, ideale. «I diversi sensi d’essere (cosa percettiva, oggetto immaginario, oggetto ideale), in quanto diversi sensi di trascendenza temporale, sono costituiti nella temporalità trascendentale della coscienza assoluta del tempo».28 È nella coscienza assoluta del tempo trascendentalmente temporale che si costituiscono le determinazioni ontologiche degl oggettii, i loro rispettivi «sensi d’essere». «La temporalità trascendentale della coscienza assoluta del tempo…costituisce la differenza tra mente e mondo, tra i possibili modi della mia coscienza e degli oggetti altri da me (egofremde Gegenstände)».29

In che cosa consiste «il puzzle impossibile» della coscienza trascendentale del tempo? La coscienza dell’ ‘ora’ è una «coscienza del crinale» (Kantenbewusstsein), crinale tra passato e futuro, «in quanto crinale della coscienza, in quanto nettezza di quel limite o taglio chiamato ‘ora’, ma anche in quanto in quanto istante appena precedente l’evento del rinnovo dell’ ‘ora’».30 Il crinale su cui si consuma la funziona alterante dell’ ‘ora’, coincide appunto con il taglio che come ‘ora’ separa passato e futuro, ma, vale soprattutto come luogo temporale che precede il darsi di ogni nuovo ‘ora’, nuovo ‘ora’ che si dà appunto nell’attimo immediatamente antecedente il rinnovo dell’’ora’. Tale rinnovo ha luogo solo in quanto immediatamente preceduto dell’istante del crinale, posto sul crinale, grazie al quale il rinnovo dell’ ‘ora’ si rende effettivo. Senza crinale, niente rinnovo dell’ora’, si potrebbe dire. Il crinale è l’’ora’, ma è anche grazie al suo scavalcamento, quel che consente che l’ora’ non sia fisso ma si rinnovi. Ne consegue che la coscienza non può «afferrare se stessa nell’ ‘ora’». Ciò accade nei termini della indecidibilità dell’’ora’«in quanto sia in tempo, che sul crinale del tempo».31 Come infatti si potrebbe decidere se l’’ora’ sia in tempo o nel tempo e insieme sul crinale del tempo se quest’ultimo è ciò che spacca il tempo come suo crinale, al punto da rinviare ad un istante che precede e legittima il darsi di ogni nuovo ora, ‘oltre’ il crinale? L’ ‘ora’ è nel tempo o sul crinale del tempo? La risposta consiste nell’introdurre l’idea o il principio della «autocoscienza preriflessiva, e quindi dell’auto-temporalizzazione, all’interno del dispiegarsi della coscienza originaria del tempo»: si tratta di una risposta che prende le mosse dalla presentazione originaria e dall’idea di «crinale», in quanto enfatizza il darsi di una auto-temporalizzazione che investe la coscienza preriflessivamente, ossia al di qua della coscienza stessa e sia pure all’interno della coscienza originaria del tempo. La risposta ‘incontra’ il punto che a Husserl preme ora soprattutto di mettere in luce: ossia che la presentazione originaria è l’insorgenza del nuovo e che tale insorgenza suppone il «crinale» e la coscienza del crinale, dove l’insorgenza propriamente si realizza. Husserl scrive: «Nella misura in cui la coscienza è sempre nuova fluisce e si trasforma, e così la coscienza del passato e del futuro è in continua trasformazione, c’è anche coscienza di questa coscienza».32 Perché Husserl aggiunge che ciò è «del tutto comprensibile»?

Come è pensabile la coscienza come auto-coscienza «intrinseca colta e costituita nel proprio flusso di coscienza»? (qui e in quel segue, fino al passaggio al commento del capitolo su Le vite degli altri, cito da de Warren, pp. 186-190). Si tratta di comprendere l’atto riflessivo della coscienza su se stessa entro il flusso di coscienza costituito: non è affatto facile venire a capo della situazione che vede la coscienza della coscienza come data, quindi costituita, all’interno del flusso di coscienza costituito in cui essa consiste. «Husserl distingue all’interno della coscienza immanente tra atti di coscienza costituiti (e il loro contenuto sensibile) da una parte e la coscienza ‘assoluta’ costituente dall’altra». Vi si rispecchia e ribadisce «la distinzione tra atto di coscienza costituente e oggetto percettivo trascendente costituito». Ora, sulla base di questo schema dell’intenzionalità all’interno della coscienza immanente, ciò che dovrebbe dare conto dell’ intenzionalità della coscienza stessa, appare come «problema» «la questione di come si costituisca la temporalità stessa di coscienza». Il problema, osserva opportunamente de Warren, «sorge con l’introdurre la distinzione tra ‘atto costituente’ e ‘oggetto costituito’ all’interno della coscienza». Ci chiediamo come si costituisca la temporalità della coscienza, ma la domanda sorge sullo sfondo e sulla base della distinzione interna alla coscienza tra atto costituente e oggetto costituito. Entro la coscienza, la distinzione tra atto costituente della coscienza e oggetto costituito, comporta che l’atto costituente della coscienza, in cui, voglio dire, consiste la coscienza, e la sua temporalità coincidano – distinguendosi poi dall’oggetto costituito. Ma chi costituisce l’atto costituente della coscienza? Come si giustifica una coscienza costituente ‘prima’ rispetto alla coscienza essa stessa costituente? Che cosa intendiamo dire quando parliamo di una auto-temporalizzazione come forma temporale propria di una auto-coscienza? Questa potrebbe essere la via che consente l’ uscita dal puzzle del regresso infinito della coscienza costituente e assoluta alla proprie spalle, una via di uscita che eviterebbe l’impasse di una coscienza assoluta del tempo che non è affatto assoluta dato che rinvia costantemente alle proprie spalle.

De Warren scrive che «la coscienza si dividerebbe da se stessa in modo tale da ignorare il problema di come render ragione della sua autocoscienza intrinseca». In effetti, la distinzione entro la coscienza tra atto costituente e oggetto costituito, distrugge ogni possibilità dell’autocoscienza e dell’auto-temporalizzazione. «Se un atto di coscienza si costituisse come ‘oggetto temporale immanente’ per una coscienza assoluta, questo implicherebbe che l’atto costitutivo della coscienza assoluta dovrebbe essere a sua volta costituita da un ulteriore atto di coscienza separato e ‘più profondo’, generando così un regresso infinito: la coscienza di qualsiasi oggetto temporale, inclusi gli ‘oggetti temporali immanenti» (per esempio una melodia) «sarebbe dipendente da una temporalità di coscienza che a sua volta si costituirebbe in una coscienza distinta». Il regresso infinito si evita, secondo Husserl, se si tiene ferma tanto la distinzione quanto l’unità della coscienza assoluta del tempo e degli oggetti temporali costituiti. «Per evitare un regresso infinito Husserl deve dimostrare come il flusso assoluto della coscienza costitutiva del tempo sia strutturalmente distinto dagli oggetti temporali costituiti, inclusa la temporalità costituita della coscienza immanente (atti di coscienza e il loro fondamento sensibile), senza tuttavia troncare l’unità dei due (c.m.) o soccombere a una teoria della riflessione e separazione interna tra soggetto e oggetto». La simultaneità tra flusso costitutivo del tempo e i costituiti oggetti temporali immanenti «implica che la coscienza del tempo coincida col tempo della coscienza (c.m.); in altre parole, secondo questa teoria la coscienza assoluta è temporale nello stesso senso degli oggetti temporali costituiti in base ad essa».Se si vuole guardare nel profondo di questa teoria si deve cogliere, per quanto l’operazione non sia agevole, la coincidenza della coscienza del tempo (del tempo dei suoi oggetti intenzionali) con il tempo che struttura la coscienza e che la intenziona nel senso della costituzione di oggetti temporali, la cui temporalità possiede lo stesso senso della temporalità della coscienza che li costituisce. Tra i due poli, assoluta coscienza costituente e oggetti costituiti, la temporalità è simultaneamente distinta e unita e ogni frattura tra soggetto e oggetto, tra noetico e noematico è bandita.

Osserva de Warren33 che «il flusso della coscienza assoluta del tempo ‘appartiene’ all’ ‘ora’ che esso costituisce senza occupare, o essere, nell’ ‘ora’ della sua costituzione. Sotto questo aspetto, il flusso della coscienza del tempo non è in se stesso ‘ora’: non è nell’ ‘ora’ che esso costituisce. E tuttavia entrambe – temporalità costituita e coscienza temporalizzante – devono co-appartenersi (c.m.) pena la ricaduta in un regresso infinito…». E Husserl così spiega l’unità o la sovrapposizione tra unità del flusso di coscienze e l’unità temporale del suo oggetto: «È nell’uno e nell’unico flusso della coscienza che si costituisce l’unità immanente del suono e, insieme l’unità del flusso stesso della coscienza. Per strano (se non addirittura controsenso) che possa sembrare è proprio così: il flusso di coscienza costituisce la sua propria unità». È essenziale comprendere la doppia intenzionalità della coscienza ritenzionale, per risolvere il problema di come sono nel tempo diversamente la coscienza assoluta e gli oggetti costituiti. «La coscienza ritenzionale adempie…una duplice funzione: ritenzione della nota e ritenzione della coscienza assoluta (ritenzione di me stesso in quanto avente appena sentito la nota, ma anche ritenzione dell’atto di percezione appena trascorso, cosicchè Husserl utilizza lo stesso linguaggio per descrivere sia gli oggetti temporali immanenti costituiti (atto di percezione) sia la coscienza assoluta. Sotto questo aspetto, l’automanifestazione del flusso non è temporale nel modo di un oggetto temporale poichè la ritenzione della ritenzione non è né identica né analoga alla ritenzione della fase di un oggetto». «La coscienza-di-’ora’ non è a sua volta adesso. Ciò che nella ritenzione è insieme alla coscienza-di-’ora’ non è adesso, non è simultaneo all’ ‘ora’»:34 Dunque, quello che conta di comprendere è che non è lo stesso modo dello stare nel tempo quello della coscienza assoluta e quello dei suoi oggetti costituiti. «Al contrario» osserva de Warren35 «la coscienza assoluta è l ‘auto-temporalizzarsi della coscienza stessa, come differenza tra ‘oggettivo’ (oggetti temporali costituiti) e soggettivo (oggetti temporali immanenti costituiti)». La differenza tra oggettività e soggettività degli oggetti, che passa attraverso l’attribuzione a questi ultimi dell’immanenza che i primi non posseggono, si sviluppa nello stesso orizzonte rappresentato dall’auto-temporalizzazione della coscienza, ‘luogo del tempo’ del differenziarsi della coscienza assoluta e dei suoi oggetti costituiti.

Ha dunque ragione Rudolf Bernet (nell’Introduzione a Texte zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstsein, Meiner, Hamburg 1985, cit. da de Warren, ibidem) nel sostenere nelle pagine decisive che concludono il capitolo sul puzzle che la coscienza assoluta è in sé una differenza nel senso duplice che si differenza da sé e che differenzia sé da sé. È evidente che differenziandosi da sé, la coscienza ‘prende le distanze’ dagli oggetti temporali costituiti, mentre la differenziazione di se stessa allude alla coscienza ritenzionale, modo in cui la coscienza ritenzionale si manifesta a se stessa come diversa da sé quale coscienza non ritenzionale. La coscienza assoluta è dunque caratterizzata, nel duplice modo che si è detto, da quella che Bernet chiama una «incessante auto-perdita di presenza». Ciò accade soprattutto nel secondo modo del suo attuare la propria differenza che è appunto quello di essere se stessa e coscienza ritenzionale. Che cosa esattamente comporta che la coscienza è costituta come perdita della propria stessa presenza? Il punto è fondamentale perché ne va della differenza tra passato e futuro, dell’essere la coscienza attraversata da una cesura che divide lo scorre del tempo. Il suo «tra» sta dinamicamente tra la presentazione originaria e la ritenzione. La presenza della coscienza assoluta tanto si perde quanto nello stesso atto si rinnova, ma può rinnovarsi solo perché una differenza tra ‘ora’ e ritenzione la divide temporalmente da se stessa, mentre la unisce temporalmente con se stessa. Con le parole di de Warren:36 «Questa perdita della presenza è parte integrante del rinnovo della presenza, non come eterna ripetizione dello stesso, ma come incessante ritorno della differenza tra passato e futuro – l’’essere fra’ della presentazione originaria e la modificazione ritenzionale, il quale sospinge e perciò divide, lo scorrere del tempo». La presenza della differenza (il ‘fra’) sospinge lo scorrere del tempo esattamente perché lo divide tra presentazione originaria e modificazione ritenzionale. Il ruolo della differenza nella coscienza assoluta del tempo è determinante.

Ma il problema della coscienza assoluta del tempo non è così risolto perché il flusso del tempo è tale «in base al costituito»37 ma non ha niente di oggettivo. Così tuttavia, domina per la determinazione della coscienza assoluta del tempo la sola temporalità costituita, il che comporta che ogni descrizione del flusso si definisce negativamente e il fenomeno stesso del flusso o corrente della coscienza assoluta del tempo manca il fenomeno che cerca. «L’assoluto della coscienza assoluta del tempo si ridurrebbe al ‘c’è’ relativo alla coscienza costituente il tempo», che semplicemente «accade». Per indicare tale «assoluta soggettività» come «flusso», per parlare di un punto-fonte originario e di una continuità di «momenti di risonanza»,38 finiscono per mancarci i nomi. Resta solo che «accade» il tempo della coscienza costituente e resta il fatto di poter parlare del tempo come di un costituito, con il che il fenomeno originario della coscienza assoluta del tempo è mancato. La conclusione è radicale nel ribadire l’insuperabilità dell’impasse che ci toglie il nome autentico della coscienza assoluta del tempo e del tempo stesso. Con la parole di de Warren: «L’auto-temporalizzazione della coscienza assoluta del tempo, in cui la differenziazione tra ‘soggettività’ e ‘oggettività’ si costituisce in una forma primordiale di auto-trascendenza temporale, rappresenta un puzzle impossibile nel quale l’operatività trascendentale della soggettività non può essere ricostruita dagli elementi ontologici che essa si è lasciata alle spalle «compresi i concetti di coscienza, flusso, tempo,» e in cui non ci è possibile cogliere niente di più che una immagine o una metafora di noi stessi».39 L’impossibilità del puzzle del tempo ci consegna, al di là delle immagini o delle metafore tutte tratte da ciò che è costituito, un’identità tra il tempo e noi stessi, tra il tempo e la nostra soggettività oltre la quale non si riesce ad andare. Il tempo è dunque la soggettività di quel ‘c’è’ che indica la coscienza costituente il tempo? Questa dovrebbe auto-temporalizzarsi e dividersi in soggettività e oggettività, ed auto-trascendersi. Ma mancano i nomi per dirlo: il che, si ammetterà non è poco, se ad esempio si pensa che l’atto di auto-trascendersi comporta la possibilità del rapporto tra il costituire e il costituito (l’oggettività del tempo) e che l’auto-temporalizzazione della coscienza assoluta del tempo autorizza il pensare la perdita e la costante ripresa della presenza dell’ ‘ora’.

6. L’alterità dell’altro

La soggettività trascendentale vede incombere su di sé lo spettro del solipsismo della soggettività trascendentale. Se la riduzione trascendentale conduce alla solitudine dell’identità della coscienza pura, come si può passare alla trascendenza in un mondo di esperienze molteplici, «incluse le vite degli altri», titolo del sesto capitolo»? Riscontriamo qui la difficoltà di cui abbiamo parlato a proposito dell’auto-trascendersi della coscienza assoluta del tempo, ora trasferita alla difficoltà di avere «un accesso originario all’alter-ego» verso cui si deve poter trascendere.40 Ed è vero altresì con Merleau-Ponty citato in esergo nella stessa pagina che «il mistero dell’altro non è che il mistero di me stesso», se dall’ego si deve poter dedurre in qualche modo l’alterità dell’ego rispetto a se stesso, ossia l’alter-ego. La percezione di un tavolo, argomenta de Warren,41 avviene sullo sfondo di esperienze possibili che non riguardano solo la mia vita intenzionale possibile, ma anche «esperienze diverse dalle mie». La cosa è oggettivamente inadeguata nella sua oggettività e in ciò consiste la sua trascendenza, ma la cosa stessa non è lì solo per me ma per qualsiasi altra coscienza che possa vederla. L’orizzonte appercettivo di una cosa copre tutta l’esperienza possibile «mia e altrui».42 Dunque la trascendenza della mia coscienza verso il mondo (ciò per cui la coscienza si trascende mirando al raggiungimento della sempre inadeguata oggettività della cosa essa stessa trascendente rispetto alla coscienza) è inseparabile dalla mia trascendenza verso gli altri, i quali hanno lo stesso mondo come orizzonte di senso: ciò accade perché il mondo esperibile e gli altri rientrano nel ‘di più’ di trascendenza rispetto alla coscienza. Il riferimento agli altri, che apre la via possibile verso il superamento del solipsismo, passa dunque anzitutto attraverso la trascendenza degli altri rispetto alla mia coscienza e alla corrispettiva trascendenza della coscienza rispetto agli altri. L’’oltre’ degli altri rispetto alla mia coscienza egologica è dunque espressione della mia trascendenza rispetto agli altri, per i quali vale, come per me, la stessa trascendenza rispetto alla stesso mondo, che essi esperiscono attribuendogli lo stesso significato. Trascendenza della coscienza e rispetto alla coscienza, analogia della trascendenza e alterità degli altri appaiono già come i primi passi della determinazione dell’alter-ego. Manca, ancora il riferimento alla temporalità («Il tempo e l’altro» è il titolo del paragrafo che esaminiamo).

De Warren lo introduce osservando che il tema o problema del solipsismo «complica» la questione della trascendenza del mondo, come si è accennato. «Se l’altro è necessariamente implicato nella trascendenza del mondo, la riflessione trascendetale deve fare spazio a una temporalità immanente diversa dalla mia tale che il mondo si costituisca o co-costituisca, anche in e attraverso di essa, con un’operatività che non è la mia»: ciò comporta anche che una pluralità di altri soggetti dia vita all’»intersoggettività trascendentale».43 Con ciò siamo tuttavia ancora alla moltiplicazione e quindi all’ alterazione della temporalità nella direzione della «co-costituzione del mondo». C’è un’osservazione in più da fare. «Il problema dell’altro… completa la forma dell’idealismo trascendentale» ed evita la ricaduta in un realismo che sfugge alla costituzione trascendendentale. Da un lato, «a) la fenomenologia trascendentale verrebbe meno al compito di fondare la trascendenza del mondo, senza una delucidazione della (primordiale) trascendenza dell’altro», a cui la trascendenza dell’altro inerisce strutturalmente, come si è accennato. D’altro lato, «b) senza una chiarificazione di come la trascendenza dell’altro si costituisca nello svolgersi della mia esperienza, la fenomenologia verrebbe meno ad una forma coerente di idealismo trascendentale»,44 proprio perché l’altro dovrebbe essere esperito come esterno, non come costituentesi, sebbene neanche come dissolventesi e annullantesi, nella mia esperienza. Si pone esplicitamente il problema, che nella Quinta Meditazione, osserva de Warren, non trova piena esplicazione, del coinvolgimento della coscienza del tempo nella questione dell’alterità. «Apertamente esplicitata, l’intersezione tra la coscienza del tempo e l’altro rivela una soggiacente affinità tra come l’altro, suppur irriducibile alla mia auto-presenza, possa nondimeno darsi, e come il passato, seppur anch’esso irriducibile alla mia auto-presenza, possa essere nondimeno dato».45 Ecco dunque non solo l’esibizione della intersezione tra coscienza del tempo e altro, ma l’indicazione che ciò deve mostrarsi nella forma di come sia l’altro che il passato possano darsi, sebbene non siano nessuno dei due riducibili alla presenza dell’ego a se stesso. La sfida consiste nel comprendere «la datità dell’assenza» rispetto alla mia presenza «senza venir meno all’aderenza fenomenologica alla datità originaria della presenza, ossia evidenza, come fondamento di ogni costituzione». Se vogliamo dunque attingere alla datità dell’assenza (a ciò che come altro e come passato non si risolve nella mia auto-presenza), il piano stesso della datità, ossia dell’evidenza come datità originaria della presenza non può essere perduto – sebbene esso debba ora esibire come presenza evidente una assenza. Il problema che si pone (ma non nelle Meditazioni cartesiane) è: «La trascendenza dell’altro si fonda in ultima analisi sulla trascendenza della coscienza assoluta del tempo, o viceversa, la temporalizzazione della coscienza assoluta» e la differenza che essa ospita, «si basa sull’alterità dell’altro?».46

A questo punto, bisogna ben comprendere il valore della tesi di Husserl47 secondo cui non v’è nulla per me «che non si fondi sulla mia propria operazione di coscienza attuale e potenziale». Tutto dipende dal fatto che io respinga ogni tentazione di vedere una esperienza là fuori di me, come una cosa in sé in cui la mia coscienza non entra, come una trama di cose assolute collocate al di là della operazione della donazione di senso affidata alla coscienza. È qui che entra in gioco la lezione fondamentale della temporalità trascendentale. Qui, ossia dove in certo non ci si aspetta che accada. Che cosa in alcun modo l’esperienza non è? La lezione kantiana è ripresa, approfondita e rivolta in altra direzione. «L’esperienza non è un buco in uno spazio di coscienza, attraverso il quale traluca un mondo esistente prima di ogni esperienza»,48 quindi l’esperienza non incontra e non ospita in sé qualcosa di esterno. È la coscienza del tempo ciò che dischiude la trascendenza del mondo pur mantenendola entro la mia immanenza. Ciò deriva dal punto che più volte abbiamo messo in rilievo come cruciale nella interpretazione di de Warren: la coscienza si differenzia in se stessa, in quanto tempo. «La coscienza del tempo è un’originaria auto-differenziazione che dischiude la trascendenza del mondo all’interno della mia immanenza. Abbiamo visto che io divento altro da me stesso (mi «auto-alieno») in quanto la costituzione primordiale della coscienza del tempo comporta la «de-presentazione» prodotta dalla modificazione ritenzionale. Ogni forma di datità affonda le sue radici nell’auto-differenziazione della coscienza del tempo: «in base a questa ‘alterità primaria’ che io divento per me stesso, sono rese possibili altre forme di alterità».49

Ma che cosa ne facciamo del solipsismo? Per quanto possa apparire paradossale, esso si presenta ad Husserl come un presupposto, per quanto «oscuro», che consente di porre il problema trascendentale dell’altro e di ciò che io divento, come ego, quando ho un altro di fronte a me. Il solipsismo va dunque ammesso e non introduce una obiezione «esterna», perchè è piuttosto vero che la fenomenologia trascendentale comincia come «egologia» e come scienza che implica un solipsismo trascendentale. Il fatto che abbiamo cominciato a delineare la fisionomia dell’alter-ego sulla base della coscienza differenziantesi come tempo non solo non ci autorizza a ricavare da ciò la completezza del passaggio all’altro. Resta necessario, mentre si espande la riduzione all’intera temporalità della vita trascendentale, tornare a passare attraverso l’isolamento nell’io nel suo «angolo oscuro» che non ci deve inquietare appunto con la minaccia del solipsismo. L’espressione, in ogni senso ‘fatale’, si trova in Logica formale e trascendentale.50 Come osserva de Warren «mentre i filosofi solitamente cercano di evitare le conseguenze del solipsismo, Husserl argomenta in favore del solipsismo come iniziale requisito metodologico…Il solipsismo non possiede ….il significato comune: non è un significato familiare poiché ogni forma familiare di solipsismo metafisico o epistemologico invoca l’esistenza dell’altro»,51 ciò che invece nella formulazione trascendentale del problema ci è precluso. È un passaggio fondamentale, come ben si comprende: l’altro non può e non deve essere presupposto se vuole ricevere una fondazione fenomenologica.

Che cosa è, si chiede de Warren proseguendo nella attenta determinazione dei passi fenomenologici compiuti da Husserl per attingere l’alter-ego, la trascendenza di una vita diversa dalla mia? Se «la trascendenza relativa a ogni forma è carattere immanente dell’essere, costituentesi al di dentro dell’ego»,52 se ogni senso ed ogni essere immaginabile cade nella cerchia della soggettività trascendentale che costituisce senso ed essere, la trascendenza di una vita non mia, la trascendenza che rinvia ad un altro da me non può essere un oggetto della intenzionalità della mia coscienza, perché, se fosse così, l’altro sarebbe costituito in me: sarebbe un essere che ha senso solo per me. L’affermazione dell’irriducibilità dell’altro a un senso costituito solo al mio interno deriva dalla convinzione husserliana che l’alter –ego non può essermi dato in modo originale, ossia appunto come un oggetto della mia coscienza intenzionale, come qualcosa che originalmente si produce in me. Infatti l’altro non è solo un ego che mi trascende, ossia appunto un esito del trascendersi della mia coscienza intenzionale, perché esso è «anche per se stesso dato come auto-trascendenza, come vita che costituisce se stessa e il mondo»,53 accanto alla mia vita e distintamente da essa. Infatti l’alter-ego è un alter-ego, non semplicemente un alter, in quanto al tempo stesso non è un essere costituito in me. In altre parole: «se l’altro è costituito in noi, non riusciamo ad assicurarci il senso dell’altro come non-me; se l’altro è fuori di noi, egli diviene un mistero».54

E allora? L’esperienza dell’estraneo o l’»empatia» di cui parla Husserl concerne la possibilità non ovvia «per cui la mia soggettività trascendentale costituisce qualcosa in me che tuttavia non mi appartiene; in me ma non in me, come me ma non come me».55 Il senso dell’alter-ego deve formarsi in me, l’alter-ego appartiene alla mia sfera fenomenologica, ma poiché ciò che le appartiene è un altro, questo è, secondo la formulazione radicale che abbiamo appena ripreso da de Warren, in me ma non in me, come me e non come me, senza che questa situazione configuri né uno schema dialettico destinato a qualche sviluppo, né una contraddizione logica destinata all’autodissoluzione. L’alter-ego deve essere attinto.Esso non è funzionale che alla propria autoesibizione fenomenologica. L’altro è una trascendenza rispetto a me, che in maniera «sconcertante», «si costituisce attraverso me, ma non in me, e…non può considerarsi opera mia». Se ne deduce la necessità di mettere in discussione la nozione della immanenza, ossia che «una trascendenza di qualsiasi tipo deve costituirsi nella mia immanenza». Ora si dà infatti una trascendenza ‘altra’, che non è la trascendenza della mia immanenza. «Di fronte all’altro non posso più darmi in quanto immanenza costituente alla quale qualcosa non può essere dato che non è interamente costituito in me»:56 l’altro, infatti, mi impone una nozione di immanenza che si trascende in qualcosa che mi è dato non essendo interamente costituito in me.

Siamo alla questione della «riduzione primordinale» alla sfera del «proprio», ossia alla scoperta di ciò che è mio e che si trova in uno strato più profondo di quel che vediamo nella coscienza egologica. La sfera primordinale cui si viene ridotti introduce al fenomeno del corpo proprio, nel senso che coincide con la mia «incorporazione primordinale» secondo la tesi di Paul Ricœur. Nella esperienza percettiva gli oggetti sono datI leibhaft, «nella carne». E dunque il mio corpo definisce ciò che di mio è il più originario, in quanto esperito da me e mezzo di ogni esperienza percettiva. Esso, osserva de Warren è primordinale sia nel senso per cui il suo modo di essere mi appartiene più di ogni altro, sia nel senso per cui esso è «ciò a cui un oggetto percettivo può in generale darsi ‘nella carne’».57 Solo una soggettività incorporata nella carne può correlarsi ad un oggetto percettivamente nella carne. Che cosa consegue dalla tesi che «il mio corpo vissuto definisce ciò che è più propriamente e sempre mio,nel senso di ciò che ho di me stesso, e questo avere me stesso è anche avere il mondo al livello fondante di ‘pre-datità’, in cui il mondo si costituisce attraverso il mio essere implicato come soggettività che si muove e agisce nel mondo»?58 Ma che cosa vuol dire che l’avere il mondo in termini di ‘pre-datità’, e muoversi e agire in esso? Vuol dire anzitutto definire le condizioni della spazialità, che muovendosi da qui a là il mio corpo costituisce. Si produce così una differenziazione intrinseca al mio corpo vivo, in quanto «sia ‘qui’ che ‘là’ fornisce la matrice costitutiva fondamentale per la costituzione della spazialità».59 La spazialità del mondo si forma in quanto ogni ‘la’ può diventare un mio ‘qui’.

Come si comprende agevolmente, l’incarnazione primordinale del mio corpo vivo pone le basi del costituirsi di una alterità che passa attraverso la differenziazione spaziale per cui il ‘là’ diventa un mio ‘qui’ se il corpo si sposta in un altro luogo, un luogo altro (’là’) rispetto al ‘qui’ spazialmente originario del mio corpo vivo. Spostandosi laggiù60 il corpo vivo «differenzia sè da se stesso come pure dagli oggetti spaziali dell’ambiente;…. Nel muoversi il corpo vivo differenzia sè da se stesso nei termini dell’essere un ‘qui’ e un ‘là’, e, contemporaneamente si differenzia, in quanto ‘qui’ dagli altri oggetti spaziali che sono ‘la’». Se mi sposto naturalmente e da ‘qui’ vado ‘là’, la distanza tra i due poli si azzera. Vediamo tuttavia di capire che cosa esattamente accade in termini fenomenologici quando sono arrivato al punto finale del mio movimento e sono dunque ‘là’. «Il ‘là’ che è adesso il mio ‘qui’ è ancora un ‘là’ per me nella misura in cui il mio corpo vivo ritiene il suo carattere di ‘là’ – in quanto corpo spaziale che percepisco ‘di fronte a me’ e che occupa una posizione spaziale relativa ad altri oggetti».61 Il mio ‘qui’, dunque, è ora spostato su ‘là’, ma resta il fatto che si dà un ‘là’ altro dal ‘qui ‘, ed è quello presso il quale ora mi trovo proprio in virtù del fatto che mi sono spostato. Lo spostamento che da ‘qui’ mi porta ‘là’ è reso possibile dal fatto che per il corpo vivo che sono si dà un ‘là’ spaziale che non è tolto ma confermato dal mio spostamento spaziale presso di lui. Lo spazio che separa i due poli del movimento entro cui il mio corpo vivo si muove è esattamente lo spazio della loro alterità reciproca, ma per me è lo spazio che distingue il mio stare ‘qui’ dal mio stare ‘là’ e dunque per me indica lo spazio ‘altro’ che segna i confini della spazialità che mi compete, e che comprende altri oggetti, altri da me che io ho di fronte come altri, rispetto a cui mi posiziono: per esempio spostandomi verso una delle polarità oggettuali del ‘là’. Tale molteplice ‘là’ distribuito nello spazio costituisce la garanzia del darsi per me e di fronte a me di un orizzonte di alterità, che non si annulla per il fatto che il mio precedente ‘qui’ diventa, dopo lo spostamento un ‘qui’ che occupa lo spazio del (o accanto al) ‘là’. Ma questo è solo il primo passo dell’argomentazione di de Warren meritevole di approfondimento.

Se è vero quel che abbiamo appena rilevato, tutto può succedere, se si intende toccare la spazio ‘altro’ del ‘là’, tranne che si perda l’assolutezza del ‘qui’ del mio corpo vivo e persino la sua immobilità, condizione trascendentale del suo portarsi sul ‘là’, esibendo la vita di un’alterità che lo concerne, ma che non lo potrebbe mia cancellare come corpo vivo nel suo ‘qui’. Esiste infatti un modo per il ‘qui’ di essere ‘là’ che ne presuppone l’immobile assolutezza quale condizione di un suo essere ‘là’ precedente allo spostarsi e indipendente da esso. Si tratta del «tatto» (Tast). Io vedo, abbiamo detto, il mio ‘qui’ corporeo ‘là’, il che comporta che il mio qui, mentre assume il carattere del ‘là’ resti un ‘qui’, vedendosi appunto nel ‘là’ che occupa lo spazio che ha di fronte e dove esso è «relativo ad altri oggetti». Ma allora esso deve essere assoluto ed immobile. «Il qui assoluto del mio corpo vivo non si muove, poiché è un qui in senso assoluto. In un certo senso, il mio corpo vivo è un motore immobile tale che è sempre già là, in quanto qui, ancora prima che io sia arrivato in quel luogo. La spazialità del mondo risulta così circoscritta dall’orizzonte del mio tatto (Tasthorizont)»,62 piuttosto che dai confini della mia mobilità. È solo grazie a questo passaggio che Husserl può comporre il passaggio del là in un qui, senza distruggere, anzi enfatizzando la loro differenza. Per questo motivo, il qui del mio corpo vivo può, anzi deve essere, come assoluto, immobile. «In un certo senso, il mio corpo vivo è un motore immobile tale che è sempre già là, in quanto qui, prima che io sia affettivamente arrivato in quel luogo…Il toccare è la trasformazione del là in un qui senza però interamente sopprimere la differenza tra il là che tocco e il qui del mio toccare».63 L’oggetto che sta là si risolve nelle sensazioni che, appunto là, ne delineano la fisionomia fisica, ma il mio toccare tale oggetto coinvolgendo la mia mano e le sensazioni cinestetiche del mio scorrere sulla superficie avviene nell’assoluto qui del mio corpo vivo.

Come si ricava da Hua IV, 144-145, citato e commentato da de Warren, cit., p. 212, da cui cito di seguito «toccando la mano sinistra esperisco sensazioni tattili nella mano destra che delineano il contorno e la superficie della mano sinistra» mentre a sua volta la mano sinistra, costituita come toccata, sente di essere toccata. Anche la mano destra sente di essere toccata mentre percepisce la mano sinistra. Il senso dell’essere toccata da parte della mano sinistra non è lo stesso senso per cui, o grazie a cui essa, senziente, sente la mano destra. Sentito e senziente, passività e attività, nella costituzione delle mie mani perdono ogni possibilità di netta distinzione. Siamo di fronte al fenomeno del «toccante-toccato»: ogni mano si differenzia dalla mano che sta toccando, ma anche da se stessa in quanto senziente: la mano si sente come senziente e in ciò sta la differenza tra se e il suo sentire. Qui interviene la temporalità, per spiegare come, ogni mano appartenendo alla sfera mia propria, deve possedere una temporalità immanente, poiché «ogni atto intenzionale del toccare…è un’esperienza immanente costituita nella coscienza originale del tempo». In quanto appartenente ad una medesima «unità di coscienza assoluta del tempo, il circuito dell’auto-affezione si costituisce, nella sua duplice differenziazione, come il mio più proprio». Il circuito del toccante-toccato deve essere visto come le due intenzionalità (quelle delle due mani) incardinate «nella stessa unità di coscienza assoluta costituente del tempo».64 Non si darebbe, cioè, il fenomeno del toccante-toccato con la sua doppia differenziazione che tuttavia non spezza la sua unità, poiché ogni atto intenzionale dei due che compongono il fenomeno del toccante-toccato sta insieme all’altro nella stessa unità della coscienza del tempo, garanzia della unità del fenomeno e insieme del suo differenziarsi. L’unità e la differenza del fenomeno doppio sono rispecchiate nella differenza dell’unità della coscienza assoluta costituente il tempo, la quale a sua volta garantisce che non si esce dalla sfera del proprio, a cui essa stessa appartiene. Husserl non si contenta della reciprocità delle intenzionalità che guidano ciascuna delle due mani senza che sia possibile distingue tra il sentire e l’essere sentito: affida infatti all’unità della coscienza assoluta del tempo la funzione di garantire l’unità reciproca della dualità delle due intenzionalità delle due mani, facendone qualcosa che – tenendo ferma la dualità – appartiene all’unità di ciò che è più proprio, una unità che è anzitutto unità della coscienza temporale assoluta. Il tempo funge da contenitore unitario della differenza del fenomeno del toccante-toccato, un fenomeno che, sappiamo, riguarda le mie mani.

De Warren scrive che il passaggio ulteriore consiste nella comprensione del fatto che l’altro deve essere «intersecato», il che vuol dire che l’altro non può essere né semplicemente altro dell’ego, né ricondotto in esso, poichè piuttosto esso deve essere ‘attraversato’ e stretto all’ego, al fine di mantenere la sua differenza come sua (non mia, non costituita in me), mentre essa, pure mi concerne. Per dire come questo avvenga de Warren evoca la sostituzione del fenomeno del toccante-toccato con il fenomeno evocato da Emmanuel Lévinas, della «carezza» che mentre implica l’altro che io accarezzo, me lo mostra nella sua inaccessibilità, ossia in ciò che fa altro realmente un ‘altro’.65 Si torna al toccarsi delle mani ove noto, oltre il fenomeno del toccante-toccato riguardante le mie mani, che se la mano tocca la mano di un altro ed è toccata da essa, «questo sentire di essere toccati mi rivela un sentire che non è mio, che io non percepisco immediatamente come un sentire», altrimenti sarei rimasto nel fenomeno delle strofinarsi delle mie mani. Ma ora l’altro è stato introdotto come elemento che muta il contatto finora esaminato tra le mani ed è stato introdotto senza nessuna giustificazione o sforzo di deduzione. L’altro infatti c’è e quel che la fenomenologia chiede è l’esibizione del modo dell’esser altro un altro per me ma non in me. Nel toccare la mano che mi tocca sono toccato da un toccare diverso dal mio proprio perché diverso da me sono l’altro, e il suo toccare, rispetto a me. Sebbene io senta che la mano dell’altro mi sta toccando, cioè la percepisca come mano senziente, «io non tocco il suo toccare stesso». La mano dell’altro mi tocca ma io non sento il suo toccarmi, il suo toccarmi non è una mia percezione.

«Piuttosto che parlare di un toccare», osserva de Warren in questo passaggio cruciale in cui l’immagine dell’altro per la prima volto diviene visibile per me pur non essendo mia, «sarebbe quindi più appropriato dire che la mia mano accarezza la mano dell’altro e che la sua mano accarezza la mia». Infatti l’accarezzato non è toccato. Nel fenomeno del toccante-toccato in cui io strofino l’una con l’altra la mie mani, io tocco il mio toccare, ma non accarezzo me stesso. «Quando accarezzo l’altro, io non tocco niente del toccare dell’altro, eppure questo senso dell’altro come un toccare che non è il mio mi è nondimeno dato, e mi è dato in quanto altro, in quanto oltre (c.m.) il contatto col mio toccare, nella forma di una carezza che si arrende alla inaccessibilità dell’altro». L’altro mi è dunque dato come fenomeno di un toccare che non è il mio, che trascende, sta ‘oltre’ il contatto con il mio toccare e dunque si rende inaccessibile come autentico altro grazie alla carezza che lo svela senza toccarlo. Così si spiega l’«intersezione», che esprime l’ambivalenza del toccare l’altro. Tale intersezione è un sorta di taglio o di frattura che interviene nel procedimento del mio toccare – quando quel che si tocca è un altro che in tal modo si rivela come tale: «il mio toccare è bloccato, o intersecato da un sentire estraneo che io non sento genuinamente».66 La mano altrui infatti possiede bensì una soggettività che tuttavia non deriva la sua costituzione dal mio toccare. Accade piuttosto l’inverso, ossia che la mia attività costitutiva (attiva come sappiamo in ogni riferimento intenzionale della coscienza ad un oggetto) viene interrotta e bloccata da un «centro inaccessibile di costituzione estranea» che irrompe nella mia attività e nel suo luogo deputato, «il mio più proprio». Quindi (ecco il punto principale dell’argomentazione-commento di de Warren che noi ripetiamo variandolo, secondo lo schema seguito nel corso dell’intero saggio) l’ombra di Lévinas torna a farsi sentire potentemente: l’altro e la sua soggettività non sono dati, ossia non sono fenomenologicamente presenti entro la sfera immanente della «mia auto-presenza primordinale. L’altro mi rimane inaccessibile come distante» da me ed è questo elemento che costituisce la sua alterità. Esso è segnato «dall’ambiguità di un’intersezione, di un sentire che trascende completamente il mio toccare». Dove è chiaro che l’altro è ambiguo esattamente perché esso, lontano ed estraneo al mio toccare, pure al tempo stesso lo attraversa o lo «interseca» ed è altro solo in virtù del suo essere rispetto a me una lontananza che mi attraversa, che attraversa il mio corpo vivo e il suo toccare. Insomma per dire in altro modo la stessa cosa: io devo allo stesso tempo sentire che la mano dell’altro mi tocca «senza però rendere presente a me stesso quel sentire tattile estraneo», come accade nell’auto-affezione delle mie mani che si toccano.

Il «solletico» viene chiamato in causa, per indicare il «sentire dell’altro come all’interno di me ma non costituito in me». «Nel caso di un altro che mi fa il solletico sento di essere toccato da un altro sentire che non posso portare a riempimento; il solletico è un sorpresa e l’insorgere di una distanza o trascendenza, dell’assenza dell’altro».67 Tramite il passaggio per la pelle del corpo vivo proprio, l’altro è per me nella forma di una trascendenza che segna l’altro come assenza per me. Torna come si vede, il tema critico messo in luce nei capitoli precedenti del saggio: ora la assenza dell’altro come forma paradossale della sua presenza assente per me e in me diventa la configurazione essenziale dell’alterità. Di nuovo si fa cruciale il tema critico del’ambiguità dell’altro che ora68 viene definito come un soggetto oggettivamente esistente nel mondo e allo stesso tempo (zugleich) come soggetto trascendentale, fonte di attività costituente. L’altro, grazie a tale sua ambiguità, non è un oggetto che stia, costituito, di fronte alla mia coscienza intenzionale costituente, ma una sorta di ‘contro-soggetto’, al quale si riconosce sia una trascendenza rispetto a me, sia una sua propria auto-trascendenza. Per questo motivo l’alter-ego è a tutti gli effetti un altro soggetto, fornito di una «flusso di temporalità» altro e diverso dal mio. Il suo corpo materiale percettivo sarebbe qualcosa di oggettivo costituito in me, dunque non un altro. Ma esso non è (solo) corpo materiale. In quanto alter-ego esso è, «insieme», autenticamente altro, è una soggettività costituente non costituita in me. In una formulazione molto chiara che implica il riferimento dell’ambiguità dell’altro alla doppia temporalità che lo connota: «come comprendere questo ‘zugleich’ e la sua costituzione è la sconcertante possibilità della datità dell’altro». Questa conclusione parziale è importante perché ci ricorda, prima che si affronti lo sviluppo di quel che si è detto in termini di distinzione tra la mia coscienza e la mia autocoscienza, che l’essere l’alter-ego «al tempo stesso» un soggetto oggettivo nel mondo e un soggetto trascendentale non si riduce ad una circostanza empirica, ma è esso stesso termine di una costituzione che fa dell’altro una «datità» fenomenologica. Come ci si potrebbe esprimere, l’esser altro dell’alter-ego non istituisce una alterità rispetto all’orizzonte fenomenologico – come è in certo senso ovvio.

Se io sono conscio di un altro che non sono io, ne segue che «non tutti i miei modi di coscienza rientrano nella cerchia di quelli che sono i modi della mia autocoscienza».69 Vi sono infatti in me intenzionalità che mi eccedono, «qualcosa di più di quanto io possa realizzare da me stesso si realizza paradossalmente attraverso di me». Passa per me, qualcosa che io stesso non realizzo: questo il paradosso dell’alterità fenomenologica. Come può l’ego possedere intenzionalità di specie nuova, il cui senso d’essere conduce l’ego a trascendere il proprio essere? Con le parole di Husserl: «Come può un essere reale ed effettivo che è per me… essere altro dal punto di intersezione, per così dire, delle mie sintesi costituive?». Il senso dell’altro si costituisce come «un’altra sfera del proprio» ossia come una «trascendenza radicale all’interno della mia immanenza».70 Le mie sintesi costitutive devono poter essere intersecate, ed è esattamente nel punto dell’intersecazione che quel che è per me è, «al tempo stesso» altro, ossia istituzione dell’alter-ego. Il mio proprio ospita, questo il paradosso dell’alterità, una sfera ‘altra’ rispetto al proprio, che è la sfera dell’altro, apertasi come trascendenza nel cuore della mia immanenza. Questo ci riconduce sul tema dell’ambiguità come caratteristica essenziale della percezione dell’altro: nell’accarezzamento da parte della mia mano, l’altro è sia dato che non dato: dato come fenomeno, ma non dato perché la carezza stessa lo rende inaccessibile. Inaccessibile alla mia percezione diretta, ma anche all’idea che esso, ciò che viene carezzato, si costituisca in me, per me e grazie alla mia attività intenzionale costituente. La carezza che avvicina, separa e nel separare fa affiorare l’irriducibilità dell’altro inaccessibile. Osserva de Warren che non si deve perdere di vista la non familiarità della datità percettiva dell’altro, diversa in quanto tale dalla percezione di un tavolo, trascendente ma non ambigua.

«Nel caso della datità dell’altro non c’è alcuna possibilità – nemmeno ideale – di avere un’intuizione originaria (o riempimento) dell’assenza dell’altro in quanto alter-ego». Perché di questo appunto si tratta: dell’intuizione dell’altro come intuizione di una assenza, e di riconoscere che tale intuizione non accade. Infatti l’intenzionalità dell’altro non assume la forma della «presentificazione», che, lo si è visto sopra, può prendere la forma della coscienza di immagine, o di immaginazione o di ricordo: l’altro non è né una immagine, né un non-ora. L’altro è quindi, radicalmente, l’impossibilità della presenza, il suo esser-altro equivale ad una assenza senza possibile presenza, che cioè si arresta di fronte ad una presentificazione bloccata. Questa nuova intenzionalità, grazie a cui, finalmente, ‘tocchiamo’ l’alter-ego e il senso della assenza che la connota «si fonda sull’assenza o preclusione di qualsiasi verificazione o riempimento del suo oggetto intenzionale». Il punto va espresso così: «Non è solo che l’altro non è dato in se stesso in maniera immediata e originaria; il suo senso più radicale in quanto trascendenza implica che l’altro rappresenti l’impossibilità di una datità originaria, ossia l’impossibilità della presenza».71 Abbiamo nell’altro in generale e nell’alter-ego in particolare, una trascendenza senza presenza, come si è detto, una presenza che manca strutturalmente. Se come scrive Husserl72 non abbiamo dinanzi a noi ‘in presenza’ l’altro io stesso, del quale nulla della sua essenza «perviene a datità originaria», allora, nel puntuale commento di de Warren che esercita qui la sua raffinata acribia esegetica, «l’intenzionalità dell’altro non rende presente un altro ‘ora’; piuttosto esso rende l’altro come non-’ora’, e più radicalmente come qualcosa che non potrà mai essere ‘ora’». Più esattamente l’intenzionalità dell’alter-ego non produce né un rendere presente né un rendere assente, ma l’appresentazione del «co-presentare», che impedisce che l’altro possa darsi mai come «Selbst-da» (come un esser presente esso stesso qui in persona), poiché esso si mostra piuttosto grazie all’intenzionalità di uno «stare-con» intrinsecamente ambiguo, fornito di una inaccessibilità che appunto ambiguamente si rende visibile, perché accompagnata dalla (negata) intenzionalità dell’ego nel ‘suo’ alter-ego: alter-ego, diciamo non a caso e non ‘non-ego’. Per questo motivo (la conclusione è importante) «l’altro non finisce per essere un mistero per me: la tesi di Husserl non è che l’altro mi è interamente inaccessibile, ma precisamente che l’altro mi è dato come ‘Mit-Da’», come esserci-con, «e non come ‘Selbst-Da’» come un esso stesso qui. «Il senso dell’essere-con si apre una strada tra lo Scilla del ‘Selbst-Da’ e Cariddi del ‘Nicht-Da’».73

Nel paragrafo intitolato significativamente «fra noi» (per intendere che l’alter-ego si colloca nella intersezione che spezza la continuità della intenzionalità del mio corpo proprio e quindi crea non solo un ‘noi’, ma un noi costituito da un ‘fra’, quindi circoscritto da una intersecazione di ego e alter-ego), si precisa ancora la differenza tra «co-presentazione» e «presentificazione». Emerge, nel contesto della insistenza puntuale, analitica e ripetitiva con variazioni di de Warren, il tema della «promessa» dell’altro. Non per caso – dato che il libro si regge sull’intreccio di temporalità e alterità – il termine era stato usato nel titolo per indicare che la fenomenologia del tempo evoca una «promessa» del tempo, ossia una sua prefigurazione che non autorizza una attesa determinata.

La presentificazione implica il riempirsi di intenzioni vuote, mentre con la copresentazione abbiamo bensì una intenzionalità dell’altro, ma ad essa manca strutturalmente la possibilità che si dia un qualche riempimento dell’oggetto dell’intenzione, come l’altro si deve definire. L’altro è intenzionato nel senso specifico che manca la possibilità «di un riempimento all’interno dell’immanenza del suo orientamento costitutivo proprio». La mia intenzionalità nei suoi confronti non trova un riempimento all’interno della sua propria costituzione. Tra l’intenzionalità e il riempimento che riguardano l’altro si erge un ostacolo che vieta che il riempimento avvenga nell’immanenza della costituzione dell’altro. Infatti, «l’altro mi è dato come impossibilità di darsi nel modo in cui egli si dà a se stesso, ossia come auto-datosi a se stesso». L’altro si dà a se stesso, ma a me è dato come una impossibilità: l’impossibilità di darsi nel modo in cui egli si dà. Tale impossibilità non è una restrizione delle mia capacità di costituzione, non è quindi una privazione che mi limita. Non «fallimento» della mia capacità di costituzione, ma piuttosto «promessa di datità – di presenza per la quale mi astengo da qualsiasi attesa definita o determinata».74 L’apprensione dell’altro, si deve subito aggiungere comporta apprensione del corpo altrui quale oggetto spaziale costituito, e in quanto avviene all’interno della riduzione primordinale, «appartiene alla sfera primordinale del proprio» perché la spazialità è opera del mio corpo vivo».75

Ma c’è ancora qualcosa, che ci conduce verso «le vite degli altri», e non soltanto verso la promessa del darsi di un altro. Qui entrano in gioco le vite percettive degli altri: ferma restando l’impossibilità per me che l’altro mi si dia come si dà a se stesso, deve essere fatto valore il fenomeno dell’«appaiamento associativo» tra il mio corpo e il corpo dell’altro. «Quel corpo laggiù si muove e agisce proprio come fa qui il mio corpo vivo». Se riconosco in quel corpo come portatore di una corporeità «simile» alla mia, ne nasce una «intenzionalità associativa» che mostra come io apparirei se visto da quel luogo. Sulla base della intenzionalità associativa che, appunto mi associa all’altro, ottengo una presentificazione di me stesso, in base alla quale «io percepisco che qualcuno diverso da me può percepire nel modo in cui io percepisco, e perciò…le mie percezioni sono solo alcune tra le possibili percezioni: non percezioni che rimandano a me stesso, ma percezioni possibili che rimandano alle vite degli altri». La mia soggettività si desta nella forma del destarsi del mio corpo vivo colto nel suo appaiamento associativo che mi mostra come apparirei dal posto dell’altro. Il corpo dell’altro diviene funzione del destarsi della mia soggettività, tanto è rilevante la circostanza che la vita di un altro ridesti la mia vita corporea associata alla prima. Resta naturalmente la questione che andrebbe posta a Husserl e al suo interprete. Se le vite percettive degli altri si destano sulla base dell’appaiamento associativo del mio corpo e di tutti i corpi altrui virtualmente appaiati al mio, come propriamente si giustifica il fenomeno dell’appaiamento associativo, ossia perché si produce la circostanza che io colga in un corpo lontano da me una corporeità simile alla mia? La risposta dovrebbe essere, naturalmente, che non si tratta di una constatazione empirica, ma della elaborazione fenomenologica di una evidenza oggettiva, materiale: c’è un corpo laggiù, ma questo non comporta che io gli trasferisca la mia appercezione, ciò che produrrebbe una duplicazione di me stesso: io vedrei «quel corpo laggiù come parte di me, come mio corpo vivo». Io in realtà presentifico a me stesso la coscienza, l’ego e il corpo dell’altro e quindi «più che dare o trasferire me stesso nell’altro, io dissocio da me stesso il senso dell’esser-per-me, e trasferisco questo senso coscienziale a un polo o sfera, diverso del mio»76 Basta questo trasferimento a qualcuno diverso da me della coscienzialità dell’essere per me, perché io attinga l’alterità dell’altro? Evidentemente no: deve aggiungersi a questo ‘gesto idealistico’, come verrebbe di chiamarlo, che trasporta ad un altro polo il mio senso coscienziale, «l’apprensione percettiva del corpo dell’altro, altrimenti non potrei riconoscere che l’altro possiede se stesso in quel corpo laggiù», diverso da mio qui. Dunque: trasferimento appercettivo più percezione del corpo dell’altro, se non voglio percepire un fantasma ma un alter-ego incarnato. Come appare sempre più chiaro, non si dà per Husserl «esperienza dell’estraneo» senza il passaggio attraverso la mia incarnazione e l’incarnazione del corpo altrui. Ciò consente di rispondere alla domanda che sopra abbiamo rivolto a Husserl e al suo interprete: non si tratta di giustificare razionalisticamente o metafisicamente l’appaiamento associativo, non si tratta di giustificarlo: si tratta della circostanza che abbiamo chiamato dell’elaborazione fenomenologica dell’appercezione percettiva del corpo dell’altro che io vedo laggiù. Elaborazione, o presa d’atto fenomenologica, significa, o comporta, lo stare insieme nella costituzione dell’«esperienza dell’estraneo», del trasferimento ad altro polo della mia coscienza di me, del mio essere-per-me e della percezione del corpo dell’altro: una percezione che impedisce l’esito paradossale che «l’ego dell’altro governa nello stesso corpo in cui sono io a governare».77

Vi è un doppio movimento cui bisogna prestare attenzione. «L’appresentazione dell’ego altrui in quanto ‘governante’ il corpo vivo dell’altro mi è data come un ego in se stesso costituente…come in se stesso un corpo vivo costituto e costituente» come accade nell’auto-costituzione del mio corpo vivo. Ma a questo movimento si aggiunge un correttivo essenziale. «Il corpo vivo altrui è anche costituito per me (c.m.) come lo stesso corpo vivo che l’altro costituisce per se»: identico è il fenomeno del corpo vivo costituito dall’altro per sé e il fenomeno del suo essere anche costituito per me. «Da questo duplice senso del corpo dell’altro in quanto costituito sia da me che da te (esattamente come il mio è costituito da entrambi), Husserl ricava l’idea che la sfera propria primordinale dell’altro mi è ‘presentificata’… senza con ciò essermi data come è data a se stessa. Il corpo altrui si costituisce o ‘co-costituisce’, nell’intersezione di due sfere primordiali del proprio: la mia e la sua». Esse sono separate dalla funzione separante del tempo, che si divide «in due flussi ‘assoluti’ di coscienza del tempo» che non possono coincidere. In questo modo, ci troviamo al cospetto della situazione fenomenologica «intrigante» della esperienza dell’estraneo, in cui torna a giocare un ruolo cruciale il tempo: «sussiste, rispetto al corpo vivo altrui, un’unità noematica condivisa in quanto costituita sia da me che da te, con però una discontinuità noetica tra di noi, se ciascuno riserva per sé la prerogativa alla costituzione fino al punto di riconoscere che la stessa prerogativa appartiene anche all’altro».78 Ora, come si vede, la continuità noematica, fenomenologicamente oggettiva, viene corretta della discontinuità noetica, che distribuisce in eguale misura a me e all’altro la prerogativa della costituzione, senza naturalmente che il nesso tra noematico e noetico si spezzi. La situazione appare rovesciata ma complementare rispetto a quella vista appena sopra, dove la separazione tra ego e alter-ego passava in primo luogo attraverso la «apprensione percettiva del corpo dell’altro».

Un confronto sulla diversa temporalità del ricordo e del fenomeno dell’alter-ego si impone se vogliamo rendere chiaro il diverso riferimento dei due fenomeni al mio flusso assoluto di coscienza del tempo. Il mio ricordo di qualcosa del mio passato è il ricordo di me stesso che ho costituito nel passato l’esperienza originale che ora ricordo come allora presente. Grazie all’unità della coscienza, di cui nel ricordo non è messa in discussione né l’unità né l’assolutezza posso dire che la riproduzione della mia coscienza «in cui la coscienza passata è data di nuovo, come trascendenza, nell’immanenza o presente vivente in cui avviene il mio ricordo, si fonda sulla soggiacente unità della coscienza».79 Il mio originario atto percettivo e il suo oggetto intenzionale sono costituiti temporalmente, nella coscienza del tempo assoluto, che rappresenta l’ambito entro cui io posso, nel futuro di quel passato «ricordare me stesso in quanto avente percepito questo oggetto».80 Qui scatta il confronto che ci dà accesso attraverso la dimensione della temporalità all’alter-ego. «Ma questo è precisamente ciò che manca nell’appresentazione dell’altro»: appunto l’appartenenza al mio flusso di coscienza del tempo. «L’altro appresentato trascende la mia sfera del proprio primordinale in una maniera più radicale (c.m.), perché il proprio primordinale che…definisce l’altro in quanto tale non è mai stato, né potrà mai, essere costituito originariamente nel mio flusso assoluto di coscienza del tempo». La differenza con la temporalità del ricordo è netta: l’altro non potrebbe mai stare nella mia coscienza assoluta del tempo come accade invece al ricordo. «Mentre un oggetto rimembrato è dato in quanto passato con l’indice temporale dell’essere stato una volta presente, l’altro appresentato» (ossia reso presente nella semplice forma della appresentazione, ossia dell’ essere reso presente senza essere dato come presente, e non della presentificazione come accade ad un passato fattosi presente) «è dato come assente con l’indice di temporalità di una impossibilità a divenire mai presente per me».81 La sua forma temporale è la sua stessa assenza e, in più, un’assenza che non può essere rovesciata perché l’altro è, per le ragioni temporali che lo costituiscono – sua assenza rispetto all’unità mia della coscienza del tempo – strutturalmente privo della possibilità di rendersi presente a me. «L’assenza dell’altro è per così dire irriducibile a qualsiasi presenza all’interno del mio flusso di coscienza; è un’assenza più antica di qualsiasi memoria (c.m.) ed oltre qualsiasi attesa che emergano dal mio flusso di temporalità auto-costitutivo».82 La formulazione è molto suggestiva ed estremamente precisa: l’altro viene identificato per il tramite della sua fisionomia temporale, che ne fa un’assenza di cui devo dire che, alla lettera, è temporalmente «più antica» della mia memoria, ma nel senso per cui il tempo dell’altro non è commisurabile con il tempo della memoria e del ricordo, i quali possiedono un solido radicamento entro il mio flusso assoluto di coscienza, ciò che all’altro non è riconosciuto. Esso è, per il motivo dell’estraneità al mio tempo assoluto di coscienza, quel che merita di essere definito «l’esperienza dell’estraneo».

Lo abbiamo già visto. Il paragone tra ritenzione e rappresentazione dell’altro non funziona, perché la modificazione ritenzionale avviene nella coscienza assoluta del tempo, che «ritiene se stessa ed è essa stessa ritenuta»83 e dato che nella ritenzione abbiamo una modificazione della presentazione originaria nella sua immanenza primordinale, osserviamo agevolmente che l’appresentazione dell’altro è segnata negativamente nel suo paragone con la ritenzione e il ricordo, perché queste sono «modificazioni della mia presenza», assente invece nella non presenza e non presentabilità dell’altro. È ben vero, osserva giustamente de Warren perseguendo senza sosta il motivo dell’altro assente dalla mia coscienza temporale in tutte le sue possibili variazioni, che un qualche paragone potrebbe sussistere tra lo «svuotamento» de-presentante della coscienza ritenzionale, da un lato, e, dall’altro lato, l’appresentazione in cui l’altro si «co-presenta»: in entrambi i casi infatti «si tratta di una coscienza vuota in cui qualcosa si dà come non-«ora», come assente».84 Ma affinchè il confronto possa essere stringente avremmo bisogno di pensare una temporalizzazione della coscienza ritenzionale «senza inizio» (headless), ossia «priva di una presentazione originaria all’interno della mia sfera del proprio»,85 ossia avremmo bisogno di una ritenzione priva di inizio nella sfera immanente del proprio. Nel caso di una dimenticanza e di un ricordo, inoltre, si presuppone che avvenga un riempimento perchè l’oggetto della ritenzione è pur stato dato nel presente vivente. Ma «nel caso dell’alter ego, io intenziono l’altro in una coscienza vuota, la quale trascende la sfera del proprio primordinale senza tendere al riempimento».86 Avremmo allora una ritenzione lontana separata dall’origine genealogica in un presente vivente proprio, e dunque avremmo un oggetto assente che non richiede riempimento. Questo appunto si cercava: il mio immaginare l’altro comporta che la neutralizzazione della presentazione originaria – «la sua decapitazione»87 – si è prodotta in e attraverso la mia sfera del proprio, mentre «nel caso dell’appresentazione dell’altro la temporalizzazione senza inizio si produce come intersezione tra me e l’altro», il che comporta che con questa forma di temporalizzazione senza inizio l’appresentazione dell’altro rappresenta «un’intenzionalità che non motiva né esige la presenza dell’altro», il quale resta come una parola sulla punta della lingua. Tra me e l’altro si dà una intersezione, che vieta di pensare l’altro come presente in virtù del suo darsi in una temporalizzazione per lui impossibile perché priva di inizio. L’altro torna a essere una «promessa», perché il tempo lo esclude dalla presenza.

La conclusione è difficile ma molto suggestiva. Non potrebbe essere capita se non si colgono le sfumature della fenomenologia dell’alter-ego, che anzitutto richiede che intenzione e riempimento vengano riconfigurati: «l’altro non si oppone al riempimento o all’evidenza», ma si esige soltanto che «il movimento verso l’altro nell’intenzionarlo come alter-ego si trattenga dall’esigere o richiedere che l’altro si mostri o diventi presente in se stesso». Siamo noi che non vietiamo all’altro né riempimento né evidenza, ma che chiediamo a noi stessi di non volere che l’altro si faccia presente, lui che vuole per sé una presenza che resta assente, o virtuale o liminare, non mai effettiva. «Nessuna pretesa è avanzata che l’altro si dia in se stesso, e questa restrizione» non è qualcosa di contingente o di solo possibile, poiché invece «è una nuova forma di trascendenza o di costituzione».88 Con tonalità heideggeriana si dice quindi che «l’intenzionalità primaria dell’altro è un ‘lasciare’ che l’altro sia altro da me», un «lasciare» che funziona come un interna intersezione della mia intenzionalità, che viene interrotta proprio in quanto nel punto dell’intersezione in cui l’altro si esibisce sul punto dell’intersezione stessa, l’interruzione intersecata della mia intenzionalità «rispetta il mio rifiuto di esigere che l’altro si mostri in se stesso: un rifiuto che ci offre il fenomeno dell’altro nella sua autenticità, poiché l’altro si installa nella faglia della mia intenzionalità che fa vivere tale rifiuto. «È un’interruzione dell’altro che viene incontro a mezza strada alla mia stessa auto-interruzione, e questo incontro a mezza via è sia fra noi, che tra di noi»,89 ossia è insieme separazione e legame, come accade in ogni autentica interruzione, che nel «fra» separa quel che nel «tra noi» riunisce, istituendo un noi, rispetto al quale ogni soddisfacimento dell’intenzionalità mediante presentazione è escluso.

7. Analisi della coscienza e ermeneutica della coscienza

De Warren riesce a compiere fin dall’inizio dell’ultimo capitolo un’operazione di riassunto e di sintesi del suo percorso che ruota sul nesso fondativo che la «trascendenza in quanto tale» intrattiene con la «primordiale trascendenza della coscienza originaria del tempo».90 Non si darebbe trascendenza senza la trascendenza della coscienza del tempo, ed è da questa connessione che è possibile ricavare, sulla base dell’intreccio tra coscienza del tempo e dell’altro, l’interrogazione fondamentale sul «modo d’essere» (così Husserl stesso) della soggettività trascendentale, la cui prerogativa fondamentale è di essere l’»origine del mondo». È per questo motivo che il motivo critico fondamentale del libro torna nella questione di come «negoziare le relazioni tra la trascendenza primordinale dell’altro e la primordiale trascendenza della coscienza originaria del tempo». Quest’ultima appare ora come la fonte fenomenologica di ogni trascendenza, quella del mondo, e entro quest’ultima, la trascendenza delle vite altrui e la mia auto-trascendenza. La coscienza del tempo apre la sua propria forma di radicale trascendenza: quella che configura la mia auto-temporalizzazione nella trascendenza nell’immanenza delle mie ritenzioni e protenzioni, e insieme, ma non come se si trattasse di un fenomeno che dall’esterno si aggiunge, nella trascendenza dell’immanenza dell’altro. Vi sono ritenzioni e protezioni che definiamo «lontane», perché sono prive dell’aggancio ad un presente vivente. E vi è, di nuovo all’interno dello stesso orizzonte della trascendenza della coscienza del tempo, il fenomeno per cui il nome proprio dell’altro e in generale «la sua sfera del proprio» «rimane per sempre sulla punta della lingua, oltre l’arco del mio presente vivente»,91 dato in una «coscienza vuota», svuotata dalla ritenzione e dalla possibilità del suo riempimento protenzionale, entrambi egualmente distanti.

Ne consegue un passaggio ermeneuticamente essenziale: il solipsismo trascendentale viene superato nella fenomenologia dell’idealismo trascendentale sulla base ora esplicitata in maniera ancora più trasparente dell’analisi della coscienza del tempo e della costituzione «dell’altro in quanto alter-ego». Come possiamo interpretare questo punto nodale che torna con variazioni lungo l’intero libro? «In ciascuno del due problemi – il tempo e l’altro – si riflette la questione di come interpretare la costituzione di un’assenza senza intaccare il principio fenomenologico dell’evidenza originaria in quanto fondazione per ogni costituzione…: in entrambi i casi, la sfida consiste nel mostrare come il presente si apra alla datità irriducibile del non-’ora’».92 Questo, lo abbiamo detto, definisce il perimetro (coincidente con l’orizzonte totale del mondo) della soggettività trascendentale. Dunque il problema è comprendere che un’assenza si costituisce, come tempo e come altro, pur non venendo intaccato il principio fondamentale dell’evidenza, ossia che anche l’assenza gode di una peculiare datità trascendentale, la quale tuttavia non è tanto peculiare da cancellare l’evidenza fenomenologica basilare. La questione che viene in tal modo posta disloca il fuoco di quella appena enunciata, aprendo non per caso sul concetto di «vita» (di vita della coscienza e della coscienza come vita). «Come possiamo riconciliare la tesi che ‘l’essere in sé primo che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé è l’intersoggettivtà trascendentale’93 con l’idea che la mia coscienza si costituisce in un senso assoluto, e perciò primario come coscienza originaria del tempo – la quale, infatti, è la forma in cui la coscienza in quanto tale, mia o altrui, si costituisce in quanto apertura di una vita»?94 In altri termini, quale rapporto costitutivo si stabilisce tra l’intersoggettività, essere in sé primo, e l’originarietà, ossia la primarietà della coscienza del tempo? E dunque, che rapporto si dà tra intersoggettività e coscienza del tempo in quanto vita? È evidente come in questa ultima formulazione, il riferimento alla apertura di una vita e al nesso di quest’ultima con l’intersoggettività è legittimata dal fatto che la coscienza che si costituisce in quanto vita è mia o anche di altri e dunque rinvia ad un ambito che tramite la trascendenza del tempo evoca la dimensione originaria dell’intersoggettività, dove accanto a me si danno gli altri.

Se ci diamo alla rivisitazione del puzzle definito «impossibile», possiamo adottare la tesi di Rudolf Bernet secondo cui la coscienza che costituisce il tempo ritiene se stessa ed è ritenuta, così auto-differenziandosi. La coscienza assoluta costituente il tempo non sarebbe quindi essa stessa nel tempo, nella forma in cui sono costituiti temporalmente i suoi atti noetici e i suoi contenuti sensibili. La sua temporalità sarebbe da definirsi come «vita» in opposizione alla semplice coscienza. Nei manoscritti di Bernau la tensione tra ritenzione e protenzione è colta come il «fra», come il «crinale» tra ritenzione e protezione. «Questa tensione tra la ‘depresentazione’ della modificazione ritenzionale e il soddisfacimento della protensione può essere intesa come la tensione tra vita e coscienza».95 Ciò significa che la coscienza sfugge a se stessa come origina-riamente costituente, ossia «si nasconde dietro la propria auto-temporalizzazione», come se appunto i suoi atti costituenti in senso temporale velassero la sua assolutezza, ed essa si costituisse come una «opacità». La coscienza «vissuta» precede, e sia pure non nel senso di una successione, la coscienza stessa. Avremmo così l’idea insostenibile di una «autocoscienza inconscia». Se quest’ultima viene esclusa, si deve ammettere che la coscienza, sorgente di ogni datità, sia altresì sorgente della propria datità, sebbene non si dia come oggetto immanente. «Husserl scopre così che la coscienza assoluta del tempo non può diventare interamente oggetto della riflessione», in quanto essa «’nuota’ in un orizzonte di costituzione sepolta e rimane sempre compromessa in un originario dimenticare se stessa, il quale, da una parte, determina la possibilità e perfino il senso del ricordo, dall’altra impedisce alla coscienza un’autocomprensione completa».96 L’unità della vita in quanto tale non può essere appresa nella riflessione, ma solo le sue fasi. Ecco allora di nuovo il «puzzle impossibile» di cui de Warren ha parlato per definire la natura appunto ‘impossibile’ della coscienza assoluta del tempo. Essa è auto-costituente, «eppure questa coscienza del tempo assoluta, in quanto origine, sfugge a se stessa come il suo proprio inizio: sfugge a se stessa nel senso di arrivare troppo tardi per se stessa».97 Con una movenza argomentativa che risente di tracce derridiane e freudiane pur non esplicitate, de Warren vede la coscienza «ritenzionale longitudinale» auto-seppellirsi viva nel suo passato mentre si arrende a un futuro rinnovato». Io mi auto-trascendo nel mio passato, ma in quanto la coscienza costituente non è data in quanto coscienza-oggetto costituita, è nascosta nella sua stessa auto-costituzione. In un parola, la coscienza ritenzionale «rappresenta la costituzione di un dimenticare e un sedimentarsi originari».98

La coscienza del tempo ruota sull’incessante rinnovamento dell’ ‘ora’ inteso come il nuovo. Ma questa fisionomia dell’ora come presentazione originaria viene, dopo le lezioni sul tempo, nei manoscritti di Bernau, «ulteriormente rafforzata attraverso la rappresentazione dell’ ‘ora’ come ‘taglio’ o ‘piega’ che divide ed unisce, come punto di sutura nel tempo, il continuum della coscienza del tempo». Allora la presentazione originaria vede mutata la sua fisionomia e si comprende il ruolo ‘differenziale’ che viene assegnato alla coscienza ritenzionale come un dimenticare sedimentato originario. «Pensare a ogni presentazione originaria come a una ‘coscienza del crinale’ (Kantenbewusstsein) può significare che il nuovo è l’insorgenza di una pura differenza, e che la nostra coscienza dell’ ‘ora’… non è altro che questo senso sempre rinnovato di una differenza tra il passato e il futuro – una differenza che è vissuta di nuovo e senza fine».99 Qui diventa chiaro perché il puzzle impossibile trovi una via del proprio scioglimento. Perché il tempo come differenza vissuta tra passato e futuro si colloca per dir così alle spalle dell’impossibile coesistenza nella coscienza del tempo del costituire e dell’essere costituito. E così accade perché il vissuto rinvia alla vita che è pur sempre in rapporto con la coscienza costituente, ma non si identifica con essa, collocandosi alle sue spalle – e fornendo un contributo determinate alla determinazione della soggettività, ora definita non a caso «vita della coscienza», coscienza che ha la vita fenomenologica ‘dentro di sé’. Osserva infatti de Warren che tale concezione dell’’ora’ come insorgenza della novità, ossia «l’insorgenza inattesa di ciascun ‘ora’, come ricorrenza eterna dell’auto-differenziazione temporale, è l’insorgenza della coscienza stessa» cui si accompagna tuttavia la propria strutturale opacità. «Si può paradossalmente sostenere che il senso di ogni nuovo ‘ora’ si rinnova perpetuamente e, in tal modo, risulta sempre nuovo; non perdiamo mai la freschezza di che cosa significhi esperire l’ ‘ora’, eppure questa freschezza o vivacità dell’ ‘ora’ è l’opacità della sottile differenza tra un ‘ora’ che fu e un’ ‘ora’ che deve ancora essere».100 Si noti bene: freschezza ed opacità dell’ ‘ora’ coincidono perché l’ ‘ora’ stesso è un luogo della differenza, della opacizzante sovrapposizione tra l’ ‘ora’ andato e l’ ‘ora’ sopravveniente. Dato che qui la coscienza sorge, in questo ambivalente ‘ora’, «la coscienza costituisce se stessa come opacità della propria auto-presenza».101 Né si anticipa a se stessa, ridestandosi sempre di nuovo, né si rende pienamente trasparente a se stessa.

La coscienza non può infatti essere condannata ad essere in ogni momento semplicemente se stessa, né può essere ciò che è già stata. Quello che dell’ ‘ora’ rinnovantesi noi «speriamo» è che esso non sia l’ ‘ora’ finale e che l’ ‘ora’ prossimo possa durare e lo speriamo anche nell’ultimo ora della coscienza. Se l’ ‘ora’ è il nuovo che travalica la nostra attesa, la trascendenza del nuovo è la stessa «trascendenza della coscienza in quanto assoluta, in quanto origine».102 Ma se ogni inizio-ora è una novità, la coscienza non può coincidere con se stessa, deve essere segnata da quella mancanza in cui il nuovo che essa è si afferma. La coscienza deve oscurare le sue origini e «saltare su se stessa», e oscurarsi anche nella propria prestazione costitutiva. «Un’origine può essere soltanto riattivata e recuperata, ma non ritorna mai pienamente costituita poiché, fin dall’inizio, non fu mai pienamente costituita in quanto inizio».103 Il ritirarsi della coscienza da se stessa, in cui si attivano la de-presentazione ritenzionale del dato e la costituzione del darsi del nuovo, un ritirarsi che ha come fine il ritrovarsi di nuovo, «costituisce l’opacità della coscienza come movimento della vita stessa «(c.m.). Dunque abbiamo non il fallimento della coscienza di coincidere con se stessa, ma piuttosto il successo di mancare se stessa in modo tale da rimanere aperta a se stessa e al mondo». La coscienza assoluta del tempo si risolve nel puzzle impossibile della «impossibilità di non cominciare di nuovo; ogni cominciamento è la promessa di cominciare di nuovo, ma non da dove eravamo appena partiti.104 Ma anche la dimensione passiva della coscienza deve essere declinata in termini di novità intenzionalmente cercata.

Il tema della passività della coscienza diventa centrale nella questione della genesi della soggettività, il cui testo di riferimento principale sono le Lezioni sulla sintesi passiva. Qui, riferendosi alla percezione, Husserl considera i lati nascosti dell’oggetto come qualcosa che induce a considerare la percezione stessa come un «movimento della curiosità»,105 poiché questi lati non visti ci dicono che dell’oggetto stesso c’è di più da vedere e ci spingono a cercare. La percezione, colta come processo dell’attenzione, è dunque il movimento della «attualizzazione» delle potenzialità, un processo «del prendere atto»106 lungo un corso di riempimento e di svuotamento. La possibilità è dunque essenzialmente passività, perché «un oggetto si situa sempre in un nesso di orizzonti. Tali orizzonti di esperienza percettiva possibile sono forme di coscienza implicita, e, in questo seno, passiva o potenziale».107 Se il tempo è, come abbiamo ampiamente visto, una promessa, l’esperienza percettiva è a sua volta costituita di rimandi vuoti, «indicatori di una vuotezza», che tuttavia non è un nulla. Nell’indicare il «vuoto», come lo chiama Husserl108 risuona la stessa virtualità dell’esperienza che sentiamo nell’idea del tempo quale promessa. In entrambi i casi circola una atmosfera di assenza, di vuoto, di negatività. Ma «non siamo di fronte all’apparire completo e totale del nulla, ma di un nulla in cui possiamo saltare, in cui siamo tirati dentro e al quale siamo invitati (c.m.). Qui l’invito è che la possibilità che accompagna o circonda l’attualità dell’oggetto ci chiama verso un’attualizzaziione ulteriore dell’apparizione dell’oggetto…L’esperienza …riflette la passività dell’abbandonare se stessi alla fascinazione del mondo».109 Dunque una coscienza di possibilità «implicita e passiva», realizza in quello che Husserl chiama un «orizzonte vuoto» (Leerhorizon) una estensione dell’esperienza percettiva «oltre il qui ed ora del dato»,110 poiché il vuoto non è un nulla, ma un qualcosa «da perseguire e da riempire» come una «indeterminatezza determinabile».111

La prospettiva futurologica si incardina, questo è il punto tanto paradossale quanto rilevante, sulla passività della coscienza, che lungi dal ridursi al nulla-zero dell’attività intenzionale si presenta come possibilità che cerca il suo riempimento, e lo persegue con «curiosità» fenomenologica. «Percezione non è quindi soltanto il movimento della curiosità, ma anche il divenire della visibilità e in questo senso un sapere che diviene». «Ciò che vedo rimane con me, diventa parte di me e si accumula in un tipo fondamentale di comprensione. Io divento cosa ho visto. La percezione diventa ciò che sono».112 In essa quindi si realizza il senso autentico del tempo come flusso, ma nel senso specifico che il futuro delle determinazione è incardinato nel passato dell’indeterminatezza, sua autentica fonte. D’altra parte, la percezione è movimento dell’attuazione di potenzialità che stanno nel suo passato. «È in ragione del passato, poiché è nei termini della continuità del passato e della sua forma o sviluppo determinata che i vari futuri o orizzonti possibili sono progettati». Il futuro si determina grazie al passato, ed è quindi ora chiaro il senso del tempo come flusso, inteso certamente non come susseguirsi di prima e di dopo: «è in ragione dell’interazione dinamica di presentazioni percettive vuote e riempite che l’esperienza può dirsi in flusso».113 Fondamentale è quindi la comprensione che la coscienza ritenzionale è una potenzialità, sia come de-presentazione dell’intuizione originaria, sia e soprattutto, come potenzialità che si costituisce come «divenire del passato».114 Come si vede, Husserl affida, nella acuta lettura di de Warren, alla passività della coscienza un ruolo chiave nella riformulazione della determinazione della coscienza del tempo, ora finalmente pensabile come autentico flusso.

Ma la coscienza ritenzionale costituisce la potenzialità anche nel senso che «’svuota’ e libera la possibilità in quanto possibilità…ma può fare questo in quanto ritiene il possibile in quanto tale (e) …il passato diventa ‘liberamente disponibile’ per me attraverso il ricordo e in questo modo la ritenzione può essere riattivata e ‘ri-riempita’». Così propriamente la soggettività dell’ego risulta realizzabile. La ritenzione ritiene anche il mio atto di percezione e quindi essa come mia «proprietà» mi rende disponibile a me stesso. «Tuttavia io ritengo me stesso come la mia storia sempre con riguardo a ciò che ho esperito o percepito… si verifica una de-presentazione della mia stessa coscienza. Io stesso divento una potenzialità, ponendo quindi una base per la struttura dell’abitudine… essenziale per la costituzione dell’ego».115 Il passato nella configurazione che qui assume gioca un ruolo centrale perché esso è ritenuto non nel senso di oggetti attuali sottratti alla vista, ma in quello «di oggetti che sono tenuti in maniera ‘vuota’ ossia in quanto possibilità».116 È grazie alla ritenzionalità (alla intenzionalità rivolta a un passato trattenuto) «che la possibilità, o potenzialità emerge nel mondo, ed emerge come vita o divenire della soggettività stessa» (de Warren, cit., p. 254). Siamo nel cuore della lettura dewarreniana del tempo e dell’altro: una analogia molto stretta connette l’alter-ego come presenza di una assenza e il tempo che trova nella ritenzionalità del passato le radici di quell’ ‘altro’ che costituisce l’identità diveniente della soggettività carica di possibilità future. Il vuoto, l’assenza, la negatività costituiscono la ratio fenomenologica stessa dell’analogia.

L’intenzionalità e il movimento del percepire sono un «aspirare», un «tendere». Ma qui è presente una duplicità di modi. Da un lato, con la percezione siamo portati alla presenza della cose verso cui tendiamo e la soggettività «è il movimento della costituzione nel contesto del dato», ossia la soggettività non crea le cose. Dall’altro lato, tuttavia, il tendere dell’intenzionalità verso la datità del suo oggetto intenzionale e quindi verso la sua datità è corretto dal movimento degli oggetti che «affezionano» la coscienza. E allora, «la capacità dell’io di dirigersi verso un oggetto è una risposta a una preliminare sollecitazione del mondo», ciò in cui rifulge l’elemento della passività attiva della coscienza. Prima del darsi dell’oggetto intenzionale, «l’io è affetto da un ‘proto-oggetto’ nella forma passiva della predatità» e la coscienza è motivata a tendere verso una oggetto intenzionale che essa anticipa. Si tratta di intuizioni vuote della coscienza ritenzionale e di quella protenzionale, che insieme progettano la «potenzialità come futuro». Le intenzioni vuote sempre ridestate costituisco il «mondo», che in quanto tale non può avere una fine, non essendo possibile una esperienza ultima della sintesi del riempimento e delle intenzioni e intuizioni vuote. La coscienza intenzionale ora appare chiaramente come un tendere alla piena auto-datità dell’oggetto intenzionale. L’intenzionalità «è una forma di temporalizzazione: l’intenzione è diretta verso il suo oggetto nella forma dell’anticipazione»,117 un’anticipazione che realizza in originale ciò «che è futuro».118 L’apertura al futuro non trova la sua ragione in una unità già costituita del mondo, perché si dà «il riconoscimento che il ‘Faktum’ del mondo non può essere fondato», essendo il mondo stesso pre-costituito indipendentemente dal divenire della soggettività. Di nuovo entra in gioco la dimensione dell’assenza e del passato su cui si regge l’intera interpretazione di de Warren. «La figura dell’assenza – dell’intenzione vuota, della possibilità – possiede la forma fondamentale del passato. L’assenza irrompe dall’interno della coscienza del tempo attraverso la modificazione ritenzionale, la potenzialità emerge dall’attualità attraverso la coscienza ritenzionale «(attraverso la coscienza di passato!), «la costituzione dell’oggettività ha la sua fonte nel ricordo, la soggettività stessa diviene se stessa nel divenire del proprio passato», «datità dell’assenza».119 Sigmund Freud non è mai citato, neanche in forma allusiva, ma una traccia della funzione della datità della assenza quale propulsore della coscienza e della soggettività è avvertibile – senza che si voglia con questo attribuirle all’autore stesso la volontà di far risuonare una tale eco.

Ogni vissuto passato è passato an sich (in sé), come dice Husserl. «Ma questo ‘in sé’ dell’esperienza passata è presente come un vero essere … che è intelligibile», condizione unica del legittimo costituirsi di un flusso di coscienza. «È solo perché l’essenza della coscienza è di costituirsi come un ‘Ansich’ nel senso dell’essere il proprio essere….e lo fa in accordo con la condizioni della passività, che la conoscenza attiva è possibile».120 Da un lato portando dentro di me un passato, posso ascrivere un flusso di coscienza «a un altro nel mondo oggettivo». Dall’altro, e fondamentalmente, è il mio portare un passato nel mio ‘in sé’, quel che rende possibile la conoscenza attiva. Passività attiva, abbiamo detto: ossia passività condizione dell’attività. La coscienza è dunque «un incessante divenire come incessante costituzione delle oggettività»,121 è «una storia mai interrotta».122 La coscienza è una costante auto-differenziazione: «come differenziazione di sé da stessa nei termini della trascendenza della coscienza assoluta costituente il tempo vis-à-vis la coscienza immanente costituita». Ma il punto nodale, che abbiamo già rilevato, e che nell’auto-differenziazione «la coscienza sfugge a se stessa solo per ritrovarsi di nuovo, ma non da dove aveva appena cominciato».123 Così essa si colloca tra il suo passato, quello della sedimentazione ritenzionale di se stessa in cui si auto-seppellisce, e il proprio futuro senza fine che si svela protenzionalmente. L’analisi della coscienza è allora una ermeneutica della vita di coscienza. Richiede una interpretazione. Il suo tendere perpetuo tra i due poli della ritenzione e della protezione è infatti il mio tendere perpetuo «per diventare me stesso, che è possibile solo attraverso l’incessante rinnovo dell‘ ‘ora’», il che rappresenta «la vera speranza o promessa del tempo».124 Tale promessa va interpretata interpretando il senso dell’inesausto rinnovo dell’ ‘ora’: ossia decodificando il senso del suo costante far insorgere attivamente il nuovo dal profondo del passato passivo.


  1. de Warren N, Husserl e la promessa del tempo. La soggettività nella fenomenologia trascendentale, tr. it. di S. Vincini, Edizioni ETS, Pisa 2017, ed. originale Cambridge University Press 2009. ↩︎

  2. de Warren, cit., pp. 259-262. ↩︎

  3. Ivi, p. 190. ↩︎

  4. Cfr., ivi, p. 218 da cui cito. ↩︎

  5. Si veda sul problema della coscienza d’immagine, F.S.Trincia, Fenomenologia e poesia. Edmund Husserl e John Keats, «Dialegesthai» online 2016. ↩︎

  6. Rispettivamente: Il rituale della chiarificazione, Messa in scena delle difficoltà: prove generali, Gli spettri di Brentano↩︎

  7. Ivi, pp. 259-262. ↩︎

  8. de Warren, cit. pp. 134-135. ↩︎

  9. de Warren, cit., p. 140. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. de Warren, cit. p. 139. ↩︎

  12. de Warren, cit., p. 145. ↩︎

  13. Hua XXIII, 47, cit., citato da de Warren p. 140. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Hua XXIII, 32; 46-47, cit. da de Warren, cit., p. 140. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. Hua XXIII, 29, cit. da Warren ibidem↩︎

  18. de Warren, cit., pp. 140-141. ↩︎

  19. de Warren, cit, p. 141. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. Hua XXIII, 79. ↩︎

  22. Cfr. de Warren, ibidem↩︎

  23. de Warren, cit., pp. 165-167, da cui cito anche nel seguito. ↩︎

  24. Cfr. F.S. Trincia, Fenomenologia e ontologia a partire da Edmund Husserl, in Ontologie. Storia e prospettive della domanda sull’ente, a cura di F.Fraisopi, Mimesis, Milano-Udine 2014,pp. 205-225. ↩︎

  25. de Warren, cit. pp. 168-169. ↩︎

  26. Cfr. Hua XXXIII, 330, cit. da de Warren, cit., p. 169. ↩︎

  27. Ibidem↩︎

  28. de Warren, cit., ibidem↩︎

  29. Hua XXXIII, 91, cit. da de Warren, cit., ibidem↩︎

  30. de Warren, cit. p. 185). ↩︎

  31. de Warren, cit. ibidem↩︎

  32. Hua XXXIII, 48, cit. da de Warren pp. 185-186; qui anche la precedente citazione da de Warren. ↩︎

  33. cit. p. 189, in riferimento a Hua, X, 75 e 80/434. ↩︎

  34. Hua, X, 33, cit. da de Warren, cit., p. 189. ↩︎

  35. Ibidem↩︎

  36. Ivi, p. 190. ↩︎

  37. Hua X, 371, cit. da de Warren, ibidem↩︎

  38. Hua, ibidem, cit. da de Warren, cit., ibidem↩︎

  39. de Warren, cit., ibidem↩︎

  40. Cfr. J.Derrida, Hospitality, justice and responsibility …, London 1999, cit. de Warren, cit., p. 191. ↩︎

  41. Ibidem↩︎

  42. Hua, XIV, 289, cit. da de Warren, ibidem↩︎

  43. de Warren, cit., p. 194. ↩︎

  44. de Warren, cit., p. 195. ↩︎

  45. de Warren, cit., p. 196. ↩︎

  46. de Warren, cit., ibidem↩︎

  47. in Hua XVII, 241, cit. da de Warren, p. 198. ↩︎

  48. Hua XVII, 239, cit. da de Warren, ibidem↩︎

  49. de Warren, cit., ibidem↩︎

  50. Su di essa si veda F.S.Trincia, L’angolo oscuro della soggettività in Perspectives sur le sujet, a cura di S.Bancalari e F.S.Trincia, OLMS Verlag, Hildesheim 2007, pp. 159-177. ↩︎

  51. de Warren, cit., p. 204. ↩︎

  52. Hua I, 117, cit. da de Warren, cit., p. 206. ↩︎

  53. de Warren, cit., ibidem↩︎

  54. de Warren, cit., p. 207. ↩︎

  55. de Warren, cit., p. 208. ↩︎

  56. Ibidem↩︎

  57. de Warren, cit., p. 209, che cita Hua IV, 56. ↩︎

  58. de Warren, ibidem↩︎

  59. de Warren, cit., p. 210. ↩︎

  60. Osserva de Warren, cit., p. 211, in riferimento a Hua XIV, 541; 543. ↩︎

  61. de Warren, ibidem↩︎

  62. de Warren,cit., ibidem, c.m. ↩︎

  63. de Warren, cit., ibidem↩︎

  64. de Warren, cit., ibidem↩︎

  65. cfr. de Warren, cit., p. 213, da cui in quel che segue cito. ↩︎

  66. de Warren, cit., p. 214, da cui cito anche in quel che segue. ↩︎

  67. de Warren, cit., p. 215. ↩︎

  68. sulla base di Hua IV, 194. ↩︎

  69. Hua I, 135, cit. da de Warren, cit., p. 216, da cui cito in quel che segue. ↩︎

  70. de Warren, ibidem↩︎

  71. de Warren, cit., p. 217. ↩︎

  72. Hua, I, p. 139, cit. da de Warren, ibidem↩︎

  73. de Warren, cit., ibidem↩︎

  74. de Warren, cit., p. 218. ↩︎

  75. Ibidem↩︎

  76. de Warren, cit., p. 219. ↩︎

  77. de Warren, cit., p. 220. ↩︎

  78. de Warren, cit., ibidem↩︎

  79. de Warren, cit., p. 221, c.m. ↩︎

  80. Ibidem↩︎

  81. Ibidem↩︎

  82. Ibidem↩︎

  83. de Warren, cit., p. 222. ↩︎

  84. Ibidem↩︎

  85. Ibidem↩︎

  86. de Warren, cit., p. 223. ↩︎

  87. Ibidem↩︎

  88. de Warren, cit., p. 224. ↩︎

  89. Ibidem↩︎

  90. de Warren, cit., p. 225. ↩︎

  91. ibidem, c.m. ↩︎

  92. Ibidem↩︎

  93. Hua I, 182. ↩︎

  94. de Warren, cit., p. 226. ↩︎

  95. de Warren, cit., p. 228. ↩︎

  96. de Warren, cit., p. 229. ↩︎

  97. Ibidem↩︎

  98. de Warren, cit., p. 230. ↩︎

  99. Ibidem↩︎

  100. de Warren, cit., pp. 231-232, c.m. ↩︎

  101. Ibidem↩︎

  102. de Warren, cit., p. 232. ↩︎

  103. Ibidem↩︎

  104. Ibidem↩︎

  105. de Warren, cit., p. 248. ↩︎

  106. Hua XI, 8, ibidem↩︎

  107. de Warren, cit., p. 249. ↩︎

  108. Hua XI, 6, ibidem↩︎

  109. de Warren, cit., 249. ↩︎

  110. Ibidem↩︎

  111. Hua XI, 6,ibidem↩︎

  112. de Warren, cit., p. 250. ↩︎

  113. Ibidem↩︎

  114. de Warren, cit., p. 251. ↩︎

  115. Ibidem↩︎

  116. Ibidem↩︎

  117. de Warren, cit., pp. 254-255. ↩︎

  118. Hua XI, 86; ibidem↩︎

  119. de Warren, cit., p. 256. ↩︎

  120. de Warren, cit., p. 258. ↩︎

  121. Ibidem↩︎

  122. Hua XI, 219; ibidem↩︎

  123. Ibidem↩︎

  124. Ibidem↩︎