Il non-luogo della felicità tra deriva e religione

1. Alla radice della gioia

Il trinomio deriva-religione-felicità è l’ambito in cui si dibatte la posizione dell’uomo contemporaneo tra la realizzazione del sé e l’utopia. La riflessione su questa problematica potrebbe avvalersi della chiave interpretativa, suggerita da Tommaso d’Aquino, che apre un fronte suggestivo contro le ansie del nostro tempo: la giustizia è alla radice della felicità ed entrambe si ricollegano alla scelta volontaria della persona, poiché «all’atto di giustizia fa seguito la gioia almeno nella volontà e, se tale gioia si moltiplicasse attraverso la perfezione della giustizia, allora la gioia sovrabbonderebbe fino a provocare il piacere sensitivo».1 La sensazione di cui si parla non è quella corporea, periferica diciamo, ma l’effetto proprio ed immanente della percezione intellettiva. A prescindere da quanto ciò sia comprovato dalle attuali conoscenze neurologiche sulla dinamica mentale, la riflessione tommasiana accoglie nell’ambito intellettivo anche le reazioni della sfera «sensitiva», come il filosofo la definiva.

Se la felicità, a cui compariamo il gaudium della mente, si collega alla giustizia, allora dobbiamo chiederci che cosa sia la giustizia. Scopriamo anche qui l’anello della catena che raccorda virtù e diritto, come elementi fondativi della religione. La loro dinamica non è riservata al solo ambito razionale; infatti essi si rivolgono agli accadimenti, ai fenomeni, agli eventi che non sono asserzioni di principio ma il setting in cui si incastona il vissuto umano. Quel trinomio racchiude in sintesi la lotta, il rischio e il possibile superamento della deriva esistenziale. La religione pura ed autentica aspira al non-luogo anche se è nel fermento delle esperienze reali che si instaura la felicità. Infatti questa non consuma piacevolezze ed utilità ma agogna all’esaltazione del valore. L’Aquinate considera come una simile esperienza debba essere frutto dell’atto razionale.2 Ecco perché il suo godimento può convivere con gli aspetti dolorosi della vita, frutti della concorrenza di cause tra di loro diverse.

Entriamo così nel vivo del concetto di interpretazione. Il rapporto tra parola e interpretazione coinvolge l’atto intellettivo della percezione. Da una parte la parola è il frutto dell’interpretazione intellettuale e si fa messaggio; dall’altra, la parola innesca la possibilità di interpretare il messaggio che essa stessa veicola. Nel trinomio in esame l’interpretazione è il tessuto connettivo la cui dinamica immanente è sostanziata dal lògos dal cui interno germina il primo atomo della felicità.

2. Logos e interpretazione

Le scienze, nel loro insieme, includono un denominatore che è comune alla specificità di ciascuna di esse: il lògos come principio attivo di ogni ricerca. La theorìa sarebbe irrealizzabile senza la loghìa, il linguaggio. Però parola è termine ambiguo, come il famoso motivo cantava «parole […] parole […] parole! », quasi la deriva della peculiarità umana e, conseguentemente, della dialettica del dire e dell’operare etici.

Eschilo, nel Prometeo (338), contrappone «parole a fatti», non però con la prosopopea della propaganda politica attuale. Si direbbe che sia riservato solo ai fatti il valore della verità? La maggior parte dei filosofi ha affidato alla parola il loro rapporto con la ricerca della verità, anche se nel clima austero della meditazione; altri pensatori hanno preferito la preminenza del fenomenico come sicuro approdo alla certezza e alla verità. Il problema, nell’operare, viaggia tra vero e legale. Che un fatto reale sia legale basta poco: è tale se è conforme al relativo dettato promulgato. Così il fatto sarebbe vero per la sua corrispondenza tra parola legale e realtà ma è vera tale parola? cioè corrisponde al bene per sé e di per sé, come pensava Aristotele, quale corrispondenza tra retta ragione e fine ricercato per se stesso?3

Nella letteratura classica il lògos include tanti significati:

  • ragione nascosta, legge universale come in Eraclito (DK22, B1, B2, B41, B50, B72, B114 — sono i frammenti pervenuti)
  • forza di trasformazione dell’animo, capacità persuasiva, in Gorgia (Elogio di Elena, DK 82, B11)
  • convincimento interiore e ricordo, in Platone (Critone, 46b-47)
  • ragione e legge, ancora in Platone (Fedone, 73)
  • relazione, in Eschilo (Sette contro Tebe, 518).

Ci sono, inoltre, due citazioni in cui il lògos si estende all’ambito religioso:

  • in Plutarco (Moralia, 376): con il senso di idea divina
  • n Giovanni, nel Prologo del suo Vangelo (1. 1, 14): quando si annunzia che nel mondo la Luce si è fatta Parola e la Parola è la persona stessa di Gesù: kai theòs en ho lògos […] kai ho lògos sàrx egèneto

In Giovanni la Parola è canale, trasmissione, rivelazione. È il contenuto sublime che non può contenere menzogna (non c’è inganno) né banalità (non è barzelletta), ma è simbolo denso di significati (le parabole), è, in fine, la personalizzazione dell’eternità, il Divino resosi palese, comunicante e, al tempo stesso, contenuto del messaggio. Giovanni segna la demarcazione tra la filosofia e la religione perché il lògos di cui si parlava o di cui si scriveva da Alessandria di Egitto ad Atene, in tutto il mondo ellenistico, nello scritto giovanneo è la novità destinata ad ogni uomo (1. 12). Il messianismo ebraico tramandato e custodito si era svelato con un evento epifanico destinato agli uomini di tutti i tempi. Le comunità delle domus, già prima del 100, prendono coscienza di essere assemblee riunite in una sorta di Emmaus estesa (Lc. 24. 13ss) tra agape e koinonìa. L’annunzio non dovrà fermarsi al racconto degli avvenimenti di Gerusalemme relativi alla festa della pasqua o passaggio, funestata dalla condanna del giorno di Parasceve ma a quanto avvenuto il Sabato, a Gerusalemme, tra i commenti delle donne e lo svelamento a Maria di Magdala.

Il lògos si trasferisce dal tempo circoscritto della prima sequela a tutti i seguaci del futuro: dal fatto alla parusìa. Questo, in sintesi, il fatto religioso tramandato e proclamato, sintetizzato nella riduzione ad unum dei tanti comandamenti, dal decalogo al monologo, ossia all’unica legge dell’Amore, narrazione clamorosa che è la Persona stessa del Figlio dell’uomo. I Vangeli, scritti per la realizzazione della comunione, giungono alle comunità a fondamento della loro stessa costituzione; vengono recapitate anche le lettere apostoliche, indirizzate alle stesse assemblee perché, non bastando la tradizione orale, esse si facevano carico di risolvere i problemi sorti tra i destinatari.

La lettura dei testi era contestualizzata nei momenti assembleari delle chiese locali riunite nelle domus. Giunte a destinazione anche prima degli appunti evangelici di Marco, le lettere offrivano opportunità ermeneutica ed esegesi. Gesù, alla domanda di Pilato sul senso della verità, aveva taciuto (Gv. 18. 38)! Quel silenzio ha sostanziato le risposte, le teologie, le riflessioni, le ecclesiologie di ogni tempo. Il tacere di Gesù su una questione rilevante fa da contrappunto ai suoi discorsi della Montagna (Mt. 5. 1ss) e della Cena ultima (Gv. 14. 1ss). Forse quel silenzio ha evitato all’esegesi successiva di fermarsi più sull’interpretazione di parole e meno sulla Persona che aveva proclamato di essere essa stessa la Verità (Gv. 14. 6).

Le comunità accusano deficit, sbavature, prevaricazioni, bisogno di mantenere la fedeltà, mentre Pietro e gli altri apostoli sentono il dovere di curare e rassicurare nella fede tutti i fratelli (Lc. 22. 32): nasceva la grande interpretazione autentica del cristianesimo.

Anche il nostro tempo ha i suoi lògos; esso è prolifico di tante parole ma spesso è povero di senso e invoca il suo recupero contro le solitudini esistenziali, per cui tanti si affidano all’aiuto esercitato dall’impiego della parola per ricompattare le scissioni psicologiche e le debolezze mentali. La dinamica tra dire/ascoltare/parlare è l’arco riflesso entro il cui circuito si cerca la rivelazione dell’io profondo e la ricostruzione dell’armonia nei processi esistenziali, sollievo al dolore e alle solitudini dei vissuti. Sociologi e psichiatri misurano il benessere e l’insoddisfazione secondo il traino sociale che condiziona l’unità dell’io suggerendo statistiche ed itinerari emotivi. Contro questa solitudine la parola è medicina e propulsione, ma quella che nasce dentro, la capacità di fare relazione e, nello stesso tempo, di elevare la meta ed il tono verso l’alterità. Anche lo spazio della filosofia aiuta l’interpretazione e sostiene pensieri per alimentare la creatività dello spirito.

Solitudine e parole: è forse ricerca di dialogo il riversare su iPad il vivere digitale in mancanza di dialogo tra presenze, seppure di misura minima? La sete di parole, propria della nostra contemporaneità, è rappresentata dalla donna che giunge al pozzo a cui, se fosse mancato l’ascolto di una parola nuova, sarebbero rimaste impedite le prospettive (Gv. 4. 10). Invece chi le parlò le sovvertì i piani, placando quella sete mentre risolveva la confusione dei discepoli.

Passiamo ad un’altra parola forte e storica ma adoperata oggi in modo ambiguo: esodo. La tradizione storico-religiosa lo attribuì all’esperienza del popolo «tratto dalla terra di Egitto». Oggi il suo uso è esteso ad ogni trasferimento di massa. C’è in questa estrapolazione, applicata all’oggi, una interpretazione più del concetto di movimento di massa che di liberazione. A nostro avviso quest’uso è usurpazione ed esempio evidente di manipolazione culturale, non senza responsabilità politiche. L’esodo storico, attraverso il racconto letterale di varie scritture sovrapposte, è alimentato da alcuni punti-forza: l’ordine di Dio, la sua promessa della nuova patria, la guida e le norme sancite per il comportamento religioso futuro del popolo.

Oggi, si ripropongono, come in altre occasioni della storia umana, nuovi trasferimenti di massa, anche con attraversamento dei mari; ma, a differenza del lungo racconto ebraico, c’è ben altro: mancano la terra promessa, l’approdo agognato che, quando si avvera, è caratterizzato dal rifiuto e, spesso, dai respingimenti programmati con progetto politico e, infine, manca proprio un Mosè, nel senso biblico di «colui che è stato tratto (salvato) » e che avrebbe dovuto «trarre (salvare) tutti gli altri» dalla schiavitù. I popoli, provenienti nell’Occidente opulento dai mari o dai monti, partano dalla sofferenza e dalle violenze e giungono in nazioni di privazioni e rifiuto. Eppure si tratta non di invasioni, perché tutti costoro chiedono l’integrazione e non pretendono la conquista. Ecco come l’interpretazione linguistica, elemento di fondazione della religione, può associarsi alla mancanza e al rifiuto della religione! La deriva in questa caso non è solo linguistica ma anche sociale e culturale.

Si può reagire alle solitudini e alla deriva adoperando tutti i mezzi e le parole adatte a fondare ed incrementare la relazione per sostenere le menti non rappacificate e gli amori atrofizzati. È il preambolo della felicità. La religione, con il suo lògos, offre all’uomo la dimensione dell’oltre con cui egli può misurarsi e verso cui può tendere. Ma la religione quando è vera?

Il cristianesimo, fin dall’inizio, propose i suoi elementi costitutivi: esso si fonda sulla persona di Gesù di Nazaret e la sua forma si evolve in stretta relazione con l’interpretazione della Parola. Successivamente la chiesa si è relazionata, in tempo di libertà, con i modelli socio-politici e culturali sul territorio. Non solo; come le altre religioni monoteistiche, il cristianesimo si è proposto come religione unica destinata a diffondersi in missionarietà. Se il cristianesimo contemporaneo affonda le sue radici nelle prime vicende e nei primi modelli tramandati da Atti poi le etnie e le tradizioni locali hanno modellato l’ecclesiologia e le teologie di cui sono simbolo le liturgie. La religione cristiana ha seguito questa declinazione: eresie, scismi, riconciliazioni e concili, fino a conseguenze politiche (vedi la Riforma e alcune democrazie, cosiddette di ispirazione cristiana, di fatto dittature).

Nel cattolicesimo contemporaneo (anni ’70) è stata emblematica la discussione della mediazione tra fede e storia: problema interpretativo, stagliato sullo sfondo della lettera di Giacomo: «una religione pura e senza macchia davanti a Dio […] è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo» (1. 27). È una asserzione perentoria; non è un elenco esemplificativo, è piuttosto tassativo: da una parte è determinante il soccorso ai deboli e dall’altra si escludono i modelli mondani. Questo coincide con la discriminante prevista da Gesù per la salvezza dei risorti (Mt. 25. 34); quando fa l’elenco dei soccorsi effettuati dagli eletti rivela loro, del tutto sorpresi, di essere stato personalmente destinatario di quegli interventi caritatevoli.

In un territorio segnato dalle ingiustizie sociali, dalla povertà e politiche discriminatorie, «nella chiesa che è nelle Americhe» è fiorita la teologia della liberazione dall’interno stesso di un doppio conflitto: sottrazione di democrazia e di libertà da una parte, dall’altra rifiuto di quella scelta da parte della curia romana, preoccupata di salvare il rapporto tra le istituzioni governative e l’ortodossia nella prassi socio-politica del clero. Si paventava il pericolo di sdoganare la lotta di classe attraverso la significativa partecipazione dei cattolici alla difesa dei diritti umani. Una deriva! Altro caso, di poco antecedente, si registrò in Francia nella metà del secolo scorso: il fenomeno dei preti-operai. Prima ci fu il richiamo di Pio XII e poi la sua condanna con l’emarginazione dei responsabili ed il loro esilio (trasferimento di religiosi fuori dalla Francia). Giovanni XXIII, invece, riabilita il movimento fino a riconoscere come consultori del Concilio Vaticano II gli stessi teorici di quella stagione di innovazione pastorale: i teologi domenicani Congar e Chenu. Tutti e due i casi hanno patito la deriva nell’interpretazione del lògos; questa volta si trattava non di espressioni verbali ma di prassi e gli interventi curiali disconoscevano a queste nuove forme di interpretazione l’autenticità della sequela Christi. La scelta socio-religiosa dell’evangelizzazione e l’interpretazione del messaggio evangelico, a contatto con il mondo operaio e con il suo sfruttamento da parte del sistema capitalistico, erano state giudicate sbilanciate ed inclini verso una forma di pauperismo.

La storia del cattolicesimo sovrabbonda di queste interpretazioni e reinterpretazioni della Parola, stretta tra ortodossia, prassi e gerarchia. Così si spiegano le lotte, le oppressioni, i rifiuti, le guerre e i roghi in nome della religione, come in suo nome si spiegano le rivendicazioni, le critiche, il sacrificio e le immolazioni. I documenti che riportiamo testimoniano gli atteggiamenti contraddittori della curia romana, addirittura con riferimento alla felicità:^[4]

1452 — papa Nicolò V e la sua Bolla in favore del re Alfonso V: « (Il papa) dispone quelle cose che sa gradite alla Divina Maestà […] per acquisire meriti di felicità eterna […] ciò potrà avvenire […] se ricompenseremo con opportuni favori e speciali privilegi re e principi cattolici atleti e intemerati difensori della fede […] che rintuzzano la ferocia dei Saraceni e di altri infedeli nemici […] acquistano regni e territori […] e li assoggettano a loro dominio […] (dispone) piena facoltà a re Alfonso di invadere, ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo … ».

1985 — papa Giovanni Paolo II e il discorso a Yaounde (Cameroun) : «Nel corso della storia uomini appartenenti a nazioni cristiane purtroppo non sempre si sono comportati così. E noi ne chiediamo perdono ai nostri fratelli africani che tanto hanno sofferto, per esempio per la tratta degli schiavi».

Negli anni ’60 del secolo appena trascorso fu evidente il turbine che interessò il rapporto dialettico tra istituzione ed ermeneutica del messaggio evangelico, soprattutto quanto al valore della testimonianza evangelica (vedi il caso dell’Isolotto a Firenze). Le comunità dette di base furono i luoghi-di-tensione tra ascolto della Parola e rapporto tra Fede e Storia. Un attrito significativo, circa l’impegno dei cattolici, si registrò in Italia tra la FUCI e il movimento di Comunione e Liberazione di don Giussani allorquando la prima Associazione scommetteva sulla laicità e indipendenza dei cattolici in politica secondo l’assunto conciliare dell’originalità del credente impegnato nella cosa pubblica, e CL che, invece, in base all’unità della fede, esigeva anche quella dell’impegno politico nel partito di ispirazione cristiana. Nel frattempo il partito di riferimento, al governo, si avviava verso la sua crisi irreversibile ed i laici, in forza dei principi sanciti dal Vaticano II, rivendicavano la loro autonomia interpretativa nel patto sociale del sistema democratico.

La discriminante era l’interpretazione della scelta dei poveri, anzi proprio della loro classe. Il processo della salvezza dell’uomo dalle sovrastrutture infelicitanti diventava interpretazione della religione, autenticità della prassi etica e annunzio dell’ evento-Cristo come riproposta del Regno di Dio ora e qui, in un esistenzialismo che contenesse l’incipit della felicità, l’anticipazione utopica della liberazione.

Tutti i casi citati sono stati provocati dalle divergenze interpretative del lògos e dalla conseguente partecipazione attiva sul progetto-uomo. Allora, ecco il problema: perché la religione, che si fonda sulla parola, suscita conflitti a causa del suo stesso lògos? L’interpretazione della parola giudica gli avvenimenti e le soluzioni ad essa ispirate, ed un’altra ermeneutica si estranea, si erige a giudice e proclama l’esclusione. Ora l’interpretazione, per essere tale, non può rifiutare il dato che la giustifica; altrimenti che cosa dovrebbe interpretare? E se il dato è storico, allora è la stessa prassi oggettiva che giustifica e che detta gli ambiti di applicazione. Se Gesù avesse dovuto discutere sull’opportunità di farsi uomo secondo i dati che l’umanità del suo tempo forniva, avrebbe dovuto ritenere di per sé abominevole mischiare umano e divino, se non altro dissacrante. Ma non giudicò ciò scandalo (Fil. 2. 6ss).

Parola e religione, messaggio di salvezza per la politica tra interpretazione e deriva. Come potrà la parola liberante diventare essa stessa emarginazione e condanna? Come libereremo le nostre parole? E l’interpretazione quando sarà sancita e diventerà definitiva? C’è una soluzione sola oppure vige il principio del relativo? Nel cristianesimo la Pentecoste libera la parola perché sconfini ma chiunque può ritenersi in possesso di carismi e di capacità interpretativa libera? Quando nella politica si difendono le radici cristiane di una nazione o di un popolo, si tratta di parola o di interpretazione? Eppure, quanto alle radici, sembra che proprio Gesù suggerisca la soluzione: meglio osservare i frutti! Le radici sono nascoste e non si offrono a considerazioni; i frutti, invece, sono evidenti e accompagnano abbondantemente il giudizio sulla realtà (Mt. 7. 20). Si nota nelle parole di Gesù la sua indicazione a spostare il riconoscimento della veridicità del messaggio sui segni tangibili delle opere.

Siamo soggetti a tre tipi di ermeneutica, quanto alla religione: interpretazione religiosa, interpretazione politica e interpretazione delle connessioni tra religione e potere. Tutte e tre le ermeneutiche convergono in una sola declinazione della relazione tra religione e felicità. La felicità può resistere in questa dinamica se ai due coefficienti religione/politica si sottrae l’esercizio del potere: esso o è servizio o diventa penetrazione invasiva e lesiva della libertà. La deriva religiosa ci sembra abbia origine proprio dall’esercizio del dominio sulle intelligenze e sulle emozioni.

3. Tra ermeneutica e fondamentalismi

I contrasti tra alcune esperienze religiose e le istituzioni, che sono sorti nel secolo appena trascorso, sono diversi rispetto ad altri precedenti momenti di crisi. La novità del ’900 è costituita principalmente dalla connotazione religiosa assunta in modo autonomo nell’esercizio di responsabilità civili e politiche. Si tratta dell’interpretazione della laicità.

Quale laicità? dello stato, dei servizi essenziali (formazione, sanità …), dei cittadini impegnati in politica attiva, dei credenti impegnati nelle comunità ecclesiali? Quando il cittadino organizza il suo servizio in condizione di laicità mentale e sociale allora egli interviene con la produzione di servizi promozionali, di politiche indipendenti e aconfessionali. Quando, invece, l’adesione religiosa detta le finalità delle aggregazioni secondo modelli ispirati all’unità della fede, allora essa diventa esclusiva e non inclusiva; l’ispirazione religiosa può giungere a forme di assolutismo e compromissione della democrazia, così si provoca il fondamentalismo, perché nell’unità del credere diventa incluso l’esercizio del potere e questo non può confondersi con la motivazione etica perché nel suo caso il credo religioso non alimenta la proporzione tra bisogni e loro soddisfacimento ma coniuga credenza, appartenenza e proselitismo con l’uniformità interpretativa fideistica della prassi. Così, fondamentalismo sono stati: la conversione alla fede cristiana dei Sassoni imposta con la forza dall’imperatore Carlo Magno nel 785, la conquista del nuovo mondo sotto l’egida della diffusione cristiana con beneplacito del Regni di Spagna, Portogallo e del Papato, la tratta dei negri ritenuti razza inferiore, come abbiamo documentato, l’invasione militare delle crociate, l’espansione dell’Islam e la sua imposizione nel nome di Allah.

Fondamentalismo e terrorismo si sposano nella deriva religiosa o pseudoreligiosa, anche se il fondamentalismo non necessariamente prelude ed invoca violenza militare o paramilitare. Ma sicuramente blocca le libertà individuali, l’indipendenza e l’autonomia, la convivenza civile riconosciuta pur nella diversità e varietà dei modelli democratici. Eppure ogni religione, per sua natura, comporterebbe la liberazione dall’assolutizzazione degli schemi. L’applicazione della religione alla prassi, ispirata da unità di radice, di fine e di valore, se induce all’uniformità delle scelte, potrebbe cozzare con la giustizia che, invece, suggerisce una pratica relativa e non univoca, perché ispirata dal diritto di eguaglianza.

San Tommaso, in pieno secolo XIII, fornisce senza indugio un’affermazione di derivazione non certamente teologica, anzi del tutto laica (da Cicerone, per l’esattezza), affermando che «la religione è parte della giustizia».4 Ritorna così l’elemento dello ius, come già detto. Quando i movimenti ecclesiali, nell’affermazione esplicita della loro fedeltà all’autorità del Vaticano, dovessero convogliare i loro seguaci nell’unità delle scelte politiche, risulterebbe difficile non riscontrare in ciò del fondamentalismo, soprattutto se si genera e si giustifica il giudizio severo contro le opzioni politiche animate dalla libertà laica. Così si nota come certe esperienze religiose si siano rivelate collaterali a movimenti intransigenti e, a volte, giustificative di politiche governative autoritarie (così è successo ad esempio con l’Opus Dei).

La religione, ispiratrice di modelli univoci nella politica, conduce il fedele a misurare la prassi su parametri assoluti che né la giustizia né il servizio sociale possono pretendere. La fede è nella diade uomo-Dio; a livello sociale è nella triade uomo-Dio-cosa pubblica. Mentre la comunione si fa ekklesìa perché parte predominante è Colui che «chiama in» (dal greco: en-kalèo, chiamo dentro) per cui ha senso la comunità di fede; l’impegno socio-politico, invece, è nel giusto quando privilegia l’eguaglianza delle dignità. Le esigenze democratiche dell’assetto socio-politico delle comunità civili non possono essere realizzate sul modello ecclesiale perché la linea di demarcazione non è tra credere e non credere ma tra individui e diritto. Al lògos lasciamo lo spazio tra assenso ed interpretazione. Gesù ha indicato il parallelo tra amore verso Dio ed amore del prossimo, anzi ha sancito la indefettibile somiglianza. Però quanto alla costruzione sociale ha indicato la distinzione tra Regno di Dio e realtà umana, stabilendone la differenza (Mc. 12. 17).

La distinzione tra fede e religione è d’obbligo. Il disporsi al rapporto benevolente Dio/uomo, che permette l’irruzione di Dio nella sfera personale e in quella ecclesiale, non può paragonarsi alle forme teologiche, relative della religione. La Parola è altro rispetto alla teologia perché questa è parola e pensiero dell’uomo anche se in riferimento a Dio, mentre la Parola è rivelazione. Secondo questa distinzione, le religioni sono in rapporto con le fedi, ma anche con le culture; per questo parliamo di forme religiose. E la cultura ha il suo iter, la sua evoluzione, tra totem, modelli, credenze, miti, ecc. . Il Maggio di Accettura può vedere in assorto corteo l’albero-simbolo benedetto, ma rimane sempre il suo vero senso di natura rinnovata, sposata in un simbolico connubio con la devozione mariana del maggio, del cristianesimo che si sovrappone all’uso pagano; la fede è altrove, è ben altro. Nel calendario liturgico della Chiesa cattolica la «festa dei 4 tempi» è prova dell’uso cristiano di sovrapporre a quello pagano, ricco di speranza per i doni agricoli delle divinità, l’implorazione a Dio rivelato dal Cristo sulla felicità della vita prospera.

La stessa cosa si era verificata in Peucezia e in Messapia quando, a delimitare l’antica «centuratio», si sostituiscono le numerose edicole sacre pagane con cappellette recanti simboli cristiani: ai simulacri delle divinità greco-romane subentra l’iconografia cristiana.5 È la testimonianza della connessione tra lavoro, proprietà e vita felice come elargizione divina.

La politica, se assume modelli proporzionati per la costruzione della vita sociale in prosperità e convivenza pacifica con rapporti di eguaglianza democratica, basta da sola a sostenere i valori della sussidiarietà e della promozione umana. E quanti ne sono garanti possono, anzi devono, ritrovarsi in sintonia e collaborazione, prescindendo dal credo religioso. Il cristianesimo, infatti, ha assunto a valore di simbolo, gli elementi propri della vita umana, fino a connotarli come segni attraverso i quali si effettua l’elargizione della Grazia. Così è per l’amore tra gli sposi come per il pane ed il vino. Da questa riflessione tra religione e politica emergono alcuni corollari.

La laicità non è rifiuto della religiosità. Il termine laico ha avuto in passato il significato di status, prima di tutto per differenziarlo dagli appartenenti all’istituzione clericale, ma poi ha assunto anche il senso di contrapposizione alla religione. Oggi il senso più diffuso è quello di indipendente e così laici sono detti, per esempio, i membri di organismi statali scelti in quanto non sponsorizzati dai partiti. Riconoscere la laicità di un credente, inserito in un contesto socio-politico, significa affermare il valore democratico della parità, senza differenze per la derivazione religiosa. Così è possibile, in piena laicità, giustificare l’insegnamento della religione nelle scuole di uno stato, non come estensione ecclesiale e fideistica di un credo, ma come riconoscimento del valore spirituale presente nella stessa storia di una cultura: quando letteratura, tradizioni ed espressioni artistiche del territorio e della popolazione ne sono portatori.

La deriva è un effetto di concause tra cui emerge la pretesa dell’univocità dell’interpretazione. Come in antropologia, le analisi delle abitudini e tradizioni sono rivolte ai comportamenti reali riferiti ad aree geografiche definite e questo è possibile in base ad ermeneutiche esercitate con l’aiuto delle coordinate culturali risalenti necessariamente alle ideologie, così l’interpretazione dei vissuti quotidiani deve trovare il senso a partire dall’oggettività. Sarebbe violenza una registrazione delle varie situazioni sotto il senso univoco dell’esperienza religiosa e si favorirebbe la deriva.

Il pensiero laico riconosce il diritto dei popoli alla cittadinanza e alle diversità. Sussidarietà, accoglienza, fraternità, uguaglianza sono oggi pensieri laici anche se derivati dalla struttura religiosa e monacale del cristianesimo orientale e occidentale. Interessante come la vera religio di cui parla l’apostolo Giacomo sia vicina più alla laicità dei valori diffusi che al sacro della vita evangelica a cui invece spetta il forte richiamo della Rivelazione. L’accostamento filosofico della libertà al progetto di giustizia chiarisce l’ambito della religione contro la deriva di una assunzione univoca del bene secondo il messaggio particolare o i documenti propri di una specifica credenza. Filosoficamente ci chiediamo dove stia il senso della felicità: l’interrogativo e il dubbio dimostrano che possediamo già una qualche idea della felicità. Essa è nel pensiero, prima ancora di essere fruizione del godimento.

4. Il non-luogo della felicità

Il rapporto tra parola e interpretazione ha grande importanza per cercare tra le pieghe intramondane dell’uomo i segni della sua ricerca di felicità. All’interno del rapporto tra parola e interpretazione si delinea l’itinerario della comprensione dell’essere e si coglie la proiezione del tendere oltre dell’uomo fin dal suo esistere angusto. Nella proiezione si giuoca ora la finzione fantastica ora il reale-non-ancora. Sono due prospettive diverse: nella prima il vero è il desiderio, nella seconda esso è l’attesa dell’imprevidibile, ritenuto comunque certo.

Il termine greco eudaimonìa (composto da eu, buono, bene e dàimon, demone, potere divino) significa, nel suo insieme, «la buona sorte toccata per volere divino». Da questo termine e da questo senso i classici hanno derivato il concetto di felicità.

Prima ancora che il linguaggio si fosse arricchito di speculazione filosofica, il vissuto metteva già in correlazione lo stato felice con il divino. Ma non c’era ancora il concetto etico quale appuntamento con la base dall’agire volontario finalizzato al raggiungimento dello stato felice. È certo che la riflessione scritta sulla felicità fu preceduta dall’idea di essa, dal convincimento che una certa prassi rendesse felici. Ciò era già avvenuto per altri pensieri forti importanti, come riconoscimento della divinità, premonizione, auspicio, iniziazione, pìetas, culto della vita e della morte.

L’osservazione che gli etnologi fanno sui comportamenti e le abitudini tribali, condotta sulle civiltà contemporanee non progredite, circoscritte in territori delimitati, ci fornirebbe notizie sulla percezione della felicità presso le relative popolazioni. Ne scopriamo il concetto immanente nella loro venerazione della terra, dell’acqua e del fuoco come, ad esempio, nella disposizione delle capanne che i Canela collocavano nei loro villaggi in cerchio a simbolo dell’irradiazione dei raggi del sole.6 La celebrazione del connubio, l’attesa delle stagioni, la raccolta dei frutti della terra, la festa per i risultati positivi della caccia, i riti funerari: sono occasioni che producono l’esplodere della gioia tribale, per quanto la fatica quotidiana possa consentire di coronare le relazioni di felicità che è simboleggiata con colori, tatuaggi, totem, armi, con le danze che sono insieme movimento, canto, suoni e gesti, tutti elementi gioiosi e, a loro modo, manifestazioni felici.

La prima codificazione complessa sulla felicità, nel pensiero occidentale, è quella argomentata da Aristotele nell’Etica nicomachea (X, 1172-118) .7 Al sorgere della riflessione scritta, giuntaci nei frammenti, la felicità è connessa con l’hedonè, piacere, la soddisfazione del desiderio sensibile, non essendo ancora presente nella riflessione il concetto di «godimento superiore». Infatti Omero aveva indicato il piacere come realizzazione del successo, sia nell’Iliade che nell’Odissea; Democrito escludeva la felicità dal possesso della ricchezza: «essa risiede nel profondo dell’anima».8 Ma dobbiamo ritenere che in un frammento il pensiero è appena accennato, non ci è giunta una riflessione articolata e argomentata. Aristotele ha operato il capovolgimento dei coefficienti attribuendo preminenza alla coscienza e alla riflessione critica, rigore logico indispensabile per la loro applicazione nella prassi. Lo Stagirita fu il primo a fondare il primato della teleologia, nel senso non della soggezione del dio alla razionalità dei fini ma della necessità del rigore razionale nell’individuare la prospettiva del divino offerto all’uomo a coronamento della sua dignità.

Egli afferma: «Sembra che la verità dei ragionamenti non solo è utilissima al conoscere, ma anche alla vita; infatti se essi concordano con le opere sono creduti, e perciò incitano coloro che li comprendono a vivere seguendoli» (1172 b, 4). Secondo Aristotele, per mantenere la dignità, si deve attribuire alle azioni un senso secondo il progetto razionale. Solo il rigore logico, fulcro della razionalità, consente che l’agire sia degno e quindi etico. In tale processo si possono governare le opzioni che possono annoverare anche l’utile e il piacere.

Oggi, più sollecitazioni agitano i nostri equilibri e l’impegno a decodificare i messaggi multipli e contaminati coinvolge la nostra attenzione; anzi la nostra riflessione è messa a dura prova, obbligata a zigzagare tra gli ostacoli per non farsi sorprendere dall’inganno di fini sottesi propizi soltanto ai manipolatori della propaganda. C’è una pagina aristotelica dell’ Etica da rileggere in questo itinerario verso la pace interiore e l’equilibrio esistenziale, nella progettualità di senso. Rivisitiamola quasi per fare sosta, per superare l’inquietudine, contro la solitudine e la paura esistenziali, a protezione dai motori della necessità e della velocità accelerati al massimo:

In ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto. Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino.

Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore.

E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi consista proprio in essa; sarebbe quindi assurdo se l’uomo scegliesse non la vita a lui propria, bensì quella propria di altri […] Quello che a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più piacevole.

E per l’uomo ciò è la vita conforme all’intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto l’uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice. (X, 1177b, 8 — 1178a).

Aristotele sollecita l’itinerario intellettuale che batte ben altre strade rispetto al mito, a cui invece si fece ricorso per fornire giustificazioni e superare l’angusto ambito delle speranze e delle ragioni ultime mantenute con difficoltà nel perimetro razionale. Perché, dopo Platone, Aristotele non ha avvertito la necessità di ricorrere al mito? I principi essenziali di non-contraddizione e delle causalità e, fra queste, della finalità, sono stati principi di ragione sufficiente per aprire l’intelletto alla concezione della felicità entro gli stessi parametri della virtuosa azione razionale. Sintetizziamo questo itinerario verso la felicità in quattro proposizioni.

La prima: la felicità è soddisfazione razionale. Essa non preclude la sua estensione fino al piacere sensibile, ma esclude il processo inverso, come da effetto a causa. Non si nega la connessione fra i due soddisfacimenti ma si afferma il primato della ragione perché, per la sua esistenza, c’è necessità sia di rapporto con i fini che di percorsi intenzionalmente coerenti con il senso.

Il vissuto coerente è lo zoccolo duro del godimento razionale e del suo soddisfacimento percepito. La felicità, così, sarebbe la risultante dell’incidenza della volizione sull’esistenza, a somiglianza del raggio incidente della luce sulla superficie riflettente; la felicità sarebbe come la risultante proiettata verso la metastoria, fuori dal circoscrivibile, fuori da quanto possa essere esperienza relativa e transitoria. In questa dinamica non può essere trascurato il progetto delle parole adoperate nella fase di educazione ai valori: il formatore è mediatore nel processo e non gli possono sfuggire, nella sua pianificazione, i valori secondo i quali, nel rispetto della libertà interpretativa della persona, egli cura e difende la disposizione a raggiungere il senso. La soluzione dei problemi, connessa con questa impresa, è realizzabile solo in assetto di proporzione tra le potenzialità individuali e i fini.

Secondo l’esempio del raggio di luce, la proposta educativa giunge nell’interiorità della persona ma si richiede che la superficie di incidenza non sia scabra. La simbologia sottolinea l’importanza degli interventi pedagogici indispensabili per l’avvio del processo. L’intervento formativo, in altri termini, educa alla connessione con il divino, di cui parla Aristotele. La ricerca del senso è uno dei più affascinanti itinerari della vita in quanto la pace interiore è fecondata dalla percezione dell’equilibrio e dalla proporzione.

Il «perìpathos» accoglieva il lento passo dei discepoli con il saggio mentre trascorrevano il tempo nella ricerca di risposte sull’esistenza e sull’interpretazione della natura e delle essenze. La scuola di oggi invece è un sistema consolidato e divaricato: allora, nel passeggiare, si tentava la ricerca della verità e della risposta ultima, oggi nell’angustia delle aule asettiche si obbligano le giovani menti alla cronaca dei fatti, dei pensieri, al riassunto di contenuti, alla memorizzazione di parole altrui o di figure e ragionamenti prodotti da pensieri altrui. Per restare nei simboli: alla prima forma era connesso il cammino e la ricerca, alla seconda, l’attuale, la staticità e il sistema. La ricerca di senso non può appartenere al sistema, il cui fine è soprattutto quello di rigenerarsi ed autodifendersi, mentre invece ogni persona è chiamata a trovare senso e a godere del suo raggiungimento con piena creatività e libertà.

La seconda proposizione: la felicità è la percezione della proporzione tra i fini e l’acquisizione razionale del soddisfacimento. L’accoglimento interiore di questo principio fonda l’eticità dell’agire, non solo il rispetto formale della norma. Kant si è protratto su questa distinzione quando ha proposto l’imperativo categorico, cioè la categoria interiore mentale che trasforma una qualsiasi norma legale in assunto morale: è l’applicazione dell’universalizzazione la valenza discriminante che fonda l’eticità nei comportamenti. Un bel compito quello di trasferire il piano della razionalità e della sua funzione universalizzante tra la proporzione di aspirazioni o azioni o progetti e l’equilibrio dei fini universali. Un passaggio necessario perché le parole e la loro interpretazione abbiano un senso etico.

La terza proposizione: il piacere, nel soddisfacimento razionale, consolida la conoscenza. Spesso abbiamo sottolineato come sia sorprendente che alcune intuizioni psicologiche dello Stagirita trovino conferma nei risultati delle scienze neurologiche e psicologiche contemporanee. Abbiamo letto del filosofo: «… vita conforme all’intelletto […] in ciò consiste soprattutto l’uomo». La funzione intellettiva non la possiamo localizzare esattamente in una sola zona dei lobi cerebrali, poiché tutti i neuroni concorrono, ciascuno con la sua specializzazione funzionale, all’insieme della reazione neuronale dal cui prende il via il processamento intelligente, suscettibile di variazioni per nuove inferenze.

Dell’intelligenza gli studiosi evitano di dare una definizione circoscritta. Nel multiforme intreccio delle operazioni neuronali esistono zone di mediazione, così è l’ipotalamo che accoglie le sollecitazioni provocatrici di paura/ansia ma anche di piacere/benessere. La selezione positiva o negativa e i rispettivi effetti sono il frutto di un governo superiore, collegato a quel circuito. L’educazione sollecita questa capacità selettiva e coordinatrice, a cui affidiamo il discernimento di quella proporzione che dispone l’individuo alla felicità. Però se la soggezione ai turbamenti e ai traumi condiziona il nostro cervello, anche la capacità di tendenza alla felicità ne soffrirà, perché questa non esiste senza l’apporto razionale ed emotivo. Se i formatori stilano un progetto oggettivo, mirato al benessere e al progresso educativo e culturale dei soggetti affidati, è perché la scelta delle parole, la fondazione del clima favorevole, l’attivazione dei processi apprenditivi rientrano in una pianificazione che farebbe dire ad Aristotele: «questo modo di vita sarà il più felice», quello connesso e coerente con il «divino che è in noi» e la parola ne è l’architrave.

Quarta proposizione: la superiorità del divino intranaturale è razionale: senso dell’intento finalizzato al bene. Qui è la radice dell’immortalità. È metafisica? Perché non solo Schopenhauer ed altri filosofi occidentali ma anche, oggi, spiriti liberi e ricercatori di senso tendono verso l’Oriente? cercano risposte all’appello esistenziale che non trovano nella sterilità dell’Occidente? neanche nelle tradizioni cristiane che pure tanto misticismo hanno espresso nell’esperienza alta della riflessione e della religiosità?

Nietzsche con il suo Zarathustra si connette a Zoroastro non rifiutando la metafisica perché di ricerca di senso si tratta. Forse i filosofi occidentali hanno tentato, nell’itinerario della ricerca del senso, la riunificazione tra interiorità e tecnicismo ma il tentativo non ha risolto la dicotomia né ha evitato l’origine del tragico intraesistenziale. Il cerchio magico del mandala non esaurisce il tentativo di riunificazione.

Il cristianesimo, in Occidente e in Medioriente, ha celebrato la sua apoteosi simboleggiata nell’arco di trionfo delle basiliche, nelle icone con immagini incoronate d’oro, nelle celebrazioni della glorificazione, secondo i parametri del trionfo augusteo dei Cesari, tutto a risarcimento della sofferenza per le persecuzioni patite; questo cristianesimo ha offerto di sé l’immagine iconografica e liturgica, nel segno del potere e dell’ortodossia. Così in molti simboli c’è stata la rappresentazione del sacro in forma di vittoria trionfale: triregno, ori, tesori, flabelli, incenso, sedia gestatoria, diplomazia, nunziature, ecc. .

Nell’esperienza cristiana, però, ci sono stati gli ordini mendicanti, le regole della povertà evangelica, le scelte dell’autenticità. Il monachesimo in Occidente ha tentato le strade della metànoia verso la riaffermazione dell’autenticità evangelica, ancor prima delle accuse luterane e nello stile delle lettere di Caterina da Siena che, nel nome di «Gesù dolce Gesù amore», rimproverava pontefici e cardinali spronandoli all’austerità e all’autenticità evangeliche. Ma dopo le spinte profetiche dei fondatori e dei riformatori anche le abbazie, i monasteri, i conventi si sono ammantati di splendore sulla scia dello status dei Vescovi-Conti di ottoniana memoria. La contemplazione del divino restava relegata nella prassi speculativa ed individuale dei virtuosi.

La ricerca dell’Oriente, anche per i filosofi occidentali, è la vocazione a sentire la riunificazione dell’essere contro la dicotomia che la storia complessa e contraddittoria occidentale ci tramanda delle guerre e delle paci. Gli storici infatti sono soliti scandire le epoche con jalons relativi a date di guerre, conquiste, invasioni, rivoluzioni, ed anche stragi (anni 746, 1492, 1789, 1945). Forse che l’Oriente era ed è libero da divisioni e sopraffazioni? eppure costituisce appuntamento ideale, come era avvenuto per l’antico Israele che ancor più ad oriente cercava anch’esso la Luce (Is. 41. 2). Poi l’Occidente ha guardato ad Israele come al luogo del «sorgere della luce» anche se quella società fu, come ancora è, terra di violenza e divisioni.

Luce e oscurità si fanno unità nel simbolo cinese Taigitu, in cui gli elementi divisi e contrari, come maschio e femmina, si coniugano in unità. Lo psichiatra Junghian seguiva lo stesso processo; il debito occidentale contro la schizofrenia cerca la terapia clinica; in Oriente la ricerca dell’unità interiore è l’itinerario della normalità spirituale. È questo, forse, il grande richiamo che l’Occidente avverte: il Brahama, il grande ritorno dopo le divisioni, i contrasti e i conflitti. Mentre dall’interiorizzazione platonica e dalla riflessione aristotelica partivano la ricerca mistica e quella contemplativa occidentali, dal 1215 in poi lo Zen offriva al Giappone e anche a tutta quell’area non la concettualizzazione ma il governo del soma, la sospensione dell’elaborazione mentale come fonte di ansia in favore di un processo più pacifico: contro il dolore e il turbamento.

Così, se l’Occidente ha superato il manicheismo, ed ha riveduto e corretto l’agostinianismo, la dicotomia etica tra anima e corpo resta come distinzione complessa della morale e l’Oriente suggerisce la riunificazione nell’armonia.

La miscela di sostanze naturali o chimiche consegna le menti allo sballo, insegue un’estasi artificiale come àncora contro l’inquietudine e la noia; è il surrogato, un ingannevole produttore di tunnel in cui la felicità resta chimera e rivelazione della dipendenza cronicizzata. Il Tutto è oltre: oltre i pensieri, oltre le nostre contingenze, oltre le nostre raffigurazioni, oltre le nostre verità, oltre le nostre speranze, oltre la nostra attesa, oltre le nostre certezze, oltre la nostra quiete, oltre i nostri conflitti, oltre le nostre proporzioni, oltre la nostra utopia, oltre il nostro ascolto, oltre i nostri orizzonti; eppure ci è più prossimo di quanto possiamo immaginare. «Se volete conoscere Dio-afferma Kahlil Gibran — non siate solutori di enigmi; piuttosto guardatevi intorno e vedrete Dio giocare con i vostri bambini».9

Con il giuoco di luce ed ombre nelle raffigurazioni e con il contrasto nella musica tra percussioni e suono d’archi, il romanticismo ha proposto l’interpretazione dei dilemmi tra verità e dubbio, tra oggettività ed apparenza, tra pace e dramma. Pirandello sacralizzava la verità relativa nello stesso tempo in cui alla divisione della malattia mentale Freud proponeva la ricucitura psichica con la mediazione della parola.

I linguaggi contemporanei sono molteplici e contaminati; sollecitano i nostri campi emotivi in modo più repentino e più complesso, più e prima di quanto riesca a fare la comunicazione scritta dei libri e dei giornali. Le sollecitazioni sono invasive e suscitano piacere o rifiuto a prescindere dai significati veicolati. Gorgia affermava: «la parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine: può far cessare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia ed aumentare la pietà»;10 era il suo lògos. La coordinazione tra osservazione del reale e riflessione richiede la sua consegna alla parola; essa può illuminare il cammino felicitante.

Nel meccanismo di successo e di potere, tutto proprio del sistema globale e di mercato, la parola pronunziata ed ascoltata nel dialogo è vincente e risulta anche terapeutica, a dire di Gorgia, lenimento del dolore, superamento della paura e raggiungimento della serenità. Ciò si realizza se si rispetta la proiezione tridimensionale dell’esistere: di base, come proporzione tra esistenza e tendenza; di profondità quando si stima la verità oltre il radicamento nel posseduto; e la terza dell’altezza, oltre l’accomodamento, nel tendere verso il futuro e quindi alla speranza. Il procedimento contraddice la convinzione secondo cui la felicità consiste nel possesso. Possedere è consumare e finire, consumare è perdere, perdere è vuoto e fine dell’oggetto posseduto; se esso sopravvive nel ricordo ormai è virtuale.

Quando, nel racconto di un suo turbamento, la persona rivela la sua sofferenza per la mancanza di scopo, il suo percorso verso la felicità è la ricerca del bene, non perduto perché mai raggiunto. Nasce il problema! La disperazione, inquietudine assoluta, succede all’esaurimento delle risorse della parola, dei suoni inviati dalla voce degli altri, dei significati e dei messaggi provenienti da fuori-porta, come prato di speranze su cui germinano erbe spontanee e dal profumo inebriante. In assenza di queste germinazioni, anche se il terreno fosse desertico ma c’è l’attesa dall’Alto, la Luce che illumina il sentiero arido si accende e l’esistere la accoglie come un’oasi.

In tale stato, dimenticare potrebbe rappresentare per l’uomo tragico l’ultima risorsa, ma è la sconfitta? Non si tratta del «non ricordo da parte di Dio», come suo dono e riconsegna della perduta dignità (Ger. 31. 34). È possibile infatti accompagnare con la parola terapeutica il ritorno a ritroso, l’apparizione del rimosso, ma siamo certi di non ingenerare la paura ed il panico esistenziale? L’analista, accompagnatore del viaggio a ritroso nell’inconscio, sa che ad un tratto potrebbe accendersi il semaforo rosso che consiglia lo stop definitivo all’indagine tra le rimozioni […] e, se egli è accorto, lascia nella sua pace il cliente! Il pensiero orientale ed occidentale, nella diversità e varietà dei loro assunti, trovano convergenza su di un punto: la difficoltà, nel rapporto tra l’uomo e la felicità, sprona alla ricerca di senso e questo tendere fonda la religione come illuminazione del piano su cui incide l’irruzione dell’Infinito. Nello sforzo di voler ragionare in assenza di rivelazione, nell’antichità, la mente fece ricorso al mito, come abbiamo detto.

Nelle religioni in cui la preghiera si intesse come dialogo tra l’essere e l’Essere è concesso all’io, circoscritto e in assoluta povertà, il cono di luce in cui entrare con l’apertura verso l’Infinito: «L’anima mia magnifica il Signore … » (Lc. 1. 46). Prima dei santi cristiani, Aristotele, promotore della «comunanza di idee e di discorsi», concludeva il suo ragionamento affermando: «La felicità perfetta risiede nell’attività contemplativa» (1178b, 7). San Tommaso seguiva lo stesso ragionamento e i suoi discepoli raccolsero il suo pensiero inedito riferendolo fedelmente e in sintesi: «la felicità interiore si trasfonde sul fisico della persona, come avviene per la sofferenza interiore».11 Si trattava di un pensiero fedele alle parole del Maestro Aquinate che nel Contra Gentes aveva proceduto con ragionamenti ad excludendum: la felicità non si realizza con i piaceri, non con gli onori né con la gloria, non con le ricchezze o con il potere, neanche con i beni materiali né con i sensi, neppure con atti virtualmente morali, non con la prudenza e nemmeno con le arti.

La contemplazione sì, secondo l’origine del suo lògos. Il quadrato è tracciato sul terreno (templum) in cui l’aruspice si colloca osservando le stelle. Il templum si configurava come luogo dell’essere; ma gli occhi dello scrutatore si levavano verso il cielo stellato. Era quello il suo libro, la sua bibbia entro cui leggere il presagio (considerare, cum sideribus, con le stelle). Il cammino delle stelle diventava l’itinerario della felicità tra gli inspiegabili avvenimenti futuri: contemplari … (dal templum alle stelle), per guardare la terra tra gli astri, proiettarla nel tracciato divino, trovare il senso del vivere da reinterpretare tutto nel caduco movimentarsi delle cose: contemplata tradere aliis, consegnare agli altri il frutto delle cose contemplate. Capire le stelle per capire la vita; vivere la vita per seguire il senso; cercare e sapere; conoscere ed esultare; sentieri e felicità: cammino umano ed esaltazione. Una felicità senza luogo!

Ispirare di filosofia gli itinerari formativi è possibile, quindi auspicabile quando, tra letture regole e grammatiche, si tende alla ricerca del senso, quasi una cupidigia della Verità quella che rende liberi e dà le ali all’esistenza, ancorata al peso delle mistificazioni. Perché il conoscere comune, intrapreso anche a scuola, non deve suscitare nella mente la stessa forza penetrativa ed interpretativa provocata per esempio dalla poesia o dalla musica? Come siamo costanti nel rendere sterili i racconti ed i fatti, come siamo poveri nel credere che la poesia sia solo fantasia e non anche vita penetrante!

Tempo fa, in una sperimentazione di filosofia, introdotta in un corso di ragioneria, gli studenti la ritenevano pregiudizialmente materia astratta, inutile e rompicapo. Invitavo ciascun giovane a selezionare a proprio gusto un breve passaggio musicale, tra le proprie canzoni preferite, e a proporlo successivamente nel gruppo. Fu una vera sorpresa scoprire durante quell’ascolto che tutti i brani contenevano i termini «parlare, amore». Fu più sorprendente ancora il confronto tra le parole selezionate ed il brano aristotelico relativo alla definizione dell’amicizia. Convennero nel dire: «ma questa è una risposta al nostro bisogno, abbiamo necessità di vivere con queste parole filosofiche! »

Tommaso d’Aquino, interrogandosi sulla felicità, sapeva di non poter cercare se non una risposta risolutiva e, per questo, la definiva ultima. Giunse alla conclusione di escludere un itinerario chiaro e distinto circa la Felicità Ultima perché «la conoscenza non può spingersi su Dio se non in modo confuso e meno ancora con la dimostrazione, seppure suffragata dalla fede». Solo la fruizione beatifica può permettere tutto questo ma la stabilità non è oggetto proprio di questa vita.12

Come coordinare bisogno di felicità con la felicità medesima? Può il pensiero della morte consentirci di riporre nell’incommensurabile la possibilità della felicità? Vogliamo rubare il fuoco agli dei per godere ora della sua luce e del suo calore? Il furto è sacrilego? Diremo alla nostra coscienza: resta nell’oblio e consegnaci alla rassegnazione? La poesia, la musica, le arti, la filosofia sono il nostro empireo? Olimpo in miniatura, anticipazione dell’Eden promesso? La felicità è dunque […] in nessun luogo?

Sembra doversi concludere che la sola possibile felicità che ci è concessa sia quella di raggiungere almeno la consapevolezza dell’interrogativo. Se così fosse, bisognerebbe evitare la risposta, restare nella sospensione, come un viaggio nel nirvana soggettivo, purificatore e salubre: oasi desiderata ed assaporata dopo orme cancellate sulla sabbia del deserto attraversato. Per ottenere ciò, tuttavia, è necessario che dopo la domanda come quella di Pilato, non ci si lavi le mani ma si entri nell’itinerario semplice, povero e si sia disponibili a scoprire ed attendere.

Il pensiero laico marca questa differenza. La ragione che scruta il senso e proporziona il rapporto tra progetto esistenziale e fini conduce ad una contemplazione infraumana, alla felicità di proporzione. La ragione che investiga sul senso ultimo sa di cercare la Qualità perfetta senza circoscrizione, senza quanti. Ciò su cui indagava Tommaso d’Aquino.

Di per sé la laicità di proposta e di ricerca non impedisce la possibilità per l’uomo di trascendersi: enigma e figura sono compagni a questo itinerario, come sipario/schermo dividono separando ma, sul diaframma della separazione che si fa penetrante, è proiettata la visione dell’intelletto. Essa rapisce e rende muta la bocca, non si pronuncia perché l’orecchio non intende, proprio come quando il predominio abbacinante della luce ci dà certezza della sua presenza mentre da essa stessa ci ripariamo; non è rifiuto ma coscienza di proporzione.

La felicità e la speranza, unico binomio realistico dell’esperienza dei quotidiani, sono l’affermazione di un’assenza, perché il non-ancora, anticipato dalla visione intellettiva, ci fornisce la felicità sospesa, anticipata nel relativo; essa convive con l’afflizione, con il dubbio e con tutti i sapori della sofferenza. Gesù di Nazareth patisce, soffre, si angoscia, muore nel desiderio: la sua preghiera è un’implorazione, ci sono ancora giorni e notti da passare tra le bende. Spera, non fruisce: sa ed attende. Questo anticipare, questo confonderci nell’utopia, non sono la felicità di fruizione perché solo ora vale la speranza e la fede; queste sono destinate a cessare quando rimarrà, ponte del passaggio dall’esistente terreno all’eternità, il non-luogo della caritas (1Cor. 13, 1-8). Di essa sembra non ci sia dato luogo esatto, circoscritto. Tutti, buoni e cattivi, si chiederanno «dove tu eri? » se, averlo visitato, curato, difeso, vestito, accolto è la discriminante della fruizione felice di Dio. E Lui rivelerà: «ero tra di loro, per questo mi avete incontrato! » si tratta degli ultimi, i senza patria, né salute e né tribù, senza luogo. Ebbene sembrerebbe star lì la radice della felicità: il problema è capirlo. È possibile se ci proiettiamo nel mondo con un criterio alla pari: siamo tutti ospiti paroikòi (Ef., 2. 19), «stranieri in terra propria», in una relatività che appartiene però alla certezza, all’essenziale libertà del divino.

Se lascio il frastuono dei luoghi, se siedo sulla vetta del monte, se odo la voce del vento perché io stesso faccio ostacolo al movimento dell’aria […] devo incrociarlo per sentirlo: assomiglierei ciò alla voce dell’Infinito. Per questo Dio si è proporzionato al vento: dall’alito creatore di anima al turbine della pentecoste. La libertà che ne segue è travolgente, non conosce limiti e catene, non ci sono galere e ostracismi limitativi. Se abbandoni la tua terra, se attraversi il deserto di sabbia, il mare dei giunchi la terra promessa appare […] ma è necessario un Mosè che parli. Se il deserto dei popoli in fuga è il mare senza Mosè e noi, che abbiamo la possibilità di sollevare la voce, restiamo muti, i corpi saranno inghiottiti dalle acque, in un luogo non promesso e non saranno restituiti alla battigia.

Non c’è un luogo della felicità: essa comincia dentro se all’arcobaleno del post-diluvio incrociamo le mani con le grandi attese del mondo. Là, da qualche parte, c’è la felicità; forse non è la nostra, ma di coloro a cui abbiamo offerto il ponte: ti cerco, ti aspetto, ti parlo […] ma soprattutto ti ascolto e trovo nelle tue parole l’itinerario della felicità. Non ho cercato il posto, ho ascoltato la voce.


  1. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, 59, 5. ↩︎

  2. Tommaso d’Aquino, Summa, I-II, 59, 4, ad 2. ↩︎

  3. Aristotele, Etica Nicomachea (a cura di A. Plebe), Laterza, Bari 1965, 1094a-1098a. ↩︎

  4. Tommaso d’Aquino, Summa., I, II. 99.5, ad 1. ↩︎

  5. Cfr. Raffaele Ruta, «I Romani e l’organizzazione antropica dello spazio della Regio II», in AA.VV., La Puglia in età repubblicana - Atti del Convegno di Studi sulla Puglia Romana, Mesagne 1986, pp. 167ss. ↩︎

  6. Popolazione appartenente alla famiglia di lingua Gé, residente nell’area Porquinhas, in Brasile, vicino alla sorgente del fiume Mearim. Oggi sono poche centinaia. Per una sintesi sull’etnia e i suoi usi e costumi cfr. Pietro Radius, «I Cuna, popoli delle isole» in Famiglia Cristiana, 40 (1991), pp. 17ss. ↩︎

  7. Aristotele, Etica nicomachea (a cura di A. Plebe), Laterza, Bari 1965. ↩︎

  8. Democrito, Frammento B171. Cfr. Diego Fusaro, Frammenti, Bompiani, Milano2007. ↩︎

  9. Kalhil Gibran (Bsharri, Libano, 1883 - N.Y. 1931), filosofo e artista libanese impegnato per unire pensiero occidentale ed orientale. Molti dei suoi pensieri sono nella sua opera Il Profeta, (a cura di F. Medici), S. Paolo, Cinisello Balsamo 2005. ↩︎

  10. Gorgia, Encomio di Elena, DK,82 B11. ↩︎

  11. Tommaso d’Aquino, Supplementum, 5. 2. ad 2. ↩︎

  12. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentes, III, 37. ↩︎