Il problema della relazione tra soggetto e oggetto: individuazione, negatività, linguaggio nella riflessione di Theodor W. Adorno

1. Soggetto e oggetto

All’interno del proprio complesso ed eterogeneo percorso speculativo, Adorno mantiene la tradizionale formula della relazione polare, della coimplicazione, di soggetto e oggetto proprio per definire i presupposti e, in questo modo, eseguire la propria critica alla logica del principio di identità. In questo senso, come è stato detto, Adorno «non ritiene […] di dover prendere le distanze, come aveva fatto Heidegger, dal paradigma di soggetto-oggetto come espressione esemplare dell’oblio dell’essere e della differenza ontologica».1 Se è vero, dunque, che Adorno «si rifiuta di mettere in parallelo il male filosofico del soggettivismo con la metafisica»2 è perché essa viene mantenuta come tensione, superamento e inattualità di ogni operazione di pensiero rispetto ai dati di fatto o stati di cose. La metafisica e il suo mantenimento, devono essere intesi, quindi, come «esperienza di trascendimento per così dire immanente» interna all’esperienza concreta e fattiva, come messa in questione ed evasione dagli schemi del “noto” o del “già detto”3 in vista di una sua riconfigurazione e comprensione. Ecco perché l’insistenza di Adorno nella critica alla categoria del soggetto e della non decidibilità per esso, potremmo dire, a sfavore del momento oggettivo, espone il paradosso all’interno del quale la riflessione si muove: quello di dover comprendere, ovvero dire ed esplicitare, quell’esperienza concreta e determinata nella quale, per altro, già-sempre-siamo, ma che dobbiamo sempre rendere possibile e di cui, a questo punto, la relazione soggetto-oggetto sembra esibire lo schema. Se eliminarne l’inquietudine dialettica comporta inevitabilmente la caduta nel pregiudizio riduzionistico che coinvolge ogni forma di dualismo di stampo oppositivo, allora i poli del soggetto e dell’oggetto saranno, proprio in quanto ambigui e ambivalenti, resistenti ad ogni definizione, non risolubili all’interno di una prospettiva esclusivamente logica – ovvero linguistica e conoscitiva – e per questo riferiti a quelle che Adorno definisce come “fondamentali” questioni di costruzione del pensiero. In questa prospettiva, la natura non esclusivamente logica del problema di soggetto e oggetto «indica una precisa direzione di discorso, tendente a privilegiare ogni spunto di trascendimento, ogni elemento differenziale che riesca a contrastare gli effetti tautologici del pensiero».4 Tanto la definizione di “soggetto” quanto quella di “oggetto” possiedono, secondo Adorno, un carattere d’apparenza,5 nel senso di essere indici paradigmatici, indicazioni prospettiche che indicano qualcosa di non unificabile, categorie negative che non sono altro che espressione di una costitutiva e non risolvibile non-identità. La polarità di soggetto e oggetto appare come una struttura «a sua volta non dialettica dove avrebbe luogo ogni dialettica»6 ma, in verità, entrambi i concetti sono categorie postume, vale a dire «categorie derivate di riflessione, formule per un non-unificabile; non un positivo, non rapporti primari di cose, bensì del tutto negativi, espressione unicamente della non identità».7 In questo senso, la non-identità, la differenza non redimibile che essi esprimono – dialetticamente, il momento della negazione all’interno dei due poli, delle due voci distinte che impedisce il loro reciproco risolversi in pura identità – è la stessa non identità fra “pensiero” e “pensato” che il linguaggio-concetto riproduce in se stesso: «Ogni concetto, anche quello dell’essere, riproduce la differenza di pensiero e pensato. [Jeglicher Begriff, noch der des Seins, reproduziert die Differenz von Denken und Gedachtem] Essa è stata marchiata alla coscienza teorica della costituzione antagonista della realtà; nella misura in cui la esprime, la non verità del dualismo è la verità».8 Soggetto e oggetto, potremmo dire, si ritrovano vincolati ad una comune insussistenza, dal momento che «non vi è un oggetto nel senso di un qualcosa che stia astrattamente di fronte a un soggetto» e «del resto “c’è”, propriamente, altrettanto poco un soggetto».9 Essi indicano verso una non-identità alla quale Adorno attribuisce, nello stesso tempo, un valore “costitutivo” e un valore “genetico”:10 costitutivo in quanto esso pertiene propriamente al cortocircuito continuo tra immanenza e trascendenza messo a tema da Adorno, l’impossibilità dell’uno di darsi senza l’altra e, reciprocamente il darsi dell’una solo all’interno dell’altra; storico genetico in quanto l’oggetto assume in proprio un carattere d’apparenza, nel senso che appare (erscheint), sul piano pratico e conoscitivo, come qualcosa di contrapposto, di posto di fronte, rispetto al soggetto.11 Da questo punto di vista, la posizione dell’oggetto è «nella sua autoposizione, apparenza illusoria, e al tempo stesso un qualcosa di storicamente del tutto reale»;12 se il soggetto è «cifra dell’attività degli uomini», l’oggetto non è che una maschera terminologica, vale a dire denominazione e «espressione positiva del non identico»:13 «Solo perché il soggetto è a sua volta mediato, e dunque non è il radicalmente altro dell’oggetto, che solo lo legittima, esso è semmai in grado di comprendere l’oggettività. Più che costitutiva, la mediazione soggettiva è il blocco davanti all’oggettività; quella non assorbe ciò che questa è essenzialmente: ente».14 Ciò che Adorno vuole far emergere attraverso il paradigma soggetto-oggetto e l’analisi della loro relazione dialettica, è l’esperienza della non-identità, del non-identico. Nel rapporto dialettico fra soggetto e oggetto il “non-identico” diventa davvero il paradigma del pensare “critico”. Se da una parte l’oggetto indica e denota, per ciò che è divenuta, la vita come contesto d’accecamento e sistema della realtà antagonistica, dall’altra, vale a dire nell’impresa pratica e conoscitiva di una riconfigurazione e riappropriazione della vita stessa, esso indica la “contraddizione”, l’eterogeneità e la sproporzione, nonché la continua mediazione, tra particolare e universale, pensiero e pensato, individuo e società. Ecco perché l’intera dialettica negativa

è legata alla società antagonistica come sua negazione, non è un pensiero libero dalla contraddizione e dall’antagonismo, non è un diverso positivo, né crede che un positivo sia possibile nell’universale contesto di dominio. In questo senso la dialettica negativa, lungi dal muoversi nella direzione del pensiero “postmoderno”, ne costituisce la precisa antitesi: l’emancipazione delle differenze non è possibile dentro il contesto del dominio, ma solo al di là di esso; compito del pensiero è perciò quello di articolare la critica, non di dar voce a un positivo che non è (ancora) dato.15

L’asimmetria della relazione soggetto-oggetto viene, come è noto, definita da Adorno “Vorrang des Objekts”, “priorità dell’oggetto”. La relazione asimmetrica, non-identica, di un polo rispetto all’altro, rivela la sua più profonda intenzione nell’“eliminazione della gerarchia” del rapporto conoscitivo e rappresentativo, rivolgendosi verso la possibilità di instaurare una relazione di coappartenenza e cooriginarietà che sia, nello stesso, tempo, separazione, evasione di un polo rispetto all’altro: «[…] il pensiero critico non desidera mettere l’oggetto sul trono vacante del soggetto, su cui l’oggetto non potrebbe essere che un idolo, bensì vuole eliminare la gerarchia [sondern die Hierarchie beseitigen]».16 Un termine riverbera ed emerge nella mortificazione dell’altro; il soggetto deve essere materialisticamente ricondotto alla sua costitutiva relazione con l’oggetto in quanto «unico quid capace di infondere determinatezza alle sue forme categoriali».17 La relazione di coappartenenza di un polo all’altro, il loro reciproco determinarsi e indeterminarsi – in quanto nell’uno c’è già sempre la traccia dell’altro –, fino alla formativa priorità del momento oggettivo, permette di inquadrare il soggetto come “apparente”, nel senso che esso stesso si configura come una modulazione, un “modo” e un “come” della manifestazione oggettiva. In altri termini, l’individualità, in quanto incarnazione e individuazione parziale di un soggetto sempre anfibio, si costituisce come il riverbero, e la trasformazione retroattiva, di una realtà preindividuale – strutture sociali, linguaggio, intelligenza collettiva – che lo circonda e lo anticipa; una certa carica di preindividualità e potenzialità che, lungi dall’essere risolta nell’individuazione, accompagna sempre il soggetto individuato. In questo, senso la diacronia, ciò che precede il soggetto, non esclude la concomitanza, il suo perdurare attualmente in esso. Il soggetto, dunque, è una modulazione complessa e articolata dell’oggetto il quale, «dal momento che di fatto viene conosciuto non altrimenti che mediante la coscienza» è anche soggetto:

«Priorità dell’oggetto» significa piuttosto che il soggetto, inteso in un senso qualitativamente diverso, più radicale, è dal canto suo oggetto, come l’oggetto dal momento che di fatto viene conosciuto non altrimenti che mediante la coscienza è anche soggetto. Ciò che è conosciuto mediante la coscienza deve essere qualcosa; la mediazione si riferisce al mediato. Ma il soggetto, il concetto portante [Inbegriff] della mediazione, è il come, e mai, in quanto contrapposto all’oggetto, il quid che viene postulato da ogni rappresentazione concepibile derivante dal concetto di soggetto.18

Perché il soggetto possa attingere al non-identico non deve “possederlo” all’interno della trama costruita dai propri “apparati categoriali”, pur non potendo coglierlo che all’interno di se stesso. Il non-identico – il possibile, il residuale, la contingenza – è dunque pensabile proprio all’interno della forme soggettive e conoscitive che elaborano la relazione con esso, rivelandosi solo all’interno «di questa paradossale eccentricità del pensiero rispetto a se stesso»,19 per cui, «nel momento in cui esso procede all’interno della propria forma logico-discorsiva»,20 mette in questione il proprio percorso, il proprio fare e il proprio dire, sospendendo e «sciogliendo gli intrecci che la sua esigenza di identità ha tessuto intorno all’altro da sé, occultandolo nell’oggetto».21 Nelle parole di Adorno, la priorità dell’oggetto è il «correttivo» della riduzione soggettiva, non la negazione di una «partecipazione» soggettiva: «l’oggetto è mediato, solo che, in conformità al suo concetto, non viene affatto rimandato al soggetto nel modo in cui il soggetto è rimandato all’oggettività».22 L’oggetto, che non può essere ridotto ad alcuna determinazione statica, classificatoria o normativa, mostra la sproporzione, la propria asimmetria rispetto al soggetto stesso: «L’oggetto può essere pensato solo dal soggetto, ma rimane sempre, nei suoi confronti, un Altro [immer als Anderes]; il soggetto è invece sin dall’inizio anche oggetto in base alla sua costituzione [Subjekt jedoch ist der eigenen Beschaffenheit nach vorweg auch Objekt] . [… ] Fa parte del senso della soggettività, essere anche oggetto [Zum Sinn von Subjektivität rechnet es, auch Objekt zu sein]; non invece del senso dell’oggettività, essere soggetto».23 Che l’oggetto sia anche esso tale solo in quanto mediato significa, per Adorno l’impossibilità di poterlo ipostatizzare dogmaticamente in quanto conoscibile solo nel suo intreccio con la soggettività; allo stesso tempo, mediazione del soggetto «vuol dire che il soggetto senza il momento di oggettività sarebbe letteralmente niente».24 Tale priorità della dimensione “oggettiva” e pre-soggettiva fa corpo con la dimensione della non-identità, vale a dire con ciò che irreparabilmente sfugge al possesso conoscitivo del soggetto. La dimensione oggettuale, come realtà del non-identico, eccede il paradigma soggetto-oggetto, determinandola come relazione postuma, già strumentale alle forme di dominio conoscitivo esercitate dal soggetto; ma, nello stesso tempo, la non-identità dell’ ”oggetto” nei confronti delle determinazioni soggettive, è qualcosa che emerge solo all’interno delle determinazioni stesse: l’oggetto diventa qualcosa unicamente in quanto determinato e solo nelle determinazioni che “apparentemente gli conferisce solo il soggetto, s’impone la sua propria oggettività”:

Se tuttavia si vuole raggiungere l’oggetto, non si devono eliminare le sue determinazioni o qualità soggettive: questo sarebbe proprio il contrario della priorità dell’oggetto. Se il soggetto ha in sé il nucleo dell’oggetto, allora le qualità soggettive dell’oggetto sono più che mai un momento dell’oggettivo. Perché l’oggetto diventa qualcosa unicamente in quanto in quanto è determinato. Nelle determinazioni che apparentemente gli conferisce solo il soggetto, si impone la sua propria oggettività; esse sono tutte mutate dall’oggettività dell’intentio recta. Anche secondo la dottrina idealistica le determinazioni soggettive non sono un che di meramente conferito, esse vengono sempre anche pretese da ciò che deve essere determinato, e in tal modo si afferma la priorità dell’oggetto. Viceversa il presunto oggetto puro, esente dall’ingrediente del pensiero e dell’intuizione, è propriamente il riflesso dell’astratta soggettività: solo essa uguaglia a sé l’altro mediante l’astrazione.25

Se è proprio all’interno della mediazione soggettiva che l’oggetto si mostra, offrendosi nella propria inafferrabilità e non-identità allora «lungi dall’essere chiuso in se stesso, il soggetto è costantemente aperto su ciò che ha ridotto a suo oggetto, è intrecciato con esso».26 L’oggetto come figura paradigmatica di un movimento di pensiero27 – ed è quanto accadrà altrettanto paradigmaticamente, per Adorno, nella Teoria estetica a proposito dell’opera d’arte – è qualcosa di «infinitamente dato»,28 infinitamente dislocato e per questo qualcosa che deve essere continuamente configurato; allo stesso modo il soggetto è un momento che, di volta in volta, si costituisce all’interno di questa relazione dove i due termini coesistono e mai coincidono, si ritrovano sempre dislocati l’uno rispetto all’altro nel momento della predicazione. Qui, davvero, ad un massimo di prossimità segue un massimo di distanza. L’oggetto continuamente decentra il soggetto il quale, in questo senso, si scopre come processualmente costituito e sempre alle prese con la configurazione di sé, con la possibilità di sé e di esibirsi come un ; sia pure armato delle strutture invarianti e gerarchiche dell’identità, l’oggetto esperito è la frattura interna al soggetto stesso, l’indice del suo essere costantemente alle prese con un processo di soggettivazione e desoggetivazione che rende impossibile la decisione per un identico a se stesso e che mostra la puntuale contingenza del sé medesimo. Per questo:

La posizione chiave del soggetto nella conoscenza è l’esperienza, non la forma; […] Lo sforzo della conoscenza è in prevalenza la distruzione del suo sforzo consueto, la violenza nei riguardi dell’oggetto. La conoscenza dell’oggetto si avvicina all’atto nel quale il soggetto lacera il velo che tesse intorno all’oggetto. Ed è capace di compierlo soltanto se, in una passività senza paura, confida nella propria esperienza. Nei punti in cui la ragione soggettiva intuisce la contingenza soggettiva, traspare la priorità dell’oggetto; il quale trova il suo essere tale in ciò che non è riproducibile a componente soggettiva. Il soggetto è l’agente, non il costituente del soggetto.29

Il soggetto, dunque, è l’agente, non il costituente dell’oggetto. Se il soggetto deve essere inteso al modo di un come, di una modulazione reattiva nella relazione con l’oggetto, questo vuol dire metterne in luce la natura costitutivamente dinamica, sempre indirizzata verso la possibilità del proprio essere, come modulazione affettiva e conoscitiva dell’esperienza stessa. Tale dinamismo eccede «ogni descrizione in termini ontologici o trascendentali»30 in quanto qualcosa che «si realizza solo nell’atto generativo della lacerazione del velo soggettivo, come produzione effettiva della lacerazione nell’ hic et nunc».31 L’autoriflessività del soggetto, il fatto che esso torni costantemente su di sé e si metta in questione come un che di possibile e, dunque, di non sostanziale, non solo mostra lo scarto, l’eccedenza che impedisce ad una singolarità di coincidere con alcuna identità imposta ma, di qui, anche la possibilità del venir meno del potere coercitivo dell’identità stessa. Proprio a partire dalla loro co-originarietà, la differenza tra soggetto e oggetto – la loro reciproca non-identità – attraversa tanto il soggetto quanto l’oggetto: il soggetto è tale solo nella relazione costante con una propria desoggettivazione, così come l’oggetto è tale solo al prezzo di una sua non sostanzialità. All’interno di questo rapporto chiasmatico, la desoggettivazione del soggetto è l’immagine del momento oggettivo, non identico, in esso, allo stesso modo di come l’insostanzialità dell’oggetto è la figura della puntuale e continua interferenza del soggetto in esso. La reciprocità, insomma, esclude per entrambi una loro sostanzialità conoscitiva.32 Adorno, all’idea di individui già costituiti sin dalla nascita vuole sostituire qualcosa come un processo di antropogenesi sempre ancora in corso, una continua, ripetuta operazione di manomissione e ricostruzione di ogni identità, di un suo poter-essere-altrimenti rispetto a ogni coincidenza imposta. Non dipendendo da alcun principio normativo, l’individuazione è, in Adorno, «una individuazione modale: consiste unicamente, cioè, nel passaggio da un modo di essere a un altro».33 Per questo, nella misura in cui l’oggetto è il profilo e la figura opaca del non-identico, esso denuncia la propria presenza operativa e disgregativa proprio dove il soggetto sembra maggiormente autonomo, vale a dire nella riflessione e nella mediazione. Il soggetto, dunque, è agente dell’oggetto – e non il suo costituente – nella misura in cui, potremmo dire, è agìto da esso, coinvolto in esso, un coinvolgimento che è realmente tale solo nel momento in cui espone e libera una insuperabile depropriazione, non-identità; in questo senso, allora, «la pura forma della gnoseologia tradizionale può essere di volta in volta pensata, in conformità al proprio concetto, soltanto come forma dell’oggettivo, non senza di esso, poiché senza di esso non è nemmeno pensabile»:34

Quel che la cosa stessa possa significare non è li davanti positivamente, immediatamente [Was Sache selbst heißen mag; ist nicht positiv, unmittelbar vorhanden] chi voglia saperlo è costretto a pensare di più, non di meno del punto di riferimento della sintesi del molteplice, che al fondo non è affatto un pensiero. Malgrado ciò la cosa stessa non è affatto un prodotto mentale; piuttosto il non-identico, passato attraverso l’identità. [das Nichtidentische durch die Identität hindurch] Questa non identità non è un «idea»; piuttosto è un velato. Il soggetto dell’esperienza lavora per scomparire in essa. La verità sarebbe il tramonto del soggetto. Nel metodo scientifico la sottrazione di tutto lo specifico della soggettività è soltanto la finzione di questo tramonto, ad maiorem gloriam del soggetto reificato come metodo.35

Il soggetto, dunque, è tale non solo in quanto attivo e passivo nello stesso tempo, ma in quanto, potremmo dire, capace di fare esperienza della propria passività (non solo di subirla), di ciò che lo affeziona, lo precede e l’avvolge. In questo senso, come è stato giustamente osservato, la notazione preliminare di Adorno riguardo la questione dell’individuazione del soggetto, riguarda l’impossibilità di poterlo effettivamente pensare se non a partire da questa costitutiva auto-riflessività, in quanto «consegnato alla contingenza del suo essere esperiente»,36 dal che ne consegue che il suo agire si configuri, nello stesso tempo, come un reagire,37 così come il suo dire è nello stesso tempo una risposta a ciò che ad esso si impone, un dire capace di retroagire su quanto lo precede. Il primato dell’oggetto trova in questo svolgimento un’altra sua possibile figura, vale a dire quella della forma di una pervasiva passività che in qualche modo anticipa e affeziona l’agire e il dire stessi del soggetto che, nel momento in cui sottolinea una certa materialità su cui si esercitano il pensare e il dire, esclude l’equivoco di una naturale spontaneità della ragione e della riflessione. La materia (l’oggetto) non solo sempre affeziona il pensiero e il linguaggio, ma, in quanto tale, non è mai del tutto traslitterabile, risolvibile in significati trasparenti e definiti. Per questo, nelle parole di Adorno, «Ovunque il pensiero sia veramente produttivo […], ci sarà anche un reagire. La passività ci fa entrare nel nucleo dell’attivo, è un foggiarsi dell’io sul non-io […] Per porsi come pensiero produttivo, è necessario che esso sia sempre stato determinato dal suo contenuto cosale [Sache]. In ciò consiste la sua passività […] L’oggettività, la verità del pensiero, dipende dalla sua relazione alla cosa».38 La “cosa” del pensiero, dunque, indica da una parte la natura relazionale del significare stesso, l’impersonalità del pensiero stesso, di quella che Adorno, tecnicamente, chiama “la verità del pensiero”; dall’altra il fatto che la “cosa”, la quale dovrebbe essere punto di riferimento oggettivo del pensiero stesso, non è altro che un qualcosa di “indeterminato”, non determinabile esaustivamente in tutte le sue occorrenze e una volta per tutte.

2. Negatività e linguaggio

La necessità del linguaggio all’interno della riflessione di Adorno, da un lato riguarda l’emergenza della “negatività” e non-identità all’interno del momento “retorico” della filosofia; dall’altro esprime, nello stesso tempo, l’esigenza e la convinzione che solo all’interno del linguaggio come luogo stesso della negatività, può darsi e mostrarsi quella che Ingeborg Bachmann ha chiamato una “utopia della lingua”, quel «sogno linguistico»,39 di cui la letteratura rappresenta a un tempo la tensione e l’incarnazione, dove «ogni vocabolo, sintassi, periodo, interpunzione, metafora, ogni simbolo esaudisce qualcosa di quel nostro sogno di espressione che non sarà mai pienamente realizzato».40 Lo scrittore come “esistenza utopica”, è il singolo che tenta di incontrare e combaciare senza residui con la “propria lingua” – di fare esperienza della “pura lingua” – la quale, però, «sfugge» proprio e solo per «rimanere in vita […]».41 A partire da queste premesse, tangibilmente in sintonia con le tensioni adorniane in materia di linguaggio, si comprende non solo l’ammirazione di Adorno per le operazioni di “disgregazione” linguistica (come nel caso di Paul Celan), ma l’attenzione verso l’“implosione di qualsiasi esperienza di linguaggio significante”,42 come quello di Samuel Beckett, considerato proprio per questo “punto di indifferenza” dell’esperienza artistica. L’essenza linguistica della dialettica è interna al momento stesso della negazione in quanto in esso è «contenuto il potenziale di trascendimento dell’apparenza accecante del dominio».43 Il linguaggio deve poter essere pensato come la dimensione nella quale siamo e incontriamo oggetti che trascendono ogni quadro di riferimento in cui si pretende di esaurirne la molteplicità significante. Solo all’interno del linguaggio – inteso, da una parte come luogo tensivo di significazione e aderenza al proprio oggetto, e, dall’altra, come luogo della negatività, non-identità e distanza rispetto ad esse – è possibile l’esperienza di quanto resiste al linguaggio stesso, di quanto ad esso si sottrae, del suo limite interno. Solo dalla sospensione e dalla interruzione del suo funzionamento è possibile l’esperienza della parola che non rappresenta ma “mostra”, negativamente, una ulteriorità controfattuale, una via di fuga dalle prescrizioni normative dell’identità tramite un loro singolare venir meno. A questo margine di negatività controfattuale – margine di sottrazione e nello stesso tempo di costruzione di alternative configurazioni del rapporto fra le “forme” e la vita –, secondo Adorno, il linguaggio-pensiero non può rinunciare, se non vuole limitarsi ad essere «mera rappresentazione di dati e fatti intramondani».44 Il non-identico può essere pensato solo all’interno della significazione stessa, come momento del linguaggio e non come qualcosa d’altro rispetto ad esso. Scrive, a questo proposito, O’Connor:

Adorno wants to claim that meaningful judgments, by their very nature, express both the identity and nonidentity of object and concept. The nonidentity is a product of meaning itself, not a mystical alternative to predication. Adorno holds that the nonidentical element of an object-concept judgment has semantic force in that it is “the more”, as he puts it, implied by the inherent limitation of concepts. That is, the very employment of a concepts implies something which is to be conceptualized – “the more” – and that element is part of the meaning structure of judgment […]45

A partire dalla critica serrata alla categoria dell’identità – di volta in volta tradotta su più livelli: come primato del soggetto e della coscienza; come universalità logica, ovvero “pensiero normativamente uguale in tutti gli esseri dotati di ragione”; come identità logico-formale; e infine come coincidenza gnoseologica di soggetto e oggetto –, l’adeguazione totale di cosa e concetto, soggetto e oggetto, lingua e mondo, viene considerata da Adorno come pura parvenza: il pensiero infatti, non solo non riesce mai ad esprimere la pienezza semantica del suo oggetto, ma la non-identità fra linguaggio e cosa, come fra significante e significato, è ciò che testimonia, negativamente, della resistenza dell’oggetto a risolversi all’interno di definizioni univoche. Da questo punto di vista, la contraddizione e la non-identità incarnano il luogo logico di una disaderenza e discrepanza tra logos e vita che chiede di essere mantenuta e in cui si esprime il rifiuto di qualcosa di singolare – esemplare, in questo senso, sarà per Adorno il caso dell’opera d’arte – ad essere risolto e, per così dire, redento nella «forma costruita e oggettivata dei concetti».46 Coazione all’identità, dunque, significa recepire solo ciò che risulta sussumibile in classi, riconoscere qualcosa solo dopo averne stabilito la proprietà comune (l’esser rosso, l’esser popolo, l’esser nazione). Questo, per Adorno, è l’apparato mutilante del concetto e ovviamente del linguaggio stesso, la sua chiusura all’interno di una reiterata prassi dell’identico, nella misura in cui il pensiero recepisce esclusivamente «quel lato della cosa che risulta sussumibile in classi, categorie e concetti».47 Dato che la totalità di cui parla Adorno «si costruisce secondo la logica»48 tutto ciò che non si adatta ad essa, il «qualitativamente diverso [alles qualitativ Verschiedene]»,49 assume la «segnatura della contraddizione [die Signatur des Widerspruchs]».50 Se la contraddizione è il non-identico sotto l’aspetto dell’identità («Der Widerspruch ist das Nichtidentische unter dem Aspekt der Identität») e il suo primato adegua l’«eterogeneo al pensiero unico», allo stesso tempo «Urtando contro il suo limite, esso oltrepassa se stesso. La dialettica è la coscienza conseguente della non identità [Dialektik ist das konsequente Bewußtsein von Nichtidentität]. Essa non assume sin dall’inizio un punto di vista. A essa il pensiero è spinto dall’inevitabile imperfezione, dal suo debito con il pensato».51 La affermatività del paradigma gnoseologico Soggetto/Oggetto vede costantemente come proprio esito una risoluzione ostensiva dell’opaca singolarità di ogni cosa all’interno di una universalità perfettamente trasparente; in questo modo il singolo è costantemente ricondotto alla sua matrice e all’ordine costituito che ne prescrive la valenza e il funzionamento. È quanto Adorno aveva già esplicitato nella Metacritica della gnoseologia: «Se la pretesa della fenomenologia, della semantica scientifica e di ogni pensiero identificante è quello di tradurre il linguaggio in logica, allora il compito della critica è quello di ricondurre la logica a parlare»,52 vale a dire a schiudere la storia sedimentata all’interno delle cose stesse mettendone in evidenza – come avverrà nel caso di quell’oggetto privilegiato che per Adorno è l’opera d’arte – non il loro essere un “dato di fatto”, ma la processualità che le innerva dall’interno. Il linguaggio non offre solo un sistema di segni per «funzioni conoscitive»;53 nel momento in cui si presenta come «esposizione»54 esso non definisce i propri concetti, al contrario «procura loro oggettività tramite il rapporto in cui li pone, concentrandoli attorno a una cosa [zentriert um eine Sache]».55 Tramite il linguaggio e all’interno di esso si libera la “non-cosa”, il non-identico, in quanto tramite il linguaggio se ne mostra il limite stesso, un limite di dicibilità; allo stesso modo la dimensione espressiva e compositiva libera la marginalità del non-identico da ogni parvenza di non dicibilità, nel senso che il linguaggio esponendo e mostrando il non-identico nella composizione della forma lo libera dal «bando della sua ipseità (Selbstheit)».56 Solo nella lingua e tramite essa è possibile accedere a quella processualità, o potenzialità, significante che va invece persa all’interno di una traduzione univoca del differire; in questo senso, il non-identico è

opaco solo per la pretesa totalizzante dell’identità a cui oppone resistenza. Come tale tuttavia è alla ricerca della parola. Grazie al linguaggio essa si scioglie dal bando della ipseità. Quel che nel non-identico non si lascia definire nel suo concetto trascende la sua esistenza singola, a cui si riduce solo polarizzandosi con il concetto, guardandolo fisso. L’interno del non identico è il suo rapporto con ciò che esso non è, con ciò che la sua congelata, installata identità con se stesso gli preclude. Esso torna in sé solo nella sua alienazione, non nel suo irrigidimento […]57

Come è possibile, dunque, per una dialettica negativa giungere ad una liberazione e ad una comprensione della processualità del non-identico, delle tensioni relazionali e plurime che innervano dall’interno quello che Adorno definisce come l’“oggetto”? Qui entra in gioco il concetto benjaminiano di costellazione; la relazione fra la dimensione intelligibile e quella sensibile dei fenomeni, tra la loro presenza e il loro significare nella lingua e nel discorso, si rappresenta nel concetto di “costellazione”, vale a dire una esposizione e manifestazione, una Darstellung in cui i fenomeni – le cose, gli oggetti, i significati – si mantengono “in quanto dispersi”. Essa indica propriamente un movimento di concentrazione e raccoglimento e, insieme, di dispersione e allontanamento che si mantiene, momentaneamente, in una relazione di precario equilibrio; una composizione di singolarità che, nella loro natura riflessivamente paradigmatica, rifuggono l’inclusione esaustiva nell’unità dell’universale normativo e onnicomprensivo. Conoscere l’oggetto significa in questo senso affiancarlo, porsi costantemente accanto, e non di fronte, ad esso (come bene esprime, in tedesco, la preposizione Um), collocarsi nello spazio vuoto e mai saturo che si mantiene aperto fra lingua e realtà, soggetto e oggetto, sensibile e intelligibile, e che coincide con la possibilità stessa di una relazione non totalizzante, vale a dire con l’impossibilità di dire la totalità attraverso il linguaggio. È solo nella differenza tra parola e cosa, tra linguaggio e mondo, che giace la possibilità del non-identico, «della sua apertura a quei molteplici significati che un linguaggio non denotativo lascia venire in luce».58 In questo senso conoscere l’oggetto, nelle parole di Adorno, significa «conoscenza del processo accumulato al suo interno», liberare la «storia nell’oggetto» solo a partire dalla conoscenza «della funzione storica dell’oggetto nel suo rapporto con altri […]»59 Sprigionare la storia sedimentata e stratificata nell’oggetto, quasi a volerne compiere oculatamente l’archeologia, significa liberarne il dinamismo interno, la non identità di ogni ente con se stesso e, di qui, dissolverne ogni immagine statica, nella terminologia di Adorno, “mitica”.

La dissoluzione di un riconoscimento immediato dell’”eterogeneo” attraverso le griglie del principio di identità implica la possibilità di poter rinvenire all’interno di ogni “immagine” apparentemente statica solo «cenni fugaci, tracce di una realtà sempre interrotta»,60 la quale può essere colta solo nel medio della costellazione linguistica – del loro significare all’interno della nominazione –, dove, di volta in volta, i frammenti, in modo centrifugo, si compongono fra di loro come ad irradiarsi prismaticamente. Il non-identico, ancora una volta, è ciò che resta, ciò che resta ancora da dire una volta destituita la lingua del concetto, ciò che cade fuori la morsa del concetto stesso. All’interno di un “pensare in costellazioni” non vi è un soggetto che conosce un oggetto, ma un testo e una costellazione di linguaggio in cui dimensione sensibile e dimensione intelligibile, vita e linguaggio, materia e forma continuamente si avvicinano e distanziano, rimandando l’una all’altra, fino a schiudersi nell’”attimo della loro conoscibilità”. Il “testo dialettico”, o il pensiero nella sua stringenza “retorica”, non obbedisce all’impulso affermativo della logica dello spirito; esso, piuttosto, definisce un principio ermeneutico che è tanto distante dall’esaurimento del fenomeno nella totalità stipulata delle sue determinazioni, quanto dal principio ermeneutico in senso corrente, secondo il quale ogni opera può essere in ogni istante oggetto di interpretazione infinita, in quanto in sé inesauribile e totalmente indipendente dalla storia. Esso, al contrario, sospendendo il normale carattere denotativo e costativo del linguaggio – la relazione denotativa tra il detto e il fatto –, schiude in “possibilità” il consueto funzionamento del dire e del conoscere: vale a dire, rende possibile l’esperienza della dicibilità dei fenomeni nel linguaggio, e l’esperienza della conoscibilità degli oggetti nei nessi che ne tramano la consistenza. La relazione tra questa logica del dire e, all’interno di essa, l’esperienza della cosa illumina proprio il fatto che il «non-identico che noi sperimentiamo all’interno del linguaggio è anche al tempo stesso l’incontro col mondo»,61 con lo stratificarsi (storico) dei suoi significati; il non-identico si offre, nello stesso tempo, come immanente e trascendente il linguaggio stesso ma, come è stato puntualmente notato, «in modo tale che la sua oggettività trascendente trova la sua condizione e radice proprio nella sua linguisticità».62 Comprendere non indica altro che il cogliere la singolarità in questione e, nello stesso tempo, liberarne le “possibilità” ripercorrendone la processualità interna, l’intreccio irrisolto di vita e linguaggio, presente e passato, stasi e temporalità. Ecco perché, la filosofia non coincide con una indagine su ciò che si nasconde dietro la realtà, come una «struttura che pretende di rappresentare il particolare come completamente compreso all’interno dell’universale»;63 ma, piuttosto, con la configurazione e costruzione di una realtà frammentariamente costituita di elementi ormai isolati, senza poterla oggettivare conoscitivamente all’interno di una totalità significante. In altri termini, il rapporto tra configurazione, espressione e senso viene inteso da Adorno, sulla scia di Benjamin, come relazione non “simbolica” bensì “allegorica”. Se il simbolo, infatti, coincide con quella posa conoscitiva e linguistica che può comprendere il particolare solo se risolto integralmente e intenzionalmente nell’universale concepito a priori come sua meta e destinazione, la dimensione allegorica, invece, vede attorno a sé un insieme molteplice di frammenti dispersi cui solo la “composizione” può mostrarne un senso occasionale, contingente e intermittente: in questo senso, non intenzionale e non presupposto. Al paradigma di una coincidenza tra significante e significato che elimina la separazione egli sostituisce quello di una loro articolazione possibile solo attraverso e a partire dalla separazione stessa. È quanto, del resto, già i toni del giovane Adorno esprimevano negli anni Trenta, nella prolusione su L’attualità della filosofia:

Il compito della filosofia non è quello di offrire un senso positivo, ossia non è quello di giustificare e spiegare la realtà come se fosse “dotata di senso”. Ogni giustificazione dell’ente siffatta è impedita dalla fragilità dell’essere; le nostre immagini percettive possono essere figure, ma il mondo nel quale viviamo, che non è costituito da mere immagini percettive, non lo è mai. Il testo che la filosofia deve leggere è un testo incompleto, colmo di contraddizioni e fragile; molto di tutto ciò può essere attribuito all’irrazionalità cieca del reale. Forse il nostro compito è la lettura, proprio leggendo riconosciamo meglio la violenza dell’irrazionalità e impariamo a bandirla. Peraltro l’idea dell’interpretazione non richiede che venga accettata l’esistenza di un secondo mondo, di un retro-mondo (Hinterwelt), che sarebbe possibile conoscere attraverso l’analisi dell’apparente.64

In questa prospettiva, il non-identico può essere davvero tale solo nel momento in cui giunge ad espressione: il rimosso, in quanto dimenticato, deve giungere a intelligibilità, riconoscersi all’interno di una “configurazione possibile”. Il momento “retorico” della filosofia è, in questo senso e paradossalmente, il momento attraverso il quale si tenta di avvicinare linguaggio e vita, vita e filosofia; esso, secondo un gesto specifico di Adorno, trova la sua formulazione concreta nella dimensione non-conoscitiva della mimesis, la quale è alla ricerca di una visione e di un movimento del linguaggio capaci di avvicinare «reciprocamente fino all’indifferenza cosa ed espressione»:65 per questo, «la retorica supplisce nella filosofia ciò che non è pensabile se non nel linguaggio; essa si afferma nei postulati di quell’esposizione attraverso cui la filosofia si distingue dalla comunicazione di contenuti già noti e fissati».66

In un senso più esteso, nell’epoca in cui la produttività della ragione come affermazione del principio di identità ha reso la vita del singolo essenzialmente normativa, allora la dimensione etica in gioco nel momento retorico della filosofia assume un nuovo, eversivo significato, come appropriazione e avvicinamento alla vita tale in quanto, prima di tutto, deviazione dai luoghi e dai significati imposti della norma e del dominio. Qui logica ed etica, linguaggio e abituale singolarizzazione della vita sembrano incontrarsi all’interno di una impensata relazione che tenta di tracciare lo spazio indeterminato di una dimensione radicalmente sottratta al dominio, di pensarne e individuarne il punto di fuga. Il momento retorico-espressivo del linguaggio, che la filosofia recupera in sé, muove da un certo orizzonte di significati e riferimenti stabiliti, dati una volta per tutte, sospendendone la funzionalità estensiva (la logica del vero/falso) per appropriarsi di connotazioni, potremmo dire, puramente intensive e intensionali, che mostrano la loro non riducibilità ad un unico stilema denotativo o sistema di riferimento. Questa diversione, a suo modo tanto logica quanto etica ed estetica, tenta di fare tutt’uno con una singolarizzazione dell’ esperienza e della prassi: la divergente e contigua esperienza del significare si accompagna ad un agire che, disorientando ogni prescrizione o modello denotativo, si offre come rinnovata abitudine con i luoghi dell’esperienza, meglio, come apertura di uno spazio vuoto che ne renda possibile la composizione; singolarizzazione e composizione di elementi eterogenei che è tale a partire dalla propria distanza dalla logica inclusiva della significazione tesa all’identità. Il momento retorico del linguaggio, per Adorno implicito ma fondamentale nel movimento della filosofia, è, in questa sua prima e abbozzata figura, l’esperienza dicibile di questo movimento traslato, di questo spostamento desueto dall’universale al singolare; ancora una volta, movimento riflessivo di una “non-identità”:

Come l’alleanza della filosofia con la scienza sfocia virtualmente nell’abolizione del linguaggio, e quindi della filosofia stessa, così essa non sopravvive senza il suo sforzo linguistico. Invece di sguazzare nella corrente linguistica, riflette su di essa. Non a caso il lassismo linguistico – scientificamente: l’inesatto – si allea volentieri con il gesto scientifico dell’incorruttibilità del linguaggio. Infatti l’abolizione del linguaggio nel pensiero non lo demitologizza. Abbagliata, la filosofia sacrifica, insieme al linguaggio, ciò con cui si relaziona alla cosa in modo non meramente denotativo; solo in quanto linguaggio il simile è in grado di conoscere il simile.67

La dimensione “retorica” rappresenta, dunque, ciò che nella filosofia non può essere pensato se non come linguaggio e all’interno di esso dal momento che, per Adorno, la filosofia non ha alcuna speranza di incidenza senza sforzo linguistico, senza insistere sul dicibile. Il compito essenzialmente linguistico del pensiero, ovvero sempre scisso tra dicibile e indicibile, coincide con la restituzione della parola e della dicibilità stessa a quanto, anche storicamente, si dà come residuale, minore, manchevole d’espressione, ma solo per mostrarne l’inattualità irrisolvibile, la sua critica non coincidenza con i dati di fatto. Questa non-risolvibilità interna alla lingua che pure la fonda fa tutt’uno con quanto egli, soprattutto nella Teoria estetica, indicherà come l’”elemento mimetico”, il quale è segno di quanto si esprime nel linguaggio – nello specifico della Teoria estetica il linguaggio dell’opera d’arte – senza poter essere da esso detto. Come – secondo quanto analizzato precedentemente – l’impossibilità di far coincidere nella lingua i due piani del linguaggio – quello del nome e quello del discorso, quello del semiotico e quello del semantico – implica la compromissione della relazione denotativa fra le parole e le cose, fra il “detto” e il non-detto, così l’impossibile coincidenza senza residui di mimesis e conoscenza – momento mimetico-espressivo (Ausdruck) e momento logico-comunicativo (Kommunikation) – si traduce, ancora una volta, nella frattura non sanabile fra esprimere e dire, vale a dire nell’impossibilità per il linguaggio di poter dire il suo rapporto con il mondo; di qui la necessità di doverlo appunto esprimere, mostrare. L’aporia contro cui continuamente urta questo pensiero riguarda l’eterogeneità non conciliabile tra momento mimetico-espressivo e momento logico. Ciò che, in questo senso, la lingua “comunicativa” non può dire e “dimentica” di dire («il destino storico filosofico del linguaggio è al contempo il destino storico filosofico della cosa stessa»)68 è la natura mimetica, “retorica”, della sua relazione fondamentale e originaria con il mondo e l’eterogeneo, la quale sembra corrispondere – non tanto o solo contro il paradigma gnoseologico moderno, quanto piuttosto interna ad esso e in quanto limite di esso – a un rapporto, fra uomo e natura, uomo e mondo, mimetico (estetico) e tecnico (nel senso positivo di compositivo e “costruttivo”), e non strettamente “conoscitivo”. Per questo, come è stato detto, «La parola […] che si articola nella costellazione, può esprimere la cosa, in quanto non si identifica con essa»,69 si nega, cioè, ogni coincidenza risolutiva e identificante con ciò di cui parla. La distanza tra la parola e il suo referente, sospendendo l’identità tra concetto e oggetto espressa dal significato univoco, mostra la “potenzialità del significare”, il “poter-essere” del senso, il darsi di una molteplicità di significati eterogenei e contingenti nella relazione differenziale e predicativa tra linguaggio e mondo. Se il principio di identità persegue l’identificazione tra ciò che esiste con ciò che deve necessariamente essere, il non-identico apre lo scarto tra ciò-che-è e ciò che potrebbe essere-altrimenti da come è. Il concetto si scopre impedito nel proprio operare identificante, in quanto «non appena tenta di definire un oggetto, questo mostra il suo essere intrinsecamente relato all’altro da sé, al suo negativo, ad altri significati che non sono separabili da esso».70 Ogni individualità si costituisce come intimamente scissa, incompiuta e, dunque, sempre non-identica rispetto a sé stessa, smarcata rispetto a ogni tentativo di identificazione sostanziale.

3. Negatività e possibilità

Infine, ciò che deve essere ulteriormente chiarito è, a nostro avviso, uno dei motivi centrali dell’intera riflessione adorniana, vale a dire la relazione tra lo statuto particolare della negazione – non-identità fra soggetto e oggetto – e la categoria della contingenza quale figura incarnata della modalità del possibile. Tanto il possibile quanto il contingente, infatti, eludono e non si lasciano risolvere né all’interno del principio logico di non contraddizione né all’interno della contraddizione dialettica di mat; se il primo, infatti, predica l’impossibilità che una medesima cosa sia e, nello stesso tempo, non sia, e il secondo implica il continuo trapassare di un elemento nell’altro postulandone una risoluzione definitiva (il diventare non-identico dell’identico e il divenir identico del non-identico), la contingenza che Adorno vuole liberare, invece, indica il darsi, nello stesso tempo, di una possibilità e di un’impossibilità, meglio, di un «simultaneo poter-essere e poter-non-essere di una singolarità».71 Di qui, la preminenza di questo tema anche nella Teoria estetica adorniana e nella sua incessante riflessione su quella singolarità esemplare quale è l’opera d’arte, come luogo di esibizione di una persistente relazione negativa tra dimensione logica e dimensione estetica, linguaggio e sensibilità. La negatività adorniana, il non-essere sul quale la sua riflessione insiste, non è affatto un “Nulla” assoluto, né una remissiva impossibilità di fare o pensare,72 ma, al contrario un vuoto avvertito e sentito e per questo significante, uno spazio pieno di contenuti determinabili e possibili il quale, per essere compreso, deve essere colto nella sua implicazione con la contingenza, vale a dire con quel costante poter-non-essere che, come vedremo, fa tutt’uno con la dimensione sensibile. Il possibile, infatti, costituisce il momento di apertura attraverso il quale irrompono nella significazione umana il molteplice e l’eterogeneo, il mutevole e il caduco, tutto ciò che secondo Adorno non trova la propria voce all’interno del principio di identità e del modello denotativo/referenziale (vero/falso) e riproduttivo che ne costituisce il fondamento; ciò che qui si indica con il termine eterogeneo è propriamente tutto ciò che non abbandona mai una condizione lacunosa di potenzialità, di un costante poter-essere-altrimenti rispetto alle determinazioni acquisite. In questo senso, dunque, se l’attività del comprendere implica non semplicemente «rispecchiare ciò che ormai è»73 ma, al contrario, trascendere la fattualità denotata e «superare ciò che semplicemente è»,74 allora pensare la pienezza della negazione e del possibile significa, in primo luogo, pensare un altro modo del dire e del significare. Il non-identico – l’altro, il diverso, il possibile, l’eterogeneo – è qui l’idea stessa della più volte sottolineata non-identità e non-corrispondenza tra le parole e le cose, tra la lingua e la realtà; in questa prospettiva, l’esperienza di questa negatività insita nella relazione fra il linguaggio e il mondo, fra il soggetto e l’oggetto, non solo rimanda e riflette l’esperienza della discordanza fra i poli, ma indica e rivela, nello stesso tempo, un preciso modo di essere, modalità la cui testimonianza e esibizione sarà incarnata materialmente e sensibilmente, per Adorno, proprio dall’opera d’arte.75 Spingendo la nostra analisi al di là dei confini della riflessione adorniana e proseguendone il tracciato che in qualche modo essa adombra, se è vero che il non-identico rimanda alla relazione non coincidente fra le parole e le cose, è altrettanto fondamentale sottolineare quanto la dimensione della non-identità rimandi e illumini l’esistenza stessa del linguaggio, vale a dire la natura negativa e differenziale che lo attraversano dall’interno e ne testimoniano il modo di essere. Nel suo recente studio sulla filosofia di Adorno, e in modo specifico sul ruolo determinante che il linguaggio assume in essa e oltre di essa, Philip Hogh ha messo chiaramente in luce questo aspetto, attraverso l’instaurazione di un paragone tra l’idea del non-identico e la dimensione puramente differenziale del linguaggio elaborata dalla linguistica di Ferdinand de Saussure.76 Secondo Saussure, i segni sono un plesso di differenze eternamente negative: «Poiché non vi è immagine vocale che risponda più di un’altra a ciò che essa è incaricata di dire, è evidente, anche a priori, che mai un frammento di lingua potrà essere fondato su alcunché di diverso dalla sua non-coincidenza con il resto».77 E ancora: «Tutto ciò che precede si risolve nel dire che nella lingua non vi sono se non differenze. Di più: una differenza suppone in generale dei termini positivi tra i quali si stabilisce; ma nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi».78 La vita stessa del linguaggio e dei segni, secondo Saussure, sembra fondarsi sulla differenza, non-identità e non coincidenza, tra le parole e le cose da esse designate. La lingua si costituisce come un «plesso di differenze eternamente negative»,79 senza che sia possibile scorgere in essa “termini positivi”, di per sé autonomamente sussistenti. In questo senso, seguendo brevemente l’analisi di Saussure, è possibile asserire che la lingua e il suo funzionamento siano una incarnazione dell’idea di non-identità. Dal momento che nessun elemento della lingua può essere considerato qualcosa di positivo in sé ma può essere definito solo in nome della sua differenza rispetto agli altri segni, allora il modo di essere della lingua coincide con la sua natura puramente differenziale; essa, in altre parole, mostra il fatto che, in quanto singolarità, un fenomeno è ciò che gli altri non sono.80 Ma se tutto questo è vero, allora il linguaggio e la significazione devono essi stessi essere considerati, prima di tutto, un qualcosa di possibile, vale a dire un qualcosa che, in ogni sua manifestazione, mostra e rende conto della sua relazione con la contingenza. La contingenza e la possibilità, in questo senso, non riguardano solo ciò cui di volta in volta i discorsi si riferiscono – questo o quello stato di cose – ma, primariamente, l’esistenza stessa del linguaggio e della significazione, vale a dire la possibilità che essi siano e, nello stesso tempo, non siano, che possano tanto “avvenire” quanto “non avvenire”; in altri termini la possibilità, per l’animale uomo, che la lingua e il senso possano venir meno, non aver luogo e che, proprio a partire, però, dalla loro ineludibile esigenza rivelino il loro carattere eventuale, contingente.

Al non-identico, inoltre, appartiene intimamente il modo di essere di ciò che Adorno tecnicamente definisce l’eterogeneo, vale a dire del molteplice, o meglio, di una singolarità sensibile che mai riesce ad essere denotata dal linguaggio. Nel mettere in luce un limite del linguaggio, l’eterogeneo, inteso come il sensibile molteplice e caduco, sembra partecipare in ogni sua manifestazione della natura negativa del “non-essere”, di ciò che non può essere messo totalmente in forma, indicando per questo ciò che rimanda ad altro, a un altrimenti, insomma a un essere possibile. La differenza e la non identità fra linguaggio e mondo, concetto ed eterogeneo, che appartiene al modo di essere della riflessione adorniana, designano il luogo logico e teoretico in cui, come più volte si è visto, si rende ancora una volta esplicita l’impossibilità di poter fare esperienza del senso “nella sua totalità”,81 dal momento che essa, non potendo più esser pensata come qualcosa di posto di fronte al soggetto si presenta, al contrario, come la dimensione sensibile nella quale siamo immersi e che, in quanto tale, sfugge alle determinazioni logiche82 della rappresentazione, segnandone in questo modo i limiti (sarà questo, tra gli altri, uno dei nodi teoretici fondamentali dell’analisi dell’opera d’arte nella Teoria estetica). L’eterogeneità sensibile indica, di volta in volta, qualcosa di prossimo e contiguo ma mai identico, che deve essere ogni volta composto e configurato e mai sussunto; qualcosa di molteplice che rivela la propria refrattarietà e resistenza ad ogni sintesi. Essa mette in luce la natura singolare della dimensione sensibile la quale, non potendo risolversi completamente nel detto del linguaggio, non solo schiude l’appartenenza del soggetto a quanto vi è di non linguistico, ma mostra la sua natura costitutivamente relazionale, sempre esposta verso l’eterogeneo, sempre in difetto rispetto a sé stessa e, dunque, alla propria identità. In quanto relazionale e mai coincidente con alcuna identità, anzi rispetto a essa sempre dislocata e sottratta, la singolarità sensibile qui in gioco non può mai essere qualcosa di sostanziale e, liberandosi proprio a partire dalla lacuna che separa soggetto e oggetto, linguaggio e mondo e non lasciandosi risolvere né attenuare all’interno di un predicato specifico e di un determinato modo di dire il senso e il mondo, essa sarà sempre qualcosa di puramente contingente, di propriamente finito e caduco. La relazione negativa e non-identica fra le parole e le cose, dunque, esibisce quel modo di essere contingente e potenziale che accomuna il linguaggio e la dimensione sensibile. In questo senso, paradossalmente, linguaggio e sensibilità, dimensione logica e dimensione estetica, si incontrano proprio nel loro non corrisponersi e non-coincidere, e la contingenza che abita lo spazio vuoto della loro non-identità sembra essere la determinazione impropria che li rende comuni l’un l’altro. Ed è proprio a questo livello che entra in gioco un’altra fondamentale categoria della riflessione adorniana – determinante soprattutto nella Teoria estetica – vale a dire quella di apparenza. Ogni immagine, infatti, per Adorno, mostra ciò che non-è allo stesso modo di come ogni cosa e ogni contenuto trovano la propria espressione non in sé, ma solo in qualcosa di altro-da-sé; il soggetto nell’oggetto (e viceversa) nella Dialettica negativa, allo stesso modo di come, nella Teoria estetica, ogni contenuto sarà tale solo in quanto “sedimentato” all’interno della forma e, a sua volta, la forma sarà tale solo perché costantemente in relazione a quanto ad essa eterogeneo. Scrive Adorno nella Teoria estetica

Non merita il proprio nome nessuna opera d’arte che tenga lontano da sé ciò che è casuale rispetto alla sua propria legge. Infatti la forma, in base al proprio concetto, è solo forma di qualcosa, e questo qualcosa non può diventare mera tautologia della forma. Ma la necessità di questa relazione della forma con il proprio altro scalza la forma; essa non può prosperare come quel qualcosa di puro rispetto all’eterogeneo che essa come forma vuole essere nella stessa misura in cui ha bisogno dell’eterogeneo. L’immanenza della forma nell’eterogeneo ha un suo limite.83

In questo senso, la non-sostanzialità di dicibile e sensibile trova la propria espressione e la propria immagine solo in qualcosa di apparente, di altro rispetto a sé: solo nella figura di una apparenza eterogenea.84 Questo vuol dire che solo quando cogliamo l’eccedenza del sensibile facciamo esperienza del linguaggio, cioè dell’esigenza che il sensibile significhi, diventi qualcosa di dicibile; ma, ugualmente, solo quando cogliamo la contingenza del linguaggio e della significazione – il suo poter essere e il suo poter-non-essere – allora facciamo davvero esperienza della singolarità sensibile che ne segna il limite. Il modo di essere del linguaggio e del concetto trova la propria forma e la propria immagine nella contingenza della dimensione sensibile, allo stesso modo di come quest’ultima trova la propria “forma” solo in quella della contingenza del concetto. L’immagine adorniana di ciò che permane in una continua negatività trova, di volta in volta, la propria concreta referenza solo in ciò che essa non-è: come il sensibile è tale in quanto rimanda alla propria dicibilità, allo stesso modo il dicibile è tale in quanto mostra l’eccedenza sensibile (anche qui esemplare diventa il momento dell’arte: «Il momento paralinguistico dell’arte è quanto di essa è mimetico; essa diventa universalmente eloquente nel moto specifico, lontano dall’universale. Il paradosso per cui l’arte dice ciò e tuttavia non lo dice, ha a fondamento il fatto che quel qualcosa di mimetico attraverso cui essa lo dice al tempo stesso si oppone, in quanto opaco e particolare, al dire»).85


  1. E. Tavani, L’apparenza da salvare. Saggio su Theodor W. Adorno, Guerini e Associati, Verona, 1994, pp. 35-36. La Tavani mette inoltre in evidenza come «Il lungo itinerario che va dalla Attualità della filosofia, alla Dialettica dell’Illuminismo, fino alla Dialettica negativa e alla Teoria estetica, corre lungo il filo di una critica ricostruttiva della razionalità che non fa che girare attorno alla piuttosto vexata quaestio di soggetto e oggetto». ↩︎

  2. Ibidem. ↩︎

  3. Cfr. Ibidem. Sulla critica della razionalità adorniana e sui suoi debiti nei confronti di alcune analisi di Nietzsche si veda il testo di A. Schmidt, Zur frage der Dialektik in Nietzsches Erkenntnistheorie, in Zeugnisse – Th. W. Adorno zum sechzigsten Geburstag, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1963, pp. 115-132. ↩︎

  4. Ivi, p. 37. ↩︎

  5. Ivi, p. 39. ↩︎

  6. Th.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 2004, p. 157. ↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Ivi, p. 158. ↩︎

  9. «[…] Le determinazioni soggettive non sono un che di meramente conferito, esse vengono sempre anche pretese da ciò che deve essere determinato, e in tal modo si afferma la priorità dell’oggetto. Viceversa il presunto oggetto puro, esente dall’ingrediente del pensiero e dell’intuizione, è proprio il riflesso dell’astratta soggettività: solo essa eguagli a sé l’altro mediante l’astrazione». Th.W. Adorno, Zu Subjekt und Object, in Stichworte. Kritische Modelle, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1969, trad. it., Su soggetto e oggetto, in Parole chiave. Modelli critici, Sugarco Edizioni, 1974, p. 219. ↩︎

  10. Cfr. E. Tavani, L’apparenza da salvare cit., p. 39. ↩︎

  11. Formalmente, nella prospettiva di una ricerca delle condizioni di possibilità che rendono possibile la costruzione dell’esperienza, l’argomentazione adorniana, suggerisce O’Connor, può essere sintetizzata all’interno dei seguenti punti: a)ci deve essere qualcosa con cui e a cui il soggetto è costitutivamente relato; b) la nozione stessa di una “relazione esterna” implica che l’esperienza stessa deve essere compresa, innanzitutto, come la relazione del soggetto a qualcosa che non è puramente soggettivo, dunque a “oggetti non-concettuali”; c) la stessa nozione di esperienza implica la convinzione che ci siano oggetti ai quali il soggetto è necessariamente relato affinché un’esperienza sia possibile e, di qui, la conferma che gli “oggetti”, a partire da questa loro trascendentale precedenza, non siano riducibili a concetti. Cfr. B. O’Connor, Adorno’s Negative Dialectic, The Mit Press Cambridge, London, 2004, pp. 56-57. ↩︎

  12. E. Tavani, L’apparenza da salvare cit., p. 39. ↩︎

  13. Cfr. Ibidem: «Lo statuto ugualmente apparente dei due poli li vincola […] ad una comune funzione segnaletica, indicativa di una non-identità alla quale Adorno tende ad attribuire uno spessore al tempo stesso costitutivo […] e storico-genetico». ↩︎

  14. Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 167. ↩︎

  15. S. Petrucciani, Un pensiero sul margine del paradosso, in Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. XXVI: «la costituzione antagonistica della società non è senza crepe e fratture, né inamovibile; al contrario, “cova in sé il suo controcanto”; ma se si dissolvesse, un mondo diverso diventerebbe per la prima volta forse possibile. Se diciamo, come risultato di un pensiero rigoroso, e negativo, che niente di ciò che è dato può pretendere assolutezza, ciò significa che il pensiero è anche in grado di pensare il suo limite, e quindi, in un certo senso, di pensare oltre se stesso, verso l’Aperto». ↩︎

  16. Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 163: «Certo, l’apparenza che il soggetto trascendentale sia il punto archimedeo non si può spezzare del tutto con un’analisi soltanto interna della soggettività. Infatti in quest’apparenza c’è di vero, senza che lo si possa distillare dalle mediazioni del pensiero, che la società è prioritaria rispetto alla coscienza singola e a ogni sua esperienza». Cfr. inoltre M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico, Jaca Book, Milano, 2004, p. 173. ↩︎

  17. M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico cit., p. 173. ↩︎

  18. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., p. 218. ↩︎

  19. M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico cit., p. 174. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Ibidem. ↩︎

  22. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., p. 218. ↩︎

  23. Th. W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 165. ↩︎

  24. Ivi, p. 167. Cfr., inoltre, S. Petrucciani, Introduzione a Adorno, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 122. ↩︎

  25. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., p. 219. ↩︎

  26. M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico cit., p. 175. ↩︎

  27. Cfr., E. Tavani, L’apparenza da salvare cit., p. 43. ↩︎

  28. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., pp. 223-224. ↩︎

  29. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., pp. 224-225 (corsivi miei). ↩︎

  30. M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico cit., p. 177. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. «Il soggetto tanto più è quanto meno è, e quanto meno è, tanto più si illude di essere un qualcosa di oggettivo». Esso è una soglia e un passaggio, o, nelle parole di Adorno, un “momento”, ma, in quanto momento, è ineliminabile. Cfr. Th.W. Adorno, Su soggetto e oggetto cit., p. 229. ↩︎

  33. P. Virno, E così via, all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 208. ↩︎

  34. Ivi, p. 228. ↩︎

  35. Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 170. ↩︎

  36. E. Tavani, L’apparenza da salvare cit., p. 43-44 ↩︎

  37. Cfr. Ibidem↩︎

  38. Th.W. Adorno, Parole chiave cit., pp. 12-13. ↩︎

  39. I. Bachmann, Frankfurter Vorlesungen: Probleme zeitgenössicher Dichtung, R. Piper Verlag, München, 1980, trad. it., Letteratura come utopia: lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano, 2011, p. 120. ↩︎

  40. Ibidem↩︎

  41. Ivi, p. 124. ↩︎

  42. Cfr. A. Bellan, Il linguaggio e il negativo. Sull’elemento linguistico nel pensiero di Adorno, in Id., Trasformazioni della dialettica. Studi su Theodor W. Adorno e la teoria critica, Il Poligrafo, Padova, 2006, p. 53. ↩︎

  43. Ivi, p. 55. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. B. O’Connor, Adorno’s Dialectic Negative cit., pp. 67-68. ↩︎

  46. Cfr. ancora Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 131. ↩︎

  47. «Gli edifici concettuali nei quali, secondo il costume filosofico, l’intero avrebbe potuto essere alloggiato, assomigliano, di fronte all’espandersi smisurato della società e ai progressi della scienza naturale positiva, a resti della semplice economia della merce all’interno del tardo capitalismo industriale. La sproporzione, ormai divenuta luogo comune, tra il potere e ogni forma di spirito è diventata così enorme da vanificare i tentativi, ispirati al concetto stesso di spirito, di comprendere il preponderante». In Ivi, p. 6. ↩︎

  48. Ivi, p. 7. ↩︎

  49. Ibidem. ↩︎

  50. Ibidem. ↩︎

  51. Ibidem↩︎

  52. Th.W. Adorno, Sulla metacritica della gnoseologia. Studi su Husserl e le antinomie fenomenologiche, Mimesis, Milano, 2004, p. 20. ↩︎

  53. Ivi, p. 147 ↩︎

  54. Ibidem. ↩︎

  55. Ibidem. ↩︎

  56. Ibidem↩︎

  57. Ibidem. «L’uso hegeliano del termine concreto, secondo cui la cosa stessa è la sua relazione, non la sua mera ipseità, lo registra, senza però disprezzare la logica discorsiva malgrado ogni critica a essa. Ma la dialettica di Hegel era una dialettica senza linguaggio, mentre il significato letterale più semplice di dialettica postula il linguaggio. […] In senso enfatico egli poteva fare a meno del linguaggio, perché in lui tutto, anche l’alinguistico e l’opaco, sarebbe stato spirito e lo spirito relazione». Su questi punti cfr. A. Bellan, Il linguaggio e il negativo cit., pp. 58-59; e N. Larsen, The Idiom of Crisis: On the Historical Immanence of Language in Adorno, in G. Richter (a cura di), Language Without Soil. Adorno and Late Philosophical Modernity, Fordham University Press, New York, 2010, pp. 117-130; P. Hogh, Kommunikation und Ausdruck. Sprachphilosophie nach Adorno, Velbrück Wissenschaft, Weilerswist, 2015. ↩︎

  58. L. Cortella, Una dialettica nella finitezza cit., p. 164. ↩︎

  59. Ivi, p. 148. ↩︎

  60. A. Bellan, Il linguaggio e il negativo cit., p. 59. ↩︎

  61. L. Cortella, Una dialettica nella finitezza. Adorno e il programma di una dialettica negativa, Meltemi, Roma, 2006, p. 182. ↩︎

  62. Ibidem↩︎

  63. Mario Farina ha messo chiaramente in evidenza la presenza di questa convinzione nella filosofia adorniana a partire dai suoi primissimi e giovanili “tentativi” filosofici. Cfr. M. Farina, Adorno e la genesi del pensiero critico, in Th.W. Adorno, L’attualità della filosofia. Tesi all’origine del pensiero critico, Mimesis, Milano, 2009, p. 15. Cfr. inoltre M. Farina., Utopia e critica. L’eredità della filosofia classica tedesca nel pensiero di Adorno, in Pensare il presente, riaprire il futuro. Percorsi critici attraverso Foucault, Benjamin, Adorno, Bloch, a cura di G. Gamba, G. Molinari, M. Settura, Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 181-197. ↩︎

  64. Th.W. Adorno, L’attualità della filosofia cit., p. 49. ↩︎

  65. Th.W. Adorno, Dialettica negativa cit., p. 53. ↩︎

  66. Ivi, p. 52. ↩︎

  67. Ibidem: «L’allergia dell’intera tradizione filosofica nei confronti dell’espressione […] è conforme alla tendenza di tutto l’illuminismo di punire fin dentro alla logica l’indisciplina del gesto, un meccanismo di difesa della coscienza reificata» (corsivo mio). La centralità della relazione riflessività-linguaggio nel pensiero di Adorno è stata più volte e incisivamente sottolineata da Alessandro Bellan, secondo il quale «Proprio in tal modo, però, la razionalità dialettica non è più “ostinata e talmudistica”, quello spirito di contraddizione che sembra rinchiuderla nel “cerchio magico dell’esistenza”, aprendosi invece alle molteplici figure in cui il non-identico traspare nonostante la sua opacità. Le tracce del negativo che la razionalità dialettica ha l’obbligo di far parlare interpretandole contengono un barlume di verità per quel pensiero che è il massimo responsabile della loro disgregazione. Il trascendimento del dominio appare così legato non all’avvento di una ragione più luminosa e universale, ma di un linguaggio che sappia finalmente dar voce al negativo […]». A. Bellan, Il linguaggio e il negativo cit., p. 72. Cfr. inoltre dello stesso autore, La prassi del limite. Critica, dialettica, normatività, in Trasformazioni della dialettica cit., pp. 73-94. ↩︎

  68. Cfr. Th.W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino, 2006, p. 150. ↩︎

  69. F. Costantini, Cosa mostra la dialettica? Contraddizione, negazione e non-identità in Hegel e Adorno, in G. Matteucci e S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and Dialectical Experience/Verità ed esperienza dialettica cit., p. 184. ↩︎

  70. Ivi, p. 178. ↩︎

  71. P. Virno, Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 153. ↩︎

  72. Cfr. Th.W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi cit., pp. 137-138. ↩︎

  73. Ibidem↩︎

  74. Ibidem↩︎

  75. Nella Teoria estetica si dirà che «L’unità estetica riceve la propria dignità dal molteplice stesso. Essa rende giustizia all’eterogeneo». Th.W. Adorno, Teoria estetica cit., p. 256. ↩︎

  76. Cfr. P. Hogh, Zeichen, Langue und Parole bei Saussure, in Id., Kommunikation und Ausdruck cit., p. 227. ↩︎

  77. F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Éditions Payot & Rivages, Paris, 1916; trad. it., Corso di linguistica generale, ed. it. a cura di T. De Mauro, Laterza, Bari, 1970, p. 143. ↩︎

  78. Ivi, p. 145. ↩︎

  79. Ivi, p. 143. ↩︎

  80. Cfr. P. Virno, Parole con parole cit., p. 159. ↩︎

  81. Come tema che attraversa l’intera riflessione di Adorno, e buona parte della filosofia del Novecento, la messa in questione dell’idea di “totalità” è presente sin dagli scritti giovanili degli anni trenta del primo Novecento. Cfr., Th.W. Adorno, L’attualità della filosofia cit., pp. 53-54. ↩︎

  82. Hogh sottolinea come tanto il linguaggio quanto lo stesso pensiero siano, per Adorno, momenti di una totalità non concettuale e non linguistica che, per questo, non può essere tematizzata. Cfr. P. Hogh, Zwischen Subjekt und Objekt, in Id., Kommunikation und Ausdruck cit., pp. 248-249.. ↩︎

  83. Th.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 2009, p. 297. ↩︎

  84. L’espressione è di Paolo Virno: cfr. Id, Il paradosso della contingenza, in Id., Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio cit., pp. 153-163. ↩︎

  85. Th.W. Adorno, Teoria estetica cit., p. 275. ↩︎