Prossimità dell’òrexis alla potenza e all’atto in Aristotele

1. Definizione dell’òrexis

Definire esaustivamente il termine òrexis1 è impresa non facile poiché il suo orizzonte d’azione è intessuto di tensioni e contraddizioni. Sebbene il lemma venga normalmente tradotto con desiderio,2 la traduzione più fedele al testo aristotelico e maggiormente vicina al significato letterale del termine, in forza della capacità di rendere l’idea del movimento che la anima, è tensione3 o tendenza. La matrice del vocabolo è da rintracciare nel verbo orègo il cui significato è tendo, cerco di raggiungere e di colpire, e nella forma mediale, mi protendo, nel duplice senso di stendersi con le mani per abbracciare o con l’asta per colpire.4 Il presente orègo ha la medesima radice del latino regere, inteso però nel significato di tener saldo, piuttosto che in quello del dirigere in linea diritta.5 L’òrexis, dunque, in quanto energia direttrice (propriamente da regere), rivela lo stendersi in avanti verso una direzione che faccia da guida, indica un percorso che è anticipazione della meta.

Sebbene il sostantivo compaia per la prima volta in Democrito, esso assume solo con Aristotele uno spessore filosofico nel significato di spinta, aspirazione tendenziale.6 Lo stesso Platone pur avendo dedicato ampio spazio al tema del desiderio, privilegiò il lessico tradizionale utilizzando termini quali èros, manìa ed epithumìa7 ricorrenti nelle opere dei poeti e frequenti nella lingua comune. Filosoficamente, dunque, il termine ha trovato la sua attestazione originaria in Aristotele, il primo a formulare una vera e propria teoria dell’òrexis, non solo individuando il ruolo della tendenza nel comportamento morale dell’uomo, ma facendone, addirittura, l’anima stessa della sua concezione etica.8

Sottolineandone più volte il carattere intenzionale, la sua direzionalità e la sua relazione con la percezione dell’oggetto,9 Aristotele, lungi dal considerarla un semplice sentimento di interessamento ne fa l’energia esecutiva10 in direzione dell’oggetto. Nel linguaggio aristotelico, l’òrexis designa, la tendenza di un ente verso il suo bene11 e il suo fine,12 la tensione che produce il cambiamento, il movimento stesso orientato teleologicamente: «ogni tendenza, infatti, è in vista di qualcosa».13

In quanto «desiderio, impulso e volontà»,14 essa abbraccia non solo la volizione ma ogni forma di energia orientata verso uno scopo determinato. È il principio che spinge all’azione un vivente in vista della soddisfazione di un bisogno, dell’appagamento di un desiderio, o della realizzazione di un bene. Se il thumòs, come mostra la radice thùo, indica lo slanciarsi buttandosi, senza consiglio e senza riflessione, in assenza di un oggetto determinato ma in forza di un ribollio del sangue che spinge a gettarsi su ogni cosa senza afferrare e trattenere nulla, l’epithumìa, come mostra la preposizione epì, introduce nello slancio un verso, una direzione che, tuttavia, non coincide ancora con il bene, ma semplicemente con il piacere. È la boùlesis a differire da queste due forme di tendenza per il fine cui è diretta; non essendo il suo oggetto particolare, ma fisso e permanente. Essa, dunque, è prerogativa propria dell’uomo, essendo egli solo dotato della razionalità, della facoltà di operare un giudizio e della capacità di riconoscere l’oggetto adeguato. E tuttavia desiderio e impulso non sono delle forme cieche dell’òrexis; entrambe partecipano, in qualche modo, della ragione in quanto le obbediscono e le danno ascolto come un figlio al padre.15 Se è vero, infatti, che la volontà è manifestamente desiderio permeato di ragione, è altrettanto significativo che impulso e desiderio, essendo capaci di obbedire alla ragione, non possono esserne privi.

Tuttavia se è vero che la òrexis è «una sorta di movimento»,16 l’elemento che, in primis, raccoglie queste forme di tendenza nell’unica denominazione dell’òrexis, non è tanto la facoltà razionale del vedere, quanto quella esecutiva dello stendersi e slanciarsi.17 E poiché carattere essenziale del movimento è l’essere fornito di una direzione e di un senso, l’istituirsi in vista di un tèlos, la tensione non è altro che un movimento atto a concludersi, ma il cui compimento non è ancora stato raggiunto.18 Come il movimento, essa si produce fino a che sussiste la dùnamis; esaurita questa, anche il movimento cessa, giacché non c’è motivo di spingersi verso un tèlos già perfettamente compiuto.19

2. Potenza dell’òrexis

Posto che non esiste òrexis senza dùnamis, si potrebbe incorrere nell’equivoco di confonderle, mentre in realtà la tendenza non può ridursi a semplice potenza, dovendosi concepire come potenza attuale, ovvero come potenza nell’atto di attuarsi o ancora mentre si attua.

Se, infatti, la potenza è sempre di un fine, la tendenza è in vista del fine. Se la prima non è ancora movimento ma possibilità di attuazione del movimento, la seconda è movimento che si attualizza. In questo senso, mentre la potenza è principio del movimento attivo o passivo, la tendenza è invece principio del movimento attuale; la potenza è capacità di agire o patire, la tendenza è il compiersi di azione e passione; e se la potenza è attiva o passiva, ossia nell’agente o nel paziente,20 la tendenza è sempre nell’agente.

E, infatti, la potenza è una capacità posseduta anche da chi è inattivo, come nel caso di un costruttore che è tale non soltanto nell’atto di costruire ma anche quando è in riposo per il fatto stesso che, conoscendo le regole della costruzione, è sempre in grado di applicarle; la tendenza, invece, è una spinta che si esplica contemporaneamente al movimento, come nel caso del costruttore allorché tende alla costruzione della casa mentre la costruisce. Colui che può costruire è ancora semplicemente nella possibilità della costruzione, possibilità che, pur implicando la realizzabilità, non termina necessariamente nella costruzione; colui che tende a costruire, invece, è già nella costruzione. Il tendere, dunque, aggiunge alla possibilità una certa attività. In questo senso potremmo dire che la tendenza è ciò mediante cui scegliamo uno dei due contrari di cui abbiamo potenza. Senza òrexis, dunque, la potenza sarebbe destinata a rimanere ingabbiata in una possibilità che, non traducendosi in attività, si tramuterebbe in inerzia. Posto di fronte all’alternativa tra i due contrari, l’agente rimarrebbe immobile, come paralizzato dalla stessa possibilità di intraprendere percorsi opposti, e come diviso tra padroni di ideologie contrastanti: «Di qui la necessità di qualcos’altro (èteron) che sia padrone: questo è la tendenza o la scelta».21

La potenza, dunque, sebbene sia la condizione dell’attività, non è autonoma ma eteronoma, ha bisogno cioè di un elemento esterno che decida di attualizzarla. Tale elemento è l’òrexis poiché «dei due contrari, l’agente razionale manderà ad effetto quello che desidererà in maniera predominante, quando, in modo conforme alla sua potenza, sarà in presenza e a contatto con il paziente. Pertanto ogni essere dotato di potenza razionale, quando desideri ciò di cui ha potenza e nel modo in cui ha potenza, necessariamente agisce».22 Posto che per l’azione sia necessario un desiderio preponderante, non bisogna però dimenticare che tale desiderio, per trasformarsi in azione, deve fondarsi su una potenza reale. Sebbene, infatti, l’impossibile possa essere oggetto del desiderio irrazionale, solo il possibile è oggetto di tendenza e di scelta. Circoscritto nell’esuberanza dell’impeto dell’attimo, il desiderio irrazionale svanisce ancor prima di intraprendere l’azione, di conseguenza il suo oggetto può anche rimanere irraggiungibile; l’òrexis, invece, non solo anima l’azione ma si conserva per tutta la sua durata, poiché ha sempre presente il termine cui deve agganciarsi, termine che deve essere continuamente percepito come potenzialmente agganciabile o non impossibile da agganciare.23

L’òrexis, dunque, da una parte non può tendere verso fini impossibili, e dall’altra, sebbene sia medio tra contrari, non può tendere verso fini contrari. Perciò Aristotele chiarisce: «Se uno volesse (boùletai) o desiderasse (epithumè) fare (poieìn), nello stesso tempo, due cose differenti o contrarie, non le potrebbe fare».24 Questo mostra che se la potenza è di entrambi i contrari, la tendenza, nonostante sia generata dalla dialettica tra contrari, è verso uno solo di essi. L’uomo, per esempio, ha potenza sia del bene sia del male ma non può desiderare di attuarli entrambi.25 La differenza è segnata dal poieìn. Finché si tratti semplicemente di desiderare (come, nel caso del thumòs, senza alcun oggetto, e, in quello dell’epithumìa, con un oggetto snaturato della sua essenza, poiché il piacere è certo oggetto incompiuto e, per se stesso, anche inconcludente), i termini del desiderio possono anche entrare in contraddizione; ma quando il desiderio (appunto, come l’òrexis) è una tensione, ossia un desiderio di fare, allora esige una scelta e, dunque, una direzione precisa.

3. Attività dell’òrexis

Non si incorra, tuttavia, nell’errore di confondere l’òrexis con l’attività. Posto che l’òrexis è la potenza attuale della cosa, l’enèrgeia l’esistenza attuale della cosa,26 perciò mentre la tensione si esplica nella produzione dell’oggetto, «l’atto si esplica nell’oggetto prodotto».27 Posto che la prima è desiderio del fine, la seconda è il fine stesso. Entrambe sono movimento, ma la prima è in compimento, la seconda compiuta; entrambe sono modi del vivere, ma la prima appartiene alla vita, la seconda è vita stessa. Entrambe sono principio, ma l’òrexis lo è perché inizia l’azione, l’enèrgeia perché è inizio. E mentre la prima comincia l’azione spingendo l’anima dall’interno, la seconda produce l’azione attraendo l’anima dall’esterno. Quando, dunque, dichiara che «l’anima possiede (èchei) il principio del movimento»,28 Aristotele si riferisce alla òrexis, essendo l’enèrgeia presente nell’anima come aspirazione e non come possesso. Tra tendenza e attività, dunque, corre la differenza che distanzia il fare dall’esistere, l’agire dall’essere, il tendere dall’avere, differenza dichiaratamente espressa nell’Ethica Nichomachea: «I desideri (orèxeis) sono distinti dalle attività, sia nel tempo che per natura».29 Se, infatti, le orèxeis sono temporalmente collocate nella storia, le attività sono eterne,30 se la natura delle prime è il movimento, quella delle seconde è l’immobilità. Esse distano, perciò, quanto la storia dall’eternità, o la privazione dall’essenza. Questa distinzione rende poco spiegabile la scelta di Ross di cambiare, in De an., III, 433b 18, il testo di Bekker. In questo passo l’òrexis è definita da Bekker come «una sorta di movimento che è in atto», mentre da Ross come «una sorta di movimento o attività». Sostituendo il pronome relativo con la congiunzione disgiuntiva, Ross si trova costretto o a rendere sinonimi il movimento e l’attività o a credere che l’uno escluda l’altra. In ogni caso egli rende sinonimi òrexis ed enèrgeia. Il testo di Bekker, invece, non solo non entra in contraddizione con la distinzione dell’Ethica Nichomachea tra orèxeis ed energeìai, ma spiega come né il movimento né l’attività possano definirsi tout court sinonimi dell’òrexis. Se fosse solo movimento la tendenza non avrebbe un èrgon, se fosse solo attività la tendenza non avrebbe motivo di tendere. Essa, dunque, non può che essere relazione, come mostra l’uso del relativo, tra il movimento e l’attività. Non ogni movimento, infatti, definisce l’òrexis, ma solo quel movimento che è in atto, ovvero quel movimento che è nel suo compiersi.

In definitiva la potenza accenna alla possibilità del divenire, la tendenza esprime l’azione del divenire mentre si diviene, l’atto indica il già divenuto. Carattere costitutivo dell’òrexis è, da un lato, l’infinitezza, poiché è nell’infinito che il concetto di potenza trova la sua piena esplicazione, dall’altro, la finitezza, poiché è nel finito che si attualizza il concetto di atto. E se non è possibile negare l’esistenza dell’infinito, bisognerà riconoscere che la sua esistenza è in potenza e non in atto. Alla maniera dell’infinito l’òrexis si caratterizza per l’impossibilità di passare all’atto verso il quale tende. Come, infatti, un infinito che si attualizzasse si snaturerebbe poiché diventerebbe finito, allo stesso modo un’òrexis che raggiungesse la forma verso cui tende cesserebbe di essere tendenza per diventare atto. E, tuttavia, se da un lato l’òrexis è in-finita, poiché non esaurisce mai la sua potenza, dall’altro è finita31 poiché, essendo una medietà, essa è anche limite.

L’ambivalenza di questo concetto è chiarita dallo stesso Aristotele attraverso gli esempi della lotta e della giornata, realtà che consistendo nel rinnovamento continuo, di sforzo nel primo caso e di istanti nel secondo, sono continuamente altro da sé. Ora, come la lotta mentre si svolge non è compiuta ma è effettivamente realizzata, e ancora, come la giornata nel suo trascorrere non è ancora finita ma è nel suo concludersi, allo stesso modo l’òrexis, pur non essendo ancora compiuta, è nel suo compiersi. E come nella lotta e nella giornata «ogni momento è finito ma sempre èteron kaì èteron, diverso»,32 allo stesso modo nella òrexis ogni istante è concluso, ogni spazio raggiunto, ogni sforzo compiuto ma «sempre èteron kaì èteron»,33 l’uno e l’altro, in quanto «è sempre nella generazione e nella corruzione».34 Ci discostiamo qui dalla traduzione di L. Ruggiu che, rendendo èteron kaì èteron con nuovo e diverso, sottolinea il carattere della novità ma smarrisce quello della reciprocità. E poiché, in greco, quando si tratta di due elementi, con la ripetizione di èteron si esprime il concetto della reciprocità, preferiamo tradurre l’espressione èteron kaì èteron con l’uno e l’altro. I due elementi in questione, nel testo, sono àllo kaì àllo. Perciò come nell’infinito ogni parte è sempre diversa dall’altra ma sempre l’una e l’altra, allo stesso modo nell’òrexis ogni parte è sempre diversa, ma sempre contemporaneamente nella potenza e nell’atto, nella generazione e nella corruzione, nella movimento e nella stasi. E poiché la possibilità di essere entrambe le cose è propria di ciò che è relato, poiché ciò che è irrelato può solo essere autòs, solo l’infinito — che è la distanza incolmabile tra l’istante e l’eterno, tra il punto e la grandezza massima — e l’òrexis — che è il percorso tra il tiratore e il bersaglio, tra la potenza e l’atto — possono essere contemporaneamente entrambe le cose.

Colui che tende dunque, da un lato, è esistente (da ex-ìstemi) poiché, portandosi fuori di sé è sempre altro da sé, dall’altro, è ciò che è già sempre essente (ò pote òn esti tò nùn) ,35 poiché, realizzando la sua essenza e il suo èrgon, permane nella successione del suo muoversi. Più che di infinitezza o finitezza bisognerà quindi parlare di continuità dell’òrexis, coesistendo nel continuo l’idea della permanenza e del mutare. Nella sun-ècheia, infatti, i due estremi sono tenuti-insieme da un limite comune. In questo senso il continuo (sunechès) rientra nel contiguo (ephexès), appartenendo a quella categoria di cose che, essendo in contatto, divengono una sola cosa. Più chiaramente il continuo diventa uno «come capita ad esempio in ciò che è inchiodato insieme, in ciò che è incollato, nella giuntura o nell’unione organica».36

4. Dialetticità dell’òrexis

Il trovarsi dell’òrexis in una posizione intermedia tra potenza e atto, materia e forma, ne fa appunto un medio37 capace, in quanto tale, di creare un bilanciamento tra le affezioni contrarie. Contrario, per Aristotele, è l’elemento che, insieme al suo opposto, costituisce l’opposizione massima all’interno del medesimo genere.38 Nell’ambito della logica, contrari sono l’affermazione e la negazione afferenti entrambe a quell’unico genere che è il dire; nell’ambito della vita contrari sono l’ingoiare e il rigurgitare, inerenti entrambi alla nutrizione; nell’ambito della percezione contrari sono il visibile (i colori) e il non visibile (il buio e lo splendore) appartenenti entrambi a quell’unico genere che è la vista;39 nell’ambito etico, infine, contrari sono l’agire e il patire forme di un unico movimento. «Sembra, dunque, che il contrario è alimento del contrario»,40 sebbene non tutti ma solo quelli che derivano e si accrescono l’uno dall’altro.41 Mentre, per esempio, la salute deriva dalla malattia e si accresce in relazione ad essa e viceversa, l’acqua alimenta il fuoco ma il fuoco non è alimento dell’acqua. Per quanto riguarda i sensibili contrari Aristotele chiarisce la relazione che li lega attraverso un sillogismo: «Ammettiamo che come A, bianco, sta a B, nero, così C (dolce) sta a D (amaro): ne seguirà anche il rapporto inverso [ossia A: C = B: D] . Se allora CD ineriscono in un’unica cosa, essi come AB saranno un’unica e medesima cosa, benché la loro essenza non sia la stessa». Che i contrari sono una medesima cosa sebbene la loro essenza sia diversa significa che essi appartengono a un medesimo genere sebbene differiscano per specie.42 Il genere è lo stesso poiché consiste nella medietà43 tra gli opposti riconducibili, invece, alla specie. Genere, per esempio, è il senso che consiste nella medietà tra la contrarietà dei sensibili. E, poiché l’eccesso distrugge il senso, ne deriva che esso «è una specie di proporzione».44

Ora, se «tutti i termini intermedi appartengono allo stesso genere delle cose di cui sono intermedi»,45 anche l’òrexis, apparterrà al genere della potenza e dell’atto. E se intermedio è «il termine attraverso il quale deve prima passare (metabàllein) ogni cosa che si trasmuti (metabàllon) nel suo contrario»,46 l’òrexis è esattamente quel termine senza il quale nessuna potenza può trasmutarsi in atto. E la trasformazione di cui l’òrexis è causa non è repentina ma graduale, non è un salto ma un passaggio. Se è vero, infatti, che il salto consiste nello staccarsi bruscamente e rapidamente, senza tappe intermedie, mentre il passaggio implica un transito e un attraversamento, è altrettanto significativo che l’òrexis, percorrendo i gradi intermedi tra gli opposti, produce non un cambiamento immediato ma graduale.47

In quanto termine intermedio, dunque, l’òrexis appartiene al medesimo genere dei contrari, è tra i contrari ed è composta dai contrari.48 Se non ci fosse un termine intermedio risolvibile nei due contrari, il movimento, e dunque il passaggio dalla potenza all’atto, sarebbe impossibile. Poiché ogni mutamento avviene a partire da un contrario per raggiungere, attraverso gradi progressivi, l’altro, ne deriva che escludendo il termine intermedio, composto degli stessi elementi dei contrari da cui si genera, negheremmo il mutamento stesso. Se non ci fosse qualcosa di intermedio tra il bianco e il nero, ovvero il grigio, spiegabile attraverso i contrari di cui è composto, si dovrebbe ammettere un processo di generazione che, non essendo dal non-bianco ma da qualcosa che non è dello stesso genere del bianco, non potrebbe in alcun modo generarlo. Il bianco (che appartiene al genere del colore) non potrebbe in alcun modo generarsi dal triangolo (appartenente al genere della figura). L’esperienza mostra che il generante deve essere dello stesso genere del generato. Allo stesso modo, dunque, se non ci fosse qualcosa di intermedio tra la potenza e l’atto che sia più del primo e meno del secondo, l’òrexis, non ci sarebbe possibilità del divenire. Come spiega invero Aristotele «il contrario non tende al suo contrario […], mentre il desiderio (òrexis) è del mezzo; questo, infatti, è il bene. Per esempio, per il secco è bene non diventare umido, ma il giungere allo stadio intermedio, e così per il caldo, e ugualmente per gli altri contrari».49

5. Prossimità dell’òrexis

Descritta come una relazione che emerge dal confronto tra due proprietà o eventi, la contrarietà50 conserva, in Aristotele, il ruolo primario di principio. Ad essa egli riporta la genesi di ogni mutamento.

Ma poiché i contrari, agendo nello stesso tempo e nello stesso luogo, si annullerebbero a vicenda, (terra e fuoco, pieno e vuoto, amore e odio non possono coesistere), è necessaria l’introduzione di un terzo elemento, altro dai contrari ma in relazione con essi,51 elemento rintracciabile, da Aristotele, nella òrexis^[52] che, altra sia dalla materia sia dalla forma, ne risolve la contraddizione anticipandone il passaggio.

Non bisogna, infatti, dimenticare che dalla privazione deriva la tensione, il desiderio di colmare la mancanza e dunque il movimento e il divenire. Prodotta da una mancanza, la tensione non si abbandona all’inerzia della privazione; è la forza che, superando il limite della negazione e della materia, si apre e si espande verso l’acquisizione della forma. La nostra esistenza è intessuta proprio di questa contraddizione52: chiusa, da un lato, nei limiti della negazione, è aperta dall’altro verso nuovi confini e orizzonti; destinata per un verso alla sofferenza e necessitata all’ignoranza, dall’altro è proiettata alla felicità e protesa verso la conoscenza.

Stabilire che l’òrexis è il movimento che dalla materia tende al raggiungimento della forma, significa farne l’elemento che scandisce il passaggio dalla potenza all’atto.53 Se il movimento è il processo di attuazione di ciò che era in potenza, l’òrexis, invece, è la tensione che anima questo processo, l’energia che spinge ad andare avanti piuttosto che arrestarsi. La complessità di questo concetto è esemplificata da un esempio dello stesso Aristotele: quando ciò che è costruibile (tò oikodometòn) è in atto (per evitare confusione potremmo dire: in opera) ossia nel processo di costruzione (oikoidomeìtai si costruisce), questa è costruzione (oikodòmesis); quando ciò che è apprendibile è in atto, ossia nel processo di apprendimento, questo è apprendimento; lo stesso vale per la guarigione, la rotazione, la crescita, l’invecchiamento.54 La costruzione è, in sintesi, il processo che dal costruibile (e cioè dalla potenza) procede al costruito (e cioè all’atto). Essa, dunque, esprime l’attività del costruttore mentre è all’opera, attività resa in greco dal suffisso is, utilizzato proprio per indicare la potenza invisibile e attiva dell’azione. Tale costruzione, poi, è il processo che lega la possibilità dell’azione, mostrata dal suffisso ton dell’aggettivo verbale, con la compiutezza dell’azione. L’idea di questo processo di svolgimento continuo è resa attraverso l’uso dell’indicativo presente che esprime, appunto, l’azione durativa e, dunque non conclusa, nel presente. L’esempio della costruzione è valido per ogni tipo di operazione, laddove, per operazione intendiamo l’azione mentre è in opera.55 Apprendimento, dunque, è l’attività dell’apprendere mentre si apprende, e così la guarigione è il processo del guarire mentre si guarisce, la rotazione l’azione del ruotare mentre si ruota, la crescita è lo sviluppo del vivente mentre si accresce. Nessuna di queste operazioni, tuttavia, potrebbe estendersi nel tempo se ad animarle non ci fosse un’energia esecutiva capace di infondere una tensione continua.

Stabilito, dunque, che l’òrexis è la tensione che anima il movimento, o addirittura il movimento stesso, si spiega la difficoltà di una sua definizione esaustiva. Come il movimento, essa è qualcosa di indeterminato poiché non è collocabile né tra le realtà che sono mobili né tra quelle immobili, né tra quelle in potenza né tra quelle che sono in atto.56 Non è mobile ma condizione perché il mobile si muova, non è immobile ma orientata verso di esso. Non è potenza, ma condizione perché la potenza si attui, non è atto ma tensione in vista di esso. Tuttavia, proprio in virtù della sua intermedietà,57 costituisce un ponte che permette di superare lo scarto tra il possibile e il compiuto mettendoli in relazione. Stabilito che l’òrexis non è potenza e neppure atto, occorre darne una determinazione positiva. Se è vero, infatti, che «alcune cose sono solo in atto (entelecheìa), altre in potenza e in atto, alcune cose sono sostanza (tòde ti), altre qualità (toiònde), quantità (tosònde) e altre categorie (kategoriòn) simili»,58 rimane da determinare a quale categoria appartenga l’òrexis. Poiché ogni relazione si dice in riferimento all’eccesso e al difetto, all’attivo e al passivo, e in generale rispetto al motore e al mobile, risulta evidente che essa è pròs ti; relazione, appunto.

«Pròs ti si dicono le cose che stanno tra di loro come […] ciò che eccede rispetto a ciò che è ecceduto, […] l’agente rispetto al paziente, […] ciò che è misurabile rispetto alla misura».59 Rientrano nel primo ordine di significato gli enti quantitativamente connessi secondo un rapporto numerico, come per esempio il doppio rispetto alla metà; appartengono, invece, alla seconda classe di significati gli enti dinamicamente connessi secondo un rapporto di azione e passione, come per esempio il comburente rispetto al combustibile, e in generale l’attivo rispetto al passivo; rientrano, infine nella terza categoria gli enti ontologicamente connessi secondo un rapporto di condizione, come per esempio il misurabile rispetto alla misura, la scienza rispetto al conoscibile, la sensazione rispetto al sensibile. In generale il pròs indica l’essere in relazione e non l’essere identico o differente, indica in sostanza il carattere della prossimità. Non potrebbe, infatti, esistere relazione tra elementi identici poiché la loro identità implicherebbe una coincidenza e dunque una relazione che, in quanto tautologica, non avrebbe motivo di sussistere; non potrebbe inoltre esistere relazione tra elementi differenti che, per la loro distanza, non si incontrerebbero mai. La relazione, invece, è un rapporto di prossimità poiché solo elementi che condividono il genere che li determina possono incontrarsi generando nuove combinazioni.

Che l’òrexis sia relazione non esclude ma corrobora il suo legame con le altre categorie, ognuna delle quali è strutturata in modo duplice: la sostanza, per esempio come forma e materia, la qualità come il dolce e l’amaro, la quantità come grandezza e piccolezza, il luogo come l’alto e il basso, il tempo come il prima e il poi. Ogni tensione entra in gioco quando sussistono i due tipi di sostanze, o di qualità opposte. Non avrebbe senso, infatti, dire che la materia tende ad assumere lo stato di materia o che la forma aspira a diventare forma poiché non potrebbero desiderare ciò che sono già.

6. L’avanti del movimento

E, poiché il movimento60 può essere semplice o composto, rettilineo o circolare, verso l’alto o verso il basso, ed ancora secondo natura o contro natura, ossia volontario o per costrizione, occorre chiarire che il movimento preso in considerazione è quello secondo il luogo (katà tòpon) o di traslazione (phorà)^[62] che è semplice, rettilineo e per natura.

Ogni movimento, poi, presuppone l’esistenza di un corpo, ossia di una sostanza costituita di forma e materia, naturale o artificiale, inorganica o dotata di organi,61 semplice o composta, corruttibile o incorruttibile.62

Aristotele distingue cinque corpi semplici, ossia cinque elementi omogenei non divisibili in parti qualitativamente differenti capaci di movimento. Si tratta di terra, acqua, aria, fuoco ed etere. I primi, essendo pesanti, si muovono in modo rettilineo verso il basso; i secondi, essendo leggeri, si muovono verso l’alto.63 L’etere, che è l’elemento più vicino alla perfezione, si muove di movimento circolare.64 Essa non né pesante, né leggera;65 non è generata né corruttibile; non è soggetta ad alcuna alterazione delle sue qualità poiché non contiene contrarietà e non esistono elementi ad essa contrari. Mentre l’aria è il corpo contrario all’acqua e il fuoco è contrario alla terra, l’etere, non implicando alcuna contrarietà, è il corpo primo. Tra i corpi semplici quello che si muove di moto circolare è perfetto e la perfezione è prima per natura. Essendo un corpo semplice e perfetto, l’etere è anche irrelata poiché basta a se stessa, mentre gli altri elementi, che sono composti e imperfetti, sono anche in relazione ad altro, poiché non bastando a se stessi, si muovono verso ciò che li completa.

Ora, se in generale il movimento è il passaggio da un ti a un altro ti, quello secondo il luogo è il passaggio da un tòpos a un altro tòpos. Il movimento secondo natura è quello che va verso il proprio tòpos e il proprio eìdos.66 Nel raggiungere il luogo che gli è naturale, infatti, ciascun elemento realizza la sua forma.

Quanto più ci si allontana dalla terra e si procede verso l’alto, tanto più ci si avvicina alla piena realizzazione della forma; perciò i corpi che tendono verso l’alto sono più prossimi alla perfezione rispetto a quelli che precipitano verso il basso. In questo senso il rapporto tra basso e alto ripropone quello tra materia e forma67 e dunque tra potenza e atto. Laddove la materia è la possibilità di massima determinazione e la forma il massimo della determinazione; la potenza è la possibilità di realizzare il massimo e l’atto il massimo della realizzazione. Come spiega lo stesso Aristotele: «Se un essere ha la potenza di muoversi per cento stadi o di sollevare un peso, noi lo diciamo sempre in riferimento al massimo, ad esempio, sollevare cento talenti o percorrere cento stadi, considerando che la potenza si deve sempre definire in riferimento al termine ultimo e rispetto al massimo».68

Il corpo capace di realizzare il massimo della forma è quello circolare che, trovandosi sempre nel tòpos oikeìos (nel luogo proprio), non conosce passaggio dal pothèn (da un luogo) al poì (verso un luogo) ed è sempre en autò (in se stesso). Quando il principio e la fine coincidono nella finitezza del cerchio, quando il prima e il poi si confondono nella omogeneità dell’eternità, si realizza quella perfezione che tende alla forma compiuta, all’atto puro e dunque al divino.

Tale perfezione coincide con il tèlos, il fine e il bene cui ogni cosa tende, poiché «dio e la natura non fanno nulla invano».69 E, come spiega Aristotele, una calzatura è invano quando non è calzabile. Per questo tutto ciò che ha una funzione esiste in vista di questa funzione70 e tutto ciò che ha un corpo è portato naturalmente verso il proprio luogo come verso la propria forma.71 Il mutamento infatti, non è mai di un soggetto casuale verso uno stato casuale72 ma di un corpo determinato verso il suo luogo naturale. E poiché in natura abbiamo tre dimensioni: l’alto e il basso, il davanti e il dietro, la destra e la sinistra, ogni movimento sarà diretto verso una di queste direzioni. I movimenti verso l’alto e verso il basso sono l’accrescimento e la diminuzione; quelli verso davanti e dietro, destra e sinistra sono moti locali che si sviluppano in relazione alla sensazione. E, come spiega lo stesso Aristotele, «davanti (èmprosthen) è la direzione a cui sono volte le sensazioni».73 Per questo motivo se accrescimento e diminuzione, precipitazione ed evaporazione sono propri anche delle piante e dei corpi inanimati, il moto locale, invece, è da ricercare solo tra i corpi animati.

Dal momento che ci sono tre dimensioni, il corpo perfetto è quello che si estende per lunghezza, profondità e larghezza senza essere limitato dai corpi contigui. Un corpo simile, in natura, è l’universo che, muovendosi circolarmente, rappresenta l’intero di cui i corpi separati sono una parte. Il carattere intero e circolare dell’universo ne rivela la sua finitezza. Sarebbe contraddittorio pensare un cerchio infinito, poiché l’infinitezza è una sorta di apertura mentre ogni cerchio, per definizione, deve essere chiuso, intero e, dunque, finito. Ammesso poi che esistesse un cerchio infinito, esso dovrebbe percorrere uno spazio infinito, l’orbita della sua rivoluzione, in un tempo finito; il che sarebbe impossibile. Stabilita, infine, la finitezza dell’intero, sarebbe assurdo ammettere l’infinitezza delle sue parti. L’ultimo argomento utilizzato da Aristotele per negare l’esistenza di un corpo infinito procede dalla considerazione dell’impossibilità, da parte di un siffatto corpo, di agire e patire, tanto in riferimento a un altro corpo infinito, quanto in relazione a un corpo finito. E, poiché ogni corpo che esiste nello spazio è sensibile e «ogni corpo sensibile ha potenza di agire, di patire o entrambe»,74 ne deriva che un corpo infinito non può esistere per natura.75 Quest’ultimo argomento è quello più interessante ai fini della nostra ricerca poiché riconduce alla sensazione la capacità di agire e patire, i contrari di cui l’òrexis è principio. E, poiché la direzione della sensazione è l’avanti, occorre precisare che tale direzione è la più nobile.76 Se è vero, infatti, secondo Aristotele, che «la natura realizza sempre la possibilità migliore»,77 è significativo come la rotazione del cielo sia orientata in avanti. In avanti procede il movimento circolare,78 il movimento proprio degli astri e dei corpi celesti che, lungi dall’essere masse inerti, sono partecipi di azione e vita.79

L’avanti, dunque, è la direzione della tendenza quando essa anima positivamente verso il bene. Ammesso, infatti, che fuga e allontanamento siano delle forme della tendenza che sembrano spingere indietro, occorre precisare che ciò che è indietro rispetto al male è avanti in riferimento al bene.

7. Termini e fini dell’òrexis

Stabilito che caratteristica peculiare dell’òrexis aristotelica è il tendere a un fine, sembra necessario determinare il concetto di tèlos. In generale, presso i greci è il compimento, il punto culminante, la maturità; nel pensiero aristotelico coincide con ciò che è perfettamente compiuto; si identifica con la forma e l’atto; investe la realtà nella sua dispiegata pienezza, nella sua realizzazione e compiutezza.

Tèlos è il punto che segna il culmine e il termine dell’esistenza, il termine estremo di una attività, la perfezione, ossia la virtù che non conosce superabilità, e la completezza, ossia l’elemento che non ammette mancanze.80 Tèlos è la natura e la funzione stessa di ogni sostanza, il proposito in virtù del quale ogni cosa si genera e sussiste, lo scopo cui si dirigono le azioni.

Il tèlos però, non è solo il termine, ma il risultato connesso al principio, ovvero quell’azione riuscita che conferisce senso e significato all’intero processo.81 Ne consegue che esso è la condizione stessa del movimento: «Il fine, infatti, è un principio e in vista di esso ha luogo il divenire».82

L’identificazione del fine con l’attività e la funzione, esplicitamente dichiarata in Metaphysica,83 spiega la possibilità di indicare l’attività tanto con il termine derivato da èrgon, enèrgeia, quanto con quello derivato da tèlos, entelècheia. Ma se l’enèrgeia può essere intesa tanto come l’attività perfettamente compiuta quanto come l’esercizio della funzione in cui tale perfezione consiste, anche il fine può indicare sia il compimento del processo sia la funzione in cui tale compimento si esplica. Il fine coincide, dunque, con la perfezione, l’attività di ogni sostanza o processo. Ma ogni sostanza naturale può dirsi compiuta quando realizza il passaggio in atto delle sue potenzialità, quando esercita il proprio èrgon specifico, quando esplica la funzione che le è costitutiva, strutturale e ontologica.84 Ogni vivente è perfetto quando compie l’attività che gli compete, attività animata dalla òrexis ,85 dalla tendenza verso l’oggetto conveniente alla propria funzione.86

Tuttavia il carattere immanente del fine suscita qualche perplessità. Se volessimo adottare una famosa metafora aristotelica dovremmo indicare il fine come il bersaglio in direzione del quale è rivolta la freccia dell’arciere.87 La metafora dell’arco rende in maniera significativa i caratteri della teleologia e della dialetticità dell’òrexis?88? Composto da un elemento flessibile di legno alle cui estremità sono fissati i capi di una corda, l’arco va impugnato al centro traendo verso di sé la corda cui è incoccata la freccia. Puntato l’oggetto che si desidera colpire, la mano si apre allentando improvvisamente la corda e scagliando con forza la freccia anche a notevole distanza. Nella metafora, l’arco è l’uomo, flessibile ai richiami del lògos da una parte e cedevole alle attrattive del pàthos dall’altra; l’oggetto puntato è il bene, la mano che si apre la volontà. Munita all’estremità anteriore di una punta e a quella posteriore di una cocca che le consente di adattarsi alla corda e di un impennaggio che le permette di conservare la direzione, appoggiata inoltre al centro della corda, la freccia è, invece, metafora dell’òrexis che, posto un equilibrio tra gli estremi e investita di un senso, relaziona l’uomo e il bene, creando una comunicazione non di acquisizione ma di tensione.89

8. Spazialità e temporalità dell’òrexis

Dal legame dell’òrexis con il movimento consegue necessariamente la sua connotazione spazio-temporale. Quanto allo spazio, esso è alcunché di originario poiché esiste a prescindere dai corpi che lo riempiono, allo stesso modo l’esistenza del tempo non è condizionata dagli enti che in esso agiscono. Spazio e tempo sono condizioni imprescindibili del movimento e dunque dell’òrexis. Ogni ente, infatti, si muove in uno spazio, si sposta da un luogo a un altro, secondo una dilatazione (espansione) che non è solo spaziale, ma anche temporale.90 Nell’istante, che non è dilatato ma puntuale, non può darsi cambiamento e neppure fissità;91 solo il tempo, ossia quella categoria che prevede un passaggio tra il prima e il poi, contempla la realtà del movimento,92 e non solo la contempla, ma addirittura la numera secondo una sequenza (una numerazione) che si avvale del prima e del poi: «L’istante è un estremo del passato, nel quale non v’è niente del futuro e inversamente è un estremo del futuro nel quale non v’è nulla del passato, e questo è appunto ciò che diciamo essere limite di entrambi. Esso è l’estremo di entrambi i tempi» .93

La complessità della questione del tempo94 deriva dalla mutevolezza della sua natura. Mentre l’essenza di ciascuna cosa coincide con l’elemento fisso e permanente che la caratterizza, l’essenza del tempo consiste proprio nella sua mutevolezza. Ciò che il tempo è stato, infatti, non è più, ciò che sarà non è ancora, ciò che è dura un istante talmente breve da sfiorare l’inconsistenza e, dunque, l’inesistenza stessa. La natura del tempo, dunque, è in relazione con il movimento sebbene non coincida con esso. Mentre i movimenti sono diversi, il tempo è ugualmente presente dappertutto; mentre i movimenti possono essere veloci o lenti, il tempo è sempre identico.95 Pur essendo diverso dal movimento, il tempo non può prescindere da esso. Quando siamo fermi, e con il corpo e con il pensiero, non essendoci passaggio ma unione tra un istante e un altro, noi abbiamo l’impressione che il tempo, non essendo trascorso, non esista. Senza un movimento che attraversi il tempo, istante dopo istante, non potremmo avere percezione del suo trascorrere. E, in effetti, il tempo non trascorre ma è trascorso, non passa ma è passato. In tal senso esso appare come una proprietà o un predicato del movimento, una determinazione la cui potenzialità diventa attuale solo se attualizzata in esso. Posto che senza movimento non esiste tempo, occorre stabilire che cosa il tempo è del movimento.96 E poiché nella continuità del movimento si danno un basso e un alto, un sotto e un sopra, un dietro e un avanti, nella continuità del tempo devono necessariamente darsi un passato e un futuro, un prima e un poi. Solo ciò che precede, infatti, può diventare ciò che segue, per questo «diciamo che del tempo è trascorso (gegonènai) quando abbiamo percezione di ciò che era prima e di ciò che è dopo nel movimento».97 Il prima e il poi non solo sono i poli all’interno dei quali si svolge un mutamento, ma sono anche i termini che permettono di misurarlo. Se nel movimento si danno un punto di partenza e uno di arrivo non occupabili contemporaneamente, ma secondo uno scarto temporale tra un momento precedente e uno seguente; nello stato di quiete, dove partenza e approdo coincidono, non sussiste la necessità di misurarne la distanza.

In questo senso il mutare del movimento, strettamente legato al trascorrere del tempo, è da esso misurato. Se il numero, infatti, misura il più e il meno nella grandezza, il tempo misura il prima e il poi nel movimento. E, come l’infinito, essendo unico e indivisibile, non ha grandezza e non è misurabile, allo stesso modo l’eterno, essendo sempre identico, non include movimento e non è numerabile secondo un prima e un poi. Sebbene, dunque, il tempo non è movimento, è tale da essere numero del movimento.

In definitiva ogni tipo di movimento implica una modificazione dello spazio occupato e una acquisizione o perdita di tempo. La generazione comporta l’avvento di una nuova sostanza che, con la sua sola presenza, sottrae spazio alle altre sostanze e ne esige, dunque, una nuova distribuzione. Tale avvento determina anche una spaccatura nel tempo. Una spaccatura che, introducendo nella storia un prima e un poi, rompe la monotonia dell’eternità in cui tutto è da sempre esistito.98 Prima della fecondazione, per esempio, il bambino non esiste, mentre dopo la fecondazione non solo esiste, ma trae nutrimento dalla madre e richiede attenzioni e cure. Il passaggio dal momento in cui il bambino non è ancora a quello in cui è, implica non solo una modificazione degli spazi attorno a lui, che devono adeguarsi alla sua presenza, ma una trasformazione dei tempi che devono essere gestiti considerando l’avvento di una nuova vita.

La corruzione, e quindi il passaggio dalla presenza all’assenza, di contro, comporta la scomparsa di una sostanza e, conseguentemente, l’aumento di spazio e la dissoluzione di tempo. Laddove per spazio e per tempo non intendiamo il vuoto ma l’estensione in cui sono situati e si muovono i corpi e che questi delimitano, talvolta occupandola talaltra non occupandola.99 Compressione o dilatazione conseguono anche all’aumento e alla diminuzione ma soprattutto alla locomozione. Trattandosi, infatti, del movimento secondo il luogo, gli interventi nello spazio e nel tempo si moltiplicano per via della infinità di possibilità di direzioni da intraprendere e di azioni da compiere.

Essendo l’òrexis principio del movimento, essa non può sottrarsi dal percorrere continuamente uno spazio e dall’inseguire incessantemente un tempo. Ma in che termini l’òrexis si muove in uno spazio e si svolge nel tempo? Forse nel senso che essa è dentro queste categorie come il contenuto nel contenente, il limitato dentro il limite? O forse piuttosto come forza capace di estendere lo spazio e dilatare il tempo, ossia come potenza in grado di modificare gli orizzonti dentro i quali è compresa? In questo caso, spazio e tempo non sono le condizioni perché avvenga l’òrexis, ma ne sono addirittura il risultato. Infatti, nella condizione perfetta dell’essere divino, che non nasce né si corrompe, non si accresce né diminuisce, non si altera né si muove localmente, lo spazio e il tempo coincidono con l’intero e dunque non esistono. Non ha senso parlare di luogo e di tempo quando, essendo una e immobile la forma che occupa l’intero, non c’è spostamento da un termine all’altro. Negli enti naturali, invece, come anche in quelli artefatti, il cambiamento è non solo previsto ma è anche inevitabile.

Tali enti, a differenza di quelli divini, sono nel tempo e nello spazio, ed essere nel tempo, come spiega Aristotele nella Physica, può intendersi in un duplice senso: «essere quando il tempo è»,100 essere «nel numero»101 o essere «qualcosa del numero».102 Per analogia essere nello spazio potrebbe significare essere dove è lo spazio, essere nella grandezza o qualcosa della grandezza.

Posto che il tempo è numero, potremmo inferire che l’ora, il prima e il poi sono nel tempo, come l’unità, il dispari e il pari sono nel numero. Posto altresì che lo spazio è grandezza, potremmo dedurre che il punto, il basso e l’alto, l’avanti e il dietro sono nella grandezza. È evidente, dunque, che essere nel tempo non significa essere quando il tempo è, ma essere contenuti (perièchetai) dal tempo. Allo stesso modo essere nello spazio significa essere contenuti in esso.

E, poiché gli enti contenuti nel tempo subiscono da esso delle modificazioni quali corruzione, invecchiamento, oblio, ne deriva necessariamente che gli enti non alterabili, gli enti che non nascono né si corrompono, non aumentano né diminuiscono, ma sono sempre identici a se stessi, non sono nel tempo. L’eterno e l’infinito, infatti, non essendo misurabili, non possono essere contenuti o compresi. Secondo questi ragionamenti, essere nel tempo coincide con l’essere misurabili da esso. Di conseguenza gli enti eterni e immobili, non suscettibili di misurazione, sono fuori dal tempo, mentre quelli corruttibili e generabili, che talvolta sono e talvolta non sono, necessariamente sono nel tempo.103

L’òrexis si muove in un tempo e in uno spazio misurabili, suscettibili cioè di azioni e contraddizioni, generazioni e corruzioni, posizioni e opposizioni. E poiché nell’eterno e nell’immobile, insieme alla distanza tra i poli opposti, è annullata anche la tensione tra di essi, l’òrexis è necessariamente un’energia che investe gli enti naturali.

9. Conclusioni

Abbiamo mostrato quanto difficile sia tracciare i margini all’interno dei quali possa comprendersi il concetto di òrexis, poiché essa, per definizione, è il tentativo di superare i confini, lo sforzo di cercare nuovi orizzonti. E tuttavia il percorso orectico, ponendo al centro l’inesauribilità104 del tendere piuttosto che la stabilità del bene, lungi dal sembrare fallimentare, segue il modello della filosofia stessa, posta tra l’inquientante fluire della philìa e la rassicurante stabilità della sophìa.

Intesa come lo slancio che presiede all’azione e all’operatività, come la tensione che anima ogni tipo di movimento, da quello più ampio e generico dell’intera natura a quello più specificamente umano, essa si qualifica come la cifra che attraversa in modo trasversale tutta l’opera aristotelica, costituendo il momento di congiunzione tra metafisica ed etica, il termine che, superando lo iato tra la sfera teoretica e quella pratica, segna il confine o il passaggio tra fisica e meta-fisica. E tuttavia piuttosto che chiarire come essa operi nei suddetti ambiti, argomento che richiederebbe un lungo approfondimento, e che rimandiamo ad una successiva trattazione, ne abbiamo semplicemente accennato un tentativo di definizione. E, in effetti, l’òrexis, per il suo carattere dialettico, rappresenta la cifra che sintetizza tendenze opposte come quelle derivanti dalle istanze della teoria e quelle provenienti dal pungolo della prassi mentre, per il suo carattere teleologico, canalizza le facoltà di tutti i viventi verso il bene. Se, infatti, la natura «non fa nulla invano»,105 ma è ordinata secondo un fine che è la conservazione della specie, allo stesso modo scopo della tecnica è la produzione di oggetti, bersaglio dell’etica l’azione riuscita e obiettivo della filosofia il sapere. Perciò il dispiegarsi della òrexis coincide, in ambito biologico, con il moto locale, in ambito etico con l’azione, in ambito teoretico con la filosofia.

10. Bibliografia

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  1. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, histoire des mots, Paris, Klincksieck 1968, tome III, p. 817. ↩︎

  2. Si veda M. Riedenauer, Orexis und Eupraxia, Ethikbegründund im Streben bei Aristoteles, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000; I. Kenneth, Orexis, Barrytown, Station Hill, 1981. E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. it. V. De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, recentemente riproposto con una nuova introduzione, una presentazione di A. Momigliano e un più completo apparato bibliografico, a cura di R. Donato Sansoni, 2003.Per una ricostruzione del concetto di desiderio che abbracci non solo l’ambito specificamente filosofico, ma anche i moderni risultati psicanalitici si veda il recente studio di C. Dumoulié, Il desiderio, Storia e analisi di un concetto, trad. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  3. Nel comune uso linguistico, il termine tensione rinvia a un oggetto verso cui ci si muove e a degli estremi che creano una sorta di stiramento. In meccanica, tensione è la condizione di un corpo ad asse rettilineo, dotato di una certa elasticità, che alle estremità subisce sollecitazioni esterne quali pressione, trazione, resistenza; in fisica, tensione è la differenza di potenziale elettrico tra due punti di un circuito; anche in matematica si parla di tensioni derivate da sezioni. In politica, tensione è l’irrigidimento dei rapporti tra due paesi o partiti. In senso figurato tensione è l’irrigidimento dello stato psicologico di un individuo in vista di un evento atteso o temuto. ↩︎

  4. Cfr. Omero, Iliade, VI, 466: où paidòs orèxato, detto di Ettore che si protende verso il figlio per abbracciarlo; ivi, IV, 307: ènchei orexàstho, si protendeva con l’asta cercando di colpire. Nella forma mediale orègomai si arricchisce, infine, di un significato traslato, indicando l’aspirare e il bramare qualcosa. ↩︎

  5. F. Chiereghin, in Possibilità e limiti dell’agire umano, Marietti, Genova 1990, attribuisce all’òrexis una certa capacità di reggersi su se stessa che costituirebbe il presupposto del tendere. Egli deriva tale concezione dall’etimologia stessa del termine. La radice reg, infatti, come si evince dal latino regere e rex, suggerisce una certa funzione reggente dell’òrexis. E tuttavia tale lettura sembra assegnare all’òrexis una stabilità che le è estranea. Non possiamo, dunque, condividere la dichiarazione di Chiereghin secondo cui «la tendenza è anche solo tendenza», p. 73. Tale affermazione, se resa assoluta, infatti, rischia di tradire i caratteri di ricezione e direzione propri di quel motore mosso che è l’òrexis. Nessuna tendenza può reggersi su se stessa, ma riceve il suo movimento da un bene e si muove verso un fine. ↩︎

  6. Per la storia del termine òrexis cfr. M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, ed. it. a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 508-511. ↩︎

  7. Un tentativo di analisi delle emozioni in Platone è stato recentemente compiuto da L. Palumbo in Eros, Phobos Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo, Napoli 2001. ↩︎

  8. C. Vigna, in AA.VV., L’enigma del desiderio, S. Paolo, Milano 1999, riconosce nel desiderio una figura che necessita di una elaborazione filosofica poiché investe originariamente l’intera esistenza umana. ↩︎

  9. Se il carattere di imprimere la spinta per l’azione è proprio del thumòs, la direzione del movimento è, invece, individuata da una facoltà intellettiva, la phantasìa, che, permettendo all’uomo la rappresentazione dell’oggetto, genera in esso il desiderio. Su questo si tornerà oltre. ↩︎

  10. F. Chiereghin, Possibilità e limiti dell’agire umano, op. cit. p. 89. ↩︎

  11. Che il bene sia oggetto del desiderio è lezione che Aristotele trae dal maestro: «Questo, dunque, è necessario affermare riguardo al bene, e cioè che senza accezione il bene è oggetto della caccia e dell’ardente desiderio di tutto ciò che ne ha conoscenza», Platone, Filebo, 20d. Sulla falsariga di questo insegnamento Aristotele, nell’Ethica Nichomachea, VIII, 1162b 13, farà dell’òrexis un’aspirazione universale: «ciascuno aspira (orègetai) al bene». ↩︎

  12. La convergenza di bene e fine è l’argomento con cui Aristotele apre l’Ethica Nichomachea e la Politica: «Ogni arte e ogni azione mirano a un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è ciò cui ogni cosa tende», I, 1094a 1-4; «Tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi sembra essere un bene», Pol., I, 1252a 3. Ma si veda anche Metaphys., I, 982b 6, 7: «Il fine in ogni cosa è il bene e, in generale, nella natura tutta è il sommo bene», e Parva natur., 455b 17-18: «Questo (il fine) è alcunché di buono» o, ancora, Rhet., I, 1363a 5: «Il fine è un bene». ↩︎

  13. De an., III, 433a 16. ↩︎

  14. Ivi, II, 414b 2. ↩︎

  15. Eth. Nic., A, 1102b 32. ↩︎

  16. De an., III, 433b 18. Tis, una specie di, un qualche, è espressione indefinita che Aristotele usa ricorrentemente quando analizza concetti intorno ai quali è difficile raggiungere certezze. ↩︎

  17. In questo senso l’òrexis non è un semplice desiderio che può anche rimanere nell’animo come sogno o vagheggiamento, ma è il tentativo di realizzare il bene desiderato. Così quando Aristotele, più volte, nomina l’aspirazione all’onore, alla fama o al guadagno si riferisce agli sforzi che attivamente vengono compiuti per ottenerle. Eth. Nic., II, 1107b 29; IV, 1125a 22; 1125b 19; IV, 1127b 17; VIII, 1159a 22; VII, 1160a 18; Pol, IV, 1318b 17. Si noti come già Platone nel Cratilo, 419e ss., ricercando l’etimologia dei termini epithumìa, thumòs, ìmeros (brama), pòthos (rimpianto) ed èros, aveva rintracciato nel movimento un elemento comune a ciascuno di questi sentimenti. Se l’epithumìa, secondo l’etimologia platonica, trae il suo nome dalla forza che va verso l’animo (epì tòn thumòs ioùsa), il thumòs dalla smania (thùsis) e dal ribollire dell’anima, l’ìmeros dalla corrente (roùs) che massimamente trascina l’anima, il pòthos da ciò che, essendo altrove e lontano, genera tensione, l’èros dallo scorrere (eisreìn)dentro a partire dall’esterno, ne deriva come ciascuno di questi sentimenti rinvii ad una energia in movimento che ne spiega il sorgere. Persino la boùlesis, che sembrerebbe rinviare alla saldezza della decisione (boulè), significa in qualche modo lancio (bolè) e perciò ci restituisce un’immagine non statica ma in movimento della volontà. Del resto, come sottolinea ancora Platone, l’aboulìa ovvero l’indecisione, sembra essere l’incapacità di colpire e di cogliere. ↩︎

  18. Cfr. M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, Adelphi, Milano 2000, pp. 259 ss. ↩︎

  19. Cfr. G. Reale, Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metaphysica di Aristotele, Vita e pensiero, Milano 1993, p. 376. ↩︎

  20. Il combustibile, per esempio, è potenza di essere bruciato, ossia potenza passiva; il fuoco è potenza di bruciare, ossia potenza attiva. La potenza del primo tipo si trova nel paziente, ossia in ciò che subisce l’azione; la seconda nell’agente, ossia in ciò che la compie. ↩︎

  21. Metaphys., IX, 1048a 10-11. Si ricordi anche che per Aristotele «ciò che ha potenza può anche non esistere in atto», ivi, IX, 1050a 11, mentre ciò che tende all’atto, sebbene non sia ancora prodotto, è in produzione. Se, infatti, ogni potenza è potenza di essere e non essere, può accadere che non sia piuttosto che sia; la tendenza, invece, si esplica sempre nell’esistente. Ed, inoltre, mentre la potenza, essendo un non-divenuto, può essere impedita nel suo divenire atto soltanto da un atto e non da un’altra potenza, la tendenza, essendo un divenire, può essere ostacolata anche da un’altra tendenza. ↩︎

  22. Ivi, IX, 1048a 11-15. ↩︎

  23. Nella Rhet., II, 1393a 2-3, Aristotele va oltre sostenendo addirittura che «ciò che è possibile e lo si vuole avverrà, così ciò che essendo possibile, è nel desiderio, nell’impulso e nel calcolo o sta per essere fatto o avverrà». Non solo, dunque, la tendenza è sempre di un fine - e questo fine deve essere percepito come realizzabile - , ma addirittura, se questo fine è possibile, è sempre realizzabile e non solo percepibile come tale. ↩︎

  24. Metaphys., IX, 1048a 21. ↩︎

  25. In ivi, IX, 1051a 6-8 Aristotele chiarisce questo concetto attraverso un esempio tratto dalla medicina. Mentre lo stesso individuo ha insieme potenza di essere sano e malato, non può essere, in atto, sano e malato. ↩︎

  26. Tornando all’esempio della costruzione: in potenza è la casa nei mattoni, in tensione la casa mentre si costruisce, e in atto la casa costruita. ↩︎

  27. Ivi, IX, 1050a 31. ↩︎

  28. Ivi, IX, 1046b 17. ↩︎

  29. Eth. Nic., X, 1175b 31. ↩︎

  30. L’annullamento della distanza tra l’eternità e la storia coincide con l’abolizione stessa della tendenza. Essa, infatti, consiste nel tentativo di andare incontro alla compiutezza: la riuscita di tale tentativo coincide con la realizzazione stessa dell’enèrgeia. Solo con il cristianesimo, attraverso l’incarnazione del verbo che da parola eterna si fa storia, si verifica l’annullamento di una tale distanza. Si tratta, però di un’esperienza paradossale, lontana dalla razionalità greca. ↩︎

  31. Phys., III, 206a 22 ss. ↩︎

  32. Ivi, III, 206a 35. ↩︎

  33. Ivi, III, 206a 29. ↩︎

  34. Ivi, III, 206a 34. L’essere insieme nella generazione e nella corruzione è sintetizzato nel termine peperasmènon (ivi, III, 206a 34), da peìro, traverso, che allude al limite che è inizio e insieme fine. ↩︎

  35. Ciò che permane nel movimento, ciò che una volta come ora è essente, tale è l’essenza. ↩︎

  36. Ivi, V, 227a 18. ↩︎

  37. Sull’importanza della medietà nelle opere biologiche di Aristotele cfr. Byl S., Note sur la place du cœur et la valorisation de la mesòtes dans la biologie d’Aristote, en «L’antiquité Classique» 37 (1968), pp. 467-476. ↩︎

  38. L’elemento che abbraccia i contrari raccogliendoli nel medesimo genere è il lògos, principio che, come mostra la stessa etimologia, raccoglie e lega. Cfr. Metaphys., IX, 1046b 24. ↩︎

  39. Lo stesso discorso vale per l’udibile (il suono) e il non udibile (il silenzio) afferenti entrambi all’udito, l’odorabile e l’inodore afferenti entrambi all’olfatto, il gustabile e il non gustabile, il tangibile e il non tangibile. Cfr. De an., II, 421b ss. La specificazione secondo cui i contrari si riconoscono all’interno di uno stesso genere spiega la ragione per cui il nero non può essere contrario del sano. ↩︎

  40. Ivi, II, 416a 22-23. ↩︎

  41. Che il contrario si alimenti del contrario è mostrato dal fatto che esso si riconosce solo in relazione al suo elemento antitetico, come si evince dallo stesso termine greco enantìa. Riconosciamo, infatti, l’alto nella comparazione con il basso, la luce nel confronto con il buio, il freddo in relazione al caldo ecc. ↩︎

  42. La contrarietà tra eventi o proprietà si riconosce all’interno di un medesimo contesto. La contrarietà tra l’acuto e il grave si riconosce all’interno di una situazione acustica, quella tra una scala crescente e una calante all’interno dello stesso brano musicale, quella tra la discesa e la salita all’interno della medesima via. ↩︎

  43. Si veda il capitolo 7 del saggio di Cooper J.M., Conoscenza, natura ed il buon: Saggi su filosofia antica, Princeton, 2004: due note sulla miscela in Aristotele. ↩︎

  44. De an., III, 426b 4. ↩︎

  45. Metaphys., I, 1057a 19-20. ↩︎

  46. Ivi, I, 1057a 21-22. Si veda anche Phys., V, 226b 23 ss. dove si sottolinea il carattere di passaggio dell’intermedio. Posti due termini contrari, il finale del cambiamento e il motore, considerato mentre muta secondo natura e con continuità, si dovrà ammettere l’esistenza di termini intermedi che at-traversino la continuità del movimento. ↩︎

  47. «Se si vuol passare gradatamente dalla corda della lira che ha il suono più basso a quella che ha il suono più alto, si dovrà passare prima attraverso i suoni intermedi; se si vuol passare nei colori dal bianco al nero, si dovrà passare attraverso il bruno e il grigio prima di giungere al nero; e così dicasi per tutti gli altri casi», Metaphys., I, 1057a 22-26. ↩︎

  48. Ivi, I, 1057b 33-35. ↩︎

  49. Eth. Nic., VIII, 1159b 19-23. Aristotele ricorda che sull’argomento esistono teorie contrapposte. Da un lato, infatti, c’è chi come Euripide o Eraclito pensa che il contrario tende al contrario (la terra inaridita ama la pioggia e da suoni differenti nasce la più bella armonia), dall’altro chi, come Empedocle, sostiene che il simile tende al simile. La posizione aristotelica è intermedia poiché propone una tensione verso il mezzo. Cfr. Ivi, VIII, 1155b 2-8. ↩︎

  50. Nel libro V della Metaphysica, 1018a 25-35 Aristotele elenca cinque significati del termine contrario il cui denominatore comune è la relazione di opposizione: · «Contrari sono gli attributi differenti per genere che non possono essere presenti insieme nel medesimo oggetto». Rientrano in questo significato gli aggettivi antitetici che, pur non essendo presenti insieme nella stessa sostanza si riconoscono dal confronto tra sostanze di uno stesso genere. Contrari, in questo senso sono il bianco e il nero che, non essendo presenti nello stesso uomo, si riconoscono dal confronto tra l’uomo bianco e l’uomo nero appartenenti alla medesima umanità. · «(Contrari) sono quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito del medesimo genere». Rientrano in questo significato gli oggetti antitetici appartenenti, però a uno stesso genere. Contrari sono l’uomo bianco e l’uomo nero parti della medesima umanità. · «(Contrari) sono gli attributi che maggiormente differiscono nell’ambito dello stesso soggetto che li accoglie». Rientrano in questo significato le proprietà opposte presenti in uno stesso soggetto. Contrari, in questo senso, sono il davanti e il dietro presenti nello stesso uomo. · «(Contrari) sono quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito della stessa facoltà». Ci discostiamo, qui, dalla traduzione di Giovanni Reale che rendendo dùnamin con facoltà conoscitiva aggiunge una limitazione assente nel testo greco. E, infatti, contrarie non sono solo affermazione e negazione appartenenti alla medesima facoltà conoscitiva, ma anche il perseguimento e la fuga afferenti alla facoltà orectica. · «(Contrari), - infine - sono quelle cose la cui differenza è massima o assolutamente o secondo il genere o secondo la specie». Rientrano in questo significato il volo e il nuoto la cui differenza è massima assolutamente, o la passeggiata e la corsa la cui differenza è massima all’interno del medesimo genere che è il camminare, il passeggiare a testa alta o a testa bassa la cui differenza è massima all’interno della medesima specie. «Le altre cose che si dicono contrarie sono tali nei seguenti sensi: alcune perché posseggono queste specie di contrarietà, altre perché sono capaci di riceve queste contrarietà, altre perché hanno possibilità di produrre e di subire queste specie di contrarietà, oppure perché attualmente le producono o le subiscono o perché sono perdite e acquisizioni, possessi o privazioni di queste specie di contrarietà». Che il contrario si dia soltanto in relazione al suo elemento antitetico è evidenziato, da Aristotele, attraverso il ripetersi dell’avverbio pleìston, maggiormente. Perché si dia una relazione di contrarietà non basta una differenza ma occorre che questa differenza sia massima. E, infatti, non possono considerarsi contrari il fianco e il grigio, risultati intermedi di una differenza tra gli estremi, ma soltanto il davanti e il dietro, il bianco e il nero, termini estremi di una differenza. Anche in Metaphys., I, 1055a 3-1055b 29 Aristotele insiste sulla definizione della contrarietà come differenza massima (megìste diaphopà). Definizione che si evince da una semplice induzione: le cose diverse per genere sono talmente distanti da non potersi incontrare, mentre le cose massimamente distanti, all’interno del medesimo genere, entrano in relazione. Ora, poiché ciò che è massimo è anche perfetto, ne deriva che la differenza massima è anch’essa perfetta, nel senso che, avendo raggiunto il fine, non può essere sorpassata. È chiaro, dunque che, la differenza massima o perfetta non può darsi tra una molteplicità di elementi, ma tra due termini. Posto, infatti, che massimo è ciò che non ha superiori, la differenza massima è quella che si dà tra termini che siano primi, e dunque estremi, per superiorità e perfezione, (altrimenti avremmo non più una differenza massima ma per gradi). E, poiché «non ci può essere un termine più estremo del termine estremo, né due estremi per una medesima distanza» (Ivi, I, 1055a 20-21), ne deriva necessariamente che la massima differenza è tra due estremi. Ed estremi, in generale, sono il possesso (èxis) e la privazione (stèresis). Considerando poi che ci sono molte forme di privazione, Aristotele specifica che quella che ci interessa è la privazione perfetta. ↩︎

  51. Cfr. Phys., I, 187a 13-191a 23. ↩︎

  52. Muovendosi nella contraddizione dell’esistenza, la tensione è esposta al fallimento, al rischio dell’insuccesso. P. Aubenque, in Sur la definition aristotelicienne de la colère «Revue Philosophique», 1959, pp. 302-317, scrive: «Non è colpa del filosofo se egli vive in un mondo dove c’è movimento e materia, vale a dire contingenza; non è affatto colpa del filosofo, uomo tra gli uomini, se l’uomo non è né un animale né un dio». ↩︎

  53. Nel linguaggio aristotelico, infatti, la materia coincide con la potenza (Metaphys., VII, 1032a 28), mentre la forma con l’atto (ivi, VII, 1039a 7; ivi, VIII, 1043b 1-2). ↩︎

  54. Phys., III, 201b 6 ss. ↩︎

  55. Cfr. H.G. Gadamer, Il movimento fenomenologico, Laterza, Roma-Bari 1994. A differenza dell’enèrgeia che esprime la compiutezza del movimento, la kìnesis ne esprime il compiersi. Il termine del movimento infatti è l’enèrgeia mentre la via che esso percorre è la kìnesis. Il termine tedesco Bewegung - movimento - ancora strettamente connesso a Weg, la via che esso percorre, conserva questo significato. E, come la via è il passaggio tra il già percorso e il non ancora-percorso, allo stesso modo il movimento è il passaggio tra il non ancora e il già compiuto. In altre parole: il movimento dev’essere concepito come il percorso che dalla dùnamis conduce all’enèrgeia↩︎

  56. Phys., III, 201b 25-30. ↩︎

  57. Due sono le forme di intermedietà: la prima consiste nel non essere né un estremo né l’altro, la seconda nell’essere sia l’uno che l’altro. Il grigio, per esempio, fa parte della prima forma poiché non è né bianco né nero; la porta socchiusa è riconducibile alla seconda forma poiché è percepibile sia come poco aperta sia come quasi chiusa. Le intermediatà del primo tipo si costituiscono in relazione ad elementi fissi, mentre quelle del secondo tipo evocano un movimento. Secondo questa distinzione l’òrexis appartiene al secondo tipo di intermedietà. Di conseguenza non è esatto dire che essa non è né stasi né movimento, ma sembra maggiormente corretto affermare che essa è entrambe le cose. Come è mostrato, del resto, dalla definizione stessa di Aristotele che la qualifica come motore mosso. ↩︎

  58. Ivi, III, 200b 26-27. ↩︎

  59. Sul significato di relativo e relazione cfr. Metaphys., V, 1020b 26- 1021b 11. ↩︎

  60. Oltre che dalla Physica, l’analisi del movimento non può prescindere dal riferimento al De coelo. Ricordiamo l’ordine di composizione: Physica, De coelo, De generatione et corruptione. Si veda A. Falcon, Corpi e movimenti. Il «De caelo» di Aristotele e la sua fortuna nel mondo antico, Bibliopolis, 2001. ↩︎

  61. De an., II, 412a 11 ss. ↩︎

  62. Ivi, II, 418b 9 ss. ↩︎

  63. Il pesante e il leggero costituiscono l’argomento del libro IV del De coelo. Si definisce pesante ciò che si muove naturalmente verso il centro dell’universo, e leggero, invece, ciò che si allontana. Questi movimenti di avvicinamento e allontanamento non sono altro che la tendenza dei corpi a dirigersi verso l’alto o verso il basso, ossia verso i luoghi naturali dei quattro elementi. ↩︎

  64. Poiché aithèr, etere, in greco indica ciò che si muove sempre, essa potrà muoversi soltanto di un movimento eterno, quello circolare. Soltanto ciò che si muove di moto circolare, infatti, non necessita di motore: «non c’è infatti un altro ente ad esso (al cielo) superiore che possa imprimergli il movimento» (De coel., I, 279a 30). Ed essendo composto di etere il cielo è non solo incorruttibile ed eterno, ma anche «sottratto ad ogni fatica, perché non ha bisogno dell’azione violenta di una necessità esterna che lo costringa, impedendogli di muoversi di un moto diverso, al quale esso sarebbe portato per la propria natura». Non è, dunque, ragionevole sostenere, come Platone, che l’universo si mantenga eterno «per opera di un’anima che lo costringe» (ivi, II, 284a 15, 25). ↩︎

  65. Se gli altri elementi, essendo pesanti o leggeri, si muovono di un moto rettilineo verso il basso o verso l’alto; l’etere non essendo né pesante né leggera si muove di moto circolare. Tale movimento, infatti, non è né verso il basso, luogo naturale del pesante, né verso l’alto, luogo naturale del leggero. ↩︎

  66. Ivi, 310a 33. ↩︎

  67. Ivi, 310b 14. ↩︎

  68. Ivi, 281a 7-20. ↩︎

  69. Ivi, 271a 32; 291b 14; cfr. anche i passi paralleli: De an., III, 432b 21; 434a 31; De inspir., 476a 12; De part. animal., I, 641b 12; ivi, II, 658a 8. Secondo questa posizione teleologica, gli organi esistono al fine di consentire la migliore esplicazione delle funzioni specifiche delle varie specie: gli occhi, per esempio esistono in funzione del vedere, i polmoni in funzione della respirazione, i piedi in funzione della deambulazione. Non è corretta, dunque, l’idea di Anassagora secondo cui l’uomo è il più intelligente tra gli animali perché dotato di mani, ma bisogna piuttosto credere che l’uomo è fornito di mani perché è il più intelligente. Non sono gli organi a causare le funzioni dei viventi, bensì le funzioni ad esigere determinati organi per poter essere convenientemente esplicate. Per lo stesso motivo, nella Metaphys, XII, 1072a 29, Aristotele dirà che: «desideriamo qualcosa perché lo crediamo bello e non viceversa lo crediamo bello perché lo desideriamo». Non sono le credenze a porre dei fini ma, al contrario, sono i fini che producono determinate percezioni e generano credenze. ↩︎

  70. De coel., 268a 8. ↩︎

  71. Cfr. ivi, 310b 1. ↩︎

  72. Cfr. ivi, 311a 15. ↩︎

  73. Ivi, 284b 20-35. Cfr. anche De part. animal., II, 665a 13: «la sensazione e il movimento si producono in quella direzione che chiamiamo anteriore». ↩︎

  74. De coel., 275b 5-6. ↩︎

  75. Cfr. ivi, libro I capitolo V, VI, VII. ↩︎

  76. Ivi, 288a 11-12. ↩︎

  77. Ivi, 288a 2. Anche nel De part. animal., II, 665a 21 Aristotele dichiara che, in generale, ciò che è migliore e più elevato si trova sempre in alto piuttosto che in basso, a destra piuttosto che a sinistra, innanzi piuttosto che indietro. Il movimento circolare tende appunto verso l’alto, verso la destra e l’avanti. ↩︎

  78. Quello circolare è un movimento perfetto perché non solo è in avanti, ma è anche continuo: «Non c’è altro movimento continuo, se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare», Metaphys., XII, 1071b 11. «In esso - nel moto locale - è compreso il moto circolare», Phys., , 223b 14. ↩︎

  79. De coel., 292a 20-21. ↩︎

  80. Cfr. Metaphys., V, 1021b 11-16. Perfetto è, per Aristotele, ciò che è compiuto ossia ciò che, realizzando il fine impresso dalla natura, ne traduce in atto la virtù e l’eccellenza. ↩︎

  81. «Non ogni termine ultimo può essere considerato fine, ma solo l’ottimo»: Phys., II, 194a 33. In quanto termine ultimo ed ottimo del movimento, per Berti il fine è, da una parte di qualcosa e dall’altra per qualcosa. Cfr. E. Berti, La finalità in Aristotele in «Fondamenti», nn. 14-16, 1989-1990, pp. 8-44. ↩︎

  82. Metaphys., IX, 1050a 7-9. ↩︎

  83. «Il fine è l’attività (enèrgeia), […]. La funzione (èrgon) è fine (tèlos), e l’attività è la funzione, perciò anche l’attività (enèrgeia) si dice secondo la funzione (èrgon) e tende allo stesso significato di entelechia entelècheia»: Ivi, IX, 1050a 21-23. ↩︎

  84. Nell’Eth. Nic., IX, 1168a 5-10, l’èrgon è definito come l’opera che rivela in atto ciò che era in potenza e, poiché l’ èrgon è il prodotto del nostro vivere e agire, amare la propria opera è in qualche modo amare la propria esistenza. ↩︎

  85. Pol., III, 1276b 27: Se è vero che «l’opera di tutti quanti è ciò cui ciascuno tende (orègetai)», ne deriva che la tendenza è l’essenza stessa dell’opera, ciò che la definisce. Opera, fine e direzione risultano dunque intrinseci alla natura di ciascuno. ↩︎

  86. Il merito di aver riportato il finalismo aristotelico a una dimensione immanente piuttosto che trascendente va attribuito ad Hegel. Tuttavia la conciliazione tra il fine immanente, la forma, e il fine trascendente, il motore immobile, rimane una questione controversa. Sul problema della teleologia si veda W. Wieland, trad. it. di C. Gentili, La Fisica di Aristotele, Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 322-351. Comunemente si crede che la moderna concezione meccanicistica si contrapponga alla concezione finalistica aristotelica, secondo Wieland l’interpretazione teleologica e quella causale non solo non si escludono a vicenda ma addirittura significano la stessa cosa riguardo al contenuto. Se la teleologia fosse un principio cosmico universale, come ritenuto dalla tradizione, non esisterebbe alcun caso e non si spiegherebbe l’esistenza delle altre tre cause. D’altra parte è anche vero che in Phys., II, 195a 23 Aristotele sostiene che il ciò in vista di cui è la causa migliore e il fine delle altre. Questa preferenza per il fine differenzia Aristotele dai suoi predecessori che, di contro, privilegiavano la causa materiale. Dal primato della causa finale non si può, tuttavia, dedurre il principio di una teleologia cosmica universale. Al fine, infatti, non spetta il predicato della necessità. Inoltre la critica della fisica moderna alla concezione finalistica è quella di impedire una analisi del particolare. Tale critica, però, non è riferibile ad Aristotele che, considerando la molteplicità dell’esperienza, non cerca mai le cause del movimento in generale, ma delle cose che si muovono. Il tèlos, dunque, è un concetto che può essere sensatamente applicato soltanto ai singoli dati di fatto. Sul tema della teleologia cfr. ancora D. Charles, Teleological Causation in the Physics, in Judson L., (ed.) Aristotle’s Physics: A Collection of Essays, Oxford 1991, pp. 101-129 e A. Capecci, Struttura e fine, La logica della teleologia aristotelica, L’aquila, Camerino 1978. ↩︎

  87. La metafora dell’arciere, enunciata in Eth. Nic., I, 1094a 22-24, riprende un motivo già trattato da Platone nella Repubblica, IV, 439b: «Così, credo, se si parla dell’arciere, non sta bene dire che le sue mani al tempo stesso allontanano e avvicinano al corpo l’arco, ma dovremo dire che una lo allontana, l’altra lo avvicina». ↩︎

  88. Già Eraclito aveva intuito la sublime armonia dell’arco: «Vita è il nome dell’arco ma opera la morte», DK, B, 48. Nel Simposio, 187a ss., Platone, considerando assurdo attribuire ad Eraclito l’idea che l’armonia sia discorde, o che si produca da cose discordi, sottolinea come probabilmente Eraclito intendesse dire che essa nasce da elementi prima discordanti, l’acuto e il grave, e indi accordatisi per opera dell’arte della musica. Ora, così come nella musica, essendo difficile creare l’armonia e il ritmo, ci vuole un artista bravo, allo stesso modo nell’arte del tirare al bersaglio occorre un arciere bravo che sia in grado di allentare e tirare l’arco in modo da creare la giusta tensione per la riuscita del tiro. ↩︎

  89. La metafora dell’arco introdotta nel libro A della Nichomachea è felicemente ripresa in VI, 1138b 22-23: «C’è una specie di bersaglio mirando al quale chi possiede la ragione tende e rilascia la corda del suo arco». Questo tirare e rilassare la corda della freccia sembra evocare l’immagine del Fedro platonico dove l’auriga «rimbalzando come spinto da una corda tesa, tira indietro ancora più forte il freno dai denti del cavallo protervo», 254e 1-2. ↩︎

  90. Cfr. Moreau J., L’espace et le temps selon Aristote, Padova 1965. ↩︎

  91. Nell’istante niente si muove e niente sta in quiete. Cfr. Phys., VI, 234a 33-34. L’istante è talmente compresso da non consentire il movimento, tuttavia non così inconsistente da escluderlo. Potremmo dire che l’istante non contiene il movimento ma è attraversato da esso. Se gli istanti, infatti, fossero privi di movimento sarebbero identici gli uni agli altri e non ci sarebbe distinzione tra gli eventi passati e futuri. E invece, proprio per il fatto che sono sempre differenti, gli istanti determinano il tempo (Cfr. Phys., IV, 220a 11). ↩︎

  92. In op. cit. p. 73, F. Chiereghin sottolinea l’analogia tra la tendenza e il tempo. Entrambi, infatti, sono in continua disuguaglianza con se stessi. Come il tempo per natura si espande rimandando continuamente l’ora, allo stesso modo la tendenza è un continuo espandersi fuori di sé. ↩︎

  93. Phys., VI, 234a 1-3. Si ricordi che il prima e il poi si costituiscono in riferimento a un momento puntuale quale è l’istante. In questo senso Aristotele definisce l’istante come limite. Si cfr. J.M. Dubois, Le temps et l’istant selon Aristote, Bibliothéque française de philosophie, Desclée de Brouwer, Paris 1967. Che l’istante sia limite non vuol dire che sia un punto nel tempo. Se fosse punto, infatti, esso sarebbe parte del tempo come il punto di una retta, mentre Aristotele sostiene che «l’ora non è parte del tempo» (Phys., IV, 218a 6). Non è, dunque, punto ma transito, passaggio e apertura. È pheròmenon, ossia ciò che è sempre trasportato oltre (Phys., IV, 220a 14). Se l’istante fosse parte del tempo, il tempo sarebbe la semplice somma degli istanti. L’essere transitorio dell’istante, invece, attribuisce al tempo il carattere della continuità e della realtà. Il tempo occupato dalla speranza o dalla nostalgia, dal dolore o dalla gioia, non è la semplice somma di istanti identici, ma il comporsi di istanti eterni, di istanti che diventano vita. ↩︎

  94. Sul concetto di tempo in Aristotele si vedano i seguenti studi: L. Ruggiu, Tempo coscienza e essere nella filosofia di Aristotele, Brescia 1970; L. Ruggiu, (ed.), La questione del tempo, Guerini e Associati, Milano 1967; L. Ruggiu, (ed.), Filosofia del tempo, Bruno Mondadori, Milano 1998; e ancora E. Cavagnaro, Aristotele e il tempo, Il Mulino, 2003 dove l’autrice offre un dettagliato commento dei capitoli da Aristotele dedicati alla trattazione del tempo, indaga la relazione tra tempo, movimento e spazio, tra tempo, anima e numero, mettendo in evidenza le influenze della tradizione eleatica e della concezione platonica. Cfr. anche A. Giordani, Tempo e struttura dell’essere. Il concetto di tempo in Aristotele e i suoi fondamenti ontologici, Vita e pensiero, Milano 1995. ↩︎

  95. Che il tempo sia differente dal movimento è mostrato, secondo la Cavagnari, dal fatto stesso che i Greci qualificavano il movimento come veloce o lento, mentre il tempo come lungo o corto, poco o molto. ↩︎

  96. Posto che il tempo è qualcosa del movimento, occorrerà chiarire che cosa esso è del movimento. ↩︎

  97. Phys., III, 219a 24-25. ↩︎

  98. Se è vero che la nascita di Cristo è esempio emblematico di questa spaccatura che divide la storia in un tempo avanti e dopo la sua venuta, è altrettanto significativo come ogni nascita produca una spaccatura dividendo la storia dei singoli individui in un tempo anteriore e successivo ad essa. Si pensi che la storia di un genitore si costruisce sempre attorno all’evento della nascita di un figlio. ↩︎

  99. Spazio e tempo, infatti, in sé o assolutamente non esistono. Essi sussistono soltanto in relazione agli eventi che in essi si svolgono, esistono soltanto unitamente ai corpi e alle energie che li riempiono. Svuotati del loro contenuto essi sono privi di utilità. Cfr. G.M. Chiodi (ed.), Il tempo della legge e della storia, Guida, Napoli 1999, p. 76. ↩︎

  100. Phys., III, 221a 11. ↩︎

  101. Ivi, III, 221a 12. ↩︎

  102. Ivi, III, 221a 14. ↩︎

  103. Mentre l’eternità, costantemente ancorata al presente, non è misurabile; il tempo, essendo legato al movimento, si scandisce attraverso il passato e il futuro ed è, dunque, quantificabile. ↩︎

  104. Intendo inesauribilità secondo la sua radice latina exaurire, «vuotare da» (haurire ex), ovvero lo svuotamento del contenente comprensibile in vista del riempimento di colui che vuole comprendere. ↩︎

  105. De Cael., 291b 13-14. ↩︎