Il pensiero dell’essere come «etica originaria» in Martin Heidegger

Negli ultimi anni si è delineata una manifesta tendenza critica, in virtù della quale il pensiero di Martin Heidegger è stato sempre più posto in relazione con le problematiche della filosofia pratica. Riteniamo che tale interesse non sia stato mosso primieramente da esigenze filologico-interpretative, le quali seguendo un ideale di completezza ermeneutica, dopo aver indagato sul momento esistenzialista e su quello ontologico, si siano soffermate sulla valenza della componente pratica della speculazione heideggeriana, ma dal tentativo di discernere la vicinanza tra le sue scelte etico-politiche e le sue posizioni filosofiche. Esplicita testimonianza ne sono il moltiplicarsi di saggi, convegni e quant’altro sulla spinosissima questione del suo rapporto con il nazismo1 e le sue matrici culturali.

Nella consapevolezza che Heidegger, pur essendo, forse, il più noto e studiato tra i filosofi contemporanei, rimane per molti versi difficilmente comprensibile, spesso enigmatico, riteniamo che si possa porre la questione della presenza di un’etica nella sua opera; di questo egli non parlerà esplicitamente o, meglio, sistematicamente ma si trova quasi filigrana di problematiche ad esso care e fondamentali: l’essenza della tecnica, il nichilismo, l’umanismo ed ultimativamente la quaestio sull’essere.

Il problema dell’essere, infatti, avvolge e alimenta da cima a fondo ogni passo del cammino, meglio, del sentiero (troppo spesso interrotto) del pensatore tedesco.

Stando, poi, alla distinzione hegeliana tra eticità e moralità, si potrebbe affermare che la riflessione filosofica sull’agire si svilupperebbe nei momenti di crisi della eticità ovvero quando un intero mondo di valori si incrina, viene superato o addirittura capovolto: questo scenario, ci pare, sia manifesto anche, in questo nostro tempo contemporaneo; contemporaneità in cui Heidegger ha vissuto e di cui Nietzsche aveva profeticamente e violentemente annunciato le sorti: il tempo del Requiem aeternam Deo.

1. Heidegger e l’etica

1.1 Vi è un’etica in Heidegger?

Questo è sicuramente uno dei nodi più complessi del pensiero heideggeriano; basterebbe scorrere alcune delle posizioni degli studiosi per rendersene conto.2

Siamo convinti che sia possibile rintracciarvi un’etica, forse irriconoscibile dato il suo status post-metafisico,3 un’etica anteriore all’etica canonica che la storia del pensiero occidentale ci ha consegnato sotto le spoglie di una sorta di metafisica specialis4 o di disciplina ricavata dalle distinzioni scolastiche avutesi già con i platonici e cristallizzatesi con Aristotele: «ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica5». Heidegger ricorda che la divisione fra theoria e praxis cosi come la partizione del pensiero in discipline non è originaria ma appartiene a quel destino decadente del pensiero aurorale con la conseguente affermazione impositiva della metafisica: «nomi come logica, etica, fisica, compaiono quando il pensiero originario volge alla fine»,6 è una «interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e Aristotele»; l’esito è funesto, «l’essere, come elemento del pensiero, è abbandonato».7 Queste disciplinarizzazioni risultano, al Nostro, fortemente estrinseche e non adeguate alla cosa stessa del pensiero che è tale quando «all’essere appartiene».8 «Prima di questo tempo i pensatori non conoscevano né una logica, né un’etica […] eppure il loro pensiero non è né illogico né immorale».9 Non esiste, quindi, in Heidegger una meditazione sull’agire che diventa studio sistematico della condotta dell’uomo, dei criteri di giudizio sui comportamenti e le scelte in riferimento ha orizzonti valoriali:10 voler trovare un’etica siffatta riteniamo sia un artificio ermeneutico, una forzatura e una patente incapacità di lettura dei suoi scritti.

Vi è un’etica, in qualche modo, prima dell’etica;11 prima del dogmatico irrigidimento disciplinare, prima «della divisione dei compiti della filosofia»,12 prima dell’erranza metafisica, prima della grande dimendicanza: quella dell’essere e della sua verità.

Guadagnato questo piano secondo cui una morale stricto sensu non si manifesti e non possa necessariamente esservi nel Nostro, vogliamo, continuando questo sentiero, far emergere un’etica originaria proprio riproponendo la questione radicale, forse l’unica realmente fondamentale, quella dell’essere13 e di un pensiero adeguato al suo appello. Un’etica non umanistica, distinta e distante da quella disciplina umana troppo umana che ha posto il soggetto e la sua volontà come contrappunto alla responsabilità nell’agire.14 La ricaduta potrebbe essere una morale antiumana o disumana non è così, giungiamo invece ad un’ethos del pensiro che ridefinendo l’essenza dell’uomo, lo assegna all’ascolto della parola o del linguaggio dell’essere,15 lo consegna al suo limite; interpellato da questo Altro, egli (il Dasein) diviene «pastore dell’essere»16 «nell’e(k)-statico stare-dentro nella verità dell’essere»:17 una nuova ritrovata autenticità, un nuovo essenziale radicamento «nella radura (Lichtung) dell’essere».18 In tale con-vocazione dell’uomo al rapporto fondante con l’essere nell’ascolto memorante19 del suo linguaggio, riteniamo la speculazione heideggeriana profondamente etica: se «con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’ essere come elemento iniziale dell’uomo in quando e(k)-sistente è già in sé l’etica originaria».20

Il suggestivo detto eracliteo «ethos anthropo daimon»21 viene così tradotto da Heidegger con «il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’insolito)»:22 rispetto a questo soggiornare ed a questa apertura un’ etica originaria viene fondata ed in questa fondazione (termine heideggerianamente infelice) trova la sua vincolatezza nella virtù suprema, quella di un pensiero che pensa (fa memoria di) ciò che è essenzialmente da pensare, l’essere ovvero del cercato.23

Se rimanessimo ancorati al giudizio comune dell’assenza di un prospettiva propriamente etica e se sostenessimo con Heidegger che «la dottrina di un pensatore e ciò che (in questa) rimane non detto»24 la conclusione, ci pare, sarebbe affermare la presenza di un ethos che anima dal profondo (una profondità spesso inattingibile) la sua ricerca instancabile sul senso dell’essere, insomma una sorta di spina nella carne.

Tuttavia si rimarrà sempre perplessi rispetto ad affermazioni come queste: «le tragedie di Sofocle nascondono nel loro dire l’ethos in modo più iniziale delle lezioni di Aristotele sull’etica»;25 tale giudizio ci pare sbrigativo rispetto a quelle lezioni che risulteranno essere l’apice della filosofia pratica classica e uno dei monumenti della storia del pensiero occidentale.26 Peraltro alla speculazione aristotelica Heidegger non mancò di attingere a piene mani,27 testimonianza ne sono i corsi tenuti a Friburgo (1919-23) e a Marburgo28 (1923-28). È, poi, sorprendente notare come a tali corsi parteciparono alcuni tra coloro che daranno vita, tra gli anni Sessanta e Settanta in Germania, a quel fenomeno culturale che Karl-Heinz Ilting definì Riabilitazione della filosofia pratica29 ovvero quell’ampio dibattito intorno ai problemi della prassi,30 nato come reazione alla incapacità delle scienze umane di fornire un fondamento razionale all’etica ed alla politica.31

Ci riferiamo a H. G. Gadamer, Hannah Arendt, Joachim Ritter, Hans Jonas; indiscussi protagonisti di questo dibattito, sono stati annoverati con intento marcatamente critico al così detto neo-aristotelismo; esso indubbiamente rappresenta una forte presenza del pensiero dello Stagirita nel nostro secolo.

La riscoperta e la riproposizione della filosofia pratica aristotelica da parte del giovane Heidegger può, quindi, esser letta come l’origine32 lontana della Riabilitazione o quantomeno una forte influenza;33 ed è pur vero che la messa a frutto dell’insegnamento heideggeriano va nei suoi allievi in una direzione diversa rispetto a quella da lui originariamente intesa. Egli nell’appropriarsi delle categorie fondamentali della pratica dello Stagirita le ontologizza neutralizzandone la rilevanza strettamente morale, facendone, fin da Essere e tempo, determinazioni costitutive dell’essere del Dasein.34

1.2 Etica, Metafisica, Umanismo

La disciplina che Aristotele chiamò etica rimanendo chiusa nel circolo della metafisica ne subisce lo stesso rifiuto; un rifiuto pesante, frutto del giudizio complessivo e senza appelli che Heidegger da allo sviluppo della filosofia in occidente: essa è, da Platone fino al compimento nietzscheiano, storia dell’oblio dell’essere35 e della sua verità,36 del privilegiamento della dimensione temporale della presenza,37 della riduzione dell’essere ad ente,38 «della posizione dell’uomo a fundamentum inconcussum veritatis»39 attraverso una ragione rappresentativa e calcolante che si muove verso l’assicurazione dominante del mondo.40

L’etica viene considerata una disciplina umanistica41 ed in quanto tale metafisica: «ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica».42 L’umanismo pone, secondo Heidegger, la domanda sull’essenza dell’uomo tradizionalmente, esso «presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere».43 L’umanismo rimane imbrigliato nello strutturarsi della metafisica occidentale come onto-teo-logia,44 ne condivide questi tre errori: essere «onto», cioè rappresentando l’essere lo rende disponibile al soggetto (tale disponibilità si sostanzia nell’era atomica nello sfruttamento tecnico/cibernetico45); «teo», perché dalla ricerca dei fondamenti e delle giustificazioni principiali si passa a quella del fondamento primo, al Super ente,46 a Dio; è «logica» perché il pensare è ragionare e il pensiero non è distinto dalla ratio.47 Ci si muove nella notte dove l’essere è obliato e con esso il fondamentale rapporto che lo lega all’uomo nella sua e(k)-sistenza;48 «esiliato dalla verità dell’essere ovunque l’uomo gira attorno a se stesso come animale razionale»49 . La filosofia finitistica ed immanentistica che l’umanismo rappresenta non va oltre questo piano meramente antropologico, «esso non pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato».50 Dunque, quale concezione avere di tale humanitas?

La lettera del Beaufret51 propone la questione, in un tempo storico in cui i disastri della guerra e gli orrori di Auschwitz impongono una decisa domanda di senso, una meditazione della vita offesa;52 diventa per Heidegger la necessità di salvare l’essenza dell’uomo tenendo desto il pensiero, oltre l’impoverimento, lo svanimento53 ed il disorientamento contemporaneo, nella consapevolezza che morali e virtù sarebbero oramai inadeguate all’agire planetario dell’umanità.54 La domanda «che fare?» cede il posto alla radicalità necessaria, in questo tempo preoccupante, della domanda sul pensare e della sua adeguatezza rispetto all’eventuarsi dell’essere; «prima della questione che “prima facie” è la più prossima ed è la sola ad apparire pressante, ovvero “cosa dobbiamo fare? ”, ci chiediamo: "come dobbiamo necessariamente pensare?».55 È evidente come la prospettiva ontologica sovrasti in maniera travolgente quella pratica fin da Essere e tempo.

L’umanismo non domanda della verità dell’essere e meno ancora dell’appartenenza a questa dell’esserci; l’uomo è ridotto ad un ente tra gli altri, «è definitivamente cacciato nell’ambito essenziale dell’animalitas»;56 posto come categoria nella padronanza dell’ente, perde il riferimento autentico della sua humanitas ovvero lo stare nell’aperto dell’essere. Questo pensare metafisico non coglie nella situatività (“ci”) dell’esserci la fondamentale apertura che lo rende custode e pastore dell’essere. L’appello dell’essere alla sua custodia diventa un richiamo all’autenticità della risposta; qui, forse, vi sono i margini per una problematizzazione della scelta: Heidegger non andrà oltre preoccupandosi di non cadere nella riduzione dell’essere a valore:57 errore tipico di ogni prospettiva morale.

Rispetto alla definizione classica della humanitas centrata sulla specificazione data dalla ragione, l’umiltà del pastore risulta essere un plus, «la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità»;58 una convocazione co-essenziale alla gettatezza del progetto che l’esser-ci risulta essere.59 Affiora la fondante relazione ontologica che lega l’uomo all’essere e l’essere all’uomo: «L’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente il cui essere, in quanto e-sistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere».60

Nella traduzione heideggeriana del frammento eracliteo (Ethos anthropo daimon), il soggiorno dell’uomo è apertura per la manifesta vicinanza all’insolito, ma non è forse «l’essere ciò che è più vicino all’uomo di qualunque ente […] eppure questa vicinanza resta per l’uomo ciò che è più lontano».61 Un ethos del soggiornare, ci pare, sia in qualche modo tracciato, non una morale ordinaria ne un’etica tout court, queste subirebbero il destino nichilistico della metafisica in quanto ad essa coappartenenti. Emerge qui come altrove l’esigenza dello Heidegger maturo di considerare queste questioni tentando un nuovo inizio, ripercorrendo l’arcaicità del principio, ridefinendo i compiti della filosofia stessa, nella certezza che il «corrispondere iniziale, compiuto propriamente, è il pensiero»,62 infatti «solo se l’uomo attende alla verità dell’essere come pastore dell’essere, può attendere un avvento del destino dell’essere senza scadere nella mera volontà di sapere».63

La nostra, già dichiarata, prospettiva con la quale riteniamo di dover trattare la questione dell’etica in Heidegger e dei suoi rapporti con la prassi, ci ha portato a sostenere la presenza di un’etica sui generis, originaria, consistente nel pensiero stesso dell’essere, un pensiero che pensa essenzialmente la verità dell’essere. Indubbiamente, questa lettura risulta sbilanciata verso la produzione heideggeriana post-Kehre, la quale ci pare più che un capovolgimento uno svolgimento e una radicalizzazione, su un piano differente, delle posizioni precedenti manifestate dal Nostro.64

Un piano in cui non c’e’ immediatamente e prevalentemente l’esserci ma innanzitutto l’essere e la sua verità; «nella “svolta” si illumina d’un baleno la radura dell’essenza dell’essere. […] si svolge la verità dell’essenza dell’essere».65

In questa produzione non solo si radicalizza l’indagine sull’essere66 ma compaiono tematiche (per es.: il problema della tecnica, l’umanismo, il nichilismo, etc.) legate a doppio filo con le questioni tipiche dell’etica. Vi è, anche, la trasfigurazione di attenzioni già presenti nell’Opera Prima di Heidegger. Nella svolta «il pensiero che là (in Essere e Tempo) veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Sein und Zeit come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere».67

Essere e tempo al suo primo apparire diede l’impressione di essere una nuova grande antropologia (a suo modo lo è: è come se l’ontologia si legasse a filo doppio con l’antropologia, la condizione del Dasein è inserita nel contesto dell’essere, ma rispettivamente al senso dell’essere si perviene solo attraverso l’analitica esistenziale; «quando noi ci interroghiamo sul senso dell’essere, […] non fa (l’esserci) che interrogarsi su di esso in quanto rientra nel dominio della comprensibilità dell’Esserci».68

Impressione successivamente fugata non solo per la dichiarata avversità heideggeriana per ogni prospettiva meramente antropologica ma anche e sopratutto per la sua manifesta volontà di interpretare in chiave ontologica il problema della costituzione fondamentale della vita umana intesa come esserci69 (Dasein) e della sua necessaria appartenenza ad un mondo: non una antropologia ma l’intento di delineare le modalità dell’esistenza contestualmente alla ricerca del senso dell’essere ed alle condizioni di unificazione con questo. Ancor più criticabile sarebbe una lettura strettamente morale di Sein und Zeit: Heidegger non farà altro che smentire passo passo tale posizione dichiarandone la estraneità rispetto al piano assunto dalla trattazione. Risulta, a proposito, emblematico questo passaggio:

è opportuno incominciare con la chiarificazione dell’apertura del Si quale ha luogo in taluni fenomeni, […]. Al qual proposito è forse opportuno far presente che l’interpretazione ha un intento puramente ontologico, ed è del tutto estranea ad ogni critica moralizzante dell’Esserci quotidiano e lontana dalle aspirazioni della “filosofia della cultura”.70

Convinti che in Essere e tempo l’ontologia71 regga una possibile dimensione pratica, non si può altresì non tener conto dell’implicita rilevanza e origine morale di alcuni passaggi e persino della terminologia72 ivi usata (esempio lampante, i termini: angoscia, cura, essere-per-la morte, deiezione e caduta, autentico/inautentico, coscienza , etc.).

L’impatto con Essere e tempo può esser quello di rintracciarvi una indubbia «forza etica […] ma della quale si può deplorare la carenza morale».73

Rispetto a questo mare magnum di questioni, vorremmo far emergere, specularmente all’economia di questo lavoro, la presenza in Essere e tempo non solo di una tensione etica ma anche e sopratutto di una prassi originaria, la quale certamente muterà i suoi connotati dopo la svolta,74 ma che comunque manterrà il suo intrascendibile riferimento al rapporto fondamentale essere/uomo, il solo capace di introdurci alle posizioni del Brief ovvero il luogo più esplicito in cui Heidegger tematizza sia la domanda sull’uomo sia quella sul bisogno etico, sullo sfondo dell’ormai acquisita posizione della Kehre. Queste linee percorribili risultano un autentico orizzonte rispetto alla domanda «quando scriverà un’etica?».75 Come afferma Heidegger stesso «Essere e tempo […] è solo una via e la questione decisiva […] non vi è ancora sviluppata».76

Vi troviamo una apertura d’orizzonte nella misura in cui diventa un presupposto necessario per tentare di seguire lo Heidegger maturo tra e per i suoi accidentati sentieri; quei «sentieri che costringono il viandante a salire verso l’inesplorato o a ritornare sui suoi passi. Ma la vetta rimane»;77 «restiamo dunque in cammino, come viandanti, diretti nella vicinanza dell’essere».78

2. La prassi originaria

2.1 Il Dasein: costituzione ontologica e prassi originaria

In una delle lettere al Beaufret (23 novembre 1945) Heidegger non mancò di sottolineare come Dasein fosse uno dei termini chiave del suo pensiero, il quale «dà perciò luogo a gravi fraintendimenti».79 L’interpretazione che qui vogliamo dare presuppone il contributo, ormai internazionalmente riconosciuto, di studiosi come il Volpi o il Tugendhat; essi hanno il merito (per vero non sono i soli, risultano comunque dei battistrada) di aver sottolineato l’incidenza del pensiero aristotelico in Heidegger e l’attenzione particolare del Nostro verso la filosofia pratica dello Stagirita.

Le nuove acquisizioni testuali80 fanno emergere come il decennale silenzio che intercorre tra la pubblicazione della tesi di libera docenza (La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, del 1916) alla pubblicazione di Essere e tempo (1927), sia lastricato da un confronto incessante quanto impegnativo con Aristotele e da una vorace assimilazione della pratica aristotelica. Questo periodo coincide con i già ricordati corsi dell’insegnamento friburghese81 (1919-1923) e marburghese (1923-1928).82 In questi corsi si ha una appropriazione-trasformazione di alcuni temi tipicamente aristotelici in connessione con il proprio orizzonte speculativo e le problematiche da questo emergenti.

Il problema centrale di Essere e tempo83 ovvero la costituzione ontologica dell’essere indagato attraverso l’ermeneutica della fatticità o analitica esistenziale, si realizzerebbe, quindi, attraverso il connubio tra la prospettiva fenomenologica84 e l’influenza aristotelica.

Heidegger trova, attraverso il IV libro dell’Etica a Nicomaco, una fenomenologia degli atti scoprenti più ricca di quella husserliana: tre modi scoprenti fondamentali85 quali la poiesis, la praxis, la theoria (e tre disposizioni corrispondenti: tecne, phronesis, sofia). L’ipotesi fondamentale del Volpi è che l’accento venga posto sulla praxis, in quanto, come per Aristotele86 la vita umana nel suo insieme ha il carattere della prassi, così per Heidegger la prassi sia l’atteggiamento determinante della struttura ontologica del Dasein87 (nello Stagirita però manca una concezione del tempo non naturalistica, una temporalità vista come radice ontologica unitaria dell’esistenza umana, «la temporalità quale essere dell’esserci che comprende l’essere»88).

Viene quindi tolta l’accezione pratico-morale verso una ontologizzazione che fa degli atteggiamenti scoprenti suddetti, modalità costitutive dell’esserci.89 Il Dasein risulta essere prassi in senso originario, la sua modalità d’essere pare ricavata da un orizzonte eminentemente pratico: «l’uomo è il più alto grado del vivente e il modo fondamentale del suo muoversi è l’agire: praxis».90 Sicuramente questa ontologizzazione porta con sé la perdita di aspetti che in Aristotele sono propri della prassi: la sua interpersonalità e il suo radicamento in una koinonia, quindi la sua dimensione politica.91

Questa impostazione può certo peccare di unilateralità,92 ma vi è una certa concordanza tra gli studiosi nel rilevare nella costituzionale gettatezza dell’esistenza e nella apertura alle proprie possibilità, la manifestazione di una prassi originaria; discorso a parte andrebbe fatto per chi muove dalla convinzione che non vi sia nessuna ripresa (più o meno forte) della impostazione aristotelica.93

La radice ontologica dell’uomo, in qualche modo, gli assegna il suo carattere fondamentalmente pratico. Questo agire originario, la praxis, deve esser compreso per se stesso fuori da ogni prefigurazione metafisico-antropologica; essa è una determinazione ontologica originaria; l’apertura esistenziale non ha alcun fine né come causa né come fondamento, «l’esserci è il nullo fondamento di una nullità»;94 la sua libertà è l’apertura stessa al mondo e alle possibilità che esso racchiude.95

La questione del senso dell’essere e quella della costituzione fondamentale dell’esserci risultano congiunte nell’orizzonte di quella libertà gettata, di quell’esser progetto che assume su di sé il peso delle proprie possibilità.96 Infatti «la possibilità come esistenziale è la determinazione ontologica positiva dell’esserci, la prima e la più originaria. […] possibilità gettata da cima a fondo. […] per il più proprio poter-essere».97

Infatti, «in quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere?»,98 in quell’«ente che noi stessi sempre siamo»,99 «ente avente la possibilità dell’esistenza».100 L’esistenza è dunque apertura al senso dell’essere progettando/comprendendo quell’essere sempre mio,101 in vista del proprio avere-da-essere.

Il Dasein si rapporta, quindi, a se stesso non secondo un atteggiamento di tipo riflessivo o teoretico ma di tipo pratico, «l’esserci e essenzialmente la sua possibilità», è «l’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria».102 L’esserci è un avere-da-essere, il suo carattere strutturale è eminentemente pratico. Questo esser libero per le proprie possibilità non assegna alla libertà una valenza assoluta, essa non viene scelta, è fatticità, una sorta di predicazione ontologica del proprio essere (esistenza), indipendentemente dalla volontà o da ogni atto decisionale.103

La praxis, nel senso che abbiamo cercato di descrivere, non è assimilabile coi i singoli praxeis (atti pratici particolari), essa è con-data con l’evento fondamentale della gettatezza dell’esserci: la sua esistenza è in sé praxis in senso assolutamente originario. Ad essa possono, anche, essere ricondotti e meglio compresi gli essenziali rapporti che l’esserci ha con gli altri, con le cose e la loro utilizzabilità: rispettivamente l’aver-cura ed il prendersi cura.

Il Dasein è nel mondo nella forma del progetto, è un poter-essere, la sua esistenza ha costituzionalmente la forma dell’apertura comprendente e della possibilità.

Su questo sfondo argomentativo gli studiosi hanno rintracciato anche una possibile lettura morale del problema centrale dell’autenticità e del proprio dell’esistenza; percorrendo sostanzialmente due vie interpretative. La prima di queste muove dalla considerazione dell’esistenza autentica come fedeltà all’originario rispetto alla quotidiana dispersione, alla sua evasione, alla sua regressione al livello ontico, all’azione spersonalizzante del Si.

La seconda via possibile104 s’incentra sull’«impostazione del problema esistenziale del chì dell’esserci»,105 sottolineando che «l’esserci è quell’ente che io sempre sono, l’esser-sempre-mio»106 e vedendo un richiamo ad una autonomia morale nel fatto che l’esserci è autenticamente “mio” solo se si mantiene identico.

Rimaniamo dubbiosi! Heidegger sulla interpretazione dell’autenticità è icastico ed è alla sua maniera definitivo: «“autenticità” e “inautenticità”, non significano una differenza né morale-esistentiva né “antropologica”».107

Tutto conferma, per dirla con Ricœur, «l’accento ontologico108 senza cancellare la risonanza etica»,109 nella certezza che Heidegger non prolunghi l’analisi della prassi originaria «in una teoria della pratica, e cioè nel rapporto che la praxis ha con la teoria della preferenza, della scelta».110

2.2 La trasfigurazione del problema

«Ciò che va pensato prima di ogni altra cosa perché finora è rimasto nascosto alla filosofia, cioè il riferimento “e-statico” dell’essere umano alla verità dell’essere».111

La lettura di Essere e tempo, che fin qui abbiamo tentato, è sicuramente essenziale per poter comprendere le posizioni espresse nel Brief. Proprio nella Lettera Heidegger ricorda come, dopo la pubblicazione di Sein und Zeit, gli fosse stata posta da un giovane amico la domanda quando scriverà un’etica?,112 in risposta egli parlerà di un’esigenza etica; le posizioni espresse negli anni ’20 sono qui, ormai, lontane, trasformate o meglio trasfigurate dalla forza avvolgente della Svolta.

La domanda sul senso dell’essere113 diventa quella sulla sua verità:114 in ciò, il Dasein come prassi originaria non potrebbe più configurarsi. Il carattere aperturale dell’esserci in quanto essere-nel-mondo era definito come comprensione e possibilità. Adesso l’uomo diviene il «pastore dell’essere»,115 viene ri-compreso secondo l’orizzonte in cui esso da sempre è immerso: l’esistenza perde i connotati della possibilità per assumere quelli dell’e-statico «stare nella radura (Lichtung) dell’essere», dello «stare-dentro nella verità dell’essere».116

Tale dimensione secondo Heidegger è già presente in Essere e tempo «là dove esperisce l’esistenza estatica come “cura”»,117 questo ci pare discutibile perché la cura rimane, in qualche modo, inficiata dall’inautenticità e, quindi, dalla non verità.

Nel carattere aperturale dell’esistenza, non più come avere-da-essere ma come star-fuori nella radura, ogni traccia di quella prassi originaria che il Dasein rappresentava viene smarrita. L’essere-nel-mondo viene trasfigurato nel soggiornare; in esso si «custodisce l’avvento di ciò a cui l’uomo appartiene nella sua essenza». Il soggiorno è «la regione aperta dove abita l’uomo».118 Un nuovo agire ugualmente originario compare in questo orizzonte oramai “aperto”, lo testimonia immediatamente l’incipit del Brief:

noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire», essa è «il portare a compimento […]. Il pensiero (stesso) porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo». «Il pensiero agisce in quanto pensa».119 Se dunque, «agire» significa dare una mano all’essenza dell’essere, allora il pensiero è l’autentica manualità.120

Ogni piano umanistico è definitivamente abbandonato; il piano è quello dell’«engagemant par l’être pour l’être».121 Il pensiero è agire originario, l’agire «più semplice e nello stesso tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo».122 Questo pensiero che mantiene l’uomo al riferimento essenziale della verità dell’essere «è già in sé l’etica originaria».123

3. Etica e pensiero

Se la Kehre è uno svolgimento radicalizzante delle posizioni ad essa precedenti, non si può non tener conto del punto di vista che, con e attraverso di essa, viene acquisito; un punto di vista secondo il quale «nella determinazione dell’umanità dell’uomo come e-sistenza, ciò che importa è allora che l’essenziale non sia l’uomo, ma l’essere come dimensione dell’estaticità».124 È solo con tale sfondo che viene aperto l’accesso verso la comprensione del pensiero stesso come agire originario, prassi autentica, il vero «portare a compimento»125 il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, il vero lasciarsi «reclamare per dire la verità dell’essere».126 Heidegger è convinto che per portarsi nella essenza di questo pensare bisogna necessariamente liberarsi dalla posizione di ogni pensiero tecnico. «Nell’interpretazione tecnica del pensiero l’essere, come elemento del pensiero, è abbandonato».127

Necessita per l’autenticità del pensare128 che esso non sia ridotto allo schema artificiale dell’esattezza adeguante ma che si apra a ciò che ne fa l’engagemant par l’Être pour l’Être. Il pensiero è così distinto dalla ratio ed ogni pensare distinto dal rappresentare. Ha titolo per essere definito pensiero dell’essere quel pensiero «fatto avvenire (ereignet) dall’essere»129 ad esso appartenente nell’ascolto memorante.

L’epoca moderna si caratterizza per la posizione assoluta assunta dal soggetto e dal conseguente smarrimento dell’uomo verso un agire impositivo nella dimenticanza del fondante rapporto che lo lega all’essere, «proprio questo rapporto dell’essere con l’essenza umana, in quanto relazione di questa essenza con l’essere, non è stato pensato quanto alla sua essenza e alla sua origine essenziale»;130 in questo smarrimento si perde anche il vincolo che lo lega all’essente, ormai ridotto a oggetto pianificabile attraverso l’atto calcolante, «la ragione propone fini, impone regole, dispone mezzi e adatta ogni cosa ai modi dell’azione. […] la ragione si dispiega in questo molteplice porre che è ovunque e in primo luogo un porre-innanzi, un rappresentare (vor-stellen)».131 È questa per Hiedegger la forza inquietante della ragione e del suo dominio.

La domanda sull’essere dell’essente scompare, scompare in ogni rappresentazione metafisica del mondo; risultiamo non ancora capaci «di porci in modo adeguato la domanda sull’essere dell’essente, di porcela cioè in modo tale che essa metta in questione la nostra essenza»132 problematizzandone il suo invalicabile rapporto all’essere. Emerge il bisogno di un pensiero “desto”, un pensiero ritrovato e ricondotto verso la sorgività del suo riferimento. È un necessario incamminarsi verso il pensi ero, un pensiero che si fa sentiero e tracciato di autenticità: «ogni cammino del pensiero va già sempre entro l’intera relazione tra essenza umana ed essere, altrimenti non sarebbe un pensiero».133

La domanda pratica «che fare?» rimane inevitabilmente preceduta da quella sul «cosa pensare?» e sul «come pensare?»; ed allora v’è risposta alla richiesta di un’etica del giovane ed ingenuo amico ricordato nel Brief? Quando l’esigenza di una indicazione vincolante diventerà norma per l’uomo che vuole vivere in «conformità al suo destino»?134 Ad Heidegger ogni indicazione e riferimento morale pare inadeguata rispetto al governo dell’agire planetario ed al mondo atomico. Rimane, comunque, forte l’esigenza etica rispetto all’aumento smisurato del «disorientamento dell’uomo».135 Heidegger è fermamente convinto che «per quanto importanti siano le questioni economico-sociali, quelle politiche, quelle morali e persino quelle religiose, […] non arrivano mai al nucleo costitutivo della cosa».136 In tali ambiti il pensiero rimane messo da parte, non utilizzato, svilito: «la volontà di agire, di fare e di realizzare, ha travolto il pensiero. […] l’uomo tradizionale ha agito troppo e pensato troppo poco».137

L’organizzazione della vita sociale, di quella culturale, e l’edificazione di queste in senso morale non riescono «più ad arrivare fino a ciò che è», rimangono rimedi penultimi perché la definizione «di fini, di mete e di mezzi […] è sin dall’inizio incapace di aprirsi a ciò che è».138 Heidegger sarà costantemente premuroso nel rivendicare la non appartenenza delle sue analisi sulla contemporaneità ad ogni letteratura e/o cultura della crisi, poiché queste pur nello sforzo minuzioso di descrivere lo stato attuale delle cose, rimangono su un piano estrinseco, «descrivono ciò che per sua essenza è indescrivibile, giacché vorrebbe soltanto essere considerato nel pensiero».139 Ogni prospettiva che valuti l’epoca moderna come ‘malata’, ‘decadente’, in ‘declino’, ‘senza centro’, gli è estranea; «in tali giudizi l’elemento decisivo non è tanto che essi valutino negativamente ogni cosa, quanto piuttosto che in generale essi valutino. Essi determinano il valore, quasi il prezzo dell’epoca».140 In questa posizione il Nostro sottolinea fermamente il rifiuto di ogni prospettiva o posizione di tipo valutativo in quanto sempre pregiudizievole e inficiata dalla soggettità. Gli intenti valutativi sono legati alla ragione ‘egologica’ che la tradizione ci consegna. Le analisi antropologiche141 o di intento morale vanno superate, esse sono impotenti

se l’uomo non perviene dapprima ad un diverso rapporto fondamentale con l’essere, se l’uomo di sua iniziativa, nella misura in cui può dipendere da lui, non si eleva fino a tenere finalmente aperta la sua essenza nei rapporti essenziali con l’essere.142

È qui palese la considerazione del pensiero come riferimento dell’uomo all’essere, come capacità di cogliere e di situarsi nell’apertura, di essere etica originaria. Il pensare è un “fare” e un “agire” che supera ogni contrapposizione di teoria e prassi; contrapposizione umanistica che preclude ogni autentica comprensione, perché «pensare non è inattività, ma è di per se stesso e in sé quell’agire che sta nel dialogo con il co-mando universale».143 Il pensiero in cammino ci ha portati alla domanda radicale sul pensare,144 la domanda sulla sua intima essenza, sul suo ineliminabile riferimento, sul suo statuto; dunque, cosa significa pensare?, nel tempo della “metafisica compiuta”, della “organizzazione totale”, della “pianificazione” tecnologico-cibernetica, della sottrazione di ogni solido abitare? . «Lo sradicamento dell’uomo che qui si compie è la fine di tutto, a meno che (ancora una volta) il pensare e il poetare non prendano il potere con la loro forza non violenta».145

Heidegger, stesso, rileverà come le sue lezioni sul pensiero (i corsi universitari di Friburgo del 1951-52), fra tutti gli scritti, «siano quelle meno lette, è forse un altro segno dei nostri tempi».146 Con la domanda sul pensiero ci poniamo, dunque, in cammino verso e nel «pensiero, sulla via del pensiero».147

3.1 Che cosa ci chiama al pensiero?

Nella Kehre si manifesta il passaggio dall’analisi, in qualche modo preparatoria, di Essere e tempo alla rinnovata questione del senso dell’essere problematizzandone la verità attraverso il concetto di evento («dal 1936 “evento” — Ereignis — è la parola guida del mio pensiero»148). Il problema filosofico di Essere e tempo, quello del senso dell’essere indagato attraverso l’analitica dell’esistenza umana, diventa interrogazione diretta dell’essere (Seinsfrage), attenzione alla sua verità nella sua storicità epocale.149

Porsi la domanda sul pensiero è già un meditare sull’essere stesso e sulle modalità con le quali esso si eventua: ogni analisi funzionalistica e psicologistica del pensiero è inadeguata, parziale e solamente accessoria; «il pensiero non è quindi preso come un processo il cui andamento è osservabile psicologicamente. […] il pensiero in quanto pensiero è qualcosa di essenzialmente chiamato».150 Non è attività che fa riferimento a norme e a valori, può rivolgersi a questi «soltanto se è già in se stesso chiamato, rinviato a ciò che va pensato».151 Esso non è attività di cui l’uomo disponga arbitrariamente, come se tutta la devianza che Heidegger rintraccia nella storia della filosofia sia ascrivibile solamente ad errori dei singoli pensatori o ‘scolastiche’: tale giudizio non pensa ancora adeguatamente l’essere e il suo darsi epocale, la sua storia come destino.

Il pensiero dell’essere non è un prodotto dell’uomo, «non si fonda su una capacità dell’uomo»,152 è «pensiero soltanto nella misura in cui resta riferito all’essere ed inserito in esso».153 L’uomo nel suo abitare in un mondo, in ogni suo fare ed in ogni sua scelta, presuppone come essenziale costituzione l’essere aperto all’ascolto pensosamente memorante dell’essere.154 L’evento dell’essere apre nel ‘getto’ un’apertura in cui l’uomo è autenticamente se stesso, dunque «il soggiorno terreno poggia sul pensiero»;155 con l’’evento’ il rapporto uomo/essere è stabilito come relazione di appartenenza appropriante.156 È errato pensare l’essere come qualcosa che destini estrinsecamente l’’evento’, egli stesso è manifestazione aprentesi nell’’evento’; nella struttura dell’evento si dispiega la verità dell’essere. Questa concezione ‘destinale’ dell’essere è, ovviamente, in polare contrapposizione con la concezione metafisica dell’essere quale semplice presenza e oggetto; questo rappresentare, secondo Heidegger impedisce di pensare l’essere ed il suo evento.

È falsa una concezione dicotomica del rapporto uomo/essere secondo lo schema di soggetto-oggetto157 o come degli in sé che secondariamente si rapportano; invece nel suo darsi storicamente epocale, l’essere, determina l’epoca e l’essenza dell’uomo. Diciamo poco e male se nel dire «essere, tralasciamo il suo presentarsi all’essere umano […]; anche dell’uomo diciamo troppo poco se, dicendo l’essere, poniamo l’uomo per se stesso; […] già nell’essere umano è insita la relazione con ciò che è determinato come essere».158

Solo su questo sfondo teoretico Heidegger può porre la domanda sull’essenza del pensiero, radicadizzandola a tal punto da far di essa una via necessaria della Seinsfrage.

La sentenza è forte: «noi ancora non pensiamo; […] benché la situazione del mondo diventi sempre più preoccupante»159, non si tratta di una carenza strutturale dell’uomo o soltanto di una mancata deliberazione ma deriva dal fatto che ciò «che va pensato si distoglie, già da lungo tempo»,160 esso si mantiene in tale distoglimento da gran tempo. Ciò che ci affida il pensiero come nostra determinazione essenziale ci dà da pensare. Imparare a pensare è rivolgersi a ciò che deve essere essenzialmente pensato; questo, umanamente può attuarsi solo se «disimpariamo radicalmente l’essenza del pensiero che è durata fino ad oggi»,161 disimparare dunque le forma del pensare moderno e la sua essenza ‘assicurante’. Possiamo imparare nella misura in cui portiamo il nostro «fare e non fare a corrispondere a ciò che ci viene detto di essenziale».162 La situazione contemporanea sembra esigere che l’uomo agisca immediatamente e con efficacia, la convinzione del Nostro è che solo meditando sul tempo presente è abbandonandosi a questa pietas del pensiero si possa tentare di arrivare ad una condizione umana consona ad esperire l’essenza dell’era tecno-logica come nulla di tecnico e nell’inquietante del mondo atomico anche ciò che salva; solo così si può tentare un nuovo radicamento per il soggiornare dell’uomo.

Le esigenze che il pensiero ‘tradizionale’ credeva di soddisfare si manifestano nella loro inevitabile caducità e fallacia; l’altro pensiero «non porta al sapere come vi portano le scienze, non comporta una forma di saggezza utile alla vita, non risolve gli enigmi del mondo, non procura immediatamente forze per l’azione».163 Domandando del pensiero rimaniamo messi in questione radicalmente, poiché interroghiamo circa la nostra determinazione essenziale; ciò che ci chiama al pensare ci rinvia al pensiero e cosi «ci affida la nostra essenza»;164 nella risposta all’appello dell’essere ne va della nostra essenza stessa, essenza che la filosofia ha ritenuto risiedesse nella razionalità in quanto differenza specificante rispetto al sostrato animale. La filosofia non ha prestato ascolto e tanto meno corrisposto «al reclamo in cui l’essere si destina al pensiero. Noi siamo destinati dall’essere, e stiamo, secondo la nostra essenza, in una radura dell’essere».165 Solo lo stare in questa apertura fa dell’uomo un essere pensante, ovvero un ente che nel suo essere e-sistente corrisponde all’ingiunzione fondamentale e costitutiva dell’essere. Il pensiero è per Heidegger «ciò che accade ad opera dello spirito umano»166 nella misura in cui esso si apre al reclamo dell’evento di ciò che ci chiama a pensare essenzialmente.

Quali caratteri ha questo pensiero altro? Esso è memoria ovvero il raccogliersi del pensiero verso ciò che dà da pensare, un ricordare che tutto raccoglie e medita, l’interiore raccoglimento verso il più considerevole. La memoria abita nella serbanza167 (ciò che preserva dalla dimenticanza e dall’oblio). Il pensiero è contemporaneamente «ringraziamento. Nel ringraziamento l’animo commemora ciò che esso ha ed è».168 Ogni ringraziare è sempre rivolto a qualcosa, questo non è per sua natura proveniente da noi stessi è «il dono più alto che ci viene fatto, quello che autenticamente dura, è la nostra essenza, grazie alla quale siamo quelli che siamo».169 È forte la differenza tra questa concezione del pensiero e la forma che questo ha assunto nell’età moderna. La ragione è l’emblema della posizione assoluta assunta dal soggetto nel mondo. La modernità è il tempo in cui l’incubazione del principio di ragione finisce; esso quale principio sommo della filosofia necessita il pensiero alla fornitura del fondamento in riferimento «al conoscere come rappresentare (vor-stellen, porre davanti) ciò che sta di fronte».170 Tutto ciò che si incontra diviene oggetto per l’io conoscente, tutta la realtà ha un fondamento sufficiente; su questo terreno poggia la scienza moderna anche l’era atomica si fonda sulla potenza delle resa del fondamento. Solo un pensiero rammemorante può cogliere l’essere stesso come fondamento infondato (Ab-Grund), «ogni fondazione rimane inadeguata all’essere come fondamento; ogni fondazione non può che ridurre l’essere ad ente».171 Solamente attraverso queste considerazioni possiamo ritenere coerente l’affermazione, per noi, più radicale del Brief: «il pensiero che pensa la verità dell’essere come elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».172

3.2 Il «compito» del pensiero nell’età della tecnica

L’attenzione di Heidegger alla ratio quale forma tipica del pensiero moderno è fondamentale per capire il giudizio sul mondo della tecnica quale compimento della metafisica e quale estrema conseguenza della posizione del soggetto a fundamentum inconcussum veritatis.173 La tecnica è l’intimo ‘destino’ della metafisica moderna, essa dominata dalla perdita dell’essere darà, nel tempo del principium reddendae rationis,174 sempre più conto dell’ente nel senso di sottoporlo all’azione dominante della ragione colcolatrice; l’era della fissione nucleare è costituita dal potere giustificante di ogni atto impositivo del soggetto sulla realtà: la tecnica dispone, ormai, di ogni ordine su scala planetaria, «nell’imperialismo planetario dell’uomo organizzato tecnicamente, il soggettivismo dell’uomo raggiunge il suo culmine più elevato».175 Ogni meraviglia per l’imprevedibile e l’incalcolabile sorgività dell’essere è obliata dalla necessaria assicurazione dell’ente. Il cammino della Seinsfrage si fa domanda sul destino del tempo della tecnica e dell’esistenza umana ad essa coinvolta, nel tentativo di arrivare all’essenza dello smarrimento, dell’angoscioso disorientamento della coscienza davanti a forze dal potere profondamente incalcolabile e sconosciuto. Il tentativo è quello di porsi nell’atteggiamento idoneo e utile per cogliere la verità e l’essenza nascosta dell’era atomica aldilà d’ogni fuga verso mitiche e incontaminate età dell’oro o verso bucolici sogni; insomma un interesse verso il fondo della questione e non la fuga entro orizzonti etnologici secondo la ripresa di un fantomatico stato di natura. L’uomo ‘tecnologico’ incosciente della propria spaesatezza continua, sicuro di sé, nello sfruttamento di ogni risorsa e nella riduzione di tutto a non senso. L’era contemporanea si configura, quindi, come verità della metafisica del soggetto; esso pago di sé, ma non del suo dominio, non avverte di aver perso la signoria dell’ente ad opera dell’azione onnipotente della cibernetica: «tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».176 Il paesaggio del mondo odierno è quanto mai inquietante: produttivismo consumistico, alterazione degli equilibri naturali, riduzione dell’uomo stesso a ‘materiale d’impiego’, deresponsabilizzazione e non senso. L’era della chimica nucleare è il tempo del Ge-stell ovvero di «ciò che tiene insieme quel porre (stellen) che pone (stellt) l’uomo a disvelare il reale come fondo nel modo dell’impiegare […] quello che così è provocato».177 Esso è l’impianto su cui si erge la volontà assoluta, volontà oltremodo provocante.

Questa lettura del mondo contemporaneo alla luce del darsi epocale dell’essere annienta ogni possibile concezione meramente antropologico/strumentale della tecnica come frutto solamente dell’azione umana senza la necessaria considerazione riguardo all’eventuarsi storico destinale dell’essere. Su questo un passo dal discorso sulla Galassenheit è oltremodo preciso: «le potenze che ovunque […] assediano e opprimono l’uomo, sono da gran tempo cresciute al di là della volontà e della capacità di decisione dell’uomo».178

La tecnica non indica principalmente l’apparato produttivo fondato sulle macchine e sui cervelli elettronici: il tempo della tecnica è il tempo del compimento della metafisica; «la rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e una attività dell’uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica».179

L’atteggiamento assunto dall’uomo contemporaneo è quello che muove dal tentativo di piegare la tecnica ai bisogni dell’umanità, la si vuol dominare, senza aver capito che se non si preparano le condizioni per un nuovo darsi dell’essere ciò è destinato a rimane puro vaneggiamento. La via maestra è quella del pensiero, un pensiero più sobrio dell’irrefrenabile dilagare della razionalizzazione e della furia sradicatrice della cibernetica.

La tecnica nella concezione heideggeriana non è nulla di demoniaco non è opera del diavolo. Per sintonizzarsi su tali giudizi bisogna, secondo il Nostro, fare un passo indietro: dalla sintomatologia dei fenomeni del mondo tecnico alla loro essenza; «la tecnica, dunque non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento»:180 Heidegger ci trasporta nell’ambito della sua concezione della verità come aletheia. Ogni produzione (poiesis) non è solamente fabbricazione artigianale ma è legata al disvelamento. «Anche la phisis, il sorgere-di-per-sé, è una produzione (nel senso più alto)»:181 ogni produrre è un condurre fuori dal nascondimento alla manifestazione; nel disvelamento si fonda la possibilità di ogni fabbricazione producente. Tecnica è «ciò che appartiene alla técne […]: la técne è qualcosa di poietico»;182 il tratto caratteristico della técne (classicamente intesa) non è il maneggiare ed il fare attraverso mezzi ma il disvelamento, «in quanto tale, essa, è un produrre».183 Attraverso questa lettura della técne si può giungere a scoprire l’essenza della tecnica: essa è un modo del disvelare, «la tecnica dispiega la sua essenza nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza, dove accade l’aletheia, la verità».184 Tuttavia il suo disvelare non è una produrre poietico «è un pro-vocare il quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata»:185 solamente su tale base si istituisce ogni sfruttamento incontrollato delle energie nascoste della natura. Questo disvelamento «ha il carattere dello stellen, del richiedere pro-vocante»;186 l’assicurazione e l’impiego calcolante di ogni fondo (Bestand) ne è il tratto principale: il fondo non è la semplice scorta, è il modo con cui è presente ciò che ha rapporto al disvelamento provocante, «esso non ci sta più di fronte come oggetto.»187

La domanda che si pone a questo punto è: chi compie la pro-vocazione? forse l’uomo? Certamente, però «sulla disvelatezza entro la quale il reale si mostra o si sottrae, l’uomo non ha alcun potere».188 La tecnica non è un operare puramente umano è il tempo del Gestell come «appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come “fondo” ciò che si disvela»,189 questo impianto (Gestell) è il disvelamento caratteristico della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. L’essenza di ogni epoca si determina a partire da «quel mandare che solo porta l’uomo su una via del disvelamento (il ‘destino’)».190 Nell’aprirsi in maniera autentica all’essenza della tecnica «ci troviamo inaspettatamente richiamati ad un appello liberatore»,191 bisogna orientarsi verso la direzione dell’originario, esperendo l’appartenenza all’apertura del disvelamento aletheico come propria essenza; ciò coincide anche con la libertà fondamentale dell’esserci192 (una libertà non connessa originariamente alla volontà, essa è legata piuttosto alla verità; essa «custodisce ciò che è libero nel senso del disvelato»193).

Il pericolo sta nel disvelamento se esso non è colto principialmente, ovvero quando l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra nella convinzione che tutto è da esso gestito. In tale condizione l’uomo smarrisce la propria essenza, non percepisce la pro-vocazione come appello, egli «si lascia sfuggire i modi secondo i quali ek-siste nell’ambito dell’appellare».194 La minaccia non sono le macchine in sé ma che «all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principiale».195 Arrivano in aiuto le parole del poeta menzionate da Heidegger stesso «là dove c’é il pericolo cresce/Anche ciò che salva»: il termine salvezza qui è da intendere come il condurre all’essenza; proprio nel Gestell che minaccia di annientare l’uomo e di disperderne ogni radicamento si manifesta l’intima e originaria appartenenza dell’uomo alla verità dell’essere. È necessario «che noi meditiamo su questo sorgere e lo custodiamo rimemorandolo».196 Heidegger sente forte il bisogno di un pensiero adeguatamente attento, un pensiero meditante197 diverso da ogni sapere della scienza; solo questo pensiero ci pone sulla via «verso il luogo del nostro soggiornare […]; è il tranquillo abbandono a ciò che è degno di essere domandato».198 Questo pensiero radicale è senza effetti, lascia-essere l’essere perché ad esso vocato; si stacca dal pensiero rappresentativo della metafisica «non lo rigetta, ma apre la lontananza all’appello della verità dell’essere».199

3.3 Tecnica e politica: alcune considerazioni

La questione politica, che negli anni ’90 ha movimentato il dibattito intorno al caso Heidegger, ed il silenzio su Auschwitz pesano come un macigno sulla biografia del Nostro aldilà delle postume possibili smentite di una sua vicinanza organica con la politica del Fürher e con le idee forti del nazionalsocialismo;200 il dubbio rimane e non basta il moltiplicarsi degli scritti e degli interventi per dirimerne il fondamento.201 Alcune domande inquietanti rimangono sullo sfondo: possiamo separare biografia e pensiero? vita e filosofia?; il rifiuto di tematizzare un’etica organica ed articolata può legittimare l’apparente distanza da un ancoraggio valoriale che supporti le scelte di fondo della propria esistenza?; la lettura della storia in termini di “destino dell’essere” non è forse una abdicazione a forze umanamente incontrollabili (la Tecnica)?

Lungi dal voler ripercorrere le posizioni degli studiosi su tali annose perplessità tentiamo di soffermarci sull’ultimo degli interrogativi, questo ci pare più in sintonia con i motivi sollevati da questo nostro lavoro.

Per Heidegger il problema della tecnica e della volontà di potenza che ne corrobora il fondamento sono via di accesso alla comprensione profonda non solo del nazionalsocialismo ma di ogni sistema politico contemporaneo. Nell’ormai famoso e discusso discorso sulla sua assunzione della carica di rettore dell’università di Friburgo parlando dell’opera di Ernest Jünger Il milite del lavoro trova modo di affermare che al «dominio della volontà di potenza nella storia, vista in una prospettiva planetaria […] va oggi ricondotto tutto — lo si chiami comunismo, fascismo o democrazia».202 L’impressione lampante è di un mancato o non voluto interesse per le ragioni interne di ogni sistema politico, tutto ci pare con Adorno dimenticanza di ogni reale processo storico e di un orizzonte adeguatamente idoneo per una ermeneutica dell’esistente politico. Forse la tensione alla ontologizzazione, specifico della speculazione heideggeriana, rispetto alla pagina più tragica della storia dell’uomo moderno, è incapace o non decisiva per un giudizio sulle responsabilità politiche della Germania nazista. Si potrebbe, a ragion veduta, sollevare un’ulteriore domanda: è la struttura stessa che la filosofia heideggeriana assume a proibire un’analisi morale degli eventi legati al Terzo Reich o le simpatie politiche più o meno nascoste del Nostro? È nostra convinzione che vi sia una sostanziale intersezione di questi piani.

Il richiamo ad un’etica originaria ed a un pensiero desto possono essere un primo fondamentale inizio su cui però necessariamente costruire, o meglio, edificare una morale articolata: le società complesse dell’oggi planetario necessitano, comunque, aldilà dei proclami sulle impossibilità di trovare fondamento all’etica, di linee di condotta e di criteri di giudizio, ogni abdicazione può risultare un perdersi nel non senso.

Ritorniamo alla questione, per noi più interessante, ovvero quella della concezione della tecnica come cifra ermeneutica per cogliere l’essenza del nazismo.

Il mondo dei processi cibernetici non è dovuto alla semplice decisione umana: la tecnica è un modo del disvelamento è il denominatore comune con cui indichiamo l’insieme dell’ente nel tempo della volontà di dominio; la tecnica è una delle epoche dell’essere, l’epoca della metafisica compiuta. Nel dispiegamento globale del tecnologico, l’ente non è più colto quale presenza emersa nel disvelamento secondo la concezione della phisis che Heidegger rintraccia nel pensiero pre-socratico.203 Nel tempo della tecnica l’essente perde anche i caratteri di oggetto che ha assunto fin dall’epoca di Cartesio. L’essente adesso è ridotto a riserva energetica su cui agire impositivamente e pro-vocatoriamente (termini che definiscono il tempo del Gestell). L’uomo stesso diviene «materiale d’impiego»204 . Il tecnico assume il carattere di fenomeno autonomo è sempre più incontrollabile. Per Heidegger le società e i loro assetti economico/politici sono al loro fondamento epifanie di questa situazione mondiale: tanto la democrazia a sistema capitalista dell’occidente che le forme pianificate delle politiche comuniste e sovietiche. Il nazionalsocialismo si inserisce in tale elenco; su tale forma estrema di dittatura e di crimine contro l’umanità Heidegger riesce a trovare parole che testimoniano la sua iniziale fiducia ed adesione (manifestate ai primi degli anni trenta)205 ma che segnano un distacco da esso e dalle sue estreme conseguenze dovuto alla incapacità del movimento nazista di agire il pensiero:

io non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile, anzi: vedo proprio il compito del pensiero nel dare una mano affinché l’uomo riesca a conquistare un rapporto sufficiente con l’essenza della tecnica. Il nazionalsocialismo andava bensì in questa direzione; ma questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero.206

Ancora più inquietante è l’appiattimento dello sterminio ebraico con gli esiti di un mondo tecnico ormai alla deriva:

l’agricoltura è adesso un’industria alimentare motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi […], la stessa cosa della fabbricazione di bombe all’idrogeno.207

Il tentativo di andare a fondo, alle condizioni di possibilità degli atti e degli eventi della storia secondo la prospettica della storia dell’essere tipica di Heidegger, ci pare, proprio in questo caso, inadeguato alla cosa stessa: l’atto criminale rimane sostanzialmente ingiudicato. Il silenzio resta, forse anche quello del pensare. Probabilmente dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia, ma la necessaria reattività del filosofo di fronte all’inumano dovrebbe pur sempre accendersi o dovremmo mestamente accontentarsi del fatto che «la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E che questo non vale solo per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana».208 Se questo davvero ha un fondamento allora la sentenza è più tragica di ogni V atto: «ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio».209

3.4 Critica del concetto di valore e nichilismo

La storia della metafisica è storia della dimenticanza dell’essere e quindi storia del nichilismo, storia dell’oblio della differenza, del «restar via dell’essere come tale».210

La metafisica inizia, secondo Heidegger, con Platone e la sua riduzione dell’essere a idea; proprio il termine idea è fondamentale per cogliere il significato stesso di valore così come la tradizione morale lo ha inteso e specularmente utilizzato. Nei confronti della filosofia di Platone, il Nostro muove dalla convinzione che l’idea sia l’aspetto in cui l’essere si renda intellegibile, è l’entità stessa dell’ente, la sua essenza «è di rendere idoneo, cioè di rendere possibile l’ente in quanto tale».211 L’idea si pone quale condizione di possibilità o a priori condizionante. L’intendimento platonico del concetto di bene (agathon) quale idea suprema fa di questa propriamente la condizione per l’idoneità «dell’ente a essere ente. L’essere si mostra nel carattere del rendere possibile e del condizionare».212 È l’inizio decisivo per lo metafisica; Nietzsche che ne rappresenta l’estremo compimento, concepirà «i valori come condizioni della possibilità della volontà di potenza, cioè del carattere fondamentale dell’ente».213 L’essere dell’ente in Nietzsche viene, secondo Heidegger, esperito con i caratteri del valore; l’insurrezione nietzscheiana contro la metafisica rimarrà in questa imbrigliata, il suo scagliarsi contro Platone quale archetipo della metafisica stessa nella sua sostituzione del mondo reale con quello ideale resterà un pensare secondo valori, solo una sorta di rovesciamento del platonismo; Nietzsche «pensa l’essere assolutamente in senso platonico e metafisico proprio in quanto sovvertitore del platonismo».214 Tutta la sua speculazione diviene riduzione della verità e dell’essere a valore, una metafisica dei valori.

La nozione di valore appare nel XIX secolo come conseguenza di una concezione della verità quale adequatio, essa sostanzialmente è «l’ultimo derivato dell’agathon […]; il valore è alla base della metafisica di Nietzsche e ciò nella forma assoluta della trasvalutazione di tutti i valori».

La filosofia heideggeriana si pone in maniera reattiva nei confronti di ogni speculazione morale e/o filosofica che abbia come fondamento o riferimento un orizzonte valoriale poiché il valore e ciò che ha valore divengono il surrogato positivo del metafisico. È suo preciso intendimento ritenere che un pensiero che si oppone ai valori non giudica privo di valore o non valore ciò che la modernità ha definito tale, piuttosto quando si definisce come valore qualcosa «ciò che è cosi valutato viene privato della sua dignità»215 poiché la misura è data dalla stima e dal giudicare del soggetto; tanto che ogni valutazione è una soggettivazione, «essa non lascia essere l’ente ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare»;216 il valutare è un atto di antropomorfizzazione del reale tipico del pensiero occidentale e soprattutto delle sue caratteristiche moderne: la presunta oggettività del valore è stabilita soltanto dal metro umano.

Heidegger sottolinea come tra i cinque capisaldi del pensiero di Nietzsche (la trasvalutazione di tutti i valori, il nichilismo, il superuomo, la volontà di potenza, l’eterno ritorno)217 l’accento vada posto sulla intima relazione ed unità tra volontà di potenza e l’eterno ritorno; infatti «il carattere fondamentale dell’ente in quanto volontà di potenza si determina al tempo stesso come l’eterno ritorno dell’uguale».218 La suprema volontà di volontà consiste nell’atto sommo di tale pensiero cioè nel dare al divenire i caratteri dell’essere; pensare l’essere dell’ente come volontà di potenza significa legarlo all’eterno ritorno. Nietzsche compie l’estremità finale della metafisica facendo della volontà il fondamento di tutto il reale l’essenza stessa dell’essere di ogni ente.

Nel tragitto della storia della filosofia oltre alla base platonica vanno indicate, per capirne l’esito finale, le vie percorse nella modernità dal pensiero. La modernità è il tempo (l’epoca) in cui il soggetto rende il «mondo immagine», fa del reale un oggetto attraverso gli atti rappresentativi-oggettivanti, la filosofia di Nietzsche iscrivendosi in questo percorso si fa metafisica della «soggettività assoluta», essa in quanto volontà di dominio «pensa ogni cosa nell’orizzonte dei valori: del volere i valori, del venir meno dei valori, del capovolgimento dei valori»219 . Da qui l’esito estremo del pensiero occidentale dimentico ormai delle sue origini: solo una volontà assoluta può porre valori, essi «sono riferiti alla volontà di potenza ne dipendono».220 La volontà stessa è un principio cosciente di una nuova posizione di valori; il valore è nella sua essenza un punto di vista, un angolo visuale legato alle modalità stesse di ogni rapporto del soggetto con il mondo, «il punto di vista di condizioni di conservazioni e di potenziamento».221 Questo è nichilismo compiuto, nichilismo che eliminando il luogo stesso del valore ovvero il sovrasensibile in sé, pone pertanto «i valori in modo diverso»222 capovolgendoli. Heidegger è convinto che Nietzsche pur atteggiandosi a perfetto nichilista (colui che ha vissuto in sé totalmente la forza del nichilismo) rimane nella dimenticanza dell’essenza stessa del nichilismo come ogni pensatore prima di lui; la sua concezione del nichilismo, in quanto legata al valore, è una concezione nichilista.

Interrogarsi sul nichilismo è per il Nostro porre la questione decisiva: quella dell’essere e del suo rapporto con il nulla, questo stesso è un proiettarsi nell’essenza del nichilismo. Storicamente la domanda sul ni-ente è rimasta non svolta nella sua radicalità, è proprio questo non pensare al niente se non in termini logico/razionali la causa stessa del nichilismo. È necessario chiedersi circa l’apertura epocale che ha reso possibile il tempo della volontà incondizionata dell’uomo e del Gestell. Il destino del nichilismo per Heidegger ha il suo luogo proprio nell’essere e nel suo eventuarsi storico. Ogni tentativo di superamento è destinato a fallire perché «invece di voler oltrepassare il nichilismo dobbiamo prima raccoglierci nella sua essenzialità».223

Ritorna forte il compito, la vocazione, la chiamata del pensiero, forma inusitata di responsabilità del pensare che ha i tratti del cor-rispondere. Dunque l’atteggiamento heideggeriano contro i valori «non vuol dire sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’ente, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto».224

Evidentemente non è il tempo di formulazioni etiche o di virtù adeguate all’era atomica, ma il tempo in cui bisogna farsi carico della responsabilità del pensiero il quale solo può produrre una accelerazione del nichilismo, il lasciar-essere l’evento in modo che la grande potenza del nulla si dispieghi pienamente, solo così nel loro compimento essenziale il tempo dell’ospite più inquietante potrà volgere alla fine nell’attesa di un altro inizio secondo un pacato abbandono.

La ‘verità’, il ‘destino’, l’’apertura’, la ‘radura’ parlano di un essere e di un appello radicale a cui l’uomo è strutturalmente coinvolto nel suo agire originario quale «condurre a compimento»,225 in ciò proprio il pensiero è sommamente interpellato esso «porta a compimento il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo».[^226]

4. Bibliografia

Opere di Heidegger

  • Che cosa significa pensare? (I e II), trad. it. U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1971.
  • Che cos’é la filosofia? , trad. it. C. Angelino, Il melangolo, Genova 1988.
  • Essere e tempo, trad. it. P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970.
  • Identità e Differenza, trad. it. P. Chiodi, Teoresi, 1967.
  • Il principio di ragione, trad. it. G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano1991.
  • In cammino verso il linguaggio, trad. it. A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973.
  • La svolta, trad. it. M. Ferraris, Il melangolo, Genova 1990.
  • L’abbandono, trad. it. A. Fabris, Il melangolo, Genova 1983.
  • L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, trad. it. C. Angelino, Il melangolo, Genova 1988.
  • Lettera sull’umanismo, trad, it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1995.
  • Nietzsche, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.
  • Oltre la linea, (E. Jünger-M. Heidegger) trad. it. A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989.
  • Ormai solo un Dio ci può salvare, trad. it. A. Marini, Guanda, Parma, 1987.
  • Saggi e discorsi, trad. it. G. Vattimo, Mursia, Milano 1980.
  • Segnavia, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987.
  • Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968.
  • Tempo ed essere, trad. it. E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998.

Studi critici

  • AA.VV., Heidegger e l’etica, in Con-tratto, nn. 1-2, 1993.
  • A. Ardovino, Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, Guerini, Milano 2003.
  • H. Arendt, M. Heidegger a ottant’anni, in Micromega n. 2, 1988.
  • F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussione, F. Angeli, Milano 1992.
  • E. Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987.
  • P. Bourdieu, Führer della filosofia? L’ontologia politica di M. Heidegger, Il Mulino, Bologna 1989.
  • A. Crescini (a cura di), Umanesimo e scienza nell’era atomica, Brescia 1984.
  • P. De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1974.
  • P. Di Giovanni (a cura di), Heidegger e la Filosofia pratica, Palumbo, Palermo 1994.
  • V. Farias, Heidegger e il nazismo, Boringhieri, Torino 1988.
  • H. G. Gadamer, Maestri e compagni, Queriana, 1980.
  • U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1988.
  • J. Habermas, Il filosofo e il nazista, in Micromega, n. 3, 1988.
  • Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, Il melangolo, Genova 1991.
  • E. Lecaldano, Etica, Tea, Milano 1996.
  • J. F. Lyotard, Heidegger e gli ebrei, Feltrinelli, Milano 1989.
  • K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano 1988.
  • E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, Guida, Napoli 1987.
  • J-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, Cronopio, Napoli 1996.
  • E. Nolte, Heidegger e la rivoluzione conservatrice, Sugarco, Milano 1997.
  • P. Palumbo, Heidegger e il pensare metafisico, Rubettino, 2001.
  • M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, Bulzoni, Roma 1978.
  • C. Resta, La terra del Mattino. Ethos, Logos e Phisis nel pensiero di M. Heidegger, F. Angeli, Milano 1998.
  • R. Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e Agire in Heidegger, Il Mulino, Bologna 1995.
  • G. Vattimo, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari 1980.
  • C. A. Viano, Teorie etiche contemporanee, Boringhieri, Torino 1990.
  • F. Volpi, Guida a Heidegger, Latersa, Bari 1997.
  • F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 1996.
  • F. Volpi, L’etica rimossa di M. Heidegger, in Micromega, n. 2, 1996.

  1. Il dibattito ha preso la mosse dall’ormai famoso scritto di V. Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988: noto è il suo pesantissimo giudizio sulla compromissione di Heidegger con il Terzo Reich. Interessanti, sull’argomento, risultano: P. Bourdieu, Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, (a cura di) G. De Michele, Il Mulino, Bologna1989; E. Nolte, Heidegger e la rivoluzione conservatrice, Sugarco, 1997; J. Habermas, Il filosofo e il nazista, in Micromega, 1988, n. 3; J. F. Lyotard, Heidegger e gli “Ebrei”, Feltrinelli, Milano 1989; K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano 1988; H. Arendt, Martin Heidegger a ottant’anni, in Micromega, 1988, n. 2; O. Pöggeler, Heidegger e la politica, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussione, Angeli, Milano 1992. Cfr. per altre, essenziali, indicazioni bibliografiche F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Bari 1997. ↩︎

  2. Originale, quanto suggestiva, è la tesi del Volpi su Essere e tempo: «una versione in chiave moderna dell’Etica Nicomachea», cfr. F. Volpi, L’etica rimossa di M. Heidegger, in Micromega, 1996, n. 2, p. 141. P. Ricœur è convinto che di Essere e tempo «non si può negare la forza etica ma della quale si può deplorare la carenza morale», cfr. P. Ricœur, Il problema etico in “Essere e tempo”, in F. Bianco (a cura di), op. cit., p. 50. A. Jacob sostiene che nei testi heideggeriani «l’etica non è tematizzata che in prima approssimazione», addirittura «ce n’è poca ed è enigmatica […] la ricerca ontologica le volge le spalle» tiene occulta la “dimensione di alterità”, cfr. A. Jacob, Heidegger e la questione etica, in F. Bianco (a cura di), op. cit., p. 108. Interessante risulta la posizione di R. Schürmann: esaminando il rapporto tra essere ed agire in Heidegger, attraverso una complessa analisi della contemporaneità ovvero di una epoca in cui il pensiero non pone più un fondamento razionale alla conoscenza, sostiene che l’agire si trova sospeso, la prassi (visto il tramonto dei principi) non potra più legittimarsi rispetto ad un’arché e allora «l’agire si svelerà, nella sua essenza, an-archico», cfr. R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino, Bologna 1995, p. 28. Il francese J. L. Nancy, sottolineando con Essere e tempo che nell’esistenza non vi è un senso predefinito, afferma che l’etica non è rispetto di norme o modelli valoriali ma piuttosto la condotta stessa del Dasein che si espone fra e con gli altri nel fare senso di sé, dunque «l’etica originaria è il nome più appropriato dell’ontologia fondamentale», cfr. J. L. Nancy, L’etica originaria, Cronopio, Napoli 1996, p. 36. L’Aubenque afferma: «sembra che Heidegger si sia rifiutato di trarre esplicite considerazioni pratiche dai suoi rinnovati interrogativi sul senso dell’essere», P. Aubenque, Heidegger e il problema del criterio, in P. Di Giovanni (a cura di), Heidegger e la filosofia pratica, Flaccovio, Palermo 1994: in questo stesso volume si possono trovare altre interessanti riflessioni sul rapporto ontologia/prassi nel Nostro. Ruggenini è convinto che la tecnica dischiuda una grande possibilità «di carattere etico, nel momento in cui rende possibile una ripresa radicale del discorso sull’essere dell’uomo e del suo destino terreno», di qui propone una lettura della Lettera sull’umanismo di Heidegger, cfr F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger , op. cit., p. 233. ↩︎

  3. Cfr P. De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1974. ↩︎

  4. A proposito di B. Spinoza, Heidegger afferma: «che questa metafisica — cioè la scienza dell’ente nella sua totalità — si caratterizzi come Etica esprime il fatto che l’agire e il comportamento dell’uomo hanno un’importanza capitale per […] fondare questo sapere», M. Heidegger, Schelling. Il Trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Guida, Napoli 1994 p. 77. ↩︎

  5. Aristotele, Metafisica, E 1025 b 25-27, trad. it. G. Reale, Rusconi, Milano 1993. La distinzione aristotelica sarà presente mutatis mutandis in tutta la storia della filosofia. È opinione accreditata che sia stato proprio lo Stagirita per primo a parlare di una teoria etica, Analitici II, 89 b 9. ↩︎

  6. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 35. ↩︎

  7. Ivi, p. 33. ↩︎

  8. Ivi, p. 35. ↩︎

  9. Ivi, p. 90. ↩︎

  10. Per tale definizione del termine «etica», cfr E. Lecaldano, Etica, Tea, Milano 1996. ↩︎

  11. Un’etica prima dell’etica come etica dell’ascolto e del cor-rispondere viene tratteggiata da Caterina Resta in La terra del mattino, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 7- 56. ↩︎

  12. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986, p. 4. ↩︎

  13. Cfr. E. Junger — M. Heidegger, Oltre la linea, trd. it. A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989. ↩︎

  14. «Un’umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l’ente», Ibidem, p. 125. Emerge un altro polo polemico, quello contro la soggettità ovvero contro la posizione assoluta del soggetto e della sua egoità nel cosmo (ormai entificato), segno della sua incontrastata volontà di potenza. ↩︎

  15. «Nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio e la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo», M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 31. ↩︎

  16. Ivi, p. 73. ↩︎

  17. Ivi, p. 48. ↩︎

  18. Ivi, p. 46. ↩︎

  19. «Il raccoglimento del pensiero che rivolge verso ciò che è da pensare noi lo chiamiamo memori», M. Heidegger, Cosa significa pensare? (vol. II), trad. it. U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1971, p. 32. ↩︎

  20. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 93. ↩︎

  21. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, trad. it. C. Diano e G. Serra, Mondadori, Milano 1996, Fr. n. 91: Demone a ciascuno è il suo modo di essere. «Un detto di Eraclito, che si compone di sole tre parole, dice qualcosa di così semplice che ne viene immediatamente in luce l’essenza dell’ethos», M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 90. ↩︎

  22. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 93. ↩︎

  23. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. P. Chiodi, Longanesi, p. 21. ↩︎

  24. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Segnavia, tra. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987. ↩︎

  25. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 90. ↩︎

  26. Cfr. C. Mazzarelli, Introduzione a, Aristotele, Etica, Rusconi, Milano 1993. ↩︎

  27. Egli stesso ha sottolineato in diverse occasioni la presenza della filosofia aristotelica e della sua importanza nello sviluppo del suo abito speculativo: Cfr. ad. es. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. A. Caracciolo, Mursia, Milano1973, p. 87. Volpi è addirittura convinto che il pensiero heideggeriano rappresenti uno dei momenti più significativi della presenza di Aristotele nel nostro secolo. Cfr. F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell’Etica Nicomachea? , in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit. ↩︎

  28. Interessante a proposito, ci pare, la testimonianza di Gadamer: si doveva sedere nell’aula di Heidegger in questi primi «anni a Marburgo, per poter valutare l’ampiezza in cui Aristotele era presente nel pensiero di Heidegger in quel periodo», cfr. Heidegger e i Greci, «Verifiche», 8, 1979, p. 7. ↩︎

  29. Molto interessante su questo tema risulta il saggio di F. Volpi, Tra Aristotele e Kant: orizzonti prospettive e limiti del dibattito sulla «riabilitazione della filosofia pratica», in C. A. Viano, Teorie etiche contemporanee, Boringhieri, Torino 1990. ↩︎

  30. Il Pöggeler ha recentemente dimostrato come Heidegger non volle avere niente a che fare con tali tendenze culturali; cfr., O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di M. Heidegger, Guida, Napoli 1991, p. 414. ↩︎

  31. Cfr. E. Berti, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987. ↩︎

  32. Tale tesi è lucidamente proposta e sostenuta dal Volpi: Gadamer nel capitolo di Verità e metodo, «Attualità ermeneutica dell’etica aristoelica», ha proposto una riabilitazione della phronesis. La Arendt in Vita activa, ha sostenuto una riabilitazione della praxis aristotelica e della sua capacità di comprensione del Politico nei suoi tratti costitutivi. Ritter negli studi Metafisica e politica ha inoltrato una riabilitazione dell’ethos. Anche Jonas, seppur più debolmente, mette a frutto la lettura heideggeriana della filosofia pratica di Aristotele, nel suo Il principio responsabilità, riabilitando il concetto di bene (agathon), distinguendolo dal moderno valore. Cfr. F. Volpi, L’etica rimossa di Heidegger, op. cit. ↩︎

  33. Il Berti (in analogia con il Volpi) sostiene che l’influenza sui neo-aristotelici, conduca ad una triplice riduzione della pratica aristotelica, rispettivamente a phronesis (Gadamer), ethos (Ritter) e praxis (Arendt). Cfr. E. Berti, L’influenza di Heidegger sulla «Riabilitazione della filosofia pratica», in P. Di Giovanni, op. cit. ↩︎

  34. Cfr. F. Volpi, Essere e tempo: una versione dell’Etica nicomachea? , in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit. ↩︎

  35. Cfr. M. Heidegger, Introduzione a Che cos’è metafisica, in Segnavia, op. cit., p. 323. Cfr. M. Heidegger, Il nichilesmo europeo, in Nietzsche, trad. it. F. Volpi, Adelphi, Milano 1994. ↩︎

  36. «La verità dell’essere, obliata nella metafisica e proprio a causa della metafisica», cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit. p. 43. ↩︎

  37. «Ciò che caratterizza il pensiero metafisico, che scandaglia l’essente ricercandone il fondo riposa in questo, che esso, partendo da ciò che è presente, lo rappresenta nella sua presenza e così lo presenta — a partire dal suo fondamento — come fondato», cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, trad. it. E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998, p. 174. ↩︎

  38. Heidegger le imputa l’incapacità di cogliere o di aprirsi alla differenza ontologica. ↩︎

  39. Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 94. ↩︎

  40. Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. ↩︎

  41. Quando l’essere diviene idea (Platone) inizia l’umanismo; Cfr. M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia, op. cit., p. 190. ↩︎

  42. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 42. ↩︎

  43. Ivi, p. 42. ↩︎

  44. Cfr. M. Heidegger, La concezione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza↩︎

  45. Identificando tecnica e scienza, Heidegger individua l’essenza del sapere scientifico nella esclusiva considerazione degli enti come strutture calcolabili matematicamente con assoluta certezza e li rende, conseguentemente, manipolabili secondo metodi rigorosi, allo scopo di spremere programmaticamente le energie contenute nella natura. Cfr. A. Crescini (a cura di), Umanesimo e scienza nell’era atomica, La Scuola, Brescia 1988. ↩︎

  46. «Il contenuto di questa teologia deve ridursi all’asserzione che il mondo deve avere una causa prima […]. La metafisica occidentale è teologica». Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 585-586. ↩︎

  47. «La Ratio fin dai tempi antichi, non significa soltanto “conto” e “resa del conto” nel senso di ciò che giustifica, e cioè fonda, qualcosa d’altro. Ratio significa, al tempo stesso […], calcolarlo come sussistente a ragione, come corretto, ponendolo al sicuro mediante tale calcolo»; cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 203. ↩︎

  48. «Pensare propriamente l’essere esige che si abbandoni l’essere come il fondamento dell’essente a favore del dare che gioca nascosto nel disvelamento, cioè a favore dello “Es gibt”. L’essere non è (ist), Essere si dà (gibt Es) in quanto disvelamento». Cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, op. cit., p. 109. ↩︎

  49. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 73. ↩︎

  50. Ivi, p. 56. D’altronde la metafisica non domanda «in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere», p. 44. ↩︎

  51. Inviata ad Heidegger il 10 novembre del 1946, nella sua brevità solleva questo ed altri interrogativi: il rapporto dell’ontologia con un’etica possibile, l’irrazionalismo, il problema della coscienza in Kant, la teoria dei valori. ↩︎

  52. Cfr. T. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994. ↩︎

  53. «Lo svenimento […], si tratta di un processo che intacca il tutto e che alla fine lascia dietro di sé paesaggi quanto mai sterili, squallidi o perfino devastati». Cfr. E. Junger, Oltre la linea, in E. Junger e M. Heidegger, Oltre la linea, op. cit., p. 77. ↩︎

  54. Questa conclusione ci pare ancor più radicale della wittgensteiniana informulabilità dell’etica («l’etica non può formularsi», Tractatus logico-philosophicus, <6. 421>), essa segna la sconfitta stessa di una possibile normatività e/o prescrittività morale adeguata a questa nostra contemporaneità ovvero al tempo in cui il deserto del nichilismo continua a crescere e ad essere l’ospite più inquietante↩︎

  55. Cfr. M. Heidegger, La svolta, trad. it. M. Ferraris, Il melangolo, Genova 1990, p. 15. ↩︎

  56. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 45. ↩︎

  57. È nel secolo XIX che il parlare di valori diviene corrente e il pensare per valori abituale. Il valore e ciò che ha valore divengono il surrogato del metafisico. cfr. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche, in Sentieri interrotti, op. cit. «Il pensiero che si pronuncia contro i “valori” non sostiene che tutto ciò che viene dichiarato come “valore”, la “cultura”, l’“arte”, la “scienza”, la “dignità umana”, il “mondo” e “Dio”, siano senza valore. […] quando si caratterizza qualcosa come “valore”, ciò che è cosi valutato viene privato della sua dignità», M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 82. ↩︎

  58. Ivi, p. 73. ↩︎

  59. «Questa chiamata avviene con il getto (Wurf) da cui scaturisce l’esser-gettato dell’esser-ci», ibidem. ↩︎

  60. Ivi, p. 74. ↩︎

  61. Ivi, p. 57. ↩︎

  62. Cfr. M. Heidegger, La svolta, op. cit., p. 17. ↩︎

  63. Ivi, p. 19. ↩︎

  64. Per una lettura di questo tipo del senso della Svolta, cfr.: U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1988. Il Ferraris afferma: «I maggiori commentatori heideggeriani, da Pöggeler a Werner Marx, da Vattimo a Gadamer, concordano nel segnalare il senso della svolta proprio nell’imporsi dell’idea di verità come non nascondimento», cfr.: M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in M. Hiedegger, La svolta, op. cit., p. 55. ↩︎

  65. M. Heidegger, La Svolta, op. cit., p. 23. ↩︎

  66. Il Volpi sostiene che «Heidegger abbia sempre privileggiato i problemi dell’ontologia a quelli della filosofia pratica e si è coerentemente concentrato sull’unica questione che ha rivendicato come propria: quella dell’essere», cfr. L’etica rimossa di Heidegger, op. cit., p. 140. ↩︎

  67. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 52. ↩︎

  68. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., cfr. par. 31 e 32. ↩︎

  69. Essenzialmente tre i problemi fondamentali al centro di Essere e Tempo: I) La condizione ontologica dell’Esserci, II) Il problema della verità come apertura e scoperta di senso, III) La temporalità originaria come costituzione dell’esistenza nel suo poter- essere. ↩︎

  70. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 211. ↩︎

  71. «Una grande ontologia che, nondimeno, nella stessa movenza argomentativa, si dispiega come una grande etica»; P. Ricœur, Il problema etico in Essere e tempo, op. cit., p. 62. ↩︎

  72. J.-Fr. Courtine sostiene che in Essere e tempo vi sia una «ripresa secolarizzante di categorie etico/religiose» tipiche della tradizione teologica (Lutero, Pascal e sopratutto Kierkegaard), cfr. La voce (estranea) dell’amico. Richiamo e/o dialogo, in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit., p. 118. ↩︎

  73. P. Ricœur, op. cit., p. 50. ↩︎

  74. Il Nancy è convinto che la svolta in fondo corrisponda ad una accentuazione e ad un aggravarsi del motivo etico; cfr. L’etica originaria di Heidegger, op. cit., p. 8. ↩︎

  75. La domanda del Brief è per il Vitiello il segnale della distanza che separa Heidegger dai suoi contemporanei, anche quelli a lui più vicini; in Essere e tempo «non aveva fatto altro che scrivere un’etica», un’etica particolare; cfr. V. Vitiello, Heidegger e la morale kantiana, in P. Di Giovanni (a cura di), op. cit., p. 273. ↩︎

  76. M. Heidegger, Lettera a Sartre del 28 ottobre del 1945; pubblicata assieme (in appendice) alla Lettera sull’umanismo nella edizione cit., p. 109. ↩︎

  77. H. G. Gadamer, Maestri e compagni, Queriana, 1980, p. 176. ↩︎

  78. M. Heidegger, Lettura sull’umanismo, op. cit., p. 76. ↩︎

  79. M. Heidegger, Lettera a J. Beaufret del 23/11/1945; pubblicata in app. alla Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 108. ↩︎

  80. Per una dettagliata esposizione di queste nuove basi testuali cfr. F. Volpi, L’etica rimossa di Heidegger, op. cit., pp. 141-143. ↩︎

  81. In questi corsi, tra l’altro, egli svilupperà una interpretazione fenomenologica di Aristotele: cfr. il corso del semestre invernale del 1921-22 (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, trad. it. M. De Carolis, Guida, Napoli 1990). ↩︎

  82. Importante il corso invernale del 1924-25 sul Sofista di Platone (ivi contenuta una interpretazione del VI libro dell’Etica Nicomachea). ↩︎

  83. Le tappe teoretiche che portano a Essere e tempo sono per U. Regina cosi distinguibili: I) individuazione (1919) del “mondificare” come coinvolgimento dell’uomo con la totalità del significare; II) la scoperta (1920-21) del nesso tra tempo “cairologico” e “effettività dell’esistenza”; III) la semantizzazione del senso dell’essere (1921-22) e impredicabilità del senso dell’essere a prescindere dalla temporalità; IV) la morte come proposta di autenticità; V) la verità come “dis-velamento” (1924-25: sul Sofista); cfr. U. Regina, La virtù della verità, in Con-tratto, nn. 1-2, 1993. ↩︎

  84. Il Volpi rintraccia una insufficienza della prospettiva husserliana della soggettività trascendentale (e del suo conseguente privileggiamento di atti di tipo teoretico) verso i problemi che la fenomenologia aveva sollevato: da qui Heidegger giungerebbe ad assegnare alla prassi una funzione fondatrice. Cfr. L’etica rimossa di Heidegger. op. cit., p. 145. ↩︎

  85. A tal proposito il Boeder nel suo Agire e/o dimorare, sostiene che l’interesse di Heidegger nella ripresa di Aristotele sia solo questo e che lo specifico manchi ovvero la tematizzazione del “ bene umano”. Cfr. op. cit., p. 133. ↩︎

  86. Cfr. Aristotele, Politica, I, 4, 1254 a 7. ↩︎

  87. Cfr., F. Volpi, L’etica rimossa di H., op. cit., p. 147. ↩︎

  88. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p 35. ↩︎

  89. L’ontologizzazione della Poiesis e della Theoria segna la loro rispettiva corrispondenza con la Zuhandenheit (essere utilizzabile e disponibile) e la Vorhandenheit (la semplice presenza). Esse indicherebbero nella lettura del Volpi modi dell’essente a seconda che il Dasein si disponga nei suoi confronti in maniera osservativa oppure produttiva manipolante. ↩︎

  90. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 590. ↩︎

  91. Cfr.: J. Fr. Courtine, op. cit., pp. 102-103. Per Ruggiu Heidegger riprende Aristotele mediato da Kant: in Kant la soggettività trascendentale esclude la politica e la Koinonia. Cfr.: Praxis e poiesis. una questione ancora aperta in Heidegger, in P. Di giovanni (a cura di), op. cit., p. 226. ↩︎

  92. È questa la critica mossa dal Ruggenini in Comprensione, linguaggio, prassi. . ., op. cit. p. 176. ↩︎

  93. Luigi Ruggiu ha espostoto tale convinzione nel suo Praxis e poiesis., op. cit. Egli afferma che non vi è nessuna autonomia della praxis, come richiesto dalla impostazione aristotelica: essa non ha un suo oggetto altro rispetto da quello della theoria o da quello della poiesis. Si dovrebbe piuttosto parlare di poiesis trascendentale. pp. 214-215. ↩︎

  94. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 343. ↩︎

  95. Questa lettura della libertà in Essere e tempo è sostenuita da V. Vitiello, Heidegger e la morale kantiana, op. cit., p. 297. ↩︎

  96. Il Ruggenini concorda con questa lettura, muovendosi verso una fondazione pratico-esistenziale della questione ispiratrice delle analisi di Essere e tempo e leggendo il «progetto del mondo come prassi originaria». Cfr. M. Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete inattuale dell’epoca presente, Bulzoni, Roma 1978, P. I, cap. II. ↩︎

  97. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., p. 183. ↩︎

  98. Ivi, p. 22. ↩︎

  99. Ivi, p. 23. ↩︎

  100. Ivi, p. 58. ↩︎

  101. Ivi, p. 64. ↩︎

  102. Ivi, p. 65. ↩︎

  103. Posizione espressa dal Ricœur, op. cit., p. 53. ↩︎

  104. Paragr. 25 di Essere e tempo↩︎

  105. Ivi, p. 149. ↩︎

  106. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit. p. 59. ↩︎

  107. Una delle voci più autorevoli in campo etico, quella di E. Lévinas: ha sostenuto fermamente l’incompatibilità tra etica e ontologia: l’ontologia heideggeriana sarebbe incapace di comprendere la portata etica della relazione con l’altro (tendenza che per Lévinas si aggraverà ancor più con la svolta). Lévinas con fermezza non accetta una filosofia del Neutro e dell’impersonale. ↩︎

  108. P. Ricœur, op. cit., p. 53. ↩︎

  109. Ivi, pp. 51-52. ↩︎

  110. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 59. ↩︎

  111. Ivi, p. 88. ↩︎

  112. Il Nancy è convinto che «il pensiero di Heidegger si è concepito, interamente, come un’etica fondamentale», in modo che «l’ontologia è fin dall’inizio condotta del senso». «Il fatto d’essere del Dasein ha come tale la struttura del fare senso o dell’agire». «Ciò che l’uomo è, in quanto ha da agire, non è un aspetto particolare del suo essere, ma è il suo essere stesso». Cfr. «L’etica originaria» di Heidegger, op. cit., pp. 9, 15, 19, 10. ↩︎

  113. H. Boeder è convinto che in questo passaggio una possibile filosofia pratica risulti congedata per sempre. Cfr. H. Boeder, op. cit., p. 127. ↩︎

  114. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 56. ↩︎

  115. Ivi, p. 46 e 48. ↩︎

  116. Ivi, p. 56. ↩︎

  117. Ivi, p. 90. ↩︎

  118. Ivi, pp. 31-32. ↩︎

  119. M. Heidegger, La svolta, op. cit., p. 15. ↩︎

  120. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 32. i. ↩︎

  121. Ibidem. ↩︎

  122. Ivi, p. 93. ↩︎

  123. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, p. 61. ↩︎

  124. Ivi, p. 31. ↩︎

  125. Ivi, p. 32. ↩︎

  126. Ivi, p. 33. ↩︎

  127. Per Galimberti, Heidegger ha modificato in modo sostanziale la nozione di pensiero rispetto a tutta la tradizione della logica tradizionale; «si tratta di un pensiero che rovescia le prescrizioni della logica […], essa ha sviluppato solo un pensiero «prensile» e perciò concettuale». Cfr. Invito al pensiero di Heidegger, op. cit., p. 130-131. ↩︎

  128. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 35. ↩︎

  129. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , Sugarco, Milano 1971, vol. I, p. 98. ↩︎

  130. Ivi, p. 73. ↩︎

  131. Ivi, p. 136. ↩︎

  132. Ivi, p. 137. ↩︎

  133. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, p. 88. ↩︎

  134. Ibidem. ↩︎

  135. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. I, p. 113. ↩︎

  136. Ibidem. ↩︎

  137. Ivi, p. 125. ↩︎

  138. Ivi, p. 63. ↩︎

  139. Ivi, p. 56. ↩︎

  140. Il Galimberti, nel rileggere la prospettiva che Heidegger ha della storia della filosofia, sostiene che, nell’instaurarsi di un punto di vista solamente umano ogni filosofia, e più in generale ogni espressione culturale dell’occidente, diviene antropologia; cfr. U. Galimberti, op. cit., p. 67. ↩︎

  141. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. I, op. cit., p. 84. Compare una delle convinzioni più discusse dello Heidegger maturo, quella della dipendenza dell’uomo e della sua storia dall’evento destinale dell’essere: «il destino dell’essere rimane in sé la storia essenziale dell’uomo occidentale, nella misura in cui l’uomo storico viene fruito nell’edificante abitare la radura dell’essere. In quanto sottrazione destinale, l’essere è già in sé riferimento all’essenza dell’uomo». Egli sottolineerà come non bisogna cadere nell’errore di umanizzare l’essere (attraverso una sua oggettificante considerazione); infatti è l’essenza dell’uomo che in virtù di questo riferimento si trova nel proprio abitare fondamentale ovvero nella località dell’essere: Cfr. M. Hidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 160. ↩︎

  142. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 144-145. ↩︎

  143. G. Vattimo ha affermato che tutto il pensiero heideggeriano si muove tra questi tre grandi poli emblematici: I) la gettatezza storica del progetto e la temporalità dell’essere; II) il significato del pensare; III) la concezione del linguaggio come «casa dell’essere». Cfr. introduzione a Che cosa significa pensare?, in vol. I, op. cit., p. 11. ↩︎

  144. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 134. ↩︎

  145. Ivi, p. 145. ↩︎

  146. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , op. cit., vol. I, p. 53. ↩︎

  147. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 35. ↩︎

  148. Per il Crescini il significato profondo della svolta va ricercato nel fatto che l’uomo, secondo l’analitica del Dasein, progettava se stesso, adesso viene progettato dall’essere, «la temporalità dell’esserci si allarga allora a una temporalità più vasta, quella dell’essere stesso». Cfr. Umanesimo e scienza nell’era atomica, op. cit., p. 40. ↩︎

  149. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, op. cit., vol. II, p. 134. ↩︎

  150. Ibidem. ↩︎

  151. Ivi, p. 35. ↩︎

  152. Ivi, p. 110. ↩︎

  153. Il motivo dell’ascolto assume, per il Volpi, grande rilevanza nell’’ultimo’ Heidegger «in funzione dello sforzo che egli compie per mettere a fuoco la peculiarità di quel pensiero che non intende più praticare le forme, i generi e le tecniche della filosofia tradizionale, ma intende piuttosto sperimentare vie alternative per arrivare ad ‘avvertire’ e a ‘sentire’ ciò che alla metafisica rimane precluso». Cfr. F. Volpi, Nota a Il principio di ragione, op. cit., p. 230. ↩︎

  154. Ivi, p. 45. ↩︎

  155. Heidegger più volte sottolineerà l’etimo di Ereignis ovvero ‘eigen’ (proprio): esso immediatamente rinvia ad una relazionalità fondata su una reciproca appropriazione. Va evitata ogni significazione comune di ‘evento’, non è semplicemente identificabile con accadimento o avvenimento. ↩︎

  156. Secondo il Crescini, «il compito fondamentale di un’autentica filosofia rimane per Heidegger quello di superare la contrapposizione soggetto/oggetto in cui si muove tutta la filosofia moderna». Cfr. op. cit., p. 42. ↩︎

  157. M. Heidegger, La questione dell’essere, op. cit., p 141. ↩︎

  158. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? , vol. I, op. cit., p. 38. ↩︎

  159. Ivi, p. 40. ↩︎

  160. Ivi, p. 42. ↩︎

  161. Ivi, p. 38. ↩︎

  162. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. II, op. cit., p. 132. Heidegger nelle pagine iniziali del II volume di Che cosa significa pensare? dirà che la domanda ivi posta ha quattro fondamentali modi per essere svolta, chiedendosi ulteriormente: a) cosa significa il termine pensiero? ; b) quali sono le forme tradizionali del pensiero? ; c) quali requisiti occorrono per poter pensare? ; d) che cosa ci chiama ad entrare nel pensiero? . L’ultima domanda è quella essenziale essa dona la tonalità per la lettura delle precedenti. ↩︎

  163. M. Heidegger, Che cosa significa pensare, vol. II, op. cit., p. 120. ↩︎

  164. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 147. ↩︎

  165. M. Heidegger, Che significa pensare, vol. II, op. cit., p. 20. ↩︎

  166. Cfr. Ibidem, pp. 27-36. ↩︎

  167. M . Heidegger, Che cosa significa pensare, op. cit., p. 30. Il volgere attenzione all’ingiunzione dell’essere è fondamentalmente ringraziamento (Danken); la memoria (An-Denken) è il raccogliersi dell’anima secondo la verità dell’essere. ↩︎

  168. Ivi, p. 31. ↩︎

  169. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 47. ↩︎

  170. Ivi, p. 189. ↩︎

  171. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 93. ↩︎

  172. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, op. cit., p. 94. ↩︎

  173. M. Heidegger, Il principio di ragione, op. cit., p. 47. ↩︎

  174. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, op. cit., p. 97. ↩︎

  175. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 134. ↩︎

  176. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. G. Vattimo, Mursia, Milano 1980, p. 17-18. ↩︎

  177. M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1992, p. 19. Il Mazzarella solleva, a tal proposito, il problema di una possibile lettura della speculazione heideggeriana sulla tecnica come disimpegno dalla storia e dalla comune esperienza mascherato da un impegno più profondo del pensiero. Cfr. Metafisica e tecnica, Guida, Napoli 1987, p. 226. ↩︎

  178. M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 5. ↩︎

  179. Ibidem, p. 9. ↩︎

  180. Ibidem. ↩︎

  181. Ivi, p. 10. ↩︎

  182. Ibidem. ↩︎

  183. Ibidem. ↩︎

  184. Ivi, p. 11. ↩︎

  185. Ivi, p. 12. ↩︎

  186. Ibidem. ↩︎

  187. Ivi, p. 13. ↩︎

  188. Ivi, p. 14. ↩︎

  189. Ivi, p. 18. ↩︎

  190. Ivi, p. 19. ↩︎

  191. Il Nancy ha sostenuto che dopo Heidegger il tema della libertà non è stato tematicamente considerato almeno come argomento guida della filosofia (nel cammino heideggeriano si produce già tale cesura). «Questione fondamentale della filosofia, nella quale anche la questione dell’essere ha la sua radice». Lo stesso Heidegger avrebbe poco considerato il termine libertà, tanto che l’avrebbe impiegato senza articolarne una autentica e precisa nozione. Cfr.: J. -L. Nancy, Lo spazio lasciato libero da Heidegger, in Con-tratto, op. cit., pp. 99-114. ↩︎

  192. M. Heidegger, Segnavia, op. cit., p. 21. ↩︎

  193. M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 21. ↩︎

  194. Ibidem. ↩︎

  195. Ivi, p. 25. ↩︎

  196. Il Mazzarella ha sostenuto che se la Seinsfrage non ha prodotto un’etica articolata, ha però sicuramente delineato il suo nocciolo centrale e fondamentale proprio nel pensiero dell’essere. Cfr. Tecnica e metafisica, op. cit., p. 282. ↩︎

  197. M. Heidegger, Scienza e meditazione, in Saggi e discorsi, op. cit., p. 43. ↩︎

  198. M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, op. cit., p. 123. ↩︎

  199. Per una ricostruzione degli eventi degli anni dell’adesione al nazismo e dell’accettazione della carica di rettore all’universita di Friburgo, cfr. M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare e Il rettorato 1933/34↩︎

  200. Su alcuni dei saggi e degli interventi, cfr. nota 1. ↩︎

  201. M. Heidegger, Il rettorato 1933/34, Il Melango, Genova 1989, p. 35. ↩︎

  202. La traduzione con natura dei latini del termine arcaico phisis ne smarrisce, per Heidegger, il significato essenziale quello di essere: phisis è ciò che sboccia da se stesso indipendentemente dall’intervento della soggettività, l’essere è la presenza di ciò che appare, una presenza che si apre e sboccia da sé, una manifestazione entro l’ambito di ciò che è disvelato. ↩︎

  203. M. Heidegger, La questione della tecnica, op. cit., p. 13. ↩︎

  204. Propendiamo per motivazioni ideali o filosofiche e meno per una adesione velata dello Heidegger alla cosiddetta Rivoluzione conservatrice; lo storico E. Nolte sulla base di alcuni tratti del pensiero heideggeriano quali la critica alla civilizzazione mondiale, dell’americanismo e il silenzio rispetto agli orrori nazisti, è convinto che si possa annoverare Heidegger alla rivoluzione conservatrice. Cfr. Heidegger e la rivoluzione conservatrice, op. cit., p. 24. È condivisibile la convinzione che le simpatia naziste di Heidegger avessero una ispirazione filosofica anche se fondate su una interpretazione deviata del nazionalsocialismo. Cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario, Boringhieri. ↩︎

  205. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, op. cit., p. 146. ↩︎

  206. Sono espressioni di Heidegger pronunciate nel 1949 che comprensibilmente hanno fatto indignare gli studiosi e la società civile; fanno parte di una conferenza inedita del ciclo Einblick in das, was ist riportata da Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, Il Melangolo, Genova 1991, p. 52. ↩︎

  207. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, p. 136. ↩︎

  208. Ibidem. ↩︎

  209. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 849. ↩︎

  210. Ivi, p. 718. ↩︎

  211. Ivi, p. 719. ↩︎

  212. Ibidem. ↩︎

  213. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», in Saggi e discorsi, op. cit., p. 208. ↩︎

  214. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 38. ↩︎

  215. Ibidem. ↩︎

  216. Cfr., M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 563 . ↩︎

  217. Ivi, p. 568. ↩︎

  218. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio e Morto», op. cit., p. 218. ↩︎

  219. M. Heidegger, Nietzsche, op. cit., p. 609. ↩︎

  220. Ivi, p. 620. ↩︎

  221. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», op. cit., p. 206. ↩︎

  222. M. Heidegger, La questione dell’essere, op. cit., p. 162. ↩︎

  223. M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, op. cit., p. 31. ↩︎

  224. Ibidem. ↩︎

  225. Ibidem. ↩︎