Recensione a Wilfrid Sellars, Empirismo e filosofia della mente

Wilfrid Sellars, Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004.

Empiricism and the philosophy of mind (EPM), pubblicato per la prima volta nel 1956, è un lavoro centrale nell’itinerario teorico sellarsiano. E lo è, probabilmente, anche in relazione al pensiero contemporaneo nel suo complesso, perlomeno a quello analitico.1 La traduzione italiana — basata sull’edizione del 1997 per la Harvard University Press, con introduzione di Richard Rorty e una guida alla lettura di Robert Brandom — viene perciò a colmare, seppur con cinquant’anni di ritardo, un vuoto significativo nel nostro panorama culturale.2

Giustamente Rorty considera questo lungo articolo di Sellars — insieme alle Philosophical Investigations di Wittgenstein e a Two Dogmas of empiricism di Quine — all’origine di quel mutamento paradigmatico prodottosi nella filosofia analitica intorno agli anni ’50, ed in virtù del quale venne abbandonato, progressivamente, l’impianto neopositivistico.3 La filosofia analitica si concentra, in quegli anni, sul problema della conoscenza, ne mette a fuoco i termini, ne chiarisce i presupposti. Dalla conoscenza poi, da quella attività il cui carattere essenziale consiste nel «rispecchiamento» della struttura del mondo, l’attenzione si sposta, inevitabilmente e in modo del tutto naturale, sulla mente, cioè su quella che, ancora con Rorty, possiamo definire la nostra «essenza rispecchiante».4 Indagare sulla natura della conoscenza implicava infatti, come necessaria conseguenza, la messa in questione del mentale, il farsi carico del problema della mente.

In questa direzione spingeva altresì la comparsa sulla scena filosofica di quegli anni di un’opera che subito, sin dal suo primo apparire — era il 1949 — , sembrò destinata ad esercitare una fortissima influenza. L’opera in questione è The Concept of Mind, ed il suo autore, il filosofo inglese Gilbert Ryle, sviluppava in essa una originale e potente spiegazione comportamentistica del fenomeni mentali. Il lavoro di Ryle fu al centro di numerosi dibattiti. La sua polemica anticartesiana, l’espulsione dello «spettro» della mente dalla «macchina» del corpo sembrò incontrare il favore di molti. Non però di Wittgenstein, né tantomeno di Sellars. Entrambi pongono certamente Ryle come un referente primario, ma cercano di delineare, in polemica con lui, visioni alternative del mentale, lontane dal suo radicale, integrale e pervasivo comportamentismo. È in questo quadro, all’interno di questo «campo di forze» speculativo, che trae la sua origine (EPM).

L’articolo è suddiviso in sedici sezioni e, complessivamente, in sessantatré paragrafi. Si può però dire che, dal punto di vista tematico, esso consta essenzialmente di tre parti. La prima, che corrisponde alle sezioni I-VII (parr. 1- 31), è costituita da un’ampia rassegna del paradigma generale della datità, esaminato in ogni sua versione e, con una sofisticata tecnica argomentativa, di volta in volta respinto. Nella seconda (sezioni VIII-IX, parr. 32-44), che costituisce anche l’elemento di raccordo con la successiva, Sellars tratta il problema del fondamento della conoscenza empirica così come il tema, conseguente, del rapporto tra conoscenza ordinaria e conoscenza scientifica. Nella terza, infine (X-XVI, 45-63), affronta la questione della natura degli stati mentali e delle sensazioni.

In polemica con l’empirismo logico, e con quelle posizioni ad esso più o meno direttamente ispirate, Sellars intende mostrare che l’idea che possano esistere fondamenti della conoscenza sottratti alla dimensione linguistico-concettuale è un mito, propriamente il mito del Dato. Il ragionamento che sta alla base di questo mito, e che dunque è comune a tutte le sue forme, è articolato nel modo seguente. Perché la conoscenza sia qualcosa di consistente, e non un mero gioco dell’intelletto, è necessario un chiaro ancoraggio di essa alla dimensione empirica. La conoscenza deve essere basata su fondamenti empirici i quali, per essere dei fondamenti, per poterne svolgere il ruolo, debbono a loro volta essere sganciati da qualsiasi operazione dell’intelletto, da qualsiasi atto linguistico-concettuale. Solo se il fondamento non ha alcuna connessione con la sfera concettuale può costituire una base per la conoscenza che, in caso contrario, privata di una base empirica, diventa un esercizio puramente autoreferenziale, senza alcun aggancio con il mondo. La replica di Sellars è incentrata principalmente nel mostrare che l’empirista, o il teorico del dato in generale, si trova avviluppato in un insormontabile dilemma, senza peraltro avvedersene. Cosa sostiene infatti? Egli afferma che:

  1. esiste una classe di fatti basilari; essi hanno
  2. natura non linguistica; inoltre, e soprattutto, svolgono il ruolo di
  3. elementi giustificatori della conoscenza

Sellars mostra abilmente che le condizioni b) e c) sono tra loro incompatibili. Il teorico del dato ha l’esigenza — giusta — di disporre di fatti basilari in grado di offrire una giustificazione per la conoscenza, ma non s’avvede che assegnando a tali fatti una natura non linguistica ed extraconcettuale essi non sono poi in grado di svolgere proprio quel ruolo che invece sono chiamati a svolgere. I fatti, in realtà, giocano e possono giocare il ruolo di base per la conoscenza, dice Sellars, solo perché già sin dal loro costituirsi si danno all’interno di una ben precisa configurazione linguistica e concettuale. Essi sono il termine primo di una catena inferenziale, e la loro funzione logica è quella di fornire supporti di conferma o smentita alle elaborazioni e agli sviluppi conoscitivi dell’intelletto. Se concepiamo — come vorrebbero i teorici del dato — i fatti basilari in forma extraconcettuale allora ne discende che essi, proprio perché stanno al di fuori della catena inferenziale, non possono avere la funzione logica di elementi giustificatori. La conclusione è che il dato, se è non linguistico sin dall’origine, non può giustificare la conoscenza e, viceversa, se vale come elemento base, non può che essere di natura linguistica. L’empirista, se vuole mantenere un posizione coerente, si vede così costretto a riformulare la sua triade in modo da eliminare l’incompatibilità tra b) e c). Se tiene b) deve rinunciare a c), se invece non rinuncia a c) allora deve eliminare b).

Strettamente connesso all’attacco contro il mito del Dato è il tema del fondamento della conoscenza scientifica così come di quella ordinaria e, di conseguenza, quello del loro reciproco rapporto. Sul fondamento s’è già detto. Esso, per poter avere il ruolo inferenziale che, di fatto, ha, deve essere concepito necessariamente, sin dall’inizio, come elemento linguisticizzato. (Questa è, per inciso, l’essenza del «nominalismo psicologico» di Sellars). Il rapporto tra conoscenza ordinaria e conoscenza scientifica è invece più complesso. Sellars, in (EPM), lo tratta in modo veloce, senza sviluppare tutti i possibili nessi. E tuttavia, nessuno dei tratti essenziali rimane fuori dalla trattazione. Il tema del rapporto tra conoscenza ordinaria e conoscenza scientifica è fondamentale (Sellars lo svilupperà ampiamente in un altro tra i suoi lavori più celebri, Philosophy and scientific image of man), ed era oltretutto, all’epoca, molto dibattuto. Per tramite di esso inoltre si giunge a quello, più generale, ed altrettanto cruciale, del rapporto tra filosofia e scienza. La posizione di Sellars è molto chiara. Nonostante le vistose distorsioni interpretative che, ancora oggi, tendono a rappresentarla come una forma di realismo scientifico forte, o al limite persino di naturalismo, accostabile dunque a quello di Quine, di essa invece si può e deve dire che consiste in una rigorosa teorizzazione della differenza di livello logico tra conoscere ordinario e conoscere scientifico, così come, di conseguenza, tra scienza e filosofia. Sulla base di questo presupposto, è chiaro che la conoscenza scientifica non può destituire di fondamento quella del senso comune: gli oggetti continueranno ad essere colorati, benché non lo siano dal punto di vista della fisica particellare. Analogamente, i concetti filosofici manterranno tutta la loro integrità nonostante, da una prospettiva scientifica, la loro esistenza potrebbe apparire fortemente minacciata. Sellars riafferma il ruolo tradizionale della filosofia come discorso generale sull’uomo e sul mondo, che sta al di sopra — logicamente al di sopra — tanto del senso comune quanto della scienza. D’altro canto, e non è nemmeno questo un caso, stigmatizza, con leggera ironia, la tendenza allo specialismo in filosofia, all’assunzione cioè, da parte della filosofia, di quei tratti che sono caratteristici del sapere scientifico.5

Nella terza parte di (EPM) si entra nel merito della natura dei cosiddetti «episodi interiori». Vale a dire, i pensieri e le sensazioni. Sellars sviluppa la sua argomentazione mediante un racconto di fantascienza antropologica, il Mito di Jones. Immagina una comunità di individui, gli antenati ryleani. Costoro, così come già lascia intuire la loro qualificazione essenziale — il fatto di essere «ryleani» — sono del tutto privi del vocabolario cartesiano degli stati mentali: utilizzano rigorosamente solo termini comportamentistici, che descrivono movimenti di corpi in un dato spazio e in un dato tempo. L’ingegnosa costruzione narrativa serve a mostrare come questi antenati, per poter essere in grado di parlare di sensazioni, pensieri e stati mentali, hanno bisogno di acquisire un linguaggio in cui agli «episodi interiori» (pensieri e sensazioni) venga assegnato un ben definito ruolo espressivo. Un linguaggio, si badi, che non può derivare, cartesianamente, dall’osservazione introspettiva e solipsistica di sé, da un atto conoscitivo, per così dire, interno, interamente soggettivo e, come dice Sellars, autovalidantesi. Piuttosto, i termini di questo nuovo vocabolario hanno la medesima natura delle entità teoriche delle teorie scientifiche e, allo stesso modo di queste, sono preliminari — necessariamente preliminari — rispetto all’osservazione. È perché si possiede il concetto di elettrone che si può osservare l’elettrone; è perché si possiede il concetto di introspezione che ci può essere l’atto dell’introspezione. E i concetti non sono un possesso innato, ma piuttosto qualcosa che si apprende. Il vocabolario mentalistico — questa è la morale conclusiva di Sellars — non è meno pubblico ed intersoggettivo di quello che ci parla degli oggetti del mondo, che usiamo per descrivere tutto ciò che si dà esternamente alla nostra prospettiva visuale.


  1. Si veda a riguardo anche il giudizio espresso da Tyler Burge in Linguaggio e mente, De Ferrari, Genova, 2005. Burge definisce (EPM) «l’articolo più influente della filosofia della mente empirista». (p. 49 ) Burge è tuttavia, insieme a Brandom, Dennett, Rorty e Marconi, tra i pochi ad assegnare a Sellars un ruolo centrale nel panorama filosofico contemporaneo. Per lo più, invece, si tende a disconoscerne l’importanza, o perlomeno a sottostimarla. ↩︎

  2. Una prima traduzione era apparsa, per la verità, nel 1990, ad opera di Giorgia Primavera (cfr. «Iride», n. 4-5, 1990, pp. 159-222) Si tratta di un lavoro ormai difficilmente reperibile, oltretutto non privo di qualche inesattezza. La traduzione di Elisabetta Sacchi per i tipi Einaudi è, in genere, affidabile. Tranne in alcuni passi. ↩︎

  3. R. Rorty, Introduzione a W. Sellars, Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino, 2004, p. VII. ↩︎

  4. Cfr. R. Rorty Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Princeton University Press, 1979 (tr. it. La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1986). ↩︎

  5. Cfr. W. Sellars, Empirismo e filosofia della mente, cit., pp. 56-57. ↩︎