Immagini della TV. Breve analisi della comunicazione televisiva

1. Introduzione

La crescente sofisticazione dei processi comunicativi e, d’altra parte, la loro estesa capillarizzazione — fenomeni, questi, entrambi attribuibili agli sviluppi tecnologici — hanno creato una situazione che, considerata in modo ottimistico, potrebbe apparire quasi ideale. Ma si tratta di un’apparenza ingannevole. La comunicazione è, lo sappiamo, la cifra simbolica della modernità. L’innovazione tecnologica negli ultimi anni ne ha accresciuto in forma esponenziale le potenzialità, al di là di ogni aspettativa. In tutto questo, naturalmente, nulla di negativo. Comunicare, lo dice la parola, vuol dire «mettere in comune», «condividere con altri» qualcosa; «partecipare insieme ad altri» al godimento di un bene. Nella fattispecie, il bene che qui ci interessa è l’informazione o, più generalmente, il sapere. Ma il punto critico che intendiamo evidenziare sta proprio qui. L’etimologia ci ha aiutato a chiarire che nella comunicazione sono in gioco due elementi: la comunicazione stessa, intesa come processo e l’oggetto della comunicazione, cioè il contenuto. Il problema principale con cui nella situazione attuale ci troviamo a fare i conti consiste nello sviluppo unilaterale della comunicazione come processo, a fronte di una stagnazione dell’oggetto. Lo sviluppo tecnologico incrementa cospicuamente il potenziale sistemico della comunicazione, ma tutto questo avviene senza alcun riguardo per i contenuti. Il rischio che deriva da questa singolare distorsione evolutiva è quello di trovarsi in una situazione in cui si comunica tanto senza scambiarsi nulla (o quasi). Questa descrizione generale si attaglia molto bene alla comunicazione televisiva. La TV, negli ultimi decenni, ha conosciuto uno sviluppo tecnologico sorprendente, ed è tuttora al centro di un processo di radicale rinnovamento (l’introduzione generalizzata del segnale digitale). A queste importanti trasformazioni sul piano tecnico non sembra però corrispondere un’altrettanto significativa evoluzione dei contenuti. La TV, per dirla con Habermas, è «culturalmente regressiva». Essa privilegia, tendenzialmente, la comunicazione vuota. Ma — qualcuno dirà — la TV non ha forse i suoi contenuti? Certo. Ma si tratta per lo più — rispondiamo — di contenuti senza contenuto. Questo determina, come si vedrà, conseguenze alquanto preoccupanti sul piano sociale e politico. Scopo di questo lavoro è quello di analizzare questi effetti negativi, partendo dalle cause che li producono. Il punto di vista che abbiamo adottato ci porterà inevitabilmente a disegnare un quadro che potrà forse apparire troppo fosco. È opportuno sottolineare allora che il nostro non è un discorso di retroguardia, né tantomeno apocalittico. Non disconosciamo il valore educativo ed emancipativo del mezzo televisivo. Ci interessa piuttosto analizzare i problemi che esso determina nella società contemporanea. Capire i problemi è, infatti, preparare la via alla loro soluzione.

2. Un messaggio senza codice

La comprensione di un messaggio presuppone due condizioni fondamentali:

  • a) conoscenza del significato delle parole o dei concetti utilizzati;
  • b) conoscenza del contesto di riferimento.

Queste due condizioni sono sempre intrecciate fra di loro cosicché nella determinazione del senso generale di un qualsiasi enunciato dobbiamo sempre riferirci all’una e all’altra, contemporaneamente.1 Per comprendere il senso di un enunciato non basta conoscere il significato delle parole ma bisogna pure avere cognizione del contesto di riferimento. Le condizioni a) e b) costituiscono quello che potremmo chiamare il codice interpretativo di un enunciato. Un messaggio di cui l’interprete sconosca una delle due condizioni sopra descritte è un messaggio senza codice, quindi indecifrabile. Il sociologo francese Raymond Boudon2 propone un significativo esempio di conversazione ordinaria che ci permette di mettere alla prova i principi che abbiamo appena affermato.

Immaginiamo di dover ascoltare il seguente dialogo tra due persone, chiamiamole A e B:

A: Ho un figlio di quattordici anni.

B: Benissimo.

A: Ho anche un cane.

B: Quanto mi dispiace!

È abbastanza evidente che pur avendo capito il significato delle parole utilizzate (la condizione a) ci sfugge il senso generale del dialogo. Il fatto è che il dialogo è decontestualizzato, manca cioè la specificazione del contesto di riferimento, che come dimostra appunto questo esempio è determinante per la comprensione del senso. Se ci viene reso noto il contesto (in questo caso pragmatico) di riferimento allora il senso si chiarisce immediatamente. A deve affittare un appartamento da B il quale accetta che il suo futuro locatario abbia un figlio ma non gli riesce di accettare che abbia anche un cane. Solo adesso possiamo capire perché nel primo caso B abbia risposto «Benissimo», e nel secondo «Quanto mi dispiace!». Nella comunicazione televisiva si verificano con elevata frequenza incomunicabilità di tal genere, dovute cioè alla mancata specificazione del contesto. Una completa decontestualizzazione del messaggio nell’ambito della comunicazione televisiva possiamo riscontrarla per esempio nei telegiornali. All’interno di una fascia oraria di circa trenta minuti si susseguono ad un ritmo incalzante le notizie del giorno. La velocità di trasmissione delle notizie non permette allo spettatore di capirne il senso. Infatti l’esigua quantità di tempo dedicato alla singola notizia (circa tre minuti) ne impedisce la corretta contestualizzazione. Ogni notizia, specialmente se di carattere politico-economico, presuppone una conoscenza di sfondo, un precedente supporto di informazione che non sempre lo spettatore ha. Consideriamo un esempio concreto. Un telegiornale ci informa di un progetto di riforma in materia di giustizia, ad esempio la separazione delle carriere dei magistrati, secondo lo schema consolidato (che rappresenta ormai un modello standard per tutti i telegiornali): una brevissima nota informativa del conduttore sul tema in questione e subito dopo parte la girandola di interviste ai politici che, in un tempo molto esiguo, sono costretti a lanciare slogan piuttosto che a formulare argomentazioni. Poi con rapidità si passa alle notizie successive. È chiaro che uno spettatore che non abbia la necessaria informazione su cosa sia la separazione delle carriere dei magistrati e, ancor prima, sulla distinzione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, difficilmente potrà interpretare la notizia collocandola nel suo adeguato contesto. Questa situazione produce due conseguenze estremamente negative:

  1. lo spettatore è regolarmente disinformato;
  2. la televisione, nella fattispecie, i telegiornali, rischiano di girare a vuoto, in un circuito totalmente autoreferenziale.

La prova di quanto andiamo dicendo ce la fornisce un’inchiesta effettuata da Maria Teresa Siniscalco,3 ricercatrice in Pedagogia sperimentale e collaboratrice dell’Unesco a Parigi. L’inchiesta riguarda soprattutto il mondo giovanile, in particolare i ragazzi di età compresa tra 13 e 17 anni. Per circa quattro anni sono stati intervistati giovani e adolescenti delle scuole romane su questioni riguardanti l’attualità, per valutare l’impatto dell’informazione televisiva. Le conclusioni che sono scaturite non sono molto incoraggianti: sulle notizie diffuse dai telegiornali il 45% dei tredicenni intervistati dimostra di non aver compreso il cuore della notizia; lo stesso dicasi per il 50% dei diciassettenni. I ragazzi dimostrano di aver colto solo aspetti marginali e per di più in modo confuso. Ad esempio interrogati su un servizio sulle Olimpiadi dei disabili alcuni rispondono di aver capito che lo sport fa bene ai disabili; altri hanno pensato che la notizia fosse il gol fatto da un disabile durante una partita di calcio; c’è chi ha afferrato soltanto la presenza alle Olimpiadi di Jovanotti e Morandi. Solo pochi hanno colto il senso e l’attualità dell’evento, l’importante conquista sociale che la manifestazione rappresentava. Questo dimostra, sostiene la studiosa, che i ragazzi non hanno gli strumenti per poter cogliere le informazioni essenziali, non utilizzano il legame con l’attualità come criterio interpretativo; sono privi cioè di quelle informazioni contestuali necessarie per comprendere la notizia. Se poi aggiungiamo la crescente spettacolarizzazione dei telegiornali che, al pari di tutti gli altri programmi televisivi, inseguono l’Auditel, allora il quadro diventa ancora più negativo. Le notizie vengono sovente enfatizzate, si cerca l’effetto emotivo, si cerca a tutti i costi di far alzare gli indici d’ascolto. Il tutto, naturalmente, va a detrimento della corretta informazione. Questa situazione negli anni passati aveva prodotto una disaffezione del pubblico nei confronti dei telegiornali.

Uno studio condotto da Gianfranco Marrone, semiologo dell’Università di Palermo,4 metteva in luce la crisi che colpiva i Tg. Ecco alcuni dati. Il Tg1 nel mese di gennaio ’98 perdeva 1 200 000 spettatori, il Tg2 300 000, il Tg3 460 000, le edizioni regionali 816 000, il Tg4 345 000, Studio Aperto 210 000. Solo il Tg5 guadagnava il 7%. Ciò, secondo Marrone, era dovuto ad una «crisi di credibilità»: i Tg avevano infranto il patto di fiducia con gli spettatori. Certo l’andamento della curva Auditel dei telegiornali conosce spesso dei picchi improvvisi dovuti per lo più al verificarsi di eventi eccezionali. Dopo i fatti dell’11 settembre news e telegiornali hanno avuto un rialzo di ascolti del 300%, come afferma Walter Pancini, direttore generale dell’Auditel.5 Tuttavia, una volta che si supererà la fase di tensione emotiva determinata dalla gravità dell’evento — continua Pancini — la curva dei Tg si abbasserà, mentre tenderà ad aumentare quella dell’intrattenimento. Come a dire che, in situazioni normali, il pubblico preferisce lo spettacolo all’informazione. E, probabilmente, è per questo motivo che l’informazione si spettacolarizza, che tende ad assumere semiologicamente i caratteri dell’intrattenimento. L’informazione cioè, per catturare il pubblico, diventa spettacolo. Osservando la struttura dei Tg si può notare che sono ormai diventati «un film a lieto fine», pieni di notizie rosa e di inutili curiosità spacciate per fatti di costume, non fanno più vera informazione: sono dei produttori in serie di messaggi senza codice.

3. Globalizzazione dell’immagine e perdita del logos

Abbiamo visto come la velocità del flusso di informazioni molto spesso produca messaggi ininterpretabili. Ma ciò che complica ulteriormente le cose è un altro fattore ben più radicale e decisivo: il primato dell’immagine. Possiamo affermare senza timore di smentita che l’avvento dello schermo televisivo ha inaugurato un nuovo orizzonte culturale, una nuova Weltanschaung in cui l’immagine domina incontrastata. L’evoluzione della televisione ha visto crescere sempre più il peso dell’immagine a scapito della comunicazione scritta. L’immagine, che avrebbe dovuto fornire un sussidio al messaggio, ai contenuti, è divenuta l’oggetto primario della comunicazione, è divenuta essa stessa messaggio. Il contenuto esplicativo invece, si è praticamente ridotto ad un dettaglio ininfluente. La cosa singolare è che le immagini si richiamano a vicenda in un circolo semantico autoreferenziale: la TV fornisce immagini alla stampa; la stampa a sua volta (si pensi ai giornali rosa) fornisce immagini-scandalo alla TV (il politico in relax, l’attore famoso colto in un momento di intimità ecc.). Assistiamo ad un fenomeno che si può definire la globalizzazione dell’immagine. L’immagine è tutto ed è ovunque. Lo scrittore Kundera ha parlato di «imagologia»: l’immagine ha sostituito l’ideologia diventando essa stessa ideologia. Il nostro spazio mentale è dominato da un vasto e variegato repertorio di immagini, tra cui spiccano sicuramente i fantasiosi logo dei prodotti commerciali. I grandi artisti della pop art videro bene questa situazione quando, imprimendo una svolta rivoluzionaria al linguaggio figurativo, iniziarono a rappresentare gli oggetti della società di massa. Certo poteva allora apparire scandaloso il fatto che l’arte abbandonasse il suo terreno abituale per aprire le porte agli oggetti della società dei consumi. Ad ogni modo quello che la pop art voleva dirci era che il mondo a causa dello sviluppo dei media (la TV in testa) era radicalmente cambiato: la rivoluzione mediatica aveva prodotto una rivoluzione culturale senza precedenti, l’immaginario collettivo e gli orizzonti culturali erano profondamente mutati. Anche l’arte dunque non poteva più ignorare questa grande trasformazione, non poteva far finta di non vedere. A questo punto si impone alla nostra riflessione un interrogativo cruciale: in una società dominata in modo significativo dalla cultura dell’immagine c’è ancora posto per la ragione? Ci sentiamo di rispondere positivamente a questo interrogativo, poiché — come si vedrà meglio in seguito — riteniamo che il logos e l’immagine siano integrabili. Anche se, lo riconosciamo, si tratta di un compito molto arduo. Il politologo Giovanni Sartori, in un suo fortunato saggio sulla televisione,6 prende in esame proprio questa particolare questione. La televisione, sostiene Sartori, è un mezzo di comunicazione ma è anche e soprattutto uno strumento antropogenetico. E proprio in quanto tale ha prodotto un nuovo tipo di uomo: l’homo videns. L’homo videns, a differenza dell’homo sapiens non ha più la capacità di astrazione, la capacità simbolica e quindi ha perso anche la possibilità di un pensiero razionale, del pensiero cioè delle idee chiare e distinte. Scrive Sartori:

La televisione — lo dice il nome — è «vedere da lontano» (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. […] E questo è un radicale rovesciamento di direzione, poiché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie.7

La televisione ha dunque creato l’homo videns, in cui il vedere domina sul capire, l’uomo che non sa più usare la capacità di astrazione e di rappresentazione mediante il linguaggio. Questi due aspetti (astrazione e rappresentazione) costituiscono la base per lo sviluppo di una caratteristica centrale del linguaggio: la funzione argomentativa. È questa funzione (che l’avvento del post-pensiero sta spazzando via) che ha permesso all’uomo di sviluppare la razionalità. Il linguaggio umano si distingue da quello animale per la sua funzione argomentativa. Gli animali infatti possono usare il linguaggio in funzione segnaletica (per segnalare un pericolo), in funzione espressiva (per esprimere un istinto) ma non posseggono la funzione argomentativa: non possono fare affermazioni criticabili, non possono costruire teorie. Questa funzione è decisiva ed è alla base dello sviluppo della civiltà. Noi possiamo imparare dai nostri errori ma anche dagli errori degli altri perché siamo in grado mediante il linguaggio di mettere a confronto la nostre esperienze con quelle altrui.

Questa possibilità è il fatto più importante nell’evoluzione umana. Karl Popper sosteneva che tra un ameba e Einstein vi fosse una sola e sostanziale differenza: la capacità umana di formulare la conoscenza in un linguaggio.8 Il fatto dunque che la civiltà delle immagini stia sempre più indebolendo le capacità linguistiche e di astrazione dell’individuo a vantaggio di un post-pensiero alogico e privo di connessioni è in sé estremamente negativo.

4. I rischi per l’educazione

La televisione come abbiamo detto si occupa più di immagini che di parole. L’obiettivo di tutti i programmi televisivi è quello di catturare il più possibile l’attenzione degli spettatori. Per fare questo vengono utilizzate dagli ideatori dei programmi immagini ad effetto, con un grande potere di suggestione. Il fatto singolare è che la ricerca disperata dell’audience rende gli operatori della TV del tutto irresponsabili nei confronti del pubblico.9 Si pone infatti il seguente problema: è ammissibile che immagini di una violenza brutale invadano con una frequenza sempre più elevata lo schermo televisivo, costituendo così un reale pericolo per i bambini? Non sarebbe più opportuno cercare invece di tutelare i bambini di fronte a questa invasione devastante? Coloro che difendono, spesso in modo acritico, i diritti della TV di usare le immagini liberamente portano a sostegno della loro posizione la tesi che l’immagine non mente, che in fondo non rappresenta altro che la realtà. Ciò è comunque falso. La realtà è molto meno sensazionale delle immagini della TV, che sono sempre costruite ad arte per suscitare suggestione ed un forte impatto emotivo. La TV diventa così a causa del suo eccessivo sensazionalismo molto pericolosa per la civiltà. Karl Popper si è occupato del tema della libertà della TV. In una intervista televisiva10 Popper interviene su questo tema sostenendo la tesi della necessità di una limitazione del potere di condizionamento della televisione. Popper riconosce il ruolo educativo che la televisione svolge ma ritiene che la degenerazione dei programmi, imputabile essenzialmente alle leggi dell’Auditel, sia molto pericolosa.11 Egli suggerisce dieci tesi che i professionisti della TV dovrebbero prendere in considerazione nello svolgimento della loro attività. Uno dei punti su cui Popper insiste maggiormente è la difesa dei bambini contro la violenza dei media. Nella tesi numero 9 leggiamo:

I bambini passano una parte considerevole del loro tempo davanti al video. Per loro la televisione è una parte importante della realtà. La televisione permette oggi di diffondere la violenza e di fare della violenza una componente essenziale dell’ambiente dei bambini. Essa li educa e quindi li precipita nella violenza.

Quest’idea di Popper, secondo la quale la TV è uno strumento generatore di violenza, sembra oggi trovare riscontro in ambito scientifico. Numerose ricerche condotte negli Stati Uniti12 da equipes di psicologi hanno dimostrato, attraverso l’attenta osservazione di un campione di bambini, una effettiva connessione tra l’insorgenza di comportamenti violenti nella fase adolescenziale e i programmi televisivi visti nel periodo infantile. In particolare si è notato che il coinvolgimento emotivo indotto dalle immagini violente influisce nello sviluppo dell’aggressività. D’altra parte però, emergono da queste ricerche anche elementi positivi. La visione in età infantile di programmi informativi, cioè opportunamente pensati per provocare stimoli cognitivi, sembra aver prodotto un notevole innalzamento del rendimento scolastico. Purtroppo la maggior parte dei programmi televisivi destinati ai bambini non sembra rispondere a queste ultime caratteristiche. Prevalgono in realtà trasmissioni in cui si fa un uso consistente di immagini violente (si pensi alle numerose saghe dei cartoons giapponesi). Per tal motivo è necessario che il potere di condizionamento culturale della tv sia limitato. L’idea di Popper era quella di stabilire un codice deontologico per i professionisti della televisione allo scopo di tutelare la paidéia, l’educazione. Popper pensava alla creazione di un Istituto per la televisione che avesse come compito principale quello di preparare in modo adeguato gli operatori della TV, rendendoli pienamente consapevoli dell’importanza del loro compito. Inoltre l’Istituto poi avrebbe dovuto vigilare perché ogni operatore rispettasse le regole stabilite. Questa proposta fu da alcuni bollata come illiberale. Si ritenne paradossale il fatto che un filosofo liberale proponesse regole liberticide. In realtà la proposta di Popper, in linea di principio, si situa a pieno titolo nell’alveo del liberalismo che, com’è noto, è una teoria empirica della limitazione del potere. Di qualunque potere. Non solo politico. La televisione è indubbiamente uno strumento di potere per il quale, tuttavia, a differenza del potere politico, non esistono contrappesi, controbilanciamenti che ne limitino l’influenza. Ecco perché bisogna cercare di crearli.

C’è però un aspetto dell’idea popperiana che presenta qualche difficoltà. Il liberalismo, è vero, ci insegna che tutti i poteri devono essere limitati. Ma ci insegna anche che non bisogna introdurre poteri nuovi se essi non sono assolutamente necessari. Una specie di rasoio di Ockham applicato alla politica. E qui la proposta di Popper rivela i suoi limiti: essa infatti prevede che per limitare un potere (la TV) se ne introduca uno nuovo (l’Istituto per la televisione), con tutti i rischi che esso comporta. Si pone infatti il seguente problema: chi gestirà questo nuovo potere? La società o la politica? E con quali criteri? Nel caso di una gestione politica, ad esempio, come evitare il rischio che i governanti controllino attraverso l’Istituto per la televisione l’opinione pubblica, che è, come sappiamo, un fattore (non istituzionalizzato) decisivo per la democrazia? Non sembra configurarsi, in tal modo, una nuova ma altrettanto minacciosa versione dello Stato educatore? È più ragionevole, dal punto di vista liberale, valutare se ci sono altri modi di limitare un potere prima di introdurne uno nuovo. In particolare, sarebbe più opportuno tentare di limitare il potere della TV dall’interno, utilizzando i suoi stessi apparati. Bisogna cioè trovare all’interno della televisione stessa i mezzi e le strategie per limitarla. Una proposta che sembra andare in questa direzione viene avanzata da Renato Parascandolo, il quale la argomenta con un ragionamento che vale la pena di seguire per intero:

Il problema che si pone è allora il seguente: chi educa gli educatori (autori dei programmi, responsabili dei palinsesti, giornalisti)? Credo che la risposta giusta sia: la televisione stessa. Infatti gli apparati televisivi-e in generale tutti gli apparati-in base al loro funzionamento (organizzazione del lavoro, gerarchie, procedure, etc.) e alla funzione che sono chiamati a svolgere (accumulare profitti, offrire un servizio di utilità, fare propaganda etc.) creano modelli professionali, mentalità, valori, cultura. Gli apparati cioè oltre a produrre merci o servizi producono anche ideologia. Una ideologia che è presente non solo nei prodotti-soprattutto se immateriali, come i programmi televisivi- ma anche nei modi di lavorare, nelle forme della burocrazia, nella divisione del lavoro. Chi vi presta la sua opera l’assimila, ne è impregnato come un pescatore lo è di salsedine. La televisione come apparato dunque, educa, simultaneamente, sia i telespettatori che i suoi dirigenti e tutti coloro che vi lavorano. Questa formazione, che potremmo definire eufemisticamente, una deformazione professionale, crea aspettative, pregiudizi e valori i quali ovviamente non possono che essere in sintonia con il funzionamento dell’apparato e con gli scopi che esso persegue. Questo ragionamento apre una questione molto concreta. Se vogliamo approdare a un modello di televisione più colta e intelligente, non basta aprire le porte a nuove idee e nuovi argomenti. Prima di tutto bisogna modificare la struttura degli apparati, il loro funzionamento, il loro modello produttivo, i profili professionali, la burocrazia, perché solo questo può cambiare la mentalità di chi vi lavora e di chi li dirige. Parafrasando Mc Luhan potremmo quindi dire non tanto che il medium è il messaggio, quanto che l’organizzazione del medium è il messaggio. In altre parole non avremo una nuova e più coltivata classe dirigente negli apparati televisivi per opera e virtù dello Spirito Santo, oppure agendo solo sulla programmazione (dalla TV generalista a quella tematica), ma solo ridisegnando l’architettura ideativo-produttiva degli apparati della comunicazione.13

Queste riflessioni ci portano molto vicino al cuore della struttura televisiva, ci conducono all’interno dell’apparato, mostrandoci il funzionamento di quella complessa macchina che è la TV. Tuttavia numerosi problemi strategici restano ancora irrisolti. Se cambiare la TV significa cambiare il suo «modello produttivo», la «struttura degli apparati», ridisegnare «l’architettura ideativo-produttiva», si pone il seguente problema: come è possibile fare tutto ciò fintantoché la televisione resta una struttura dominata dagli interessi economici? Come cambiare il suo «modello produttivo» se l’unico criterio discriminante la qualità dei prodotti televisivi è l’Auditel (cfr. supra, n. 11)?

Sono domande, queste, che attendono al più presto una risposta adeguata. Ne va della nostra civiltà.

5. Effetti sulla democrazia

Cerchiamo di capire ora come tutto questo rappresenti un rischio per la democrazia. La televisione, come si sa, costituisce ormai lo spazio principale della lotta politica. Le campagne elettorali dei partiti si svolgono principalmente in TV. Certo, i politici continuano ancora a parlare nelle piazze, a partecipare a manifestazioni, ma la partita si gioca quasi completamente sulla scena televisiva. Questo è il primo effetto che la televisione produce sulla politica: la delocalizzazione.14 La politica diviene, per così dire, senza luogo. Potremmo dire, giocando un po’ con le parole (ma non troppo), che la politica non ha più luogo. Non c’è più politica. Almeno non c’è più politica intesa come partecipazione dei cittadini alla dimensione collettiva dello Stato. Si registra cioè un distacco del cittadino dalla dimensione pubblica, una ritirata nel privato. Questa situazione non è certo determinata unicamente dagli effetti della televisione. In realtà si tratta dell’affermazione dell’individualismo liberale dopo il crollo definitivo dei sistemi ideologici totalizzanti. Queste ideologie producevano una politicizzazione della società, invadendo anche la dimensione privata dei cittadini. Naturalmente questa era una degenerazione del concetto di partecipazione, poiché era lo Stato (o il partito) a dettare coattivamente le regole del gioco, conculcando la libertà degli individui. Sotto questo aspetto, le moderne democrazie liberali rappresentano un indubbio progresso. Esse si costruiscono sul principio dell’inviolabilità della sfera individuale. Lo Stato si ritira dalla sfera privata per assumere il ruolo di garante, di custode del patto che gli individui hanno sottoscritto e che trova la sua espressione formale nella Costituzione. Tutto questo rappresenta senza dubbio una conquista assolutamente irrinunciabile. Sennonché, dobbiamo anche dire che se, da un lato, l’evoluzione della democrazia verso forme contrattualistiche ha reso possibile la tematizzazione dei diritti umani,15 dall’altro però ha lasciato ai margini qualcosa di molto importante. Questa evoluzione ha eroso innanzitutto il concetto di partecipazione, con tutte le implicazioni etiche che esso comporta. Il grande storico Moses Finley, nel suo classico studio sulla democrazia,16 muove una critica alla democrazia liberale (la democrazia dei moderni) proprio su questo punto. Se le democrazie liberali producono l’apatia dei cittadini, non sarà il caso di ripensarle in modo tale da promuovere, nel rispetto della libertà degli individui, una partecipazione alla vita pubblica? Finley intuisce che se si perde la dimensione collettiva dell’appartenenza alla comunità anche gli stessi diritti umani sono a rischio. Il concetto di partecipazione infatti ci permette di tematizzare i doveri che gli individui hanno gli uni verso gli altri; tematizzazione che invece risulta difficile all’interno del paradigma contrattualistico, incentrato unicamente sul principio del neminem laedere. Esemplari a riguardo sono le parole di Gabriella Cotta:

Il disegno razionalistico finalizzato all’accordo delle volontà e tematizzante le istanze irrinunciabili di ciascun uomo, echeggia però lo squilibrio ermeneutico dell’ontologia unidimensionale ereditata da Lutero, che le elaborazioni sui diritti umani riflettono nella carenza tematica della loro riflessione intorno ai doveri che li dovrebbero legare ad ogni altro individuo.17

Senza il riconoscimento dei doveri la comunità rischia la disgregazione. Il principio di non ingerenza (neminem laedere) è una condizione necessaria per la convivenza civile, ma non sufficiente a garantire la giustizia sociale. Non permette cioè di sviluppare strategie volte a ridimensionare le disuguaglianze presenti nella società. Il patto di non nuocersi reciprocamente è cosa buona, ma non basta. Perché la società possa sussistere è necessaria l’applicazione generalizzata di un principio di uguaglianza. La mancanza di giustizia, insegna Rawls, finisce prima o poi per intaccare la stessa libertà. Occorre ora chiedersi: in questo processo di erosione del concetto di partecipazione, e di lacerazione del legame sociale, che ruolo riveste la televisione? Possiamo affermare che la televisione ha sicuramente accelerato questi processi, ha accresciuto la disaffezione dei cittadini per la partecipazione alla vita pubblica. La televisione ha trasformato la politica in spettacolo favorendo l’insorgenza e la diffusione di atteggiamenti apatici e qualunquistici nell’opinione pubblica. Su questo punto colgono nel segno quei filosofi come Emanuele Severino18 i quali sostengono che la politica pensa ingenuamente di servirsi della tecnica (nella fattispecie delle tecnologie mediatiche), cioè di utilizzarla come strumento per i propri fini, ma non si accorge che una volta entrata nella dimensione tecnologica perde di vista i propri fini, diventando serva dello strumento che utilizza. Pur non condividendo il quadro pessimistico all’interno del quale Severino sviluppa la sua riflessione sulla politica, dobbiamo riconoscere che quest’analisi contiene molti elementi di verità.

Tra le conseguenze della spettacolarizzazione della politica c’è inoltre il fenomeno della personalizzazione.

Non sono più oggetto di discussione le idee o i programmi di un partito. Si discute piuttosto delle caratteristiche personali (simpatia, eleganza, arguzia, aspetto fisico) degli uomini politici. I cittadini non hanno alcun interesse a valutare le diverse proposte politiche, anche quando queste sono determinanti per la loro vita (in realtà lo sono sempre, anche quando sembrano non esserlo). In genere nella scelta elettorale sono guidati da spinte umorali piuttosto che da valutazioni razionali. Siamo di fronte, per dirla con Sartori, ad un «demos indebolito»; e, se è debole il demos, anche la democrazia lo è. La debolezza consiste nel fatto che il demos, essendo all’oscuro dei problemi della politica (i cittadini informati dei fatti della politica oscillano tra il 10 e il 15%; quelli politicamente competenti sono solo il 2-3%),19 non è in grado di articolare i propri interessi trasformandoli in domanda politica, e, cosa più importante, non è in grado di esercitare alcun controllo sull’attività dei governanti. Ma un demos che non è in grado di esercitare la funzione di controllo mette a rischio la democrazia stessa. L’essenza della democrazia consiste, come ci ha insegnato Karl Popper, nella sua controllabilità. La democrazia non è il «governo del popolo», ma -sostiene Popper — quella forma di governo in cui i governanti possono essere rovesciati senza spargimento di sangue. In questo consiste il vero e l’unico potere del demos. Il demos, proprio perché i processi decisionali all’interno della democrazia sono pubblicamente controllabili, può decidere di punire, attraverso il meccanismo elettorale, il governo che ha amministrato male. Ma se il popolo non è a conoscenza dei fatti della politica non può esercitare responsabilmente il proprio potere. La debolezza del demos è dunque una condizione che mette in pericolo la democrazia stessa e le sue istituzioni, e, conseguentemente, la stessa libertà. Un demos inconsapevole è in ultima analisi incapace di difendere la propria libertà. Il prezzo della libertà, afferma Popper, è l’eterna vigilanza.

6. Conclusioni

Le considerazioni che abbiamo svolto intorno alla TV hanno messo in luce gli aspetti negativi del mondo delle immagini. Non sarebbe tuttavia giusto mettere in atto un processo di demonizzazione di questa cultura che i media hanno prodotto e continuano a produrre. La cultura dell’immagine ha avuto, soprattutto agli inizi, un importante ruolo emancipativo per la società. Walter Benjamin ha mostrato, nel suo celebre saggio sull’opera d’arte,20 in polemica con la Scuola di Francoforte, l’importanza della cultura dell’immagine nel processo di emancipazione e di democratizzazione della società. L’arte che, grazie alle nuove tecniche della fotografia diventava riproducibile, perdeva quella sacralità che la cultura aristocratica le aveva sempre attribuito, e si rendeva disponibile alle masse. In tal modo si produceva, secondo Benjamin, una emancipazione del popolo. Oggi ci sono autori che riprendono la tesi di Benjamin, iscrivendola però all’interno di un quadro teorico diverso. Pensiamo ad esempio a Gianni Vattimo21 il quale sostiene che, contrariamente a quanto pensano gli apocalittici di turno, i nuovi media hanno un ruolo importante e, fondamentalmente, positivo. Il filosofo torinese interpreta la comunicazione mediatica alla luce di categorie heideggeriane, evidenziando come i nuovi media, polverizzando la nozione di «realtà oggettiva», svolgano una funzione antimetafisica. La nozione metafisica di «realtà» si dissolve nel vortice caotico della comunicazione. E questo, secondo Vattimo, non può che avere effetti benefici per la società e per la democrazia stessa. Ciò che ha messo in pericolo storicamente la società e la politica è stato il nesso tra metafisica e violenza. Conoscere la realtà metafisica significa anche (pretendere di) conoscere il senso e la direzione della storia. Da qui all’elaborazione di progetti ideologici totalizzanti il passo è breve. Il discorso di Vattimo è molto suggestivo, e, per molti versi, condivisibile. Tuttavia ci sembra che i problemi che abbiamo evidenziato restino in piedi. È vero, i media hanno avuto e possono continuare ad avere un ruolo emancipativo. Ciò è accaduto soprattutto nella prima fase della loro diffusione. Oggi però, come abbiamo tentato di mostrare in questa nostra analisi, essi pongono seri problemi per la società e per la politica. Il compito attuale sembra piuttosto quello di cercare di evitare le degenerazioni che abbiamo descritto, introducendo dei correttivi. In particolare si dovrebbe lavorare per affiancare all’immagine la parola scritta. Siamo convinti infatti che se si riuscisse a stabilire un equilibrio tra queste due diverse modalità di espressione si innescherebbe un circolo virtuoso, in quanto la parola scritta permetterebbe di decifrare l’immagine, liberandone tutto il potenziale espressivo (giacché anche l’immagine, bisogna dirlo, ha un ruolo cognitivo) e l’immagine, a sua volta, arricchirebbe il testo scritto. Si avrebbe una situazione comunicativa ideale, frutto dell’interazione tra logos e immagine. V’è chi sostiene ad esempio che Internet potrà assolvere questo compito.22 La rete, pur essendo un mezzo visivo come la TV, ha una natura diversa, perché al suo interno riveste un ruolo centrale il testo scritto che, grazie alla sua particolare configurazione (il sistema dei links), rende agevole l’approfondimento dei contenuti. Una diffusione sempre più massiccia di Internet potrebbe funzionare come antidoto all’impoverimento del capire che la televisione ha determinato. Ma la battaglia decisiva, a nostro avviso, si svolgerà in ambito scolastico. È lì che bisogna gettare le basi perché accanto alla cultura dell’immagine si (ri)affermi la cultura scritta, la cultura del leggere e del capire. La scuola può infatti fornire quegli strumenti critici utili per decodificare e interpretare i messaggi provenienti dal mondo dell’informazione, per distinguere le opportunità emancipative dalle forme di dominio. Può dare insomma quel necessario outillage mentale indispensabile per orientarsi nelle complesse dinamiche della modernità.

7. Ulteriori riferimenti bibliografici

  1. Opere di carattere generale:
    • A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano, 2000
    • F. Casetti, F. Di Chio, Analisi della televisione. Strumenti, metodi e pratiche di ricerca, Bompiani, Milano, 2000
    • E. Menduni, La televisione, Il Mulino, Bologna, 1998
    • E. Ghezzi, Il mezzo è l’aria, Bompiani, Milano, 1997
    • J. Jacobelli (a cura di), La svolta della tv, Laterza, Bari, Laterza 1997
    • Enciclopedia della Televisione, Garzanti, Milano, 1996
  2. Sull’impatto della TV nella vita degli individui:
    • R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2000
    • L. Bolla, F. Cardini, Carne in scatola. La rappresentazione del corpo nella televisione italiana, Ed. RAI, 1999
    • S. Dinelli, La macchina degli affetti. Cosa ci accade guardando la TV?, F. Angeli, Milano, 1999
    • J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano, 1996 (Baudrillard studia il modo in cui la TV ha creato una diversa concezione della realtà, senza però riuscire a soppiantare interamente la concezione ordinaria)
    • P. Martini, Maledetta TV. Cento ottime ragioni per spegnere la televisione, Limina, Arezzo, 1996
    • R. Berger, Il nuovo Golem. Televisione e media tra simulacri e simulazione, Cortina, Milano, 1992
  3. Sull’educazione:
    • L. D’Abbicco, C. Ottaviano, Bambini a una dimensione. La lenta scomparsa dell’infanzia in televisione, Unicopli, Milano, 2000
    • E. Menduni, Educare alla multimedialità. La scuola di fronte alla televisione a ai media, Giunti, Firenze, 2000
    • A. Pellai, Teen television. Gli adolescenti davanti e dentro la TV, F. Angeli, Milano, 1999
    • P. Bertolini, M. Manini (a cura di), I figli della Tv, La Nuova Italia, Firenze, 1988
    • L. Trisciuzzi, S. Ulivieri, Il bambino televisivo, Giunti Lisciani Editore, Petriccione (TE), 1993
  4. Sui rapporti tra televisione e politica:
    • A. Grasso, TV. Tutte le notizie che fanno spettacolo, Corriere della Sera, 08/02/2002 (Questo articolo costituisce la prefazione del saggio di M.G. Bruzzone, L’avventurosa storia dei Tg in Italia, Rizzoli, Milano, 2002)
    • M. Livolsi, U. Volli (a cura di), Il televoto. La campagna elettorale in televisione, F. Angeli, Milano, 1997
    • P. Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997
    • E. Menduni, La più amata dagli italiani. La televisione tra politica e telecomunicazioni, Il Mulino, Bologna, 1996
    • E. Novelli, Dalla TV di partito al partito della TV. Televisione e politica in Italia: 1960-1995, La Nuova Italia, Firenze, 1995

  1. Queste considerazioni sugli enunciati linguistici sono ispirate ad alcuni principi della teoria del linguaggio di Gottlob Frege. A scanso di equivoci occorre tener presente però che nel nostro discorso utilizziamo le parole «significato», «senso», «concetto» non in senso tecnico, così come le intendeva Frege, ma in senso generico. Per Frege si ha la seguente situazione: il significato o denotazione (Bedeutung) è l’oggetto che il termine designa, il senso (Sinn) è invece il modo in cui si dà la denotazione. Ad esempio noi possiamo dire «Dante» oppure «l’autore della Divina Commedia» per indicare lo stesso individuo. Entrambe le espressioni hanno la stessa denotazione (o significato), cioè si riferiscono alla stessa persona, ma hanno un senso diverso, perché la seconda ci dà un’informazione in più rispetto alla prima. Per un approfondimento su questo punto si veda G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, 1892, tr. it. di S. Zecchi in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano, 1973. Per la nozione di «concetto» (che è troppo complessa per essere anche solo accennata) si veda G. Frege, Funktion und Begriff, 1891, tr. it (parziale) di S. Zecchi, in A. Bonomi, cit. Per quanto riguarda il principio di contestualità cui ci siamo riferiti si può consultare: G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, 1884, tr. it. in G. Frege, Logica e aritmetica, a cura di C. Mangione, Boringhieri, Torino, 1965. ↩︎

  2. R. Boudon, Relativismo e modernità: sotto il segno di Nietzsche in «Biblioteca della libertà», n. 136, luglio-ottobre 1996. Boudon generalizza questo argomento utilizzandolo come controargomentazione rispetto alla tesi, relativistica, dell’incomunicabilità tra culture diverse. Comunque si valuti la sua efficacia contro il relativismo, esso costituisce un buon modello di riferimento per valutare l’incidenza del contesto nei processi comunicativi. ↩︎

  3. M.T. Siniscalco, Il telegiornale a scuola, Paravia, Torino, 1999. ↩︎

  4. G. Marrone, Estetica del telegiornale, Meltemi, Roma, 1998. ↩︎

  5. <http://www.repubblica.it/online/politica/paure/gelo/gelo.html>. ↩︎

  6. G. Sartori, Homo videns, Laterza, Bari, 1997. ↩︎

  7. Ibidem, p. 8. ↩︎

  8. Una completa e suggestiva formulazione di questa concezione del linguaggio si può trovare in K. Popper, Perché siamo liberi? Computer, mente e razionalità, Biblioteca della libertà, 132, novembre-dicembre 1995. ↩︎

  9. Pensiamo ad esempio alla vicenda che nel settembre 2000 vide protagonisti due importanti telegiornali della RAI, il Tg1 e il Tg3. Nell’edizione serale (la più seguita) furono trasmessi all’interno di un servizio sulla pedofilia delle immagini che mostravano esplicitamente degli atti di violenza sui bambini. Lo choc fu enorme, tanto da provocare le dimissioni immediate di Gad Lerner, allora direttore del Tg1. Lerner si dimise perché riconobbe che, anche se erano i cronisti ad aver sbagliato nel montare il servizio, il direttore aveva l’obbligo del controllo. Fu indubbiamente un atto coerente con i principi della deontologia professionale. Ma a questo punto occorre chiedersi: che cosa indusse i giornalisti che prepararono il servizio (David Sassoli, Piero Damosso e Sergio Criscuoli) a inserire quelle immagini così turpi e sconvolgenti? È fuori dalla logica pensare che quell’atto irresponsabile vada interamente ascritto alla ricerca incondizionata dell’audience piuttosto che alle esigenze di una corretta informazione? ↩︎

  10. L’intervista di Popper è stata rilasciata il 13 aprile 1993 per il programma di Rai Educational Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, e successivamente pubblicata dal quotidiano «Avvenire» il 7 gennaio 1997, con il titolo: TV: il decalogo di Popper. Le tesi di Popper sono sviluppate più compiutamente in K. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione, Donzelli, Roma, 1996. ↩︎

  11. Sul ruolo dell’Auditel davvero decisivo sembra un intervento di Giovanni Sartori (Ribellatevi all’Auditel, Corriere della Sera, 28 gennaio 1998). Sartori mette in evidenza la debolezza dell’argomentazione secondo la quale l’Auditel è un meccanismo al servizio della concorrenza, e quindi della qualità del prodotto. Chi sostiene questa posizione — afferma Sartori — trascura il fatto che la concorrenza televisiva ha una natura diversa rispetto a quella teorizzata dagli economisti, la quale «si fonda su un rapporto costo-qualità che il consumatore è in grado di controllare. […] Il consumatore di televisione non ha questo potere, e la concorrenza tra le televisioni non ha nessuna di queste caratteristiche. Il meccanismo che regola la concorrenza è soltanto una misura di ascolto quantitativo, soltanto l’Auditel. […] In televisione vince puramente e semplicemente chi acciuffa più audience. Dove l’audience è un pubblico indifferenziato nel quale l’ascolto di Einstein conta meno, visto che conta soltanto per uno, dell’ascolto di due illetterati, visto che sono due. Dal che si ricava che l’Auditel pone e impone una concorrenza al ribasso nella quale la merce cattiva scaccia quella buona. Il risultato è una televisione che massifica, che privilegia l’analfabeta, e che impoverisce il livello culturale dei suoi pubblici (corsivi nostri)». A sostegno di questa analisi Sartori porta i dati della televisione americana che funziona (a differenza dell’Italia) secondo le regole della concorrenza ma che, ciononostante, ha un livello di qualità dei programmi assai basso (come l’Italia). ↩︎

  12. Si veda J. Singer, D. Singer (editors), Handbook of Children and the Media, Sage Publications, 2001 Dedicato specificamente al tema della violenza è il volume di D. Grossman, G. DeGaetano, Stop teaching our Kids to Kill: A Call to Action Against TV, Movie and Video Game Violence, Random House, 1999. Per ulteriori informazioni sul punto cfr. M. Ammaniti, Cari figli ipnotizzati dalla Tivù, La Repubblica, 15 gennaio 2002. ↩︎

  13. R. Parascandolo, Cultura e televisione, novembre 1995, consultabile all’indirizzo: <http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/p/parascan.htm>. Parascandolo è direttore di Rai Educational e autore di numerosi programmi culturali, tra cui l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, Mediamente, La storia siamo noi↩︎

  14. Il concetto di delocalizzazione è tematizzato da Jacques Derrida in J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, Cortina, Milano, 1997. ↩︎

  15. Una interessante e lucida ricostruzione della nascita della moderna idea di individuo sviluppata poi dalle teorie contrattualistiche e giusnaturalistiche si può trovare in G. Cotta, L’individuo in Lutero. Tematiche contrattualistiche e diritti umani, Filosofia Politica, 1/2001, Il Mulino, Bologna, pp. 99-110. ↩︎

  16. M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, Bari, 1973. ↩︎

  17. G. Cotta, op. cit., p. 110. ↩︎

  18. Cfr. E. Severino, La democrazia fra verità e tecnica, MicroMega, 4/99, pp. 87-95. ↩︎

  19. G. Sartori, op. cit., p. 92. ↩︎

  20. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1991. ↩︎

  21. G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 2000. ↩︎

  22. Cfr. R. Parascandolo, Chi ci salverà dall’ignoranza? Non certo il video, forse la rete, Telèma, 10, Autunno 1997. Consultabile su Internet all’indirizzo: <http://www.fub.it/telema/TELEMA10/Parasc10.html>. ↩︎