L’apoditticità del Bene. La filosofia della religione di Rudolf Hermann Lotze

1. Premessa

L’interesse precipuo per Lotze, e per le sue lezioni di filosofia della religione,1 risiede principalmente nel fatto che il filosofo, fisiologo e psicologo lusaziano dedicò ai temi etico-religiosi gran parte delle sue riflessioni, e in particolare, a Göttingen, ben 12 corsi tenuti a partire dal Sommersemester 1858 sino al Wintersemester del 1878/79.2 Vi avrebbe riservato altresì la terza parte del suo System der Philosophie (la prima essendo la Logik e la seconda la Metaphysik) se non fosse intervenuta la morte nel 1881, all’indomani del suo trasferimento a Berlino. Ma tutta la sua produzione è costellata di riferimenti diretti e indiretti alle questioni specifiche della filosofia della religione: esistenza di Dio, regno dei valori o dei fini, immortalità dell’anima, giustificazione del male, governo del mondo, ecc.3

Come è noto, tra i suoi studenti e uditori vi fu anche F. L. Gottlob Frege4 che dal maestro avrebbe appreso le fondamenta della filosofia della validità per poi trarne le riflessioni attorno alla natura degli oggetti del pensiero e al ruolo del linguaggio.5 Quale che sia la dipendenza di Frege dalla Logik di Lotze (e ancor più dalla Wissenschaftslehre di B. Bolzano), di certo le lezioni di filosofia della religione figurano come centrali nella produzione del pensatore di Bautzen. C’è chi ha osservato di recente (S. Besoli e R. Pester) che tutta la sua filosofia è incentrata sul sentimento estetico del bello ed etico del sommo bene6 e che persino le sue riflessioni logico-metafisiche hanno una radice etico-religiosa. Di certo, se si parla di fede (Glaube) nella possibilità che ciò che deve essere (il bene) si realizzi di fatto nel mondo reale tale ‘fede’ non può che essere una ‘fede filosofica’7 e il taglio che la filosofia della religione lotzeana assume è quello di una ‘teologia filosofica’.8

Sorvoliamo per il momento sulla questione per riprenderla alla fine. Per ora dobbiamo indagare da vicino:

  1. la ricezione lotzeana della critica di Kant alla prova ‘ontologica’ di Anselmo d’Aosta,
  2. la critica delle prove tradizionali a posteriori,
  3. il mondo teleo-meccanicistico: inorganico e organico,
  4. l’interazione anima-corpo, con l’annessa questione del posto dell’anima (Sitz der Seele) e della sua immortalità,
  5. la creazione, la preservazione e il governo del mondo,
  6. la versione lotzeana del fallimento di ogni tentativo di teodicea,
  7. il fondamento etico del teismo cristiano.

Ciò cui mirano le riflessioni lotzeane è anzitutto: «la dimostrazione di quelle convinzioni religiose verso le quali si indirizza la sola ragione necessariamente».9 Pertanto, viene escluso fin dall’inizio un approccio a partire dalla rivelazione10 e si focalizza l’attenzione su ciò che sorge, come esperienza interna dell’uomo, allorché la ragione interviene elaborando un pensiero relativo a tali esperienze interne. La conoscenza, in breve, non nasce dai semplici ‘dati’ interiori (né tantomeno solo dall’esperienza esterna), ma dall’articolazione dei nessi per la comparazione delle singole esperienze.11 Tra queste ‘esperienze’ Lotze indica: 1. gli impulsi (’paura’ e ‘dipendenza assoluta’), 2. le sensazioni estetiche (bello e sublime), 3. le sensazioni etiche (obbligazioni della volontà).12 I tre gruppi di esperienze vanno da un livello primordiale, che gli esseri umani condividono con gli animali, attraverso un piano intermedio (estetico) sino all’apice etico in cui, ai sentimenti di obbligazione della volontà (tra cui spiccano il bisogno di giustizia e il bisogno religioso) corrisponde il ‘sommo bene’. Prima di indagare a fondo tali questioni, che richiedono la perlustrazione della metafisica e della psicologia scientifica, Lotze affronta a suo modo gli argomenti classici della tradizione.

2. La critica alla prova ontologica dell’esistenza di Dio

Al contrario di quanto accadrà nella filosofia analitica del Novecento, in cui la prova del Proslogion anselmiano verrà ripresa proprio per il suo valore ‘logico’,13 l’interesse di Lotze è tutto orientato verso il kantiano ‘unico argomento possibile’. Così, sulle orme di Kant egli riconosce l’invalidità logica dell’argomento e la mancanza di forza dimostrativa, ma lascia intendere che ciascuno può riporre fiducia (Glaube) nella realtà del sommo valore (höchster Wert) sulla base dell’assioma religioso che höchster Wert e Wirklichkeit ‘coappartengono’ necessariamente.14

Eppure, più che nei Grundzüge, è nella Logik del 1874 (§ 348) che troviamo le pagine più perspicue relative alla prova ontologica, una volta ribadita la distinzione tra reale (wirklich) ontologico e reale (wirklich) logico, tra esistere e valere15 e una volta stabilito il tipo di realtà degli oggetti del pensiero che differisce da quella degli enti, degli eventi e delle relazioni. Se è vero (e in questo Lotze segue Kant) che è fallace pretendere l’equivalenza tra l’idea di Dio e la sua realtà, nondimeno riguardo alla realtà suprema si tratta di una fallacia apparente, dato che le credenze nel bene supremo e nella vita eterna si fondano su una intuizione empirica, per quanto poco indagata. In sostanza, per Lotze dalla realtà del mondo (e qui si ricalca la via a contingentia mundi), data a noi nell’esperienza, tali credenze inferiscono le realtà che non sono date empiricamente e che sembrano seguire dalle prime con necessità e rigore logico. Formalmente l’argomento tiene, anche se nulla si può dire della realtà di Dio, se non che deve esserci necessariamente allorché è dato un mondo simile a quello in cui viviamo. Dalla prova a posteriori a contingentia mundi tale argomento si discosta poiché i nessi tra dati empirici sono rigorosamente logici, cioè a dire non interviene la concatenazione delle cause e degli effetti, la cui inefficacia era già stata stigmatizzata da Hume, ma le connessioni logiche che ‘valgono’ a prescindere dai dati empirici forniti dalla percezione. Kant aveva colto la differenza parlando rispettivamente di causa ‘reale’ e di causa ‘logica’.16 In sintesi, se c’è qualcosa, per necessità logica deve esistere un artefice, dunque l’unico argomento possibile di Kant.17 Con il filosofo di Königsberg Lotze risponde alla domanda leibniziana, ripresa nel Novecento da Martin Heidegger (perché si dà l’essere e non il nulla), e la risposta trae origine proprio dalla logica e dalle sue leggi eterne che sarebbero valide anche se non ci fosse alcun essere in grado di pensarle e applicarle.18 Ma tali leggi, che poi sono le forme della connessione di tutte le cose, non esistono al di sopra o all’interno delle cose stesse, bensì «solo nel pensiero di un essere pensante quando pensa o nell’azione di un essere nel momento del suo agire».19 Si nota qui la tensione presente in tutta l’opera di Lotze tra una prima fase in cui, in opposizione alla scuola herbartiana (ad es. Drobisch), egli indaga i fondamenti della logica e li individua in quelle leggi eterne che ‘valgono’ a prescindere da chi e dal tempo in cui vengono ‘scoperte’, e una seconda fase in cui emergerebbe una concezione di essere reale che presuppone una diretta derivazione herbartiana.20 Non possiamo soffermarci in questa sede sulla fecondità del dibattito che ha coinvolto numerosi esponenti delle varie scuole a sostegno dell’una o dell’altra tesi.21

3. L’insufficienza delle prove a posteriori

Le prove a posteriori hanno, come è noto, la caratteristica di essere ricavate dall’esperienza. Relativamente alla prova cosmologica Lotze precisa che la premessa dalla quale notoriamente si parte non è corretta: è fallace dire che ogni cosa individuale del mondo, essendo contingente, presuppone un essere necessario. Il termine equivoco è proprio ‘contingente’. Nell’uso ordinario contingente è applicabile a ogni cosa esistente la cui inesistenza sarebbe comunque pensabile senza contraddizione. In realtà, dice Lotze, questa prima definizione oppone il ‘contingente’ al ‘progettato’ e include tutti quegli effetti secondari che originano dal nostro agire in base a un disegno. Ma il nostro agire finisce per modificare la struttura degli oggetti contingenti in sé, le cui interazioni non dipendono dalle nostre azioni. Una seconda nozione di contingenza è quella relativa agli eventi che occorrono in base a circostanze accessorie indipendenti dalle leggi di natura. Anche tali eventi sono ‘contingenti’ ma lo sono in base a ragioni che non fanno capo a leggi o a un disegno generale. Da ultimo, sono fatti contingenti quelli che nascono incidentalmente dal meccanismo di quelle agenzie efficienti che interagiscono nella realizzazione di un progetto. A questa definizione è connesso l’uso di ‘contingente’ in quanto applicabile a quei contenuti che non meritano esistenza sulla base di alcun valore, eppure esistono. In questo senso il ‘contingente’ è quel fatto la cui esistenza non è causata da una condizione, né legittimata da un valore. Anche per il necessario abbiamo due definizioni: 1. il necessario condizionato, come nel caso in cui un elemento c esiste se si dà un b, altrimenti non esisterebbe (dunque b è condizione necessaria per c) e 2. il necessario in senso assoluto, che è incondizionato e non dipende da alcunchè. Tuttavia, Lotze ritiene che quest’ultimo non dovrebbe essere denominato ‘necessario’, perché ciò che è incondizionato in senso assoluto non ha un’esistenza necessaria bensì effettiva.22

In base alle definizioni date sopra di contingente e necessario è possibile arguire che dal contingente, ovvero ciò che è condizionato, si può risalire all’incondizionato la cui esistenza non dipende da alcuno, ma tale incondizionato non è necessario, esiste di fatto. Derivare di qui l’identità tra l’incondizionato e l’essere perfettissimo è semplicemente arbitrario, come arbitraria è la deduzione della prova cosmologica in base alla quale diciamo che l’incondizionato deve essere Uno e un singolo essere reale. Anzi, vi si approssima di più il procedimento scientifico allorché presenta una molteplicità di elementi incondizionati, indipendenti l’uno dall’altro, assoggettati semplicemente alle leggi in base alle quali i fenomeni procedono dalle loro posizioni scambievoli con reciproco rispetto. Per di più, se si procedesse da un solo essere incondizionato da un punto di vista logico non ci sarebbe deduzione possibile, dato che ogni inferenza scaturisce da più premesse e non da una. Cosicché tale essere avrebbe bisogno di altre circostanze accessorie per originare una serie di eventi.

Lo stesso argomento teleologico, ponendo come punto di partenza la conformità empirica a un fine mondano e, pertanto, una mente creatrice come suprema causa del mondo, è del tutto ambiguo se applicato al di fuori di una relazione stringente tra mezzi e scopo consapevole. I mezzi utilizzati allo scopo di ottenere un risultato sono ‘conformi al fine’, nel senso di utilizzabili, solo in relazione a tale scopo prefissato, non esistono mezzi conformi in senso assoluto. Anche quando si tratta di conformità intrinseca o immanente all’oggetto, come nel caso di un organismo vivente, è fallace concludere dicendo che la correlazione tra molteplici elementi (cellule) di un organismo implica l’unità di un disegno intelligente. Qui Lotze sembra condividere la critica dell’argomento ‘from design’ dei Dialoghi sulla religione naturale di David Hume.23 Quand’anche un tale disegno esistesse sarebbe incapace di regolare la posizione dei singoli elementi e la loro reciproca relazione con il semplice atto di volizione. Potrebbe farlo solo col sostegno di forze e agenti fisici di tipo simile ai mezzi stessi. L’ipotesi teleologica sarebbe valida solo se in natura esistessero mezzi conformi al fine e nulla di più. Ma l’esperienza insegna che molteplici sono le forme indefinite che non mirano ad alcun fine, o, il che è peggio, che sembrano del tutto irrazionali.

Così, Lotze orienta la sua attenzione verso un dato ancora più semplice ed evidente del fine estrinseco: l’interazione (Wechselwirkung) universale tra gli elementi offerti dall’esperienza.24 Tra gli elementi individuali che si danno nel mondo reale sussiste una relazione di scambio che va dal più omogeneo al meno omogeneo. Tali elementi sono sempre comparabili, anche quando sembrano del tutto disomogenei; difatti, possono essere parte di una serie, ovvero differenti in grandezza o in qualità,25 ma restano pur sempre paragonabili. Per di più, non sono membri di una singola serie, bensì di un sistema di serie che si intersecano reciprocamente. Ovviamente per Lotze ciò non significa che gli elementi debbano avere un’origine comune. Né è possibile dedurre, dal fatto che un elemento c si origina da a e b, che a e b debbano necessariamente agire per produrre qualcosa. Similmente a quanto avviene nella logica, in cui se a e b sono le premesse per una conclusione c, l’inferenza è valida se le premesse sussistono in un Io pensante, ma se la premessa a è pensata da uno e la b è pensata dall’altro, non si dà una conclusione c in nessuno dei due soggetti pensanti, allo stesso modo accade nella realtà delle cose: se esiste a e b ciò non significa eo ipso che debba esistere anche c.

La metafisica ci assicura che due oggetti possono influenzarsi reciprocamente solo se stanno in relazione scambievole tra di loro; anche gli oggetti intermedi subiscono variazioni concomitanti solo se gli elementi stanno in relazione reciproca. Da ultimo, la metafisica suggerisce che se due cose individuali a e b sono in relazione tra loro non possono essere del tutto differenti, bensì espressione di uno stesso essere M che è presente in tutti gli elementi correlati. Eppure tale essere assoluto resta del tutto indeterminato, né è possibile stabilire il tipo di unità che lega le cose individuali all’assoluto.26 Una volta dato per scontato che l’assoluto non reagisce alle sollecitazioni e ai mutamenti delle cose individuali, dobbiamo tuttavia supporre che abbia una sensibilità tale da produrre nelle cose individuali modifiche, variazioni e mutamenti, non importa se per la sua autosussistenza o per un progresso verso una meta.

4. Mondo inorganico e organico: meccanicismo e teleologia

Nell’opera più famosa e più tradotta, il Mikrokosmus, che ebbe notevole diffusione in tutta Europa, Lotze presenta un percorso in cui tutto il mondo, inorganico e organico, sono animati da un motore interno che egli chiama ‘finalismo’, motore che conduce verso una visione ‘spirituale’ del mondo in cui l’uomo occupa il posto centrale. Il disegno del Microcosmo non è il primo né l’unico tentativo di articolare un universo animato in cui convivono forze apparentemente contraddittorie. Il Settecento si era chiuso con le Idee di Herder,27 una filosofia della storia dell’umanità in cui però la realtà storica, come osserva Heidegger, è vista nella sua pienezza multiforme e irrazionale, in cui ogni nazione ha un suo valore specifico e autonomo e porta in se stessa la propria intima felicità.28

L’idea di emulare Herder venne suggerita a Lotze dalla pubblicazione del Kosmos29 del naturalista Alexander von Humboldt. Sin dai primi anni di formazione Lotze si era imbevuto delle Ansichten der Natur humboldtiane (apparse nel 1808, ma lette dal nostro nell’edizione del 1826) non solo per i riferimenti scientifici ma anche per le qualità estetiche, tant’è che dedicò all’opera persino una poesia.30 Apelt, che lesse insieme a Lotze le Ansichten di Humboldt, valutò l’opera allo stesso modo: «Il vero incanto dell’opera di Alexander von Humboldt sta nel fatto che […] non tratta esclusivamente un tema scientifico, bensì idee estetiche».31 Tuttavia, la lettura del Kosmos apparve a Lotze non sempre interessante e di scarso aiuto; così a suo avviso il Microcosmo si sarebbe dovuto collocare proprio tra le Idee di Herder e il Kosmos di Humboldt (come presupposto e integrazione).32

Eppure il Microcosmo lotzeano è una versione ‘popolare’ di quanto già accuratamente meditato negli anni della formazione e reso pubblico con i contributi all’Handwörterbuch di R. Wagner e con i copiosi saggi di patologia, fisiologia generale e di psicologia fisiologica33 e si inserisce nel solco della tradizione le cui origini possono esser fatte risalire a Cusano, Pico, Bruno e Böhme.

Non possiamo ovviamente ripercorrere la genesi dell’idea di Mechanismus che si affaccia sin dai primi scritti e attraversa tutta la produzione lotzeana.34 Tuttavia, bisogna chiarire gli aspetti salienti, anche per dare un’idea di come la filosofia della religione di Lotze nasca dai presupposti fisio-psicologici che animano il suo universo.

Il primo assunto da cui partire è che mondo organico e mondo inorganico sono in stretta continuità. Non c’è alcuna cesura causata da una ‘forza vitale’ misteriosa che agisce a livello spirituale nell’anima umana. La ‘nuova’ fisiologia deve superare la fase del misticismo scientifico e aprirsi ai principi del meccanismo; è venuto il tempo, osserva Lotze, di traghettare le teorie meccanicistiche nella regione del mondo organico. «Il Mechanismus — nella versione kantiana ripresa da Lotze — appartiene alle forme trascendentali dell’intuizione e comprende in tal senso il sistema di tutti i processi meccanici tra i fenomeni fisici, chimici e organici della natura».35 La fisiologia del suo tempo, a differenza della fisica, aveva commesso, a suo avviso, l’errore di mescolare fondamenti e conseguenze, cause ed effetti con elementi inammissibili, come ad esempio i concetti di forza vitale (Lebenskraft), anima (Seele) o impulso (Trieb). Le scienze naturali non operano sulla base di presupposti metafisici, ma in via ipotetica36 allorché si danno certe condizioni che la scienza non può fondare con mezzi propri. In altri termini, per spiegare uno stato di cose (Sachverhalt) e la sua validità bisogna ricondurre il coesistente (Zusammensein) all’omogeneo (Zusammengehören) in base a una legge universale.37

Lotze intende il Mechanismus come idealizzazione (Idealisierung), teoria esplicativa (erklärende Theorie) e principio di funzione (Funktionsprinzip). Di qui consegue la definizione corretta di organismo: «L’organismo vivente, considerato come Mechanismus, si differenzia da tutti gli altri meccanismi per il fatto che in esso è ammesso un principio di turbamenti immanenti che, senza alcuna legge matematica, seguono le loro azioni e reazioni».38 In breve, l’organismo produce movimenti autoregolativi in cui sono intercettati i moti dei turbamenti esterni entro limiti certi di stabilità. Tale stabilità è ovviamente relativa e dipende dall’ordine o disordine dei punti di partenza (Angriffspunkte). Sta di fatto che il sistema meccanico, che si fonda sul principio di uguaglianza di azione e reazione, funge da ‘occasione’ estrinseca per il sistema dinamico che, grazie alla caratteristica di ‘irritabilità’, reagisce con uno sforzo.39 Dall’equilibrio o dallo squilibrio delle forze in campo derivano le nuove concezioni di salute, malattia e morte sulle quali non possiamo soffermarci.

Il secondo assunto, strettamente correlato al primo, è che il ‘meccanismo’ lotzeano non è mero meccanicismo. Qui si situa il raffronto con il materialismo ‘volgare’ (per es. di un Vogt o di un Moleschott) che riduce tutti i processi a effetti naturali della materia. Lotze, al contrario, memore della lezione di Leibniz ed erede della tradizione aristotelica, fa ricorso al concetto di finalismo che coincide con la dynamis. Non si tratta della ‘causa finale’, ma del motore interno e immanente alla realtà che tiene unite le forme dinamiche che reagiscono alle cause occasionali prodotte dal sistema meccanico. Tale dynamis, pur riportando in armonia il sistema teleo-meccanico,40 non è un ordine fissato dall’alto, come la leibniziana armonia prestabilita, ma introduce elementi qualitativi, accanto a quelli quantitativi, che sono in grado di spiegare il perché di ‘questo’ fenomeno e non dei fenomeni in generale.

Il terzo presupposto fondamentale, anch’esso strettamente correlato ai primi due — che fungerà da base per la critica all’essere irrelato di Herbart — è il concetto di Wechselwirkung, ovvero di interazione universale come Angriffspunkt della costruzione della realtà. La stessa disputa con Herbart, mediata dall’interpretazione di un suo allievo, Drobisch, parte dall’analisi critica della teleologia. Herbart ne aveva riconosciuto la funzione di ‘ponte’ tra la realtà naturale e la fede religiosa e Drobisch la considera come il rimedio che Lotze usa contro il fatalismo. Sennonché, e in questo consiste sua critica, Lotze fallisce e ricade egli stesso in un fondo oscuro molto simile al fato.41 Difatti, secondo l’allievo di Herbart Lotze, assumendo la finalità come legge (dover essere) in grado di unificare il molteplice, fonda la struttura del reale sul vuoto perché non tutti gli scopi sono morali. Per Lotze, al contrario, Herbart non ammette la finalità nella propria visione del mondo, quindi non può dimostrare la coesistenza organizzata degli enti. Senza seguire nel dettaglio la replica puntuale di Lotze, si può osservare che da un lato il filosofo di Bautzen riconosce in Herbart la corretta impostazione della domanda sul Mechanismus e il rigore con il quale ha condotto le sue ricerche scientifiche, ma non ne condivide l’idea che i reali siano degli ‘atomi monadici’, senza relazioni reciproche. Se, come dice Herbart, l’essere semplicemente è, ed è un modo di porre, la sua costruzione del reale risulta infondata e il suo mondo dell’’apparenza’, l’insieme degli enti posti dall’essere, finisce col non avere alcuna consistenza. Se non si ammettono leggi generali in grado di orientare il corso del mondo e di rendere omogeneo ciò che semplicemente e irrelatamente esiste, non si può spiegare il perché dell’accadere, degli eventi. Ecco perché Lotze, partendo dai fatti, che per Herbart sono mera apparenza disancorata dall’essente, cerca di spiegare gli enti come «serie di punti di relazione per leggi generali».42 Il mondo è, in ultima istanza, un insieme di relazioni (Wechselwirkungen) ordinate secondo una legge generale (teleologia) che si fonda sul concetto di valore. Quest’ultimo non è un’entità metafisica, bensì trascendentale: è ciò che deve essere realizzato in quanto valido, ciò che sovrintende al corso del mondo non come causa, ma come orientamento della scelta al fine di superare le tensioni e le contraddizioni dell’universo. Ora, è proprio nel solco della teleologia, in cui si incontrano il Kant della Critica del Giudizio, Schelling, Schleiermacher e Trendelenburg,43 che Lotze situa la sua filosofia della religione.

5. La Wechselwirkung di anima e corpo

Tra le questioni specifiche della filosofia della religione vi è certamente quella dell’anima umana, della sua origine, della sua relazione col corpo, e del suo destino. Lotze, da par suo, affronta tutta l’intricata materia con gli strumenti della sua Medicinische Psichologie in cui si confronta con le grandi teorie (materialismo, realismo, idealismo, spiritualismo) che allora andavano per la maggiore. Il cammino di Lotze è segnato: dall’organismo-meccanicistico al ‘regno delle anime’, un’indagine serrata sulle relazioni stimolo-sensoriali tra corpo e anima sino a quell’integrazione metafisica necessaria per opporsi al mero riduzionismo naturalistico.

La nozione di fondo che permette la perlustrazione del rapporto fisico-psichico è sempre quella di Wechselwirkung, che abbiamo esaminato a livello metafisico per marcare la distanza di Lotze da Herbart, ma che ora vediamo nella sua funzione di esplicazione conoscitiva del nesso fisio-psicologico tra anima e corpo. Come accade che la mente possa conoscere gli oggetti esterni, come reagisce la psiche dinanzi agli stimoli sensoriali, qual è la relazione tra l’elemento oggettivo della realtà esterna e lo stato elementare soggettivo? A questi interrogativi Lotze dà risposta a partire dalla sua Psicologia fisiologica, opera interamente dedicata alla questione.44 Ci limiteremo a enucleare le tesi di fondo contenute nel primo libro, I fondamentali concetti generali della psicologia fisiologica.

Il punto dei partenza del filosofo lusaziano è cercare di stabilire come sia possibile riferirsi a un unico principio vitale (anima) quando le nostre osservazioni scientifiche ci presentano almeno tre tratti fenomenici distinti: concepire (Vorstellen), sentire (Fühlen) e desiderare (Begehren)45 e, accanto a questi, la percezione dei cambiamenti, ovvero il fenomeno della coscienza (das Phänomen des Bewusstseins). In base a una teoria consolidata i nostri stati psichici sarebbero collegati in qualche modo, sia nella sostanza sia nella forma, agli stati fisici del nostro corpo. Ma per quanto ci sforziamo di trovare ad es. nell’onda sonora l’unica causa della produzione del suono, non risulta alcunché che ci possa aiutare a spiegare l’insorgenza del corrispettivo stato psichico. «Nell’azione continua — asserisce Lotze — o nell’accrescimento uniforme di una forza semplice non si troverà mai il principio in virtù del quale ha dovuto produrre degli effetti incostanti di eclatante diversità, né mai nella natura della stessa forza il principio in base al quale essa ha dato luogo, qui e là, a degli effetti qualitativi differenti».46 Allora è necessario ipotizzare una seconda premessa in grado di chiarire come tali impressioni agiscono di concerto per produrre effetti psichici. La psicologia viene incontro, anticipando così la conclusione di un percorso più articolato, e introduce un particolare principio sostanziale: l’anima. Così facendo, tuttavia, non reca alcun guadagno concreto,47 né l’ipotesi di un principio sostanziale potrebbe valere se non come ‘parte della verità’ (Theil der Wahrheit).48 L’unità della coscienza, sotto la quale ricadranno tutte le sensazioni prodotte dagli stimoli esterni, è una conquista progressiva che si sviluppa man mano che le impressioni vengono raccolte e organizzate. Orbene, stanti le difficoltà che gli stessi fisiologi hanno riscontrato, mettendo in relazione i fili conduttori degli stimoli con i centri nervosi fino a restringere il campo a un unico centro immateriale, non si può che «… costruire l’unità della coscienza con la diversità degli stati che si condizionano reciprocamente e che si producono simultaneamente o successivamente negli elementi differenti della massa nervosa».49 Questa via, che a tutta prima sembra a Lotze praticabile, si scontra con una serie di impedimenti: l’unità della coscienza non può essere intesa né come risultante di un parallelogrammo di forze,50 né come il punto limite di propagazione degli stimoli, come accade ad es. per i cerchi concentrici nell’acqua che si allontano progressivamente dal punto sollecitato. Di conseguenza, non ci troveremmo di fronte a un’unica anima, bensì a «un aggregato di molte piccole anime» (ein Aggregat vieler kleinen Seelen).51 Per Lotze sembra a questo punto preferibile la via della vita interiore degli elementi materiali (pan-psichismo) a patto però che ciascuno degli elementi nervosi possa comunicare i propri stati interiori solo attraverso un impulso fisico attraverso il quale si riproduce nell’altro lo stesso stato.

Sulla base di queste premesse il maestro di Gottinga passa a confutare quello che definisce il ‘dogmatismo’ del materialismo, ovvero la pretesa infondata di ridurre ogni elemento psichico, compresa l’anima, a interrelazioni di carattere fisico, di trasformare la conoscenza della vita dell’anima in una scienza naturale.52 Per quanto la fisica e la meccanica possano rendere conto dei movimenti della materia, e la biologia e le scienze naturali possano fornire le leggi generali per i corpi organici, il bisogno di unità del molteplice ci induce a generalizzare sempre più tali leggi sino ad arrivare a principi di carattere metafisico che sottendono ogni essere animato o inanimato che sia. Pertanto, a questa dinamica metafisica generale (dieser allgemeinen metaphysischen Dynamik) si subordinano i due settori, psicologia e fisica, e tutto ciò che, nella visione materialistica, rientrava all’interno di un’esplicazione scientifica verrà ritenuto come una legittima introduzione alla vita dell’anima (Seelenleben).

Non possiamo per ovvi motivi seguire Lotze nelle sue articolate dimostrazioni relative alle incongruenze dei materialisti, soprattutto di coloro che da un lato ritengono, ad es., scientificamente impossibile l’immortalità dell’anima e dall’altro la reintroducono surrettiziamente come postulato della ragion pratica, assieme alla libertà dello spirito umano.53 Né possiamo riprendere l’idea di una forza vitale, che ora viene affiancata dai materialisti all’anima — e con essa rigettata — ma che, spiega Lotze, non è affatto ad essa assimilabile. D’altronde, se anche esistesse un’unica forza vitale54 questa agirebbe a livello dei fenomeni fisici e non potrebbe essere centro propulsore di stati psichici o spirituali che non sono né identici, né analoghi agli stati fisici.55

Altrettanto determinata è la critica di Lotze agli idealisti che risolvono la realtà nell’idea e, così facendo, riducono a mera parvenza dell’assoluto ciò che i materialisti considerano gli elementi primitivi della realtà. L’ipotesi idealista non dissolve le nubi che si addensano sul come possano sorgere da un assoluto indistinto le forme particolari degli esseri viventi, la direzione delle loro mutue reazioni e le leggi in base alle quali tali influenze reciproche sono possibili.56 Finanche alle teorie spiritualiste, che propongono un’intuizione immediata della cosa (cognitio rei) e non una conoscenza indiretta a partire dai suoi caratteri esteriori (cognitio circa rem) ,57 sfugge la vera natura dell’anima per gli stessi motivi per cui sfugge ai materialisti l’essenza delle cose. Esiste un oscurità di fondo (ein vollkommen dunkler Kern) che avvolge non solo l’indagine attorno alla materia ma anche l’intuizione spirituale: «Infatti, troviamo malgrado tutte queste chiare intuizioni immediate, una grande oscurità (eine große Dunkelheit) nella vita spirituale […] ci manca una percezione chiara del modo in cui si combinano i cambiamenti elementari e semplici per produrre questa diversità di fenomeni così complessa che si offre in un’anima pienamente sviluppata».58 Parafrasando, si potrebbe applicare alla dialettica anima-corpo tra materialisti e spiritualisti il famoso adagio di Kant: l’anima senza il corpo e i suoi meccanismi è una forma vuota, il corpo senza l’anima e la sua guida è un aggregato cieco.

Esaurita la pars destruens Lotze passa alla pars construens affrontando il fondamentale punto della Wechselwirkung tra anima e corpo, ovvero le caratteristiche di un meccanismo psico-fisico.59

La via del maestro di Gottinga è senza dubbio una ‘via lunga’, un percorso che, lontano dalle spesso infelici semplificazioni di una ‘schellinghiana’ intuizione intellettuale (poesia, fede religiosa, ecc…) intende attraversare, con gli strumenti della psicologia scientifica (alla quale lo stesso Lotze contribuirà in maniera decisiva), l’universo dei fenomeni e le leggi che lo regolano. Dire che l’anima è una sostanza è dire tutto e nulla nello stesso tempo, poiché restano senza esplicazione le serie delle condizioni nonché tutte le leggi in virtù delle quali, a certe condizioni date, si producono nell’anima tali fenomeni.60 Allora non rimane che parlare delle reazioni reciproche tra anima e corpo sgomberando il campo da false interpretazioni. Anzitutto, non si tratta di reazioni tra molecole o elementi dotati di massa, dato che l’anima di certo non è una molecola. Ma chi si oppone alla reazione reciproca anima-corpo, sulla base di tale falso presupposto, deve essere in grado di spiegare in cosa consistono le interazioni tra corpi, ad es. come si spiega la coesione interna delle parti materiali che è una delle condizione affinché si dia tale azione di scambio inter-corporea. Di qui non bisogna concludere che tutte le interazioni sono inesplicabili e pertanto dobbiamo abbandonare l’indagine. Al contrario, proprio perché non possiamo accontentarci del senso comune, che ci indirizza verso un dualismo anima-corpo, tra essere ideale ed essere materiale, dobbiamo inoltrarci in quel sentiero che ci permette di salvaguardare la comune sostanza che li unisce. «L’anima è ideale — ammette Lotze — in rapporto alla natura del suo contenuto e in opposizione alla materia delle cui qualità non porta traccia; ma è, come la materia, una sostanza realmente presente e non possiede in minor grado questa realtà dell’essere autonomo da cui dipende la capacità di porre in movimento qualcosa nel mondo».61 Quindi è possibile che materiale e spirituale siano in relazione reciproca, sebbene sia impossibile spiegarne scientificamente il nesso. Ma ciò che è inspiegabile per la scienza non significa che non esiste.

Il procedimento che utilizza il filosofo di Bautzen per legittimare l’ipotesi dell’anima si articola in varie fasi: 1. esistono delle qualità interiori e distintive della sostanza che, pur non essendo in movimento, esercitano un’influenza sulla produzione dei movimenti della materia e che, pur ricevendo le stesse ‘occasioni’ dal mondo meccanico, danno origine a forme differenti; 2. dobbiamo supporre che la natura dell’anima offre delle proprietà interiori particolari grazie alle quali i movimenti spazio-temporali possono trasformarsi in stati spirituali; 3- non possiamo spiegare come avviene tale trasformazione almeno in base al metodo deduttivo della scienza psicologica, ma abbiamo il diritto di sperare (hoffen) in una risposta alla domanda sull’interconnessione tra stati interni ed esterni in base a leggi generali, cioè la vita fisiologica dell’anima (das physiologische Seelenleben).62

Il compito della psicologia fisiologica, secondo Lotze, è solo quello di «… descrivere questi fenomeni della vita che risultano precisamente da una reazione costante (Wechselwirkung) tra l’anima e il corpo».63 Pertanto devono essere esclusi tutti quei tentativi di semplificazione che riducono a ‘immediatezza’ ciò che va conquistato attraverso la via mediata della scienza e della metafisica dinamica. Ciò non significa che su un altro livello, ad es. quello religioso, non si possa far ricorso a una unilateralità più grande (größerer Einseitigkeit) per parlare dei nessi corporei e della loro dissoluzione nella vita futura o anche in quella presente grazie a una santificazione misteriosa.64 E purtuttavia non possiamo non attenerci agli strumenti che la psicologia scientifica ci offre per stabilire non solo in che modo il corpo è organo dell’anima (il che è già stato fatto in maniera appropriata dagli spiritualisti) ma soprattutto in che modo l’anima ha bisogno del corpo.

Intanto non bisogna parlare di attività dell’anima, bensì di facoltà, cioè a dire di attività allo stato latente dato che, per la loro attivazione, necessitano delle occasioni che provengono dal mondo fisico. La loro funzione è quella di combinare e organizzare, in armonia con la disposizione reale delle cose, gli impulsi e gli stimoli che forniscono per così dire il materiale grezzo. Se l’anima non fosse in grado di fare ciò non sarebbe che l’eco isolata degli stimoli fisici, del tutto priva di attività peculiare. Così, Lotze passa in rassegna alcune di queste facoltà, da quelle inferiori a quelle superiori, dalla suddetta capacità organizzativa alla libertà, dalla percezione sensibile alla comparazione e di qui al pensiero, sino ai sentimenti estetici ed etici, nonché al bisogno religioso. Il procedimento è sempre lo stesso: dimostrare l’insufficienza dell’ipotesi materialistica — che pure fornisce la base per l’innalzamento dell’architettura psicologica — e far ricorso all’autonomia dell’anima la quale è in grado sua sponte di innalzarsi oltre l’agglomerato delle impressioni per esercitare tali facoltà. Gli esempi della vibrazione della corda, che necessita del materiale fisico ma che, per innalzarsi a livello di suono melodioso, richiede l’imprinting di colui che la fa vibrare, oppure l’esempio del riso, che non nasce come risultante di una connessione di azioni e reazioni chimico-fisiche a livello del nervo ottico, ma è una facoltà specifica dell’anima in grado di raccogliere e organizzare idee già prodotte e depositate nella memoria65 assieme a quelle in via di formazione, sono esemplificativi di quanto Lotze viene dicendo contro i due riduzionismi, quello materialistico e quello spiritualistico. Anche le obiezioni alla frenologia, che pure viene considerata alla stregua di una scienza (nella sua nuova veste ‘provvisoria’), sono fondate sull’impossibilità che una scienza, che fa del rigido determinismo fisiologico e cranioscopico il suo punto di partenza, riesca a dar conto, per es., della varietà dei fenomeni religiosi, dalla demonofobia alla fede sincera e istintiva fino al culto intellettivo della divinità.66

Ora, per Lotze non resta che stabilire il posto (Sitz) di questa sostanza immateriale,67 non composta di parti e che non occupa né volume né spazio, per poi affrontare l’ipotesi più ardita: l’immortalità. Il filosofo lusaziano parte dall’assunto che, pur non occupando uno spazio, l’anima abbia un suo luogo (Ort).68 Non si tratta però né dell’estensione, in cui agirebbe un Dio onnipresente se l’estensione fosse un suo attributo, né della relazione immediata in cui, diversamente dall’estensione, c’è una determinazione di spazio a scapito della costanza della forza che diminuisce a seconda della localizzazione. Ci sarebbe una terza ipotesi, quella che presuppone una sostanza capace per sua natura di avere relazioni immediate solo con un numero definito di altre sostanze, mentre con altre solo di tipo mediato. In altre parole, Lotze sta tentando con questa ipotesi di legittimare l’unità e la pluralità di una sostanza a che, pur essendo una, ha tuttavia relazioni immediate con sostanze b b’ b“ e non con altre c c’ c” pure presenti e che si muovono, come b, nello stesso spazio, ma con queste a non intrattiene relazioni immediate. Mutatis mutandis, l’anima non si relaziona con tutto il corpo, ma solo con alcune parti di esso; segue la via del sistema nervoso, attraverso quei terminali che sono i nervi i quali trasmettono gli impulsi al cervello e ricevono da esso informazioni che originano il movimento e le nostre attività sensoriali. Dunque, l’anima si trova nel cervello ma non come centro connettivo di tutte le sensazioni originate dagli stimoli esterni. L’anima ha il suo posto ovunque si estendono gli esseri con i quali è in relazione.69

Nel capitolo relativo alla genesi e al destino dell’anima Lotze affronta l’ultimo grande problema: se l’anima coincida o meno con la coscienza (anima rationalis) oppure se si debba parlare, come sostiene Fechner, di anima delle piante e delle stelle, quindi della Weltseele.70 Il rapporto di incontro-scontro con Fechner71 è essenziale per comprendere anche la capitale questione dell’origine e della fine delle anime. Procediamo con ordine. Fechner mira all’universale e sminuisce fino ad annullarla l’unità della coscienza individuale. Così facendo, può assumere che tutti gli organismi viventi, e finanche i corpi materiali, posseggono un’anima (pan-psichismo). Lotze, al contrario, intende salvaguardare la personalità individuale (compresa la personalità di Dio) e si allontana dall’ipotesi sinecologica di Fechner abbracciando un sostanziale monadismo di matrice leibniziana.72 Il motivo per il quale Lotze, pur ammettendo in via condizionale che anche la sostanza inerte possa avere un’anima, non giunge alle conseguenze di Fechner è legato all’idea di teleologia universale. Solo nella vita spirituale e a partire dall’anima è possibile realizzare lo scopo universale verso il quale tende ogni sostanza. Gli elementi ‘inerti’ del mondo sono mezzi utili allo scopo ma sempre inconsapevoli. Gli stessi concetti di materia e forza, lungi dall’essere cause della realtà sono dei meri effetti, anch’essi originati da superiori forze spirituali che dirigono il mondo verso la sua piena realizzazione. E tale meta del mondo non è altro che il bene, la cui presenza nella vita spirituale si chiama sentimento (Gefühl). Ora, il sentimento non è tipico degli esseri superiori, ma è «la capacità di percepire le eccitazioni, le impressioni esteriori sotto la forma di piacere e di dolore».73 Dunque, è comune a tutti gli esseri, animati e inanimati, ma ciò non significa che ad es. le anime (coscienze) degli esseri inanimati abbiano ‘consapevolezza’ della loro posizione nel mondo. Possono tuttavia anch’esse svilupparsi sino all’autocoscienza. Un atomo di materia esercita la sua vita spirituale attraverso il ‘sentimento’ di piacere o dispiacere a seconda della dilatazione o contrazione che subisce. Eppure nella dinamica tra mezzi e fini gli esseri inanimati restano comunque in posizione subordinata rispetto alla perfezione dell’insieme, non possono essere considerati (come sostiene il pan-psichismo) alla stessa stregua degli esseri animati o dotati di autocoscienza.74 Tutti gli esseri però sono ugualmente assoggettati alle stesse leggi immutabili che regolano l’universo spirituale. Orbene, cercando di stabilire qual è il principio su cui si fondano tali leggi Lotze, dopo aver passato in rassegna le teorie realiste e idealiste di Herbart e Hegel (a suo avviso ugualmente incomplete), si risolve nell’accettare una teoria materialista deprivata, però, dei suoi principi. In altre parole, i materialisti, ritenendo l’anima nient’altro che la risultante dei sentimenti naturali dei genitori,75 al pari del corpo — da cui consegue che l’anima svanisce col corpo — hanno tuttavia argomentato in maniera soddisfacente la questione dell’immortalità dell’anima delle bestie.76 Lotze, per il quale l’anima resta un centro relativamente fisso di azioni convergenti e divergenti, ne nega recisamente l’incondizionatezza: «essa ha un inizio e una fine» e dipende da una «forza creatrice che le dona o le ritira l’esistenza».77 «È il risultato necessario alla cui produzione la ragione creatrice universale è costretta dalla forza retroattiva di un momento di questo corso del mondo che essa stessa ha creato e al quale lascia la realizzazione dei suoi fini».78 Questa prima conclusione, pur concedendo a Dio (potenza o mente creatrice) il potere assoluto di porre in essere le anime individuali, tuttavia ne limita l’azione lasciando al corso del mondo (sempre creato da Dio) di conseguire i propri fini. È un Dio, in estrema sintesi, che si serve del mondo che ha creato e delle sue leggi meccaniche, senza poter intervenire a modificarne il corso. Non sembra tuttavia che questa conclusione possa soddisfare coloro che rimettono in Dio la propria speranza e il proprio bisogno religioso. È un Dio cartesiano-newtoniano che prima dà il ‘colpettino’ e poi si ritira dal mondo. E poi, un potere che è limitato dal mondo che esso stesso ha creato non è più un potere assoluto. È necessaria pertanto una seconda ipotesi secondo la quale Dio non ha bisogno di intermediari dato che tutto ciò che accade di fenomenico nel mondo avviene grazie e a partire dalla sua ragione universale. Il mondo fisico con i suoi stimoli reagisce sull’assoluto e lo eccita a creare in uno spazio-tempo un’anima che possa aver coscienza della creazione e gioirne (in sommo grado l’anima umana). Ciò non vuol dire che la vita spirituale abbia origine nella vita materiale. «Sono dei movimenti interiori all’anima che decidono quale sarò il numero di quei semi che produce il corso naturale dei fenomeni per servire alla manifestazione di una nuova vita dell’anima. Così, la storia del ‘regno delle anime’ forma un tutto continuo per la cui realizzazione il corso intero della natura non è che un mezzo».79

6. Creazione, preservazione e governo del mondo

Tralasciando le argomentazioni più confacenti al teismo personalistico, relative all’essere spirituale e personale dell’Assoluto80 — facilmente confutabili da coloro che negano il teismo (personale e impersonale) — nonché l’analisi degli attributi di Dio (unità, incangiabilità, onnipresenza, onnipotenza, eternità, auto-coscienza) ,81 per i quali valgono le considerazioni di Kant82 e che sono più pertinenti a una teologia filosofica che a una filosofia della religione, passiamo a indagare i tre aspetti della creazione, preservazione e governo del mondo che implicano: 1. la libera volontà creatrice di Dio; 2. la preservazione come ‘nuova’ creazione; 3. l’intervento di Dio nella storia al cospetto della libertà umana.

Le tre questioni, che sono ovviamente di carattere teologico, interpellano altresì la filosofia della religione per una serie di motivi. In primo luogo perché vengono affrontate a partire dall’analisi empirica della realtà data; in secondo luogo perché le risposte non sono mai definitive, ma valgono per uomini di religione che si spingono oltre le evidenze della ragione scientifica; in terza istanza, per il rigore logico con cui vengono affrontate, senza ricorso a verità dogmatiche, nemmeno al postulato dell’esistenza di Dio come principio regolativo.

Le principali teorie legate alla creazione dell’universo,83 trascurando i miti cosmogonici, possono essere ricondotte a tre: 1. la creazione come sviluppo della natura di Dio (emanazionismo); 2. la creazione come espressione della volontà di Dio; 3. la creazione come atto di Dio.84 La prima ipotesi, sebbene a prima vista non riconducibile a un pensiero religioso, è tuttavia teoricamente corretta. Ciò implica inevitabilmente un determinismo di fatto, dato che, in base alle leggi che regolano l’universo, ciò che è accaduto accadrà ancora se si danno le stesse condizioni. Il punto di vista religioso, al contrario, ammette che, accanto alle leggi universali, si diano anche atti volontari dei singoli, che si accordano a quelle leggi, ma che producono altresì nuovi accadimenti altrimenti inesistenti. Di qui il passo è breve per giungere alla seconda teoria, quella della volontà creatrice di Dio, che però non può essere considerata in analogia con la volontà umana. Questo non solo a causa del problema dell’akrasia85 che affligge l’umano volere, ma anzitutto perché le nostre scelte sono il frutto di esperienza e sono operate per produrre uno stato non ancora esistente, o per modificarne uno già esistente. Cioè, avvengono nel tempo come atti puntuali che creano variazioni nell’ordine delle cose. La volontà divina di creare il mondo, in base a tale teoria, non si concretizzerebbe in un atto puntuale ma sarebbe eternamente presente in Lui come un suo predicato. Rispetto alla prima ipotesi, la seconda sostituisce la volontà alla natura ma l’esito è pressoché identico. Per evitare il rischio dello sviluppo involontario è necessario assumere qualche atto o opera da aggiungere alla volontà. Ci viene in soccorso anche in questo caso un’analogia. A livello psicologico un nostro atto di volontà produce una variazione dello stato interno. Ma noi non siamo affatto consapevoli del risultato che la legge naturale ha collegato a questo stato interno.86 Avvertiamo semplicemente i cambiamenti che la volontà, in modo a noi imperscrutabile, ha causato e da cui nascono, con un supplemento di interazioni psico-fisiche, gli effetti nella coscienza. Ora, dice Lotze, se paragoniamo l’atto di volontà di Dio al meccanismo che opera nella nostra mente, l’analogia non regge. Anche qui dobbiamo concludere che è solo il nostro bisogno genuinamente religioso che ci fa invocare un’opera creatrice di Dio. In estrema sintesi, la creazione non è uno sviluppo meramente involontario della natura di Dio; non è uno sviluppo della sua volontà; non è un atto specifico consequenziale alla sua volontà; non è creazione dal nulla, intendendo per nulla positivamente una sorta di fondo materiale da cui è stato creato il mondo. Non ci può essere alcuna descrizione del processo creativo, dato che non esiste un processo creativo.87 L’unica cosa che si può dire è che per un uomo religioso il concetto di creazione ha un senso solo se inserito all’interno di un disegno divino.

I Grundzüge presentano un ulteriore paragrafo sulla Zulassung zur Existenz che, pur ribadendo le conclusioni precedenti che si radicano su un ‘oscuro bisogno emotivo’ (unklar gefühltes Bedürfnis), aggiunge una nota di sapore hegeliano.

Se il mondo non è uno ‘stato’ di Dio, allora deve essere qualcosa di per sé (etwas für sich).

Una interpretazione pratica del valore che ha questa espressione, ‘essere per sé’, consisterebbe nel fatto che ogni essere, che organizza i suoi stati in un proprio centro, è consapevole del suo sé, assapora il suo essere come il ‘suo’, esercita una volontà che riconosce come ‘sua’ e di qui, grazie al suo agire, è qualcosa di autonomo, è un essere per sé e non una semplice condizione di un altro, nemmeno dell’essenza divina. Ma se questa essenza è tale, la si può rintracciare tanto ‘in’ Dio quanto al di fuori di lui. E, da un mondo che è indipendente per sua natura, rimane distinto — e poi in grado sempre uguale — l’essere personale di Dio quand’anche pensassimo questo mondo come esterno a lui, o assumendo che esso, con questa interna autonomia, è pur sempre un prodotto in lui immanente della sua attività.88

In altre parole, anche supponendone l’indipendenza, il mondo non può che essere o ‘in’Dio o al suo esterno, e né in un caso né nell’altro va a inficiare il suo essere personale.89

Prendiamo ora in esame la ‘preservazione del mondo’. Il problema che subito si presenta, ma che già Descartes aveva incrociato senza darne una soluzione definitiva, è quello di combinare le leggi eterne (quelle che nella corrispondenza con Mersenne Descartes chiamava ‘verità eterne’) con la volontà di Dio. Ora, le leggi possono esistere o negli elementi stessi che interagiscono, nell’istante in cui avviene la Wechselwirkung, oppure nelle menti che osservano e comparano gli eventi. Non esistono all’esterno, ‘tra’, ‘accanto’ o ‘al di sopra’ delle cose che vi obbediscono.90 Tali leggi non sono altro che il ‘modo’ della nostra esperienza o la ‘forma’ della nostra attività, sono dentro di noi ma non conosciamo il nesso che le unisce. Non possiamo nemmeno descrivere come in Dio tali leggi siano perfettamente in armonia, poiché siamo esseri finiti. Però possiamo di certo negare che le leggi siano il modus agendi di Dio perché chiaramente si lascerebbe determinare, perdendo la sua onnipotenza, da leggi che osserva mentre agisce, pur essendone il promulgatore. Qui l’onnipotenza, ribadisce ancora una volta Lotze, non va intesa in maniera teorica, come capacità di potere ogni cosa, ma come potere supremo in atto, un’espressione per indicare l’efficacia dell’agire di Dio.

Il problema di fondo tuttavia rimane: se l’onnipotenza è co-estensiva alla sua natura, come si spiega che Dio ha una natura determinata e non un’altra delle innumerevoli possibili nature? Se ogni determinazione è negazione, come dice il famoso adagio, come può Dio essere qualcosa senza privarsi di qualcos’altro? Anche qui bisogna distinguere tra una ratio cognoscendi (se di un soggetto s diciamo che è a, neghiamo al contempo che sia b o c) e una ratio essendi (non è detto che il soggetto sia realmente a). Ma quanto detto vale per noi esseri finiti che, dotati di una natura a, non possiamo essere b e g, nature diversa dalla nostra, e ne avvertiamo il limite. La natura di Dio non è una delle possibili nature che derivano da un unico M che le sovrasta tutte. Essa è unica, è la fonte primaria della realtà e, per quanto la ragione possa comunque negarne l’esistenza, giungerebbe al termine del suo percorso a una serie di aporie insanabili.

Tutte queste precisazioni servono per giustificare la tesi che Dio preserva il mondo e non lo lascia procedere solo in base alle sue leggi. Alla posizione cartesiano-newtoniana, in base alla quale Dio ha creato il mondo imponendo le sue leggi e poi lo ha lasciato a se stesso, la visione religiosa oppone la teoria della preservazione come ‘nuova creazione’. Ciò non significa che il mondo in un istante successivo b è altro rispetto all’istante precedente a. Vi è assoluta unità e coerenza e per questo l’atto creativo dell’istante successivo è anche conseguenza di ciò che precede. L’idea di una ‘nuova creazione’ e della cooperazione di Dio nella preservazione del mondo sarebbe superflua se valesse la tesi di un mondo che in ogni istante perpetua se stesso con le sue leggi.91 La conclusione, per Lotze, è che se consideriamo un micro-sistema e vogliamo carpirne le leggi, allora sono efficaci le scienze naturali; ma se vogliamo cogliere il mondo as a whole, allora non si può che asserire che il mondo non preserva se stesso ma è preservato da Dio.

Se nelle Outlines del 1875 la sezione sul ‘governo del mondo’, come vedremo, sviluppa le argomentazioni a sostegno della plausibilità dell’intervento di Dio nella storia, i Grundzüge affrontano la questione da un altro punto di vista. Il presupposto è che per governo del mondo si debba intendere non solo che Dio custodisce e protegge un mondo già plasmato, ma che lo organizza e lo reinventa fissando il suo contenuto, l’ordine interno, la sua meta e il movimento verso di essa.92 Ora, la critica di Lotze è indirizzata alle forme indefinite (somma beatitudine, progresso, educazione dell’umanità)93 con le quali taluni sistemi di pensiero hanno cercato di risolvere la questione del governo del mondo. Per Lotze, né il panteismo, che includendo Dio nella storia lo fa sottostare alle leggi della natura, né il positivismo, con la sua idea di progresso infinito, né lo spiritualismo, che presenta la storia come educazione divina dell’umanità, hanno colto il vero significato della storia. Il panteismo, con il correlativo idealismo, finirebbe per risolvere l’ordine seriale del mondo all’interno della mente dei filosofi, o nel godimento dello spirito divino. L’idea di progresso escluderebbe gran parte degli uomini che non ne traggono vantaggio, così come l’educazione divina dell’umanità non terrebbe conto dei regni vegetale e animale che necessitano di tempi non commisurabili a quelli dell’uomo. In conclusione, il vero governo del mondo deve tener conto della storia dei singoli individui e delle singole specie per far sì che proprio tutti possano godere del piacere (Genuß) e della somma beatitudine (höchste Seligkeit) che sono gli scopi dell’universo. Solo che le nostre riflessioni non possono giungere a tanto: per Lotze la storia resta una palestra, un tempo di esercizio (Übungszeit) attraverso il quale le menti libere si preparano alla perfetta comprensione e al godimento del buono tramite le loro libere attività scientifiche, estetiche ed etiche.94

Un approfondimento a parte merita il miracolo (Wunder) che occupa nelle lezioni del 1877 l’intero capitolo riservato alla «preservazione del mondo», mentre nelle lezioni del 1875 appariva all’interno del capitolo dedicato al «governo del mondo», subito dopo l’analisi della libertà degli individui destituita del suo valore teorico. Non ci è noto il motivo per cui Lotze abbia deciso di modificare l’ordine della trattazione; è evidente però che nelle Outlines del 1875 il filosofo di Bautzen intende giustificare l’intervento volontario e libero di Dio in un mondo regolato da leggi armoniche, mentre nei Grundzüge del 1877 la posposizione dell’analisi teorico-pratica della libera volontà sarà dettata dal problema della teodicea.95

Che bisogno ci sarebbe, afferma Lotze nelle Outlines, di un intervento divino se tutto funzionasse in base all’ordine fissato sin dalla creazione? Proprio perché «governo», e non «preservazione» del mondo, il filosofo di Bautzen fa ricorso a un elemento che incrina l’equilibrio, ovvero gli atti liberi degli spiriti individuali capaci di iniziare una nuova serie di eventi. La libertà, tuttavia, non va intesa in senso teorico come una capacità potenziale di compiere tali atti, bensì come la conditio sine qua non per l’adempimento di imperativi etici che non derivano da fonti superiori96 e per la possibilità della successiva valutazione del determinato atto di volizione.97 Ora, tali imperativi potrebbero anche scaturire dal corso meccanico-naturale degli eventi, e ci troveremmo di fronte a un riduzionismo etico. Ma tale riduzionismo non spiegherebbe i sentimenti di dispiacere, di pena e di colpevolezza che sperimentiamo e che potrebbero indurci a credere che non ci sia speranza di redenzione. Al contrario, si può superare il riduzionismo solo se ci si affida a una credenza (belief) indimostrabile, altrimenti la sofferenza rimarrebbe inspiegabile nell’ordine razionale del mondo.

L’atto di volizione, pertanto, partendo dalla sua condizione necessaria (la libertà), deve concretizzarsi nella vita spirituale superando le forze psichiche che lottano in direzione contraria (condizione sufficiente). Solo allorché la volontà sarà così determinata nella sua intensità da superare gli impulsi psichici involontari che inducono all’azione contraria, saremo in presenza di un atto libero efficace, ovvero che incide sul corso del mondo.98

Una volta assodato che gli esseri spirituali sono esseri liberi, in grado di modificare il corso degli eventi, si può parlare di «governo» del mondo e pertanto degli interventi liberi di Dio che chiamiamo miracoli. Orbene, il miracolo non è un pensiero impensabile (ein undenkbarer Gedanke), cioè l’abolizione o la sospensione temporanea delle leggi naturali; se ciò accadesse il mondo cadrebbe nel caos. Il miracolo non include alcuna alterazione delle leggi di natura, ma solo una variazione di grandezze alle quali le leggi sono applicate. Variazioni che non servono alla natura, la quale rimane del tutto indifferente all’azione infinitesimale degli uomini, ma alla vita interiore delle anime individuali le quali traggono giovamento dagli incentivi che Dio offre attraverso i miracoli. Tali incentivi alimentano la vita spirituale e le visioni religiose, che non sono altro che il frutto di una interazione (Wechselwirkung) tra Dio e gli individui. Solo grazie all’intervento di Dio è concepibile un’esperienza comune tra Dio e gli uomini che si sviluppa nella storia fattuale, una storia ‘imperfetta’ perché lascia spazio agli atti liberi dell’uomo e al rapporto con Dio. Tuttavia, tale esperienza comune risulta essere sempre asimmetrica poiché noi siamo nel mezzo del dramma, non alla fine, e non possiamo conoscere tutti e tre gli atti (creazione, storia del mondo, giudizio finale), cosa che compete esclusivamente a Dio.99

7. Se Dio esiste, perché il male?

Anche Lotze non può esimersi dal confronto con l’atavica questione della teodicea, ma non la risolve con gli strumenti classici della tradizione che culminano nei Saggi leibniziani. Per il maestro di Gottinga il problema del male fisico e morale resta incomprensibile: «È del tutto inutile analizzare i diversi tentativi di risolvere questo problema: nessuno ha trovato a questo proposito il pensiero risolutore e nemmeno io lo conosco […] dove c’è un’inconciliabile contraddizione tra la bontà di Dio e la sua onnipotenza, risolviamoci ad affermare che la nostra sapienza umana è finita e che non comprendiamo la soluzione in cui crediamo».100 Là dove non può arrivare il nostro sapere filosofico, in quanto limitato, arriva la nostra fede che non si accontenta di «considerare il mondo come lo sviluppo di una potenza cieca che procede secondo leggi generali senza discernimento né libertà e senza interesse per il bene e il male».101 Un esito, questo, che ricalca quello di Hume dei Dialoghi sulla religione naturale, in cui l’empirista inglese fa dire a Filone: «non c’è spettacolo della vita umana o della condizione dell’umanità, da cui ci sia possibile, senza la massima violenza, inferire gli attributi morali, o imparare a conoscere quest’infinita bontà, congiunta a un’infinita potenza e a una saggezza infinita, che dobbiamo scoprire unicamente con gli occhi della fede».102 In altri termini, la via empirista non conduce affatto a un essere necessario, dato che tale infinita potenza ci è offerta nell’atto di fede. A conclusioni non dissimili giunge Lotze partendo da un’analisi puntuale delle varie teorie sulla giustificazione del male.

In primo luogo, il male è da ritenersi una necessità metafisica (metaphysische Notwendigkeit) dato che Dio ha scelto il miglior mondo possibile, ma tra mondi ugualmente imperfetti. In tal modo l’onnipotenza divina verrebbe a essere in qualche misura limitata; il che potrebbe anche accadere se le leggi generali (le verità eterne cartesiane) fossero il modus agendi dell’attività spirituale di Dio.103 Ma siccome il male esiste di fatto nel microcosmo in cui opera l’uomo, pur supponendo idealisticamente l’armonia dell’intero, non solo Dio deve agire attraverso le sue verità eterne, ma deve intervenire anche nei singoli avvenimenti storici con la sua volontà creatrice. Se a questo punto si intendesse ancora giustificare il male si ridurrebbe l’onnipotenza divina a ben poca cosa: il concetto di Dio non sarebbe utilizzabile né a livello religioso, né a livello speculativo.104

In secondo luogo, esiste un carattere pedagogico della teodicea: il male sarebbe il mezzo di cui si serve Dio per educare e migliorare l’umanità (Mittel der Erziehung). Ora, a prescindere dal fatto che così si escluderebbe tutto l’universo animale che non è passibile di educazione (nonostante il male fisico appaia chiaramente nel mondo animale sotto forma di tortura ed estinzione di specie), alla fine anche tale argomento fallirebbe per le stesse ragioni del primo, poiché implicherebbe un mondo imperfetto che necessita di miglioramento, dunque un deficit di onnipotenza divina.

Il terzo argomento, dopo quello metafisico e pedagogico, prende in considerazione il male morale (il peccato). Sul piano etico il male morale precede quello fisico, anzi ne è la causa. L’umanità paga il fio del peccato originale attraverso il dolore e la morte. Ma perché, si chiede Lotze, il male fisico deve essere conseguenza della libertà di peccare e come può tale libertà giustificare la sofferenza dell’innocente? Finanche l’ipotesi di uno stadio originario paradisiaco è altrettanto insostenibile poiché attribuirebbe al peccato la forza di cambiare il corso della natura, come sarebbe altresì incomprensibile il motivo per cui la natura non sia riuscita a sanare la ferita inferta dal male morale.105 Né cambia il quadro se invece di un peccato individuale si parla di caduta volontaria dell’intera creazione che «geme le doglie del parto». Sarebbe, quest’ultima, una mostruosità che tramanda di generazione in generazione l’eredità peccaminosa e priva gli esseri futuri della libertà cui sono destinati sin dall’origine.

È evidente, conclude Lotze richiamando quanto scritto nel Microcosmo,106 che la soluzione del problema del male sia impossibile a livello speculativo e si possa accettare solo a livello religioso con un atto di fede. In altre parole, Lotze rimanda a uno stadio religioso (che richiama quello di Kierkegaard e anticipa quello di Florenskij) in cui è la fede (Glaube) religiosa a muovere il cuore verso Dio, è l’assoluta fiducia (firm confidence) che può superare il pessimismo (nichilismo) senza poterlo confutare. Ciò non vuol dire che il nichilismo sia l’esito del pensiero speculativo; anzi, a suo avviso esso è superficiale poiché non coglie le questioni che sono di capitale importanza per una mente priva di pregiudizi. Significa, in estrema sintesi, che l’uomo non può far a meno di Dio poiché possiede intimamente un insopprimibile bisogno religioso (religiöse Bedürfnis).107

8. Etica e religione

Gli ultimi due capitoli delle lezioni di filosofia della religione (IX e X) sono riservati al rapporto tra etica e religione e alla necessità di dogmi e confessioni di fede. Ci soffermeremo sul IX capitolo, dato che l’ultimo tratta temi più pertinenti alla teologia.

Lotze è consapevole del fatto che le riflessioni che seguono non sono dimostrazioni in senso stretto108 e affronta quell’elemento comune che tutti gli uomini avvertono grazie alla loro immediata esperienza interna: quelle norme della coscienza (Aussprüche des Gewissens) che ci dicono ciò che deve essere (was sein soll) e poi permettono una inferenza indiretta verso ciò che è (was ist). Grazie alle sue indagini fisio-psicologiche sulle origini degli atti di coscienza,109 Lotze può distinguere una prima fase istintiva, in cui le percezioni particolari ci inducono a una reazione immediata per dare ad esse un qualche significato, da una seconda fase più riflessiva nella quale, superati i giudizi particolari, la coscienza medita sui principi etici generali. Di qui il maestro di Gottinga procede a descrivere in breve le grandi teorie etiche della tradizione (in ordine sparso: epicurea, aristotelica, kantiana e stoica) analizzandole in rapporto a una visione religiosa. Nell’etica epicurea le norme etiche si accordano all’egoismo e all’autostima poiché la coscienza tende al massimo benessere. Tale interpretazione delle leggi, che poggia su motivi egoistici, viene tacciata facilmente di arbitrarietà ed è inutile ai fini religiosi nonostante i motivi egoistici vengano sostituiti con l’eudaimonia aristotelica o con il godimento del bello senza interesse di matrice kantiana. Anche in quest’ultimo caso non siamo direttamente catapultati in una visione religiosa del mondo. Lo stoicismo e il razionalismo possono fornire le basi per una condotta di vita meritevole, ma nulla ci dicono riguardo al sommo bene o al fine ultimo dell’universo che sono, ad avviso di Lotze, i fondamenti incondizionati della validità delle norme morali. O le leggi sono naturali, e pertanto operano secondo un dovere necessario (must, müssen) che non ammette eccezioni, o al contrario il dovere incondizionato (ought, sollen) è incomprensibile, impensabile. Difatti, può esistere solo un Sollen condizionato, cioè che commina premi o castighi a chi agisce o non agisce in base a tale prescrizione. Se il valore non è valutato da alcuno in grado di distribuire vantaggi o svantaggi in base ai meriti, il riferimento a un Sollen condizionato diventa aporetico. Uno di questi vantaggi potrebbe essere la stoica atarassia, ma in tal caso verrebbe meno l’entusiasmo per il bene e il bello fino a svilire, a livello di sostanza impersonale, l’essere finito. Lo stesso dicasi per l’autostima.

Dopo tali premesse Lotze tratteggia in tre punti i capisaldi di una concezione religiosa del mondo: 1. le leggi etiche sono espressioni della volontà di Dio; 2. gli esseri spirituali non sono prodotti della natura bensì figli di Dio; 3. non è la realtà effettiva il risultato del corso del mondo, bensì il regno di Dio. In merito alla prima asserzione, dopo aver confutato una questione scolastica (Se Dio è il bene perché lo vuole? oppure Egli lo vuole perché è buono? In realtà Dio vuole il bene poiché è intrinsecamente buono), Lotze ribadisce che Dio, col suo volere, opera il bene perché Egli è il bene e le leggi morali non vengono deprivate di alcunché se sono considerate come volontà di Dio.110 La seconda proposizione implica un duplice aspetto: a. da un lato il riconoscimento della dipendenza dell’uomo da Dio, in quanto essere spirituale limitato, contro l’arroganza dei sistemi etico-filosofici che si fondano sulla soddisfazione di sé, sull’autostima o sull’autonomo criterio di giustizia del sapiente; b. dall’altro la relazione di pietà (Verhältnis der Pietät) e la sua sempiterna vitalità. Sia il primo che il secondo aspetto, se per un verso ripropongono i temi già affrontati della predominanza della prassi sulla semplice teoria, o della interazione esperienziale uomo-Dio, per altro verso ci restituiscono una visione ‘pietistico-romantica’ di un Dio che non è indifferente alle sorti dell’uomo.

All’ultima asserzione sul regno di Dio, Lotze oppone la metafora del theatrum mundi (non siamo spettatori esterni del mondo, ma siamo coinvolti nel dramma) e si astiene dall’impossibile perlustrazione del governo divino del mondo, lasciando alla scienza il compito di indagare la realtà esterna. Al contrario della mitologia, il Cristianesimo non cerca di spiegare i fatti della realtà, ma di interpretare il mondo come universo spirituale di cui abbiamo esperienza interiore.111

Le questioni teologiche trattate nell’ultimo capitolo ci interpellano solo per un motivo di ordine storiografico. Da Lotze, per esplicita ammissione, hanno attinto i teologi liberali a partire dall’amico e collega Albrecht Ritschl112 che ha seguito i suoi corsi a Gottinga e che ha spianato la strada all’interpretazione storicistico-liberale dei dogmi. A Ritschl si è richiamato August Sabatier113 nella sua filosofia della religione e finanche M. de Unamuno col suo Sentimiento trágico de la vida.114 Tale filone interpretativo dimostra che la filosofia lotzeana, pur muovendosi all’interno di una visione religiosa del mondo, grazie soprattutto ai presupposti scientifici e logici che ancora oggi sono oggetto di attente riflessioni sia sul versante psicologico sia sul versante filosofico (si pensi, tra gli altri, agli studi di analitici, neokantiani e fenomenologi), risulta pregna di intuizioni e di aperture che solo un rigoroso pensatore può offrire. Più che sventolare certezze dogmatiche, Lotze ha opportunamento dissodato il terreno della realtà affinché nulla fosse di ostacolo all’ipotesi (Annhame) ‘Dio’, necessaria ma inspiegabile.

9. Filosofia della religione o teologia filosofica?

Riprendiamo la questione iniziale e interroghiamoci, alla luce di quanto detto, se siamo in presenza di una teologia filosofica o di una vera e propria filosofia della religione. In breve, è teologia filosofica ogni tipo di argomentazione che ruota attorno a Dio e ai suoi attributi (compresa l’esistenza che però, nel solco di Kant, non è un attributo), cioè è l’esercizio filosofico di una ragione che cerca di dimostrare la verità, la veridicità o la verosimiglianza dell’ipotesi Dio con tutto ciò che ne consegue. Qui si inserisce tutta la tradizione patristica, la riflessione medievale, la trattatistica non apologetica e la speculazione su deismo e teismo tardo-illuministica. La filosofia della religione, se accettiamo la definizione di Heidegger, è l’inquietudine del domandare radicale attorno al senso dell’essere e al nonsenso del nulla. Una filosofia della religione, in quanto ‘pensiero abissale’, non si limita ad applicare a contenuti, fatti, eventi e nessi, un pensiero razionale forte, nella speranza (vana) che si possa dare una definizione, o addirittura una ‘prova’ dell’esistenza di Dio o almeno della sua ragionevolezza. Al contrario, si interroga sul ‘pensare Dio’ nel tempo del nichilismo, facendosi carico del peso dell’’assenza di Dio’ nel mondo contemporaneo. Quali forme, quali linguaggi, quali pensieri possono dire l’indicibile, possono pensare Dio nel tempo della sua morte… Per Lotze il ‘pensare’ è uno strumento provvisorio di cui la ragione umana si serve per giungere a contemplare lo spettacolo del mondo. È la via tortuosa lungo il monte, è la centina dell’arco, è la muratura del pozzo.115 Comporta fatica, elaborazione graduale, lavoro di cesello e di scavo, ma l’esito di tale lavoro è sempre provvisorio: la centina si rimuove una volta edificato l’arco, la strada di montagna sbocca nel punto panoramico più alto in cui si può contemplare l’essere con le sue meraviglie. Si potrebbe concludere dicendo: l’incedere dell’uomo e del suo strumento principe (il pensiero) è condizione necessaria ma non sufficiente per ‘comprendere’ la verità. Senza di esso ‘si dà’ la verità, il bene assoluto, ma resta inattingibile all’uomo. Perché l’uomo possa godere tale verità, in senso etico ed estetico, Lotze ripone ancora fiducia (senza approdare al pensiero poetante o all’ermeneutica) su uno sforzo della ragione teoretico-pratica (non solo sul Gefühl)116 che, nonostante i suoi limiti e le sue inadeguatezze, resta la più alta via di accesso alla verità e a Dio. Proprio quest’accento sulla ‘tragicità’ dell’impresa rende a mio avviso la filosofia di Lotze una vera ‘filosofia della religione’ e non una mera teologia filosofica. Non si tratta per lui di definire e giustificare razionalmente gli attributi di Dio (unicità, incangiabilità, onnipresenza, onnipotenza, eternità ecc…), bensì di rimarcare il tentativo, a volte vano, ma sempre necessario, di ridefinire la presenza-assenza di Dio nella storia per dare un senso che a volte sfugge, a volte si intravede ma che esiste a prescindere dalle nostre vie di accesso. A sostegno di tali tentativi (Versuche) Lotze, erede di una scuola ben intenzionata a non concedere alcunché ai residui della metafisica classica (si ricordi la sua critica alla Lebenskraft), non disdegna l’uso e l’applicazione di tutte le conoscenze scientifiche in suo possesso per descrivere l’universo-mondo nelle sue articolazioni infinitesimali, ma accanto a ciò proprio tale consapevolezza gli fa ribadire da un lato la non esclusività del percorso e dall’altro il divario incolmabile tra il nostro modo di rappresentare o di ‘sentire’ il mondo e il mondo così com’è, nella sua realtà (Wirklichkeit). In questo iato insiste la ‘tragicità’ e riposa la fiducia (Glaube) che alla fine tutto possa trovare un senso e un ordine, fiducia che nessuna legge della logica, della matematica, della meccanica o della fisica potrà mai suffragare ma che alligna nel cuore di ogni uomo che si apre al ‘bene assoluto’.


  1. C. D. Broad vinse addirittura il ‘Burney Prize’ nel 1910 con un saggio sulla filosofia della religione di Lotze (cfr. P. G. Kuntz, Rudolf Hermann Lotze, Philsopher and critic, in G. Santayana, Lotze’s System of Philosophy, ed. by. P. G. Kuntz, Indiana University Press, Bloomington/London 1971, p. 57) che tuttavia non gli valse il fellowship al Trinity. Il testo di Broad è stato segnalato solo da Kuntz (che tra l’altro cita da P. A. Schilpp, The Philosophy of C. D. Broad, Tudor, Nwe York, p. 50), essendo sfuggito anche alla oculatezza dell’ultimo biografo, Reinhardt Pester. Oltre al saggio sulla filosofia della religione Broad dedicò al filosofo di Gottinga anche una serie di Lectures a sfondo etico nel 1925. Tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento uscirono numerose dissertazioni di dottorato sulla filosofia della religione di Lotze. Per uno sguardo complessivo rimandiamo alla sezione b) Dissertationsschriften della corposa bibliografia posta in appendice a R. Pester, Hermann Lotze. Wege seines Denkens und Forschens, Königshausen & Neumann, Würzburg 1997, pp. 361-365. ↩︎

  2. Cfr. R. H. Lotze, Grundzüge der Religionsphilosophie, Dictate aus den Vorlesungen, Dritte Auflage, Hirzel, Leipzig 1894, p. 1. Il testo riproduce le lezioni tenute durante il Sommersemester del 1877 e, per i capp. 8 e 9, del Wintersemester 1878-79. Di queste lezioni è disponibile una traduzione inglese a cura di G. T. Ladd, in R. H. Lotze, Outlines of the Philosophy of Religion, dictated portions of the lectures of Hermann Lotze, Dickinson, London 1887, 158 pp., condotta sulla seconda edizione tedesca che riproduce le lezioni del Sommersemester 1875, nonché i due capitoli aggiunti del semestre invernale 1878-79. ↩︎

  3. Nel Mikrokosmus (il titolo Mikrokosmos appare solo nella VI edizione) vengono trattati sistematicamente temi teologici che interpellano la filosofia, in specie nei libri V e VI del II vol. (Der Geist, Der Welt Lauf) e nel libro IX del III vol. (Der Zusammenhang der Dinge). Ma in tutte le opere di Lotze si trovano rimandi alla vita religiosa e alla fede, poiché il bisogno religioso appartiene, a suo avviso, alla sfera dei fenomeni psichici (cfr. R. H. Lotze, Mikrokosmos. Ideen zur Naturgeschichte und Geschichte der Menschheit. Versuch einer Anthropologie, F. Meiner, Leipzig 19236, Bd. II, pp. 139- 174, 444-462, Bd. III, pp. 453-631 [tr it. (non integrale) Microcosmo. Idee sulla storia naturale dell’umanità. Saggio di antropologia, a cura di L. Marino e G. Villa, Utet, Torino 1988, pp. 431-438; 491-521; 835-910. Purtroppo nell’edizione italiana, per opinabili motivi editoriali, non sono state tradotte le pagine del V libro del II vol., sul concetto generale di anima, sull’anima individuale, sull’Ansich dell’anima e il suo sviluppo, che sono capitali per comprendere la psicologia fisiologica lotzeana]. Gli enunciati religiosi, come quelli etici, sono definiti da Lotze ‘giudizi dichiarativi’ che asseriscono fatti particolari. Non sono innati nell’uomo, ma sono il portato della cultura: «Dio esiste o ha creato il mondo […] è solo un giudizio assertorio che esprime un fatto particolare» (cfr. R. H. Lotze, Grundzüge…, p. 6). Al contrario, gli assiomi della scienza sono universali e ipotetici (cfr. R. Pester, Hermann Lotze, cit., p. 331). ↩︎

  4. Frege avrebbe seguito i corsi del Sommersemester 1871, anche se Gabriel ritiene tale notizia, riportata anche da G. Misch nella sua Einleitung alla riedizione della Logik del 1912 (p. XCII), una diceria non provata (Cfr. G. Gabriel, Lotze und die Entstehung der modernen Logik bei Frege. Einleitung der Herausgegeber, in R. H. Lotze, Logik. Erstes Buch. Vom Denken, hrsg. von G. Gabriel, F. Meiner, Hamburg 1989, p. XIII). ↩︎

  5. Il condizionale è d’obbligo visto il dibattito che negli anni ’70-’80 si è sviluppato e che ha avuto come protagonisti da un lato M. Dummett e dall’altro H. Sluga e G. Gabriel. Su questi temi ci permettiamo di rimandare al saggio introduttivo alla nostra traduzione della Logik di Lotze del 1874, di prossima pubblicazione per Bompiani, dal titolo: La muratura del pozzo. R. H. Lotze e la logica dell’individuale. ↩︎

  6. Besoli ha messo in luce la rilevanza di estetica, etica e religione per la comprensione del suo sistema: «Lotze attinse piuttosto le proprie motivazioni e finalità dal contesto dell’arte poetica, dal sentimento religioso e da quella ricerca metafisica e speculativa che, proprio perché temperata da un contrapposto interesse scientifico, non raggiunse forme di autentica degenerazione e di effettiva rigidità dogmatica» (cfr. S. Besoli, Il valore della verità. Studio sulla «logica della validità» nel pensiero di Lotze, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, p. 19). Si veda anche R. Pester, Hermann Lotze, cit., p. 1. Invero, già Misch aveva parlato di impluso alla filosofia dettato dalla sua inclinazione alla poesia e all’arte (cfr. G. Misch, Einleitung in R. H. Lotze, Logik. Drei Bücher vom Denken, vom Untersuchen und vom Erkennen, hrsg. von G. Misch, F. Meiner, Leipzig 1912, p. XIII). ↩︎

  7. Cfr. K. Tiehme, Der Primat der praktischen Vernuft bei Lotze, Ackermann & Glaser, Leipzig 1887, p. 25. In questa dissertazione per il conseguimento del dottorato Thieme ritiene che Lotze abbia espresso una triplice ‘fede filosofica’: nella verità, nella realtà (Wirklichkeit) e nel valore. Si veda anche la critica di Centi alla sua idea di ‘valore’ che nel sistema lotzeano sembrerebbe avere, nell’interpretazione di Thieme, una collocazione ‘esterna’ rispetto al reale, quasi esortativa (sul lavoro di Beatrice Centi, cfr. infra, p. 9). Invero, bisognerebbe parlare di ‘fede etico-metafisica’, dato che la radice del nostro conoscere è riposta in un ‘sommo Bene’ inaccessibile e apodittico (cfr. R. H. Lotze, Recension von Gustav Theodor Fechner, Über das höchste Gut, in «Göttingische gelehrte Anzeigen», 3-5 (1847), pp. 28-43, rist. in Kleine Schriften, Bd. II, hrsg. von D. Peipers, Hirzel, Leipzig 1886, pp. 272-284). ‘Fede filosofica’ (philosophische Glaube) è comunque l’autodefinizione che Lotze dà alla propria indagine attorno al sommo bene (cfr. id., Mikrokosmos, Bd. III, cit., p. 613). ↩︎

  8. Sulle specifiche definizioni di filosofia della religione, filosofia religiosa e teologia filosofica rimandiamo ai seguenti testi: A. Fabris, Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 32-47; M. M. Olivetti, Filosofia della religione, in P. Rossi (a cura di), La filosofia, I vol., Le filosofie speciali, Utet, Torino 1995, pp. 184-208; M. Micheletti, Filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 125-162. ↩︎

  9. R. H. Lotze, Grundzüge…, cit., p. 5. Nelle lezioni del 1875 abbiamo: «cercare di accertare quanto possa essere scoperto, dimostrato o perlomeno confermato del contenuto della religione in accordo con la ragione» (R. H. Lotze, Outlines…, cit., p. 2). ↩︎

  10. A nostro avviso Lotze non tenta, come osserva Schoen, di riconciliare rivelazione e ragione, religione cristiana e religione naturale. Se così fosse la filosofia di Lotze si esaurirebbe in un’apologetica. Lotze, come avremo modo di vedere, partendo dalla ragion pratica kantiana (e ancor più dall’accentuazione teorica datane da Fichte) cerca di estendere alla sfera dei sentimenti, cioè di quelle esperienze interne della coscienza che insorgono, grazie agli stimoli ‘occasionali’ del mondo sensibile, come reazioni peculiari dell’anima, la necessità dell’intera ragione (die ganze Vernuft) di asserire il ‘bene assoluto’ che tuttavia rimane in sé inaccessibile (cfr. H. Schoen, La Métaphysique de Hermann Lotze ou la Philosophie des actions et des réactions réciproques, Fischbacher, Paris 1902, p. 219). ↩︎

  11. Si evince da questa impostazione la diretta dipendenza del nostro dal metodo di ‘elaborazione dei concetti’ con il quale Herbart aveva tentato una rigorosa applicazione del procedimento di astrazione logica al dato empirico fornito dall’esperienza interna, onde ottenere una conoscenza universale. Le forme schematiche spazio-temporali, a suo avviso, dipendono anch’esse da un più alto focus imaginarius che è il nesso seriale che permette alle esperienze particolari di essere collocate in relazione tra loro e di essere così decodificate. (cfr. J. F. Herbart, Lehrbuch zur Einleitung in die Philosophie, in Sämtliche Werke, B. IV, hrsg. von O. Flugel und K. Kehrbach, Scientia, Aalen 1964, pp. 97-103; cfr. id., Psychologie als Wissenschaft, in Sämtliche Werke, cit., B. VI, pp. 87-94; cfr. S. Poggi, I sistemi dell’esperienza, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 196-200; 243-252). Sulle convergenze, ma anche sulle dissonanze, tra Lotze e Herbart si veda la disputa sull’ontologia di Herbart tra Lotze e Drobisch (cfr. R. H. Lotze, Herbart’s Ontologie, in «Zeitschrift für Philosophie und spekulative Theologie», XI (1843), pp. 203-234, rist. in Kleine Schriften, Bd. I (1885), cit., pp. 109-138; M. W. Drobisch, Zur Verständigung über Herbart’s Ontologie, in «Zeitschrift für Philosophie und spekulative Theologie», XVIII (1844), pp. 38-68; cfr. S. Poggi, I sistemi…, cit., pp. 358-388) ↩︎

  12. Occorre notare che nelle lezioni del 1877 Lotze non elenca i tre gruppi di ‘stati interni’ che trovano ‘soddisfazione’ nella religione ma si sofferma sull’importanza della ricerca scientifica nell’elaborazione delle esperienze sensoriali, inserendo tra queste quella estetica del Gemüt e quella del moralische Geist (cfr. R. H. Lotze, Grundzüge…, cit., p. 8). ↩︎

  13. Per un’ampia panoramica sugli sviluppi ‘logici’ della prova, cfr. M. Micheletti, Il problema teologico nella filosofia analitica, 2 voll., La Garangola, Padova 1971-1972. ↩︎

  14. Cfr. R. H. Lotze, Grundzüge…, cit., p. 12. Sulla ‘fede’, sull’esperienza interna del sentimento come dominio della ragion pratica, cfr. H. Schoen, La Métaphisique de Hermann Lotze…, cit., pp. 182-196. ↩︎

  15. Cfr. id., Logik (1874), cit., §§ 316-317 [tr. it. (solo § 316), in F. De Vincenzis, ’Simul signum et significatio’. La traduzione: dall’assimilazione all’affinità, in V. Di Rosa — G. La Guardia — C. Miglio, Dello scrivere e del tradurre, Quaderni, Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Napoli 2007, pp. 61-64]. ↩︎

  16. Cfr. I. Kant, Versuch den Begriff der negativen Grössen die Weltweisheit einzuführen, in Kants Werke, Akademie Textausgabe, Bd. I, Vorkritische Schriften, 1747-1756, De Gruyter, Berlin 1968 [tr. it. a cura di R. Assunto, Il concetto delle quantità negative, in I. Kant, Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 287]. ↩︎

  17. È risaputo che negli scritti precritici Kant, in linea con la tradizione empirista lockeana, espone il suo unico argomento possibile per l’esistenza di Dio definendolo del tutto a priori, poiché tratto dalla caratteristica intrinseca della necessità assoluta. Una volta dimostrata l’esistenza di un essere necessario, poiché è impossibile che nulla esista, ne consegue che tale essere è unico, semplice, immutabile, puro spirito (cfr. I. Kant, Scritti precritici, tr. it. cit., pp. 118-135). ↩︎

  18. È la famosa Zweiweltentheorie i cui contenuti Lotze enuncia per la prima volta (senza però citare il Gelten) nella Metaphysik del 1841: «die transcendentale Wahrheit, daß in den Bestimmungen des Dinges eine Ordnung und Gesetzmäßigkeit sei, durch welche sich die substanzielle Welt des Wachens von der substanzlosen Welt der träumenden Vorstellung, der regellosen, widerspruchvollen Phantasie unterscheidet. […]. Die Wahrheit der metaphysischen Formen […] ist ein Nothwendiges, aber jenes Nothwendiges allein, welches um der Allgemeinheit und Unendlichkeit seines Daseins willen durch keine andre Erfahrung seiner Nothwendigkeit beraubt werden kann. […] Die Wahrheit ist die die allgemeine formale Möglichkeit alles substantiell Seienden» (R. H. Lotze, Methaphysik, Weidmann, Leipzig 1841, p. 89-90; cfr. S. Besoli, Il valore della verità, cit., p. 48). ↩︎

  19. R. H. Lotze, Mikrokosmos, Bd. III, cit., p. 578 [tr. it. cit., p. 873]. ↩︎

  20. Cfr. R. H. Lotze, Metaphysik, Hirzel, Leipzig 1879, p. 329; id., Mikrokosmus, Bd. I, cit., p. XXXVI, 442; F. Bamberger, Untersuchungen zur Entstehung des Wertproblems in der Philosophie des 19. Jahrhunderts, I, Lotze, Niemeyer, Halle 1924, pp. 56 ss; cfr. S. Besoli, Il valore della verità…, cit., pp. 24, 35, 48. ↩︎

  21. Ci sono interpreti, come G. Misch, H. Sommerhäuser e S. Besoli, che ritengono che per l’ultimo Lotze la validità sia la ‘verità dell’essere’, quindi tutto il mondo dei valori avrebbe il suo fondamento in un’ontologia realistica. In ultima istanza, quello di Lotze sarebbe un monismo ontologico. I testi lotzeani di riferimento sono soprattutto i due volumi dell’incompleto System der Philosophie: Bd. I Logik (1874), Bd. II Metaphysik (1879), ma anche alcune sezioni dei 3 volumi del Mikrokosmus. Sembra, dunque, che il Lotze maturo abbia abbandonato le posizioni più dualistiche e anti-psicologistiche della piccola Metaphysik (1841) e della Logica minor (1843), confermate in alcuni paragrafi della Logica maior (1874); in tali opere è evidente la fondazione della cosiddetta Zweiweltentheorie (mondo del valere e mondo dell’essere) che trova tra i suoi sostenitori nientemeno che Frege e lo Husserl dei Prolegomeni a una logica pura delle Ricerche Logiche, e tra i suoi progenitori B. Bolzano. Di qui consegue che il mondo del Gelten è indipendente dal mondo del Sein e le leggi eterne valgono a prescindere da chi le pensa o le ‘scopre’. Non è questo il luogo per argomentare a favore dell’una o dell’altra interpretazione. Richiamiamo solo l’attenzione su un’analisi puntuale del concetto di ‘A priori’, da Bolzano a Husserl attraverso Lotze, di Agnes Maxsein la quale ha opportunamente fatto notare che, stante la derivazione comune di metafisica e logica dall’etica e dall’apoditticità del bene, in Lotze accade che all’ ‘A priori’ dell’essere, nella forma del Geist, corrisponda un ‘A priori’ della validità (Gelten), ma entrambi, in quanto bene apodittico, formano un prius monistico. Anche per Maxsein, pertanto, non siamo in presenza di un dualismo ‘fatto-valore’ su cui insisteranno le scuole neokantiane, ma di un monismo che, a differenza di quello suggerito da Misch, non è ontologico bensì etico-valoriale (cfr. A. Maxsein, Die Entwicklung des Begriffs «Apriori» von Bolzano über Lotze zu Husserl und den von ihm beeinflußten Phänomenologen, Diss. Gießen 1933, pp. 36-37; id., Der Begriff der ‘Geltung’ bei Lotze, in «Der Görres-Gesellschaft philosophisches Jahrbuch», LI (1938), pp. 457-470; cfr. G. Misch, Einleitung, cit., p. LXXXX; cfr. H. Sommerhäuser, Emil Lask in der Auseinandersetzung mit Heinrich Rickert, Ernst-Reuter- Gesellschaft, Berlin 1965, pp. 27-28: cfr. S. Besoli, Il valore della verità…, cit., p. 48; V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 17-28). Se valesse l’interpretazione di una curvatura del pensiero di Lotze (da una prima a una seconda fase) sarebbe sorprendente il parallelismo con la parabola evolutiva del pensiero di Husserl, dalle Logische Untersuchungen alla Krisis. Ne è una indiretta conferma quanto dice E. Melandri, nel suo commento alla prima ricerca logica husserliana in cui stabilisce una diretta dipendenza della Lebenswelt dell’ultimo Husserl dal Mikrokosmus di Lotze (cfr. E. Melandri, Le «Richerche logiche» di Husserl. Introduzione e commento alla prima ricerca, Il Mulino, Bologna 1990, §§ 17 18, cit. in S. Besoli, Il valore della verità, cit., p. 39). ↩︎

  22. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, p. 13. È chiaro che per necessario in senso assoluto egli intenda das höchste Gut↩︎

  23. L’argomento ‘from design’ a sostegno del teismo viene esposto nella seconda parte dei Dialoghi per bocca di Cleante che paragona il mondo a una grande macchina le cui componenti sono così meravigliosamente intrecciate da suggerire l’esistenza di una intelligenza ordinatrice. Filone (Hume) replica che si tratta di una difettosa analogia empirica per una serie di ragioni: 1. l’argomento implica che l’universo sia della stessa stoffa di un artefatto umano. Prima di dedurre l’esistenza di un Artefice bisogna stabilire che l’universo è ordinato, e non lo si può fare a partire da una conoscenza infinitesimale del cosmo; 2. la relazione tra Dio e mondo è tutt’affatto diversa dal nesso tra causa ed effetto in una serie ordinata inferibile tramite abitudine; 3. non c’è alcun motivo per supporre l’esistenza di un unico principio, visto che gli stessi artefatti umani, di gran lunga inferiori a quelli della natura, sono il portato dell’unione delle cause umane. A fortiori dovrebbe essere per le divinità, la cui interazione sarebbe in grado di produrre maggiore perfezione rispetto all’azione di un unico Artefice (parte V). (cfr. D. Hume, Dialogues Concerning Natural Religion, Hafner press, New York 1948, pp. 15-25; 37-41). ↩︎

  24. Tale Wechselwirkung è alla base della sua metafisica ed è anche ciò che lo distanzia da Herbart, il quale pone come categoria generalissima della propria metafisica la ‘successione seriale di note’ che fonda la regolarità dell’esperienza. Per Herbart sono questi ‘concetti logici ideali’, molto simili alla ‘cosa in sé’ kantiana, che ordinano i dati dell’esperienza in rapporti di causa ed effetto o in rapporti di interazione (Wechselwirkung). Al contrario, Lotze pone l’interazione universale come dato semplicissimo da cui partire per enucleare le leggi che regolano l’esperienza (cfr. infra, p. 11). ↩︎

  25. Per es., si può dire che ‘caldo’ e ‘freddo’ si relazionano come opposti, mentre ‘caldo’ e ‘dolce’ o ‘caldo’ e ‘ruvido’, essendo elementi maggiormente disomogenei, hanno un grado di comparazione minore (cfr. R. H. Lotze, Logik (1874), cit., §13). ↩︎

  26. È evidente che Lotze non voglia riproporre l’argomento platonico della metessi, e men che meno rispolverare vecchie e pre-scientifiche soluzioni analogiche. ↩︎

  27. La prima parte delle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit uscì a Riga (dove professava il suo ufficio di pastore luterano) nel 1784, mentre la quarta e ultima parte uscì a Leipzig nel 1791 per i tipi di Hartknoch. ↩︎

  28. Cfr. M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe, II, Abteilung: Vorlesungen, Bd. 56/57, hrsg. von B. Heimbüchel, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1999 [tr. it. di G. Auletta, Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 2002, p. 126]; cfr. J. G. Herder, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, in Sämtliche Werke, Bd. 5, hrsg. von B. Suphan, Olms-Weidmann, Hildesheim 1991, p. 509 [tr. it. a cura di F. Venturi, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Einaudi, Torino 1951, p. 38]. ↩︎

  29. Il Kosmos del naturalista geografo Alexander von Humboldt apparve in 5 volumi negli anni 1845-1862 e riproduce le lezioni tenute presso la Singakademie di Berlino nel biennio 1827/28. Nel 1859, dopo l’uscita del secondo volume del Mikrokosmus (1858), Lotze avvertì il bisogno di conoscere il parere di Humboldt, il quale tra l’altro aveva già avuto modo di studiare il primo volume grazie alla copia inviatagli dal comune amico Trendelenburg. Parere che restò sostanzialmente inevaso, dato che Humboldt si limitò, nella lettera dell’11.02.1859, a criticare velatamente il secondo capitolo del terzo libro del I volume, Von dem Sitze der Seele (cfr. H. Lotze, Briefe und Dokumente, hrsg. von R. Pester, Konigshausen & Neumann, Wurzburg 2003, pp. 328-329). ↩︎

  30. Lotze an Apelt, 18.2.1837, in H. Lotze, Briefe und Dokumente, cit., 83; cfr. R. Pester, Hermann Lotze, cit., p. 68. ↩︎

  31. E. F. Apelt, Die Epochen der Geschichte der Menschheit. Ein historisch-philosophische Skizze, Bd. I, F. Mauke, Jena 1845, p. VII. ↩︎

  32. Lotze an Salomon Hirzel, 02.10.1854, in H. Lotze, Briefe…, cit., p. 257. Cfr. R. Pester, Hermann Lotze, cit., p. 203. ↩︎

  33. Si tratta di: Allgemeine Pathologie und Therapie als mechanische Naturwissenschaften, Weidmann, Leipzig 1842; Allgemeine Physiologie des körperlichen Lebens, Weidmann, Leipzig 1851; Medicinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Weidmann, Lepzig 1852. ↩︎

  34. Si veda in merito il pregevole lavoro sugli scritti giovanili lotzeani di Beatrice Centi, L’armonia impossibile. Alle origini del concetto di valore in R. H. Lotze, Guerini e associati, Milano 1993. ↩︎

  35. R. Pester, Hermann Lotze, cit., pp. 160-161. ↩︎

  36. Che il giudizio ipotetico fosse la ‘via’ della scienza era ben chiaro a Lotze sin dalla Dissertazione del 1838: De futurae biologiae principiis philosophicis, Typis Breitkopfio-Haertelianis, Lipsiae 1838, rist. in R.H. Lotze, Kleine Schriften, I, cit., pp. 1-25; cfr. B. Centi, L’armonia impossibile, cit., p. 26. ↩︎

  37. Cfr. R. H. Lotze, Logik (1843), cit., p. 224ss; id., Logik (1874), cit., p. 5; id., Metaphysik (1879), cit., p. 7 ↩︎

  38. R. H. Lotze, Allgemeine Pathologie und Therapie als mechanische Wissenschaften, Weidmann, Leipzig 1842, p. 12, cit. in R. Pester, Hermann Lotze, cit., p. 162. ↩︎

  39. Cfr. B. Centi, L’armonia impossibile, cit., pp. 32-34. ↩︎

  40. È il nome che Pester attribuisce al sistema meccanico-dinamico lotzeano (Cfr. R. Pester, Hermann Lotze, cit., pp. 179-182). ↩︎

  41. Cfr. B. Centi, L’armonia impossibile, cit. p. 243. ↩︎

  42. R. H. Lotze, Herbart’s Ontologie, cit., p. 137. ↩︎

  43. In questo Lotze è più vicino alla Critica del Giudizio di Kant di quanto non lo siano Herbart e Fries per i quali non esiste una ‘finalità senza fini’ (cfr. S. Poggi, I sistemi…, cit., pp. 240-241). Ciò che allontana Lotze da Herbart lo rende vicino a Trendelenburg e, tramite Berger, a Schelling (cfr. ivi, p. 321), ma anche a Schleiermacher. Sul rapporto Lotze — Schelling si vedano: R. H. Lotze, Streitschriften. Erstes Heft. In Bezug auf Prof. I. H. Fichte’s Anthropologie. Neu begründet auf naturwissenschaften Wege, Hirzel, Leipzig 1857, p. 29ss; 55; id., Rezension von G. T. Fechner, Über die physikalische und philosophische Atomenlehre, in «Göttingische gelehrte Anzeigen", 109-112 (1855), rist. in Kleine Schriften, Bd. III (1891), cit., pp. 228-230. ↩︎

  44. Riferimenti diretti e indiretti si trovano anche negli scritti precedenti, come Leben und Seelenleben (in Kleine Schriften, Bd. II (1886), cit., pp. 1-204, ora anche in R. H. Lotze, Kleine Schriften zur Psychologie, hrsg von R. Pester, Springer, Heidelberg 1989, pp. 142-264) e la Methaphysik del 41, ma è nella Medicinische Psychologie che Lotze tratta sistematicamente l’argomento e lo sviluppa portandolo sino alle estreme conseguenze. In ultima istanza, dice Lotze e con lui Fechner, è l’Assoluto (Dio) il fondamento del reciproco condizionamento (Wechselbedingtheit) tra anima e corpo (Cfr. R. H. Lotze, Medicinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Weidmann, Leipzig 1852, p. 166; cfr. Th. Simon, Leib und Seele bei Fechner und Lotze als Vertretern zweier maßgebenden Weltanschauungen, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1894, p. 30; cfr. M. Wentscher, Fechner und Lotze, Reinhardt, München 1925). Il testo di Simon sopra citato è stato recensito dal teologo e maestro di Heidegger, Carl Braig, autore tra l’altro di indagini specifiche e del sistema filosofico e dell’estetica di Lotze (cfr. C. Braig, Rezension zu Theodor Simon, Leib und Seele bei Fechner und Lotze als Vertretern zweier maßgebenden Weltanschauungen, in «Literarische Rundschau für katholische Deutschland», XXI (1895), pp. 143-ss; id., Hermann Lotze, in «Literarische Rundschau für katholische Deutschland», IX (1883), pp. 703-708; id., Das philosophische System von Lotze, in Jahresbericht der Sektion für Philosophie der Görresgesellschaft für 1884 (Vortrag), Freiburg 1885, pp. 23-40; id., Rezension zu Hermann Lotze: Grundzüge der Aesthetik. Diktate aus den Vorlesungen, in «Literarische Rundschau für katholische Deutschland», XI (1885), pp. 172-ss.). ↩︎

  45. Cfr. R. H. Lotze, Medicinische Psycologie…, cit., p. 10; cfr. id., Seele und Seelenleben, cit., p. 4. ↩︎

  46. Ivi, p. 13. ↩︎

  47. Anche perché bisognerebbe stabilire a quale ‘sostanza’ appartiene tale principio (anima), se a un soggetto distinto e speciale, o alla materia stessa che ha ricevuto l’impulso occasionale (Veranlassung) degli stimoli esterni. ↩︎

  48. R. H. Lotze, Medicinische Psychologie, cit., p. 15. ↩︎

  49. Ivi, p. 16. ↩︎

  50. Cfr. id., Seele und Seelenleben, cit., pp. 14-15. ↩︎

  51. Id., Medicinische Psychologie, cit., p. 18. ↩︎

  52. Ivi, p. 32. ↩︎

  53. Cfr. ivi, pp. 36-37. ↩︎

  54. In realtà una Lebenskraft non esiste poiché tutti i fenomeni fisici e fisiologici sono il risultato dell’azione di scambio delle infinite forze che agiscono sui corpi. A fortiori non è possibile paragonare la Lebenskraft alla Seele (cfr. R. H. Lotze, Leben. Lebenskraft, in Kleine Schriften, Bd. I, cit., pp. 203-204). ↩︎

  55. Cfr. id., Medicinische Psychologie, cit., p. 43. ↩︎

  56. Cfr. ivi, p. 49. ↩︎

  57. Con riferimento alla differenza tra sapere immediato dell’essenza (cognitio rei) e conoscenza attraverso le relazioni (cognitio circa rem), cfr. G. Misch, Einleitung, cit., pp. LV-LVII. ↩︎

  58. R. H. Lotze, Medicinische Psychologie, cit., p. 59. ↩︎

  59. Cfr. ivi, p. 65. ↩︎

  60. Cfr. ivi, p. 69. ↩︎

  61. Ivi, p. 75. ↩︎

  62. Cfr. ivi, pp. 77-78. ↩︎

  63. Ivi, p. 81. ↩︎

  64. La religione, in questo passo, sembra situarsi a un livello di unilateralità più grande rispetto alla scienza, non perché sia nel possesso della assoluta verità delle cose, bensì perché fa ricorso a processi inspiegabili con le acquisizioni delle discipline scientifiche propriamente dette. Che non si tratti di una ‘doppia verità’ lo si evince dal fatto che sia la religione, sia la scienza sono piani concentrici dell’interpretazione di una realtà che sfugge alla chiarezza e alla distinzione di matrice cartesiana. Per questo motivo chi, come Otto Krebs, voglia trovare in Lotze un concetto ‘forte’ di scienza, si ritrova a fare i conti con i suoi limiti e le sue contraddizioni (cfr. O. Krebs, Der Wissenschaftsbegriff bei Hermann Lotze, Diss., Altenburg 1897). ↩︎

  65. La memoria per Lotze non è un organo ma una facoltà dell’anima, un suo modo di interagire con i processi fisici accumulando sensazioni e rendendole disponibili nel ricordo. Contro le tesi della frenologia, e anticipando quanto dirà Bergson a proposito della memoria ‘involontaria’, Lotze è fautore della non localizzazione delle facoltà dell’anima in organi corporei ben definiti. Gli stati psichici nascono nell’interazione costante tra impulsi e sensazioni e non sono individuabili in questo o quell’organo interno. Ben altrimenti accade all’anima la cui ‘localizzazione’ sarà oggetto di disputa con i più grandi interpreti dell’epoca (cfr. infra, p. 17). ↩︎

  66. Cfr. R. H. Lotze, Medicinische Psychologie, cit., p. 114. ↩︎

  67. Cfr. ivi, pp. 115-122; cfr. id., Seele und Seelenleben, cit., pp. 159-161, 201. Sulla fede nell’immaterialità dell’anima come residuo della metafisica classica, cfr. id., De la formation de la notion d’espace. La théorie des signes locaux, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», IV (1877), p. 346, rist. in Kleine Schriften, Bd. III, cit., p. 373. In merito alla teoria dei Localzeichen, che Lotze tratta nella sezione della Medicinische Psychologie riservata alle intuizioni spaziali (pp. 330-339) e sulla quale non possiamo soffermarci, rimandiamo alle annotazioni preziose di C. Stumpf, Über den psychologischen Ursprung der Raumvorstellung, Hirzel, Leipzig 1873, pp. V, 72-91 e a quelle di W. Wundt, Zur Theorie der räumlichen Gesichtswahrnehmungen, in «Philosophische Studien», 14 (1898), pp. 94-100, rist. in R. H. Lotze, Kleine Schriften zur Psychologie, cit., pp. 63-75; cfr. S. Poggi, I sistemi…, cit., pp. 515-519. ↩︎

  68. Sulla concezione spazio-temporale in Lotze rimandiamo sempre al nostro saggio introduttivo, La muratura del pozzo, cit. Si vedano anche: R. H. Lotze, Bemerkungen über den Begriff des Raumes, in «Zeitschrift für spekulative Theologie», 8 (1841), pp. 1-24, rist. in Kleine Schriften, I, cit., pp. 86-108; id., De la formation de la notion d’espace, in ivi, cit., pp. 372-396; J. Keller, Raum und Zeit bei Lotze, Diss., Bonn 1926; R. Falckenberg, Die Entwicklung der Lotzeschen Zeitlehre, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 105 (1895), pp. 178-210; R. Geijer, Hermann Lotzes Philosopheme über die Raumanschauung, in «Skandinavisches Archiv», 1 (1892), pp. 159-180, 185-273; H. Höffding, Lotzes Lehre über Raum und R. Geijers Beurteilung derselben, in «Philosophische Monatshefte», 26 (1888), pp. 422-440. ↩︎

  69. Cfr. R. H. Lotze, Medicinische Psychologie, cit., pp. 121-122. Sul Sitz der Seele si deve anche accennare alla polemica intercorsa con I. H. Fichte nelle Streitschriften del 1857 e nelle recensioni successive in cui Lotze oppone, alla visione ‘spiritualistica’ di Fichte — che mira in ultima istanza a far coincidere l’anima con la coscienza — la propria posizione monadologica (cfr. I. H. Fichte, Anthropologie. Die Lehre von der menschlichen Seele, Hirzel, Leipzig 1856; R. H. Lotze, Streitschriften. Erstes Heft.; id., Anzeige von I. H. Fichte, Anthropologie. Die Lehre von der menschlichen Seele. Neu begründet auf naturwissenschaftem Wege und Selbstanzeige von Streitschriften. Erstes Heft. In Bezug auf Professor Fichtes Anthropologie, in «Göttingische gelehrte Anzeige», 52 (1857), pp. 513-520, rist. in Kleine Schriften, III, cit., pp. 324-329). Sull’altro versante Lotze entra in polemica con T. Fechner (con il quale pure condivide la teoria atomistica e l’Allbeseelung der Welt) per quanto riguarda la localizzazione dell’anima, se in un Ort collocato nel cervello, centro motore dell’Io (Lotze), oppure nell’intero Körper (Fechner), dato che Fechner non ammette l’unità della coscienza. Sulla disputa Lotze — Fechner relativa al Sitz der Seele si vedano tra gli altri: E. Stratilescu, Die physiologische Grundlage des Seelenlebens bei Fechner und Lotze, Diss., Berlin 1903, pp. 21-36; T. Simon, Leib und Seele bei Fechner und Lotze…, cit., pp. 32-48. ↩︎

  70. Cfr. T. Fechner, Nanna, oder uber das Seelenleben der Pflanzen, Hirzel, Leipzig 1848; id., Die Tagesansicht gegenüber der Nachtansicht, Hirzel, Leipzig 1879; R. H. Lotze, Recension von Gustav Theod. Fechner, Nanna, oder uber das Seelenleben der Pflanzen, in «Göttingische gelehrte Anzeigen», 167 (1661-1670), rist. in Kleine Schriften, Bd. II, cit., pp. 505-512; id., Alter und neuer Glaube, Tagesansicht und Nachtansicht. Mit Beziehung auf: Die Tagesansicht gegenüber der Nachtansicht von G. Theodor Fechner, in «Deutsche Revue uber das gesammte nationale Leben der Gegenwart», Bd. 3, Heft 8 (1879), pp. 175-201, rist. in Kleine Schriften, Bd. III, cit., pp. 396-437. ↩︎

  71. Ne è testimonianza non solo la serie di pubblicazioni e di segnalazioni sulle più prestigiose riviste dell’epoca, ma anche la fitta corrispondenza epistolare con Theodor e la moglie Clara (cfr. H. Lotze, Briefe und Dokumente, cit., pp. 179-581). ↩︎

  72. Cfr. E. Stratilescu, Die physiologische Grundlage…, cit., p. 23. ↩︎

  73. R. H. Lotze, Medicinische Physiologie, cit., p. 133. Questa è l’origine dell’interpretazione di A. Tienes secondo la quale tutta l’etica lotzeana è un’etica eudaimonistica non di tipo egoistico ma fondata sulla benevolenza (cfr. A. Tienes, Lotze’s Gedanken zu den Principienfragen der Ethik, Heidelberg 1896, pp. 18 ss., cit. in B. Centi, L’armonia impossibile, cit., p. 261). Lo stesso C. Stumpf, allievo di Lotze, ricordando il maestro che, tra l’altro, lo aveva indirizzato verso la scuola psicologica di F. Brentano a Vienna, propende per un’etica eudaimonistica e ne sottolinea le ascendenze herbartiane (cfr. C. Stumpf, Zum Gedächtnis Lotzes, in «Kant Studien», 22 (1918), pp. 1-26). ↩︎

  74. Cfr. ivi, p. 134. ↩︎

  75. È una versione ‘materialista’ del traducianesimo che considera l’anima trasferibile da padre a figlio per via naturale. Così veniva a risolversi, per i traducianisti, il problema teologico del peccato originale. ↩︎

  76. Cfr. ivi, p. 161. ↩︎

  77. Ivi, p. 164. ↩︎

  78. Ivi, p. 165. Sull’idea di un’’immortalità’ che inizia quando la personalità ne diventa degna e che, paradossalmente, temina con la morte, si veda l’opera del naturalista Armand Sabatier, Essai sur l’immortalité au point de vue du naturalisme évolutioniste, Fischbacher, Paris 1895, p. 249-ss; cfr. H. Schoen, La Métaphysique de Hermann Lotze…, cit., pp. 197-212. ↩︎

  79. Ivi, p. 167. ↩︎

  80. La trattazione non si presenta tuttavia in forma dogmatica. Il motore che spinge verso l’avanzamento fino al Dio personale e provvidente è sempre il ‘bisogno’ di uno spirito religioso che non si accontenta di una spiegazione del mondo secondo criteri di ordine e armonia cosmica, ma necessita di un ordine morale e di un’obbligazione della volontà verso il buono e il santo (cfr. R. H. Lotze, Mikrokosmos, Bd. III, cit., pp. 537-576 [tr. it. cit., 851-871]). ↩︎

  81. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, cit., pp. 35-69; id., Grundzüge…, cit., pp. 32-57. ↩︎

  82. Cfr. I. Kant, Scritti precritici, tr. it. cit., pp. 111-209. ↩︎

  83. Sulla necessità del concetto di Schöpfung, cfr. R. H. Lotze, Leben. Lebenskraft, in Kleine Schriften, Bd. I, cit., pp. 148, 169, 199. ↩︎

  84. Cfr. id., Mikrokosmos, Bd. III, cit., pp. 591-601 [tr. it. cit., pp. 882-889]. ↩︎

  85. Cfr. infra, p. 23. ↩︎

  86. È qui sintetizzata in poche righe la complessa genesi degli atti psichici a partire dagli stimoli sensoriali che Lotze sviluppa nelle opere fisio-psicologiche sopra citate. ↩︎

  87. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, cit., p. 79. ↩︎

  88. Id., Grundzüge…, p. 63. ↩︎

  89. Se per un verso tale dimostrazione intende salvaguardare l’essere per sé del mondo (e dei singoli individui), per altro verso rischia, come accade per tutte le teorie neo-idealiste dell’universale ‘concreto’, di compromettere quell’assoluta alterità di Dio, reintroducendo surrettiziamente una sorta di «emanazionismo» (il mondo come prodotto immanente). ↩︎

  90. Qui sembra ribadita la Zweiweltentheorie, tra un mondo dei valori e un mondo dei fatti radicalmente opposti (cfr. supra, p. 5). ↩︎

  91. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, cit., p. 93. ↩︎

  92. Cfr. R. H. Lotze, Grundzüge…, cit., p. 68. ↩︎

  93. Alla relazione tra concetti generali e concetti ‘singolari’ è dedicata gran parte della riflessione delle opere logiche di Lotze, Logik I (1843) e Logik II (1874). ↩︎

  94. Ivi, p. 74. ↩︎

  95. Cfr. infra, pp 24-26. ↩︎

  96. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, p. 100. ↩︎

  97. Ivi, p. 104. ↩︎

  98. È accennato qui di sfuggita il problema paolino e agostiniano dell’akrasia (debolezza della volontà) che è stato affrontato in diverse epoche e da vari autori sino a John Searle (cfr. J. Searle, Rationality in Action, Massachussets Institute of Technology, Boston 2001 [tr. it. di E. Carli e M. V. Bramè, La razionalità dell’azione, Cortina, Milano 2003, pp. 205-221] ). ↩︎

  99. È la nota metafora schellinghiana del theatrum mundi ripresa nel neoidealismo britannico (Bosanquet e Temple) e che ritroviamo (in forma leggermente diversa) all’inizio del suo percorso (cfr. Metaphysik (1841), cit., pp. 17-18) e in uno degli ultimi scritti di Lotze, quasi un compendio della sua opera filosofica (cfr. R. H. Lotze, Philosophy in the last forty years, in «The Contemporary Review» XV (1880), pp. 135 [tr. ted. a cura di G. Misch, Die Philosophie in den letzen 40 Jahren, in Logik, hrsg. von G. Misch, F. Meiner, Leipzig 1912, p. XCIV] ). ↩︎

  100. R. H. Lotze, Mikrokosmos, Bd. III, cit., p. 615 [tr. it. cit., p. 899]. ↩︎

  101. Ivi, pp. 616-617 [tr. it. cit., p. 900]. ↩︎

  102. Cfr. D. Hume, Dialogues concerning Natural Religion, cit., p. 70. Anche J. Ward nota la prossimità tra Lotze e Hume sulla fiducia nella ‘incomprensibile’ soluzione del problema del male. L’unico tentativo di teodicea possibile, ribadisce Ward con parole che sarebbero state di certo condivise da Lotze, è quello di chiedere agli accusatori del teismo di dimostrare le loro asserzioni. Se non è possibile arguire l’esistenza di Dio a causa del male nel mondo, è altrettanto impossibile dimostrare la sua inesistenza (cfr. J. Ward, The Realm of End or Pluralism and Theism, Cambridge University Press, Cambridge 1911, p. 318). ↩︎

  103. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, cit., p. 122. L’edizione del 1877 titola il cap. VII: Vom Übel und vom Bösen e inverte i primi due paragrafi rispetto all’edizione del 1875 che inserisce l’analisi della teodicea all’interno del cap. VIII, Of the conception of the ‘world-aim’↩︎

  104. Cfr. ivi, p. 123-124. ↩︎

  105. Cfr. ivi, pp. 125-126. ↩︎

  106. Cfr. supra, p. 24. ↩︎

  107. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, cit., pp. 75, 77. ↩︎

  108. Cfr. R. H. Lotze, Outlines…, p. 137; cfr. id., Grundzüge…, cit., 89. ↩︎

  109. Cfr. supra, pp. 14-19. ↩︎

  110. Questo è il fondamento etico del teismo cristiano. Nelle parole di Schoen: «La morale devient donc pour Lotze la partie essentielle de la religion, comme elle était le point de départ de sa métaphysique. Tout véritè religieuse doit être un bien moral (ein sittliches Gut)…» (H. Schoen, La Métaphysique de Hermann Lotze…, cit., p. 216). ↩︎

  111. Cfr. R. H. Lotze, Grundzüge…, pp. 89-91; cfr. id., Outlines…, pp. 137-142 ↩︎

  112. Ritschl dichiara di dovere a Lotze la teoria della conoscenza che serve di base alla sua dogmatica (Cfr. A. Ritschl, Die christliche Lehre von der Rechtfertigung ynd Versöhnung, Bd. III, Marcus, Bonn 1883, p. 19; cfr. H. Schoen, La Métaphysique…, cit., p. 15, 213-214; O. Caspari, Hermann Lotze in seiner Stellung zu der durch Kant begründeten neuesten Geschichte der Philosophie und die philosophische Aufgabe der Gegenwart, E. Trewendt, Breslau 1895, p. V; L. Stählin, Kant, Lotze, Albrecht Ritschl. Eine kritische Studie, Hirzel, Leipzig 1888). È da richiamare anche il giudizio di P. G. Kuntz secondo cui Ritschl ha esplicitamente reinterpretato la religione su basi lotzeane come materia di giudizi di valore (cfr. P. G. Kuntz, Introduction, cit., p. 6). ↩︎

  113. Non bisogna dimenticare che uno degli interpreti della metafisica di Lotze, Henry Schoen, era allievo di A. Sabatier e al suo venerabile maestro indirizza una vibrante lettera di commiato anteposta al suo volume (cfr. H. Schoen, La Métaphisique de Hermann Lotze…, cit., pp. 7-9; cfr. L. Ambrosi, Ermanno Lotze e la sua filosofia, Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli 1912, p. LI). ↩︎

  114. Cfr. A. Savignano, Unamuno e la nostalgia dell’eterno. In dialogo con A. Sabatier, in A. Savignano — M. Micheletti (a cura di), Filosofia della religione. Indagini storiche e riflessioni critiche, Marietti, Genova 1993, pp. 81-100. ↩︎

  115. Su queste metafore rimandiamo al nostro saggio introduttivo, La muratura del pozzo…, cit. ↩︎

  116. È condivisibile quanto dice Schoen a proposito del ‘regno dei fini’ di Kant ‘corretto’ con la ‘sovranità del bene’ di Schleiermacher (la cui idea originaria sarebbe da attribuire a Ritschl). Tuttavia, a Schoen e alla sua lettura dell’opera di Ritschl sfugge che, mentre per Schleiermacher il ‘bene sommo’ coincide con il mondo culturale che si forma nel bene, nel dovere e nella virtù, per Lotze il ‘bene assoluto’ è il fondamento della legalità del reale, è ‘garante’ delle leggi valoriali che regolano il corso del mondo fino al conseguimento del ‘regno delle anime’. Se si segue Misch, il Lotze maturo incontrerebbe Schleiermacher sul piano dell’ontologia ‘storica’ per la quale vale il principio che il concreto non è il semplice esempio di una legge ma è il risultato peculiare che, grazie alla sua vita determinata ha più valore delle leggi e della loro generalità (cfr. G. Misch, Einleitung, cit., p. LXX). ↩︎