Sulla necessità e possibilità della verità

1. Intento

La filosofia prevalente in età postmedioevale ha, come si sa, negato la possibilità per l’intelligenza umana di attingere la verità. Una responsabilità, in tale negazione, può essere attribuita, come abbiamo accennato altrove, allo stesso pensiero cristiano medioevale, nella misura in cui il suo realismo gnoseologico fletteva a un «ottimismo astratto», che misconosceva la dinamica concreta e «drammatica» della conoscenza.1 Il tomismo è stato a lungo, in parte «nonostante Tommaso», l’emblema di tale atteggiamento intellettualistico, ulteriormente digradato in età moderna in aperto razionalismo. Per tale impostazione, come già abbiamo ricordato, la verità è attinta «facilmente» da un intelletto naturale immaginato come entità autonoma, slegata dalla dinamica integrale del soggetto, dal dramma della intersoggettività e della libertà. D’altro lato l’età moderna è approdata a una negazione del vero, che appare un errore ben peggiore. E non pienamente soddisfacente, per motivi che abbiamo già spiegato, appare pure la soluzione, per molti aspetti interessante, di Blondel.[^2]

Entrambe le alternative, che la verità sia raggiunta da un «puro» intelletto e che essa sia irraggiungibile in modo certo e stabile dall’intelletto, appaiono dunque insoddisfacenti. Ci proponiamo di illustrare in successivi contributi le grandi linee di quella che ci sembra la soluzione adeguata al problema, ossia che la verità viene sì colta dall’intelletto, ma non senza la sinergia di altri fattori, in particolare quello del coinvolgimento integrale della propria soggettività, in quanto rapportantesi seriamente a dei tu, segno di un Tu ultimo; in altri termini, perché la verità sia colta con certezza, come è nel suo dinamismo esigere quale condizione di soddisfacente perfezione, non bastano le sole energie (naturali) dell’intelletto individuale, ma occorre che il soggetto «si giochi», nella integralità del suo essere (inclusa dunque la sua libertà e la sua affettività), in una dinamica concreto-intersoggettiva. Di fatto questa dinamica non avviene senza il contributo della grazia soprannaturale, di cui peraltro il soggetto può non essere esplicitamente consapevole: omne verum, a quocumqe dicatur, a Spiritu Sancto est. Vi è in ciò un paradosso, si potrà obbiettare: che una operazione naturale possa compiersi appieno solo grazie ad un apporto soprannaturale. Ma questo paradosso, rispondiamo, non è che un risvolto di un più grande paradosso: l’uomo esiste per un fine che ne trascende la natura, ossia il fine della natura umana è di fatto soprannaturale, diventare, per libero e gratuito dono del Mistero, partecipe della Sua natura divina, in Cristo.2 Solo in Lui si compie l’umano, dunque solo in Lui l’affettività e la conoscenza trovano pieno compimento: sine Tuo numine nihil est in homine; senza di Lui l’uomo resta «un mistero a sé stesso», e la verità resta per lui qualcosa di pallido e di esistenzialmente incerto, di non saziante. Al punto tale che è praticamente impossibile per l’uomo, senza la grazia di Cristo, rimanere fedele alla verità attingibile naturalmente, ed egli, come la storia ha dimostrato, scivola inevitabilmente verso il preconcetto, verso le ideologie, verso quelle che S. Paolo chiamava «favole». È un paradosso, sì. Ma l’alternativa è l’assurdo, in generale, e, nella fattispecie, la frustrazione di un desiderio, quello della verità, che strutturalmente anima la nostra dinamica conoscitiva. Che poi la verità, così intesa, si dia, è un fatto, per quanto paradossale appaia, un fatto di cui generazioni di esseri umani, da venti secoli a questa parte, hanno fatto esperienza e su cui hanno costruito, nella pace di una certezza, più grande dei loro errori e delle loro meschinità, la loro esistenza come cammino verso una Pienezza totale. È un paradosso, dunque, che può scandalizzare chi dimentica che la vita è mistero, e pretende di sapere tutto e di imporre alla realtà la propria misura. Come se lui fosse il creatore della realtà. Mentre così non è: siamo dati.

Dunque l’uomo può cogliere con certezza la verità, come pensava il realismo tomista. Ma non lo può se si ferma e chiude alla sua individualità naturale, come ha avuto ragione di segnalare l’antirealismo postmedioevale, con cui Blondel ha cercato di fare i conti, sia pure in un modo che a noi sembra incompiuto e non adeguatamente ricomprensivo della istanze del realismo tomista. L’uomo può con certezza conoscere il vero in una dinamica integrale, nell’incontro con Cristo attraverso l’umanità dei Suoi.

2. Precisazioni lessicali: quale verità

È ora opportuno esplicitare delle precisazioni sui termini che useremo.

  1. Giova anzitutto richiamare che la verità di cui qui parliamo è quella relativa alle domande ultime sul significato della realtà, è dunque la verità filosofica in senso lato (quella per cui è lecito attribuire ad ogni uomo l’appellativo di filosofo, anteriormente a una rigorizzazione specifica), una verità che chiameremo d’ora in poi sintetica. Insisteremo sull’uso di questo termine perché ci appare come il più idoneo a esprimere la valenza esistenziale sottesa a tutto questo tentativo di ripensamento del tema della verità.

  2. È questo livello di verità che è stato messo in discussione dalla filosofia postmedioevale, la quale invece non ha messo in (paragonabile) discussione la conoscenza scientifica, né la conoscenza, diciamo così, empirico-quotidiana.3 È questo livello sintetico che si presenta come non possedibile con certezza esistenziale, come abbiamo appena detto, mentre delle verità di tipo ad esempio scientifico, o matematico, o relative a fatti empiricamente constatabili non presentano il tratto di dubitabilità, proprio delle verità sintetiche. Difficilmente possono venire dubbi sugli ingredienti che uno ha usato per cucinare una certa pietanza, o sulla data in cui è accaduto un evento importante nella sua vita, o sul teorema di Pitagora, o sulla verità della deriva dei continenti. Possono invece presentarsi come non soddisfacenti i titoli di certezza della nostra visione della realtà: possono, ripetiamolo. Che uno sia scettico, o idealista, o buddista, o anche cristiano, se è sincero con sé stesso può avvertire la propria spiegazione della realtà, nella misura in cui poggia su una pura considerazione dell’intelletto, come poggiante su un fondamento non roccioso, su un vuoto piuttosto che su un pieno; può avvertire, insomma, un che di insoddisfacente nei titoli di credibilità della propria visione della realtà: esistenzialmente non può esserne convinto fino in fondo, con lo stesso tipo di tranquilla e inattaccabile certezza con cui afferma che un semaforo è verde, se è verde, o che tre più cinque fanno otto. La pura speculazione (la speculazione di un «puro» intelletto) non attinge la verità (sintetica) in modo esistenzialmente soddisfacente.

3. Necessità della verità

D’altra parte non ci si può fermare alla constatazione della inadeguatezza di una verità puramente speculativa: abbiamo in noi l’aspirazione insopprimibile alla verità. In effetti la questione della verità non ci può lasciare indifferenti: ne va della nostra vita, di noi stessi, del destino del nostro io. Vorremmo ora motivare tale nostra convinzione. Ciò ci appare tanto più opportuno, dato il contesto della attuale cultura, tutt’ora intrisa di scettico e irridente nichilismo.

Circa la necessità di quelle che abbiamo proposto di chiamare verità analitiche nessuno, crediamo, può avere dei dubbi: è assolutamente necessario che io sappia se davvero nessun treno sta per passare sul binario che mi accingo a traversare, né mi è consentito disquisirne oziosamente; ancora, mi è necessario sapere se l’investimento finanziario che vorrei fare sia conveniente o meno; ho bisogno di sapere con la massima precisione possibile se il prodotto, ad esempio farmaceutico, che sto per acquistare risponda a certi requisiti (di efficacia e non tossicità); insomma, in merito alla dimensione analitica del reale, nessuno dubita della necessità del vero (analitico). E il motivo è che il vero analitico è direttamente funzionale alla vita nel suo livello biologico e psichico.

Ma a livello della verità sintetica le cose non vanno così: sembra infatti che si possa vivere anche senza il «vertice» della verità, lasciando tale vertice nell’ombra, ovvero imponendogli una forma azzardata e artificiosa (cioè non verificata adeguatamente4). La parabola descritta dalla filosofia nell’epoca moderna e contemporanea sembra fondare in modo categorico e inappellabile tale inessenzialità della verità sintetica, o quantomeno una rassegnazione alla sua definitiva irraggiungibilità. Sembra ancora oggi a molti che si possa fare a meno della verità, che si possa fare a meno della metafisica.

Al riguardo ci possiamo porre un primo interrogativo: pur ammettendo che si possa vivere, nel senso biologico, senza interrogativi sul senso ultimo, sarebbe una vita umana quella che restringesse il proprio perimetro al biologico ed eventualmente allo psichico? A noi pare che, perché l’uomo viva bene, occorre che tutto l’uomo viva bene, occorre che egli attui l’integrità del suo essere:5 occorre che, come le verità analitiche guidano il suo livello bio-psicologico, così la verità sintetica guidi il suo livello spirituale, quello specificamente umano, in cui risiedono la sua consapevolezza e la sua libertà. Per esprimere in modo icastico quello che vogliamo dire potremmo citare una frase detta da Gesù: «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero», dominandolo con un uso efficiente delle verità analitiche, «se poi perde o rovina sé stesso», trascurando la verità sintetica, sul senso della realtà? A noi sembra che la prioritaria preoccupazione che ogni essere umano debba avere sia questa responsabilità verso sé stesso, circa il proprio destino: dove va, in ultima analisi, la mia vita? Che senso ha questo andare, che si conclude, in modo apparentemente definitivo, con la morte biologica? Esiste una salvezza, un modo per salvare la mia realtà, compiendo il desiderio di felicità senza limiti che mi anima, e proteggendomi dall’annientamento o dalla sofferenza eterna? Non sarebbe umano eludere queste domande, non sarebbe umano andare spensieratamente incontro al nulla, alla distruzione del nostro io e dell’io delle persone a cui vogliamo bene, senza tentare con tutte le nostre energie di scoprire se esista una salvezza dal nulla, che sia, appunto, vera, e non illusoria. Con efficace paragone Pascal6accostava l’atteggiamento di quanti trascurano programmaticamente le domande sul significato della vita, a uno che, condannato a morte, ma ancora con la possibilità di ricevere la grazia nell’ultimo giorno che gli resta, passasse il suo tempo, invece che a preparare una toccante e persuasiva richiesta di grazia, a giocare allegramente a carte.

E con quest’ultima osservazione della necessaria non-illusorietà del vero che lo spirito cerca, veniamo alla seconda questione, sul perché sia necessario che il livello spirituale, lo spirito, conosca la verità come qualcosa di indipendente dalla sua libertà. La risposta è questa: perché ci troviamo nel mondo; siamo, pascalianamente, imbarcati, heideggerianamente «gettati» in un mondo che abbiamo trovato, e che non abbiamo fatto noi. Siamo gettati in un mondo che, nelle sue pendici analitiche, si impone (al di là di ogni dubbio) alla nostra prassi come oggettività strutturata; ora, parafrasando Cartesio (seconda prova di Dio7), se avessimo fatto noi il più difficile (la vetta sintetica, il cuore del reale, oggetto della verità sintetica), avremmo potuto fare anche il più facile (le pendici analitiche, la periferia particolare e contingente dei fenomeni bio-psichici). Invece è indubitabile che il più facile ci si imponga, i fenomeni materiali ci impongano la loro tirannia assoluta, costringendoci a valutarli senza sosta e con la massima attenzione, pena un danno vitale, su cui inutile e insano sarebbe esercitare qualsivoglia sussiegoso scetticismo. Ma, allora, come potremmo essere schiavi dei fenomeni, se fossimo padroni dell’essere? Come potremmo essere schiavi di un nano, se fossimo padroni di un gigante? Non è dunque minimamente serio pensarmi creatore del significato del mondo, della sua profondità, se del mondo non sono creatore, né lo sono di alcuna, pur minima, particella di fenomeno reale. Non sono creatore del significato del mondo, non essendo creatore del mondo, così come non sono creatore di me stesso; esisto come un dato, ovvero come un dono. Dunque, di fronte a una realtà, il mondo e me stesso, che non ho fatto e non faccio io, l’atteggiamento adeguato è quello di una semplicità originaria, di uno stupore per l’essere, che è dato, e di cui cerco il significato profondo, cioè la verità come qualcosa che non io invento, ma che (eventualmente) trovo e a cui posso approssimarmi, seguendo lealmente le sue regole.

Non sfuggiamo però a una terza questione: ammettiamo, si dirà, che in noi esista un livello che desidera un compimento che trascende la biologia e che la risposta a tale desiderio non sia inventabile da noi stessi, che non abbiamo creato la realtà; chi però ci garantisce che il dato sia un dono, che cioè dietro il dato ci sia un Donante, un Essere buono? Chi ci dice che noi, che non ci siamo fatti da noi stessi, siamo stati fatti da un Creatore infinito e perfetto e non da una infinita catena di cause immanenti e casuali? E in quest’ultimo caso, essendo noi gettati in un mondo che nulla garantisce essere buono, non conviene mettersi in atteggiamento di diffidenza e di difesa dall’essere, e dunque dalla verità? Una risposta completa a questa obiezione supporrebbe lo sviluppo di una metafisica: ci limitiamo perciò ad una risposta brevemente delineata, dicendo anzitutto che la realtà appare (immediatamente) buona, se non altro perché mi permette di vivere, dunque essa merita che le si dia una almeno tendenziale fiducia, ritirabile solo in caso di verificata ragione.8 Ma vi è una seconda risposta, ancora più decisiva: se anche la realtà non fosse in quanto tale buona, o addirittura fosse l’ingannevole prodotto di una Volontà cattiva o di un Genio maligno, rifiutando di cercare la verità che guadagno avrei? Dovrei invece prestare una ancor maggiore attenzione a discernere il vero, onde determinare con precisione che cosa esista davvero; in un mondo pieno di trabocchetti e di insidie dovrei tenere gli occhi ancor più aperti e vigili, se è vero, come noi pensiamo, che non posso recidere da me il desiderio del mio bene, della mia salvezza.

Nell’attuale tornante della storia, risulta del resto ancora più evidente la necessità di basare la propria azione e la propria vita sulla verità, poiché sta diventando sempre più chiaro che ne va non solo di una possibile salvezza eterna, che a molti potrebbe anche apparire, come pure non è, problema procrastinabile, ma ne va, come mai era accaduto nel corso della storia umana, della stessa sopravvivenza del genere umano. Alludiamo alle minacce di catastrofi possibili non solo in ambito ecologico, su cui già Jonas e altri hanno insistito, sia pure con motivazioni a nostro avviso inadeguate, ma più in generale a qualsiasi forma di autoeliminazione della vita umana dalla terra, dovuta ad esempio a guerre devastanti, con nuove tecnologie capaci di un’offensività (quasi) incontrastabile, di cui la tragedia delle Twins Towers potrebbe non essere che un sinistro preludio. Ficcare la testa sotto la sabbia del dubbio non aiuterà certo a parare i terribili colpi che potrebbero cadere sull’umanità, e che solo uno sguardo vigile e consapevole, responsabilmente avvertito del vero, saprebbe evitare o almeno attutire.

4. Violenza della verità?

È soprattutto il pensiero «debole», «postmoderno», decostruzionista a sostenere la tesi di la necessità di rinunciare alla verità come condizione perché tra gli uomini ci sia autentico rispetto reciproco, vera tolleranza. La stessa idea di verità (e non vi è verità nel senso pieno che non sia in qualche modo oggettiva, fondante, assoluta) sarebbe infatti essenzialmente violenta e funzionale al dominio violento di alcuni su altri. In tal senso, tra l’altro, vengono auspicate forme di relazionalità comunicativa deboli (pensiamo al primato della scrittura, e di una scrittura disseminatrice e priva di logos, in Derrida) e si esalta la razionalità plurale, meglio se «a raggio corto» (Lyotard), il nomadismo teorico, insuperabilmente spaesato.9 Solo così ci potrebbe essere accoglienza dell’altro, a cui dire solo «Viens», vieni, senza nulla affermare.10

Partiamo proprio da quest’ultima tesi di Derrida: come potrei dire seriamente «tu», e quindi «vieni», se non guardando il tu a cui mi rivolgo? La serietà del tu, detto, è direttamente proporzionale alla serietà dello sguardo, con cui innanzitutto devo riconoscere l’altro e affermarlo come un tu. Altrimenti non si capisce perché non potrei dire «vieni», o «tu», a un leone, o a una pietra. Dunque non è che il (solo) constativo sia contenuto nel performativo, ma è prioritario che il performativo sia contenuto nel constativo, che lo precede e lo fonda.

Dunque io riconosco il tu, e solo a condizione di riconoscerlo posso dirgli tu. È vero però che il riconoscimento del tu è diverso dalla conoscenza di un oggetto: riconoscere è più che conoscere. Ma non perché sia la mia iniziativa a rendere un «tu» ciò che prima della mia iniziativa era un «ciò» (dicendo tu a una pietra non la rendo un figlio di Abramo). È piuttosto il tu che prende l’iniziativa di farsi riconoscere. Ma ogni iniziativa di qualsivoglia tu umano ne suppone, a monte, un’altra, che l’abbia suscitata e resa possibile (solo chi è amato può amare): in ultima analisi si tratta sempre di una recezione, fondata sulla accettazione del reale come segno, benefico, del Tu creatore, a cui si deve, in tutti i sensi, riconoscenza.

Vi è una ulteriore obiezione, di matrice sartriana, secondo la quale lo sguardo (necessario al riconoscimento dell’altro) sia necessariamente oggettivante, perciò violento. A ciò risponderei che la realtà della esperienza documenta sì molti casi in cui avviene un fenomeno simile, che può rendere «infernale» il rapporto con gli altri (l’enfer c’est les autres), ma documenta anche fenomeni in cui il lo sguardo dell’altro è riconoscente senza violenza, e anzi mi restituisce a me stesso come e quanto da me stesso non potrei. E come io posso essere guardato senza essere oggettivato, sottoposto a sperimentazione e a calcolo, in modo da trarne invece aiuto e giovamento, così è giusto che rischi di guardare altri, senza temere che con ciò io violi un loro intangibile spazio di sacralità. Un non-sguardo o meglio una non serietà di sguardo all’altro, che programmaticamente escludesse il giudizio, per quanto motivata da un preteso rispetto, sarebbe in realtà indifferenza all’altro, colpevole complicità nella sua rovina.

Si obbietterà però, ulteriormente, che quanto si è appena detto varrebbe nel caso in cui si potesse discernere una verità dell’altro che non lo ferisca, e non lo assoggetti a un progetto violento. Che cosa garantirebbe infatti dall’ideologicità, per così dire, dal carattere cioè interessato e funzionale a un mio dominio sull’altro, che si potrebbe celare in ciò che definisco verità dell’altro? Anche qui si può ammettere che la sensibilità maturata nella nostra temperie culturale, per quanto esasperata nella sua diffidenza, colga un rischio reale. Il rischio che lo sguardo all’altro sia carico di una pretesa, di un progetto, in quanto tale effettivamente violento. Tuttavia, dobbiamo ancora una volta dire che di rischio si tratta, per quanto frequente e diffuso, e non di una struttura necessaria della relazione intersoggettiva: l’esperienza lo attesta, una esperienza attuale ma anche bimillenaria, tramandataci dagli scritti anche autobiografici di molti che, nel solco della novità cristiana, hanno testimoniato ad esempio la realtà positiva, non violenta ma utile, di quel fenomeno che è stato chiamato correzione fraterna. Non chiunque altro, ma alcuni altri, mi possono guardare non solo senza violenza oggettivante, ma con ricostruttiva beneficità, anche là dove giudichino il mio modo di pormi davanti alla realtà. Questi «alcuni altri» sono coloro che vivono con più verità di me, coloro di cui posso dire che sono più veri, espressione quest’ultima con cui raggiungiamo le colonne d’Ercole della indefinibilità trascendentale (ens et verum ad unum convertuntur), ma che risulta, a chiunque consideri sinceramente la sua esperienza, inconfondibilmente significativa.

Viceversa ci sembra che sia proprio l’impostazione antiveritativa del decostruzionismo, del pensiero debole e di tutte quelle filosofie attuali che bollano come violento ogni riferimento a una verità fondante, «oggettiva», ad essere tacciabile di violenza. La sua pretesa rispettosa compassione assomiglia alla (grottesca) cortesia di uno che, mentre si scala una montagna, vedendo un suo compagno di cammino scivolare senza avvertirsene verso un precipizio, giudicasse inopportuno ferirne la sensibilità facendogli, anche urgentemente, presente che sta sbagliando: come se fosse meglio lasciarlo morire, piuttosto che urtarne la suscettibilità. O, con un’altra metafora, si potrebbe paragonare quella impostazione alla pretesa di due ciechi, di non essere da nessuno definiti tali e anzi di costringere tutti i vedenti a comportarsi come ciechi, per compiacerne la esasperata esigenza di togliere ogni pietra di paragone, ogni criterio da cui sentirsi giudicati. Insomma se la verità esiste, la violenza è il dire che non esiste, non il dire che esiste. E che la verità esista è incontestabilmente attestato dal fatto che esiste la realtà, come dicevamo sopra. Il punto semmai sarà come la si può, adeguatamente, conoscere (e se la si possa conoscere perfettamente, come non ci sembra sia); e sarà, simmetricamente, come la si debba comunicare in modo tale da non ferire e urtare. Ma tutto questo è altro problema, un problema in ogni caso secondario.

In fondo, però, non si può essere davvero convinti della non violenza della verità se non si arriva al suo fondamento ultimo. Esistenzialmente, se ci si arresta al puro cerchio dell’immanenza, è difficile reggere all’impressione che la verità sia un peso, una violenza da cui sia opportuno tentare di liberarsi. È solo addentrando lo sguardo nella profondità del reale, solo riconoscendo il Tu, che ultimamente lo sostiene e in esso si svela, sempre velandosi nella Sua infinita discrezione, che posso accettare la verità come un bene, come buona. Se c’è l’Infinito, se l’Infinito è un Mistero buono, che è anche pienezza di verità, allora, e solo allora, posso cordialmente accettare le verità che costituiscono la mia vita e la realtà che conosco, la realtà finita. D’altra parte questo Mistero buono lo posso adeguatamente, cioè persuasivamente, conoscere solo nella rivelazione che Lui fa di sé in una compagnia umana, in una realtà «in carne e ossa», che mi si presenta con tratti di persuasività. È perciò questo, come diremo, il punto di partenza esistenziale, cioè reale, per una adeguata fondazione del vero.

5. Inevitabile ideologicità?

Questa obiezione, forte per tutto il tempo in cui durò, nella cultura contemporanea, l’egemonia marxista, è oggi decisamente meno presente. A dire il vero, non solo per il tramonto della filosofia marxista, che l’ha resa celebre e, per così dire, potente e riverita, ma anche perché più in generale tutti i «grandi racconti», come li chiamerebbe Lyotard, le visioni totalizzanti della realtà, aventi pretesa di verità, sono ritenuti radicalmente inaffidabili: inutile tentare di discernere verità ideologiche da verità non-ideologiche, se non esiste alcuna verità.

Nella misura in cui comunque si volesse tenere ancora valida quella obiezione, secondo cui ogni pretesa verità (assoluta) sarebbe inevitabilmente relazionata ad un contesto di interesse (particolare e relativo), capace di fletterla con determinante rilevanza a sé, risponderemmo che nessun interesse, incluso quello economico, o quello affettivo-sessuale, è più forte dell’interesse alla verità: poiché ciò che è in gioco con la questione della verità è insuperabile, è quanto di più radicale ci sia in un essere umano. Lo diciamo con parole di letterati:

Y va-t-il de l’honneur ? Y va-t-il de la vie ? Il y va de bien plus ! (P. Corneille)

Temporis aeterni quoniam, non unius horae ambigitur status in quo sit mortalibus omnis aetas, quae restat post mortem cumque manenda. (Lucrezio, De rerum natura, III, 1073-75)

Se dunque a un interesse conviene si soccomba, si soccomba a quello più forte; e di tutti il più forte è quello della verità, perché voglio ben sapere chi sono e che cosa mi aspetta come destino ultimo. E a un marxista che dicesse che questa è ideologia borghese, volta a far dimenticare i problemi veri, quelli sociali ed economici, risponderei: voglio proprio vedere se penserai questo, nel momento della tua morte. Voglio vedere se ti interesserà degli astratti concetti di classe sociale, di società, di alienazione, quando morirai tu, tu e non la classe, tu e non la struttura, tu e non il partito.

Ma, si obbietterà ancora, se davvero l’interesse alla verità fosse più forte degli altri (economico, o affettivo-sessuale) perché, almeno apparentemente, gli esseri umani lo dimenticano o addirittura lo negano? Non è in ciò la dimostrazione della sua «debolezza»? A questa obiezione si può rispondere che l’uomo è libero, e può perciò deviare da ciò che in lui è naturale, facendo prevalere ciò che è, diciamo così, artificiale.

Ma facendo così, l’uomo compie una operazione speculare a quella che viene attribuita dal marxismo, per il quale l’idea di verità (assoluta) è una interessata fuga dal sociale: attua una (interessata) fuga dal vero, cioè da sé stesso, rifugiandosi «fuori» di sé, come si esprime la tradizione ascetico-monastica (che ha invece praticato il redire in seipsum e l’habitare secum). E a nulla vale insistere che, statisticamente parlando, è grande il numero di coloro che compiono questa operazione sostitutiva: non è il numero poter far diventare naturale e vera una cosa che non lo è.

6. Conclusione provvisoria

La verità dunque si pone come una dimensione ineliminalbilmente importante, anzi decisiva, della vita umana. Contiamo di dire qualcosa, a Dio piacendo, su come essa sia pensabile, nel tentativo di conciliare l’istanza realistica del tomismo con le accennate istanze, di cui in particolare Blondel si è fatto espressione. Si tratterà di mostrare come siano compresenti una dimensione per così dire sfondale di verità che in qualche modo si impongono alla conoscenza e una dimensione per così dire assiale di verità intensamente percepite come certezze, in virtù di un coinvolgimento integrale del soggetto in una dinamica esistenziale-intersoggettiva.

  1. Per quanto riguarda il fenomeno della moderna negazione del vero, ossia quello che Bontadini chiamava lo gnoseologismo moderno, ci riferiamo a una tesi che accumuna una larga parte dei filosofi cattolici del ’900, tra cui lo stesso Bontadini (cfr. Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno, Milano 1966 e Conversazioni di metafisica, Milano 1971), la Vanni Rovighi (cfr. Gnoseologia, Milano 19631) e Maritain (ad esempio in Tre Riformatori, Parigi 1925 e in Distinguere per unire, 1932). Chi fosse interessato può vedere anche il nostro «La negazione della verità», di prossima pubblicazione su Divus Thomas n. 3 (luglio) 2002.

    Quella di Blondel, di cui ci siamo a più riprese occupati (cfr. «Il dibattito sulla verità tra Blondel e Garrigou-Lagrange», Sapienza, vol. 43º fasc. 3, luglio/sett. 1990, pp. 293/310; «Blondel e la verità come adaequatio realis», Sapienza, vol. 47º, fasc. 3, luglio/sett. 1994, pp. 337/55; «La verità in Blondel o la non-possedibilità del vero», Divus Thomas, a. 103, n. 26, maggio-agosto 2000, pp. 110/132), è una proposta che cerca di conciliare in qualche modo l’istanza tradizionale della verità con la moderna percezione di una non facilità di accesso al vero. Lo fa mostrando come solo nella «azione», in una integralità di coinvolgimento operativo-esistenziale del soggetto, questi può raggiungere la certezza del vero.


  1. Si veda tra l’altro «Provocazioni sul tema della verità nel tomismo», Divus Thomas, n. 10 (anno 98º), gen/apr 1995, pp. 9/26; ripubblicato in Dialegesthai, anno 2 (2000), <https://mondodomani.org/dialegesthai/francesco-bertoldi-01>. ↩︎

  2. Cfr. F. Bertoldi, De Lubac, Cristianesimo e modernità, ESD Bologna 1994. ↩︎

  3. Non è stato messo mai in dubbio il valore generale della conoscenza scientifica, ma semmai la sua portata ontologica; il che si riconduce ultimamente al problema generale della verità filosofica. Quanto alla conoscenza quotidiana, ci risulta che nessuno abbia seriamente messo in dubbio l’attendibilità della oggettiva percezione sensoriale né della interpretazione che ci consente di reagire in modo vitalmente utile al dato immediato: nessuna persona sana di mente esiterebbe a ritrarre una mano dal fuoco, perché incerta sulla oggettiva pericolosità del fuoco, e alla ricerca di un «significato ulteriore» del fuoco. ↩︎

  4. Questo è il caso delle ideologie totalizzanti, mentre la prima alternativa, la più diffusa, implica un ottundimento, una dimenticanza delle domande ultime. ↩︎

  5. A chi obiettasse che non diamo così per presupposta l’esistenza di un livello superiore a quello bio-psicologico, concederemmo che qui non ne diamo una dimostrazione. Ai nostri possibili interlocutori ci limitiamo a suggerire qualche argomento in proposito. Ad esempio: se fossimo pura materia, donde nascerebbe l’indignazione per i crimini contro l’umanità, che invece è costitutiva della nostra natura? Perché ci indigneremmo, magari esponendoci al rischio di danni biologici (o psichici), se il fatto che ci provoca non può nuocere alla nostra vita biopsichica? Per una organica trattazione di questo tema non possiamo che rimandare ai classici argomenti in favore della spiritualità dell’uomo (irriducibilità del pensiero a processi materiali, esistenza della libertà di scelta, presenza del fenomeno del pudore, come rifiuto della riduzione di sé a oggetto, e simili): cfr. Summa Theol., Ia, q. 75 (in part. aa. 2 e 5) e S. Vanni Rovighi, Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Milano 1980 (soprattutto pp. 178/203).

    Tuttavia il punto è che anche senza una esplicita dimostrazione dell’esistenza di un’anima, è constatabile come umanamente universale il fenomeno della percepita inadeguatezza di una vita che si limiti a mero esercizio di funzioni vegetativo-animali. ↩︎

  6. Cfr. Pensieri, XCVII [200] (tr. F. Montanari, La Scuola, 1980, p. 139/40). ↩︎

  7. Cfr. la Terza delle Meditazioni metafisiche↩︎

  8. L’aria che respiro è buona, il cibo che trovo è buono, il fatto che ci sia una notte che mi permette di ritemprare le forze è bene; in generale esiste una immediata convergenza di fattori positivi, che dovrebbe spingermi a dire, almeno come forte ipotesi di lavoro «la realtà è buona, e merita perciò fiducia». ↩︎

  9. Cfr. F. Lyotard, La condizione postmoderna, 1979. ↩︎

  10. Viens infatti non è una affermazione, una forma apofantica, constativa, ma una forma non apofantica, performativa: più precisamente è una invocazione. Cfr. J. Derrida, Psyché, Parigi 1987, e Margini della filosofia, tr. It. Torino 1997. Secondo Derrida ogni affermazione sarebbe inevitabilmente violenta (verso l’altro): solo l’invocazione, di cui «vieni»è la formula più sintetica, potrebbe istituire un rapporto non violento. ↩︎