1979-1989: il dibattito sull’educazione alla pace in alcune riviste pedagogiche

1. La ricerca

In un suo testo sull’educazione alla pace1 di una decina d’anni fa, Roberto Farné poneva questo problema: «Il rischio è che l’EaP sia vissuta come una moda pedagogica di un livello, certo, indiscutibilmente alto, e alla quale non ci si deve e non ci si può sottrarre. Ma, come per tutte le mode, bisogna chiedersi: fino a quando durerà?».2 La domanda non era fuori luogo, dato che, al momento della pubblicazione, l’ampio dibattito su questo tema aveva riproposto sempre più spesso la domanda sul proprio sviluppo futuro per voce dei diversi autori. Quello che però Farné non poteva immaginare è che la risposta a quella domanda era proprio nella data di pubblicazione del suo libro: il 1989.

«Che fine ha fatto l’EaP?»: questa è stata la domanda che ci spingeva ad approfondire l’argomento, partendo dall’impressione che negli ultimi anni gli interventi a riguardo fossero nettamente marginali all’interno della riflessione pedagogica.3 Così abbiamo voluto verificare l’andamento del dibattito sull’EaP negli ultimi 20 anni. Non avendo la possibilità di svolgere un’analisi a tappeto su tutte le riviste pedagogiche di carattere nazionale, ne abbiamo scelte alcune che, per autorità e orientamento, potessero costituire un campione di rappresentanza autorevole: Scuola e città, I problemi della pedagogia, Scuola Democratica, Orientamenti Pedagogici. Le conclusioni qui riportate sono il frutto di questa opzione di fondo che costituisce al tempo stesso il valore ed il limite di questa ricerca. A nostro avviso, i risultati ottenuti, per quanto non esaustivi, possono comunque dare «il polso della situazione».

2. I dati

Tentiamo prima di tutto una lettura quantitativa dei dati e poi una loro interpretazione.

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Il grafico 1 visualizza il numero degli interventi sull’EaP al variare del tempo e non lascia adito a dubbi: gli anni ’80 sono stati l’età dell’oro del dibattito sull’EaP. Sui 77 articoli individuati, ben 70 (più del 90% del totale) sono stati prodotti entro il 1990. A questi si potrebbero idealmente aggiungere anche quelli che, pur non essendo catalogabili come interventi espliciti sul tema, sono comunque riconducibili allo stesso filone (p. es.: studi sull’aggressività, sulla gestione dei macro- e micro- conflitti, ecc.) e che, in fase di lettura, risultano palesemente influenzati od originati dalla discussione sull’EaP.4 Una discussione molto ricca, fatta di esperienze ed analisi,5 studi su autori specifici,6 contributi di impostazione generale del discorso.7 Gli autori più presenti sono Aldo Visalberghi — particolarmente attento, come vedremo, al rapporto EaP/scuola (10 interventi) — e Paolo Cardoni — che elabora una sorta di «osservatorio» sull’EaP (9 interventi). La punta massima della curva corrisponde alla pubblicazione del numero monografico a tema di Scuola Democratica8 che si pone come un «caposaldo» del dibattito, sia per la molteplicità e il rigore degli approcci, sia perché segna la piena maturazione degli stessi termini del discorso.9 Negli anni ’90, invece l’EaP risulta drasticamente «latitante», non fosse che per qualche intervento isolato (7 in tutto), la cui consistenza vedremo in seguito. Perché? Che cosa ha fatto calare così drasticamente l’interesse al tema? L’andamento del grafico denota come questo declino sia avvenuto ex abrupto, senza gradualità e la risposta è da ricercarsi, a nostro parere, tanto nel cambiamento di importanti fattori sociali, che erano alla base della ricerca sull’EaP, che nell’esplodere di un altro filone di discussione che ha assorbito le energie e gli interessi di quegli stessi autori che si occupavano di EaP, polarizzandone l’attenzione su un’altra «emergenza pedagogica»: l’educazione in ambito multiculturale.

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Il grafico 2 fa vedere come questo tema, assente negli anni ’80, si sia imposto come «il» tema degli anni ’90 (dei 103 articoli individuati, gli 11 che sono apparsi prima del 1990 seguono un’impostazione di cui diremo a breve).

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La sovrapposizione delle due linee di tendenza nel grafico 3 suggerisce una connessione tra il calo di interesse per l’EaP e la crescita dell’attenzione all’educazione interculturale, soprattutto perché consente di rintracciare un periodo estremamente preciso che segna la fine dell’uno e l’inizio dell’altra: il biennio 1989-90. Ma questa operazione è giustificata? Lo scambio dell’andamento delle curve non potrebbe essere solo una coincidenza casuale? L’analisi dei contenuti del dibattito dimostra di no.

3. La prospettiva di fondo e i temi del dibattito

Il dibattito sull’EaP degli anni ’80 risulta nei fatti essere permeato dalla paura della catastrofe nucleare, dall’escalation della corsa agli armamenti e dalle relative manifestazioni di piazza, in sintesi: dalla cultura dei «blocchi». Quindici anni fa «guerra» era sinonimo di «catastrofe nucleare», guerra mondiale basata sull’opposizione dei mondi ideologici Est-Ovest. Erano questi i temi dominanti nella vita quotidiana del tempo e il dibattito pedagogico non poteva non assorbire queste tensioni, cercando tuttavia (giustamente), di tematizzarle in un orizzonte più ampio, più approfondito.10 Ci si chiedeva quale poteva essere il contributo dell’azione educativa esplicita, soprattutto quella scolastica, nella formazione di un mondo diverso, più sicuro, più «pacifico».11 Ritroviamo questa «radice sociologica» in tutti gli interventi sull’EaP dell’epoca.12 Questa strettissima connessione dell’EaP alla «pressione sociale» del tempo giustifica il suo rapido declino proprio in concomitanza del tramonto della cultura ideologica dei blocchi contrapposti, il cui termine viene unanimemente individuato in corrispondenza del novembre 1989 con la caduta del Muro di Berlino (è una data che traccia una fine «ideale» e «simbolica», certo, come tutte le datazioni dei grossi fenomeni storici, ma in questo caso anche molto, molto concreta).13 Come abbiamo visto, questa data segna anche il tramonto precipitoso della discussione sull’EaP e il rivolgersi dell’attenzione generale su un altro tema: l’educazione interculturale. Non è questo il luogo per soffermarsi più di tanto su questo argomento ormai inflazionato, però ci preme sottolineare come, dai dati in nostro possesso, emerga che questo tema sia nato sotto due spinte: il cammino dell’unificazione europea (che poneva il problema più a livello di «sistemi scolastici integrandi») e, soprattutto, l’esplodere del fenomeno migratorio (che ha portato nelle classi e negli ambienti formativi situazioni di lavoro inaspettate). Anche in questo caso, quindi, il dibattito pedagogico non si è rivelato una discussione accademica astratta, ma si è presentato segnato da un profondo contatto osmotico con la realtà. Considerando la quantità degli interventi e degli sforzi investiti viene da concludere che come l’EaP è stato «il» tema degli anni ’80, l’interculturalità è stato «il» tema degli anni ’90.14

Andiamo ora più nel dettaglio tematico, enucleando i filoni del dibattito.

  1. L’«ambiguità». Un intervento di Piero Zocchi nel già citato numero monografico di Scuola Democratica del 1988 inizia affrontando «l’ambiguità dell’EaP».15 Non è un caso isolato, questa espressione appariva già in un articolo di Bruno Bellerate del 198416 ed era stata ripresa da diversi autori lungo tutto lo svolgersi del dibattito.17 Ma in cosa consiste quest’ambiguità concordemente attribuita all’EaP come «intrinseca»?

    Bisogna anzitutto fare un passo indietro, precisando che siamo davanti ad un problema più vasto, che sta alla base di tutti gli studi sulla pace (la cosiddetta peace research),18 e cioè la difficoltà di convergere su una definizione univoca del termine e, quindi, la presenza di vari tipi di «pacifismo» conseguenti alle diverse interpretazioni semantico-ideologiche. Quasi la totalità dei nostri autori affronta questo problema basandosi sullo studio di Bobbio «Il problema della guerra e le vie della pace»19 che, tra l’altro, distingue tre diversi tipi di pacifismo, a seconda della direzione di lavoro ricercata per instaurare la pace e dei loro limiti: il pacifismo strumentale (che insiste, cioè sulla ricerca di mezzi di pace intesa come semplice non-guerra — p. es. il disarmo progressivo, le tecniche di nonviolenza — e che non riesce a risolvere le cause dei conflitti), quello istituzionale (che mette l’accento sulla dimensione politica e che può essere il campo quanto della «concertazione» mediatrice quanto della strumentalizzazione ideologica), e quello finalistico (che ricorda come una pace vera e totale sia possibile solo con un cambiamento radicale della natura umana, e che, proprio per questo, rischia di ridursi in generici discorsi sulla bontà o cattiveria dell’animo umano).20 Ai limiti fi ogni singolo approccio, si aggiunga anche il fatto che «la via più attuabile è anche quella meno efficace e viceversa. In altre parole, via via che aumenta la complessità diminuisce l’attuabilità […]».21 La distinzione è, ovviamente, espositiva e nella realtà si danno anche casi «misti», ma la domanda si pone: a quale tipo di pace deve far riferimento un progetto di EaP?

    Sul piano pedagogico, optare per una dimensione o per l’altra non è indifferente. Si deve, infatti, decidere in che misura un progetto educativo sulla pace debba seguire un’impostazione «culturale-cognitiva» e/o «socializzatrice». R. Rizzi affrontava esplicitamente la questione sintetizzandola nel titolo di un suo contributo: «Pedagogia della pace: problema ideologico-istruttivo o metodologico-educativo?».22 Il dilemma socializzazione/istruzione non è specifico dell’EaP: ha accompagnato la discussione pedagogica per tutto questo secolo, le appartiene in misura costitutiva. Ma gli autori sottolineano come esso assuma nell’ambito dell’EaP una valenza tutta particolare, giacché soluzioni affrettate o «assolute» minano alla base la stessa possibilità di un’EaP, portando a conseguenze deleterie: l’ideologia o il velleitarismo. I pareri degli autori su questo fronte sono sostanzialmente concordi e si potrebbero sintetizzare nella ricerca di un’analisi attenta delle potenzialità e dei rischi insiti in ogni prospettiva per un progetto educativo integrato.23 Privilegiare l’aspetto contenutistico è stata spesso una scelta «ideologica» controproducente e si deve evitare «di combattere l’equilibrio del terrore con una pedagogia del terrore col conseguente rischio di promuovere rimozione e rifiuto piuttosto che impegno civile».24 E d’altra parte è da evitare il rischio opposto, cioè quella superficialità riscontrata in molte esperienze di EaP per cui, dando troppo spazio a generici «buoni sentimenti» si giunge a «un concetto di pace onniinclusivo, le cui articolazioni e distinzioni si sovrappongono, al di là di ogni saggia regola logica, e la cui configurazione, descritta con abbondanza di sostantivi e ancor più di aggettivi, la depaupera di contenuti realistici e possibili per proiettarla nell’empireo di un’irraggiungibile utopia».25 Le dimensioni culturale-cognitiva e quella educativa-socializzatrice «non sono certo contraddittorie, bensì complementari, tuttavia restano diverse e non possono costituire un unico obiettivo programmatico d’intervento».26

  2. Pace a scuola? L’ambiguità di cui sopra esplode in tutta la sua problematicità nel momento in cui si cerca di elaborare l’EaP nel mondo scolastico. Il nostro «censimento» ha individuato 20 articoli (circa il 26% del totale) in cui si affronta questo problema. Lo sforzo più grosso è quello di individuare quanto e cosa debba essere trasmesso in maniera «diretta» e secondo quali discipline, e quale sia invece l’incidenza di una «metodologia scolastica di pace». L’autore che più si è adoperato su questo fronte è stato Visalberghi27 i cui interventi presentano un approccio forse meno analitico, tentando di mantenere una visione d’insieme, laddove altri autori hanno approfondito singoli aspetti del tema.28 Visalberghi propone (condiviso dagli altri interventi) di non ridurre l’EaP ad una materia tra le altre, ma di individuare ciò che ogni singola disciplina può dare come contributo specifico all’EaP, mentre, sul versante metodologico, EaP consiste fondamentalmente nell’educare al senso critico «davanti ai fatti del mondo e alle loro rappresentazioni».29 Tutti gli interventi concordano su due punti: a) la necessità di una corrispondenza tra contenuti, strutture e metodi «pacifici»;30 cui corrisponde b) l’importanza maggiore alla serietà degli insegnanti nell’approccio all’EaP, alla loro disponibilità a riformulare l’intero mondo scolastico «in chiave pacifica», perché, come osserva Farné, «Spesso si è caduti in una didattica superficiale e ideologica: stupisce soprattutto la facilità con cui certi insegnanti si mobilitano per l’educazione alla pace, con un entusiasmo che impedisce loro di darsi il tempo e gli strumenti per maturare contenuti e modalità, di mettere in discussione il proprio modo di porsi e di fare scuola».31 La pace a scuola, quindi, va affrontata evitando di cadere sia in un’arida ridondanza concettuale, quanto, sull’altro versante, nella sterilità delle belle parole, rispettando «le caratteristiche che devono essere proprie di queste iniziative come la non episodicità, il loro collegamento con iniziative concrete di solidarietà, il privilegiare sempre quando possibile la presenza di protagonisti del Sud del Mondo, l’avvalersi di materiali che stimolino la conoscenza piuttosto che sloganistici e iperideologici, insomma, che rispondano a tutti i requisiti di onestà intellettuale che rendono professionale qualsiasi operazione culturale e quindi la rafforzano anche politicamente».32

  3. «Laicità» e «religiosità»: quel che resta negli anni ’90. Nel 1985 la rivista Orientamenti Pedagogici promosse un seminario di studi proprio dal titolo «Educazione alla pace».33 Su un numero successivo di Scuola e città, Vittorino Telmon, che era stato una delle voci presenti,34 lamentava come in quel dibattito, che pure si proponeva di essere «interideologico», l’impostazione religiosa avesse finito per prevalere (ferma restante la buona fede degli organizzatori), e sottolineava con forza l’importanza di un EaP lontana da «egemonie culturali».35 Sino a questo momento, negli articoli presi in esame, il problema non era mai apparso in maniera esplicita. Assolutamente marginale negli anni ’80, il problema della «dimensione religiosa dell’EaP» risalta con i due articoli più importanti dell’ultimo decennio.36 Il primo è firmato da Paolo Cardoni che, riconoscendo come "in area laica si stenti a riprendere un discorso sistematico» sui temi della pace,37 metteva in guardia dal delegare alla cultura cattolica e in particolare all’IRC il delicato compito di una EaP, soprattutto perché lo status di un insegnante di IRC risulta essere ambiguo, e rischia «di arrecare alla cultura della pace più danno che vantaggio».38 Il secondo è una riflessione di Armido Rizzi che affronta il contributo dato dall’esperienza religiosa biblico-cristiana (religiosa in senso «radicale» del termine, cioè prescindendo dal problema dell’IRC) all’EaP.39 Questo intervento ci sembra, però, particolarmente interessante perché lo stesso Rizzi, dopo aver esposto il proprio punto di vista di credente con estrema schiettezza, con altrettanta correttezza cerca di scavalcare la divisione «laico/religioso», tentando di delineare un terreno comune: «… la coscienza della fragilità del perdono e della riconciliazione postula un atteggiamento di fede (sia essa modulata religiosamente o meno); bisogna credere nella pace per costruire la pace; credere nella pace come riconciliazione per costruire la pace come pienezza. In questo caso il ‘credere’ va inteso in quel senso così delicato e arduo che definisce il rapporto tra persone: quell’aver fiducia che fa credito alla possibile volontà di bene, anche malgrado ogni prova contraria, ma al tempo stesso non rinuncia alla vigilanza nei confronti dell’ancora possibile volontà di male».40 L’articolo di Rizzi dà indirettamente ragione a Cardoni, perché risulta essere l’unico intervento «teoretico» recente sull’EaP, viene proprio da un credente e segue una prospettiva religiosa (sebbene con l’apertura di cui dicevamo). Riconosciamo che questa particolarità ci tenta, e non poco, ad esprimere altre considerazioni sul tema, ma abbiamo deciso di non cedere a questa tentazione: sarebbe fuori luogo avventurarsi su sentieri di discussione così delicati in questo lavoro che vuole essere una sorta di «fotografia», non di più.

4. Prospettive

L’ultima posizione delle curve nel grafico 3 è delicata, perché, pur notando una inversione di tendenza, i dati in nostro possesso sull’annata 1998 sono incompleti per «motivi editoriali» (tempi di stampa, rilegature, presenza nelle biblioteche, ecc.) e sarebbe ardito lanciarsi in conclusioni non verificate. A conclusione di questo lavoro, l’unica cosa che possiamo fare è dire quali potrebbero essere, a nostro modesto parere, le odierne «piste di lavoro» dell’EaP suggeriteci dall’analisi fatta sull’ultimo ventennio.

  1. Un primo spunto di lavoro ci sembra venire proprio da quello spostamento di attenzione dall’EaP all’educazione in ambito multiculturale che abbiamo evidenziato all’inizio. Sarebbe interessante, dopo dieci anni di dibattito su questo tema, coglierne i frutti più maturi e trovarvi nuovi stimoli per la stessa EaP, rileggerne i risultati nell’ottica della peace research. Il tema dell’alterità culturale diverrebbe, così, uno dei pilastri fondamentali di una seria EaP.41

  2. Nel 1988 Maria Corda Costa scriveva che, nelle motivazioni e nell’impostazione dell’EaP dell’epoca, la dimensione politica prevaleva nettamente su quella solidaristica: «Purtroppo molto spesso si parla di solidarietà e si pensa a qualcosa di retrivo, sentimentale, da mettere da parte, perché invece “i problemi bisogna risolverli in modo politico”».42 Oggi la situazione ci appare ribaltata, diametralmente opposta, al punto che, parafrasando, si dovrebbe scrivere: «si parla di politica e si pensa a qualcosa di pericoloso, di ideologico, da mettere da parte, perché, invece, “i problemi bisogna risolverli con gli sforzi di solidarietà dei singoli”». Riteniamo, cioè di trovarci davanti a un common sense che si rapporta alle questioni sociali secondo un concetto di solidarietà «privatista» (quando non intimista) tanto pervasivo quanto povero nella serietà delle motivazioni e nella lungimiranza del servizio. La dimensione politica deve tornare ad avere un suo posto, così come quella economica non deve essere più misconosciuta o sottovalutata.

  3. E questo non è certamente facile. Fare EaP oggi è, paradossalmente, più arduo che in passato proprio per il venire meno della divisione del mondo in blocchi. «La grande guerre mondiale […] et la grande guerre nucléaire dont la crainte a dominé les dernières décennies, semblent effectivement écartées à la fois par leur caractère suicidaire et par la fragmentation du système international, celle des sous systèmes régionaux, celles des blocs et des alliances, celle des dimensions de la puissance, celle des communautés étatiques elles-mêmes».43 Così, il passaggio dai macro- ai micro-conflitti (tragico eufemismo) moltiplica gli sforzi di conoscenza, documentazione, approfondimento necessari, come abbiamo visto, per la dimensione cognitiva di un’EaP «solida».44

Lo scenario mondiale è più complesso, la pace più difficile, una seria EaP indispensabile.


  1. Da qui in poi nel testo: «EaP». ↩︎

  2. R. Farné, La scuola di «Irene». Pace e guerra in educazione, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 91. ↩︎

  3. Dello stesso parere P. Cardoni, «Se l’insegnante di religione propone l’EaP. Considerazioni di un laico sui rapporti tra cultura della pace e IRC», in Scuola e città (5-6/1995): «… si potrebbe misurare il progressivo ritrarsi della scuola e della pedagogia dal terreno dell’EaP e della stessa riflessione sulla pace» (p. 259). ↩︎

  4. Comunque sia, non li consideriamo come appartenenti al dibattito sull’EaP, data l’impossibilità di stabilire in maniera netta e indiscutibile il grado di attinenza al tema. Per non falsare i dati, ci basiamo solo sugli articoli che esplicitamente affrontano l’argomento. ↩︎

  5. Riteniamo particolarmente rilevanti: A. Melucci, «La mobilitazione per la pace negli anni ’80», in Scuola e città (5-6/1984); R. Mion, «Studenti ’85: se scoppia la pace», in Orientamenti Pedagogici (196; 4/1986); L.M. Ficocelli, «EaP: una programmazione triennale nella scuola media» in Scuola e città (7/1987); M. Esposito-P. Fiasconaro-A. Grossi, «EaP come rottura del conformismo», in Orientamenti Pedagogici (214; 4/1989). ↩︎

  6. Dei cinque articoli dedicati all’approfondimento dell’EaP in autori specifici, due sono dedicati a Don Milani (D. Novara, «L’aggressività di Don Milani come contributo alla definizione dello specifico dell’EaP», in Orientamenti Pedagogici (204; 6/1987); A. Visalberghi, «Don Milani e l’EaP», in Scuola e città (5-6/1988)) e due a Maria Montessori (G. Galeazzi, «Persona, educazione e pace in Jacques Maritain e Maria Montessori», in Orientamenti Pedagogici (240; 6/1993); G. Cives, «Maria Montessori educatrice alla pace», in Scuola e città (1/1984)). L’altro è P. Bertolini, «EaP: il contributo di Lamberto Borghi» in Scuola e città (10/1986). ↩︎

  7. Sono, ovviamente, il maggior numero. Si distingue per vastità, rigore e profondità M. Corda Costa, «EPS. Aspetti pedagogici e istituzionali», in Scuola Democratica (2-4/1988). Segnaliamo, inoltre, tra i tanti: P. Gianola, «Prospettive d’educazione dei giovani alla pace», in Orientamenti Pedagogici (181; 1/1984); B. Bellerate, «Ambiguità e possibilità di un’EaP», in Orientamenti Pedagogici (185; 5/1984); A. Cobalti, «Ricerca sulla pace e EaP», in Scuola e città (4/1985); G. Cives, «Considerazioni sulla pace e sull’EaP», in Scuola e città (9/1985); R. Rizzi, «Pedagogia della pace: problema ideologico-istruttivo o metodologico-educativo?», in Scuola Democratica (2-4/1987); E. Euli, «EaP e alla nonviolenza: un approccio», in Scuola e città (4/1990). Su altri interventi degli anni 90 cf. infra. ↩︎

  8. «EPS: per una riflessione sull’Educazione alla Pace e allo Sviluppo», Scuola Democratica, numero monografico (2-4/1988). ↩︎

  9. Il semplice passaggio di termini da una «educazione alla pace» ad una «educazione alla pace e allo sviluppo» (EPS) è indice di una apertura ad una visione più ampia e al tempo stesso meno generica, più «concreta», del tema. ↩︎

  10. Gli articoli di P. Cardoni su Scuola e città avevano proprio il taglio di un «aggiornamento periodico» della situazione politica internazionale e degli elementi sociologico-culturali in un’ottica di EaP. ↩︎

  11. È una preoccupazione che cerca approfondimenti e studi al di là degli spazi di una rivista e di cui troviamo traccia nei numerosi convegni sul tema. Tra i tanti: «EaP e scienze dell’uomo» (organizzato dall’Università La Sapienza e dall’associazione Quale società, 1983); «La pace interroga la scuola» (organizzato da MCE e Scuola Notizie, 1984); «EaP» (organizzato da Orientamenti Pedagogici, 1986); «Educare alla pace e alla tolleranza» (organizzato dal CIDI, 1988); «L’éducation à la paix face aux déséquilibres économiques et écologiques mondiaux. Une réponse européenne» (convegno internazionale, 1989). ↩︎

  12. Cf. l’analisi sociologica di Melucci (A. Melucci, «La mobilitazione…», op. cit.), oppure quella di Mion che riconosceva l’interesse alla pace come «…fondato su una precisa paura della guerra nucleare e su una ansiogena incertezza del futuro» (R. Mion, «Studenti ’85: se scoppia..», op. cit., p. 651). Solo nelle posizioni più tarde del dibattito si insinuano elementi diversi che allargano il discorso sulla pace al problema dello sviluppo dei paesi poveri e degli squilibri economici mondiali; è un cambiamento testimoniato, come abbiamo visto, anche dalla terminologia («EPS» cioè «educazione alla pace e allo sviluppo; da non confondere con la sigla «ESP» utilizzata da alcuni che, invece, sta per «educazione scolastica alla pace»). ↩︎

  13. Si veda, ad esempio, P. Cardoni, «Cultura di pace, bipensiero militare e segnali di guerra», in Scuola e città (7/1986). L’Autore si chiedeva esplicitamente: «Abbiamo parlato tanto di EaP. Ha senso continuare a parlarne?» (p. 318) e ricordava come, nonostante la situazione politica si avviasse alla «distensione tra i blocchi», il pericolo di una catastrofe nucleare fosse sempre incombente. ↩︎

  14. In realtà era possibile imbattersi nel termine «interculturalità» già negli anni ’79-80 (Cf. andamento corrispondente della curva nel grafico 2), ma in un’accezione completamente diversa. Con questa parola si intendeva il confronto/scontro tra indirizzi di pensiero differenti all’interno di uno stesso sistema socioculturale (p. es. cultura laica e/o religiosa). Si vedano, ad esempio, B. Bellerate, «Pluralismo culturale ed educazione», in Orientamenti Pedagogici (151; 1/1979), oppure L. Corradini, «Pluralismo, mediazione culturale, educazione scolastica», in Orientamenti Pedagogici (154; 4/1979). Ci siamo permessi di collegare comunque questi pochi interventi a quelli degli anni ’90 perché gli atteggiamenti di fondo che venivano invocati allora sono, mutatis mutandis, le stesse piste del discorso odierno: conoscenza rispettosa dell’altro, ascolto, dialogo, ecc. ↩︎

  15. P. Zocchi «EPS, istruzioni per l’uso» in Scuola Democratica (2-4/1988), p. 123. ↩︎

  16. B. Bellerate, «Ambiguità e possibilità di un’EaP», in Orientamenti Pedagogici (185; 5/1984). ↩︎

  17. Cf. anche R. Farné, «Ambiguità e necessità di una pedagogia come scienza per la pace», in Scuola e città (7/1988). Ma è un tema che ritorna spesso come richiamo «sotteso» a tutta la discussione. ↩︎

  18. Per una visione d’insieme sul percorso storico-intellettuale sulla pace si veda A. Cobalti, «Ricerca…», op. cit. ↩︎

  19. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1979. Questo testo, agile e profondo, rimane in Italia un caposaldo della discussione su pace e guerra. Apparso nel 1979 (la data d’inizio per questa nostra ricerca), ha accompagnato, con le sue successive ristampe e ri-edizioni (1984, 1991, 1997), tutto il dibattito sino ai nostri giorni. ↩︎

  20. Ibidem, pp. 79-94. ↩︎

  21. Ibidem, p. 91. ↩︎

  22. R. Rizzi, «Pedagogia della pace: problema…», op. cit. ↩︎

  23. «La pace non sarà frutto né di sola educazione né di sola socializzazione in qualche cultura o in qualche concreto sistema socio-politico» (P. Gianola, «Prospettive d’educazione…», op. cit., p. 83). ↩︎

  24. A. Visalberghi, «Educazione all’ambiente, qualità della vita, EaP, nel quadro dell’educazione degli adulti», in Scuola e città (5-6/1985), p. 230. ↩︎

  25. B. Bellerate, «Ambiguità…», op. cit., p. 809. ↩︎

  26. Ibidem, p. 805. A quattro anni di distanza, Bellerate tornava ancora sull’argomento: «Soprattutto non ci si appelli al ricatto affettivo, capace di esiti contraddittori, ma raramente stabili. Ora nel nostro caso l’emotività può giocare un ruolo decisivo, se subisce sollecitazioni eccessive. Non che se ne possa ignorare la presenza e l’apporto, però essa va controllata e integrata da altri fattori quali la razionalità, la storia e anche la religiosità. Insomma tutto può essere chiamato in causa in un discorso di pace e sviluppo e, in un certo senso, lo si deve anche fare, ma quel che conta è ipotizzare e verificare gli equilibri che si dimostrino più efficaci e produttivi di comportamenti conformi con quanto si è appreso, assimilato e voluto esprimere, sul piano sia soggettivo che sociale. A nulla serviranno disegni, poesie e composizioni di ogni genere, se non si ridurranno gli spazi della discriminazione, competizione e strumentalizzazione, dell’etnocentrismo e razzismo, a partire dal livello verbale fino a quello comportamentale» (B. Bellerate, «Pace e sviluppo. Tra il «dire» e il «fare»», in Scuola Democratica (2-4/1988), p. 16)). ↩︎

  27. Cf. soprattutto A. Visalberghi, «La pace tra passato e futuro», in Scuola e città (10/1984), nonché Idem, «Che cosa significa educare alla pace?», in Scuola e città (9/1986). ↩︎

  28. Segnaliamo: G. Salio, «EaP come educazione alla nonviolenza», in Scuola e città (9/1983); P. Lazagna, «La pace interroga la scuola», in Scuola e città (11/1984); P. Cardoni, «Cronaca, scuola, cultura della pace», in Scuola e città (9/1985); E. Damiano, «L’EaP nella scuola: il dibattito concettuale e assiologico», in Orientamenti Pedagogici (187; 1/1985); Idem, «L’EaP nella scuola: la legittimazione scolastica», in Orientamenti Pedagogici (188; 1/1986); R. Laporta, «Società, scuola, EaP», in Scuola e città (2/1990); P. Cardoni, «Il dibattito più recente su scuola e pace» in Scuola e città (1,2/1998); nonchè tutta la terza sezione di Scuola Democratica (2-4/1988) intermente dedicata a quest’aspetto con gli interventi di M. Famiglietti («EPS e innovazione: metodologie e strumenti»), L. Del Cornò («EPS e innovazione: contenuti») e A. Socal («EPS e innovazione:strutture»). Cf. inoltre la nota 5 per il riscontro di esperienze scolastiche concrete nonché E. Euli, «EaP e alla nonviolenza…», op. cit. ↩︎

  29. A. Visalberghi, «Che cosa significa…», op. cit., p. 411. ↩︎

  30. Cf. R. Laporta, «Significati possibli, impossibile scuola», in Scuola Democratica (2-4/1988): «Io credo piuttosto che l’EaP nella scuola dal punto di vista teorico-culturale richieda la generazione di un impegno costante a scoprire, in base alle conoscenze del mondo e della sua storia, della nostra società attuale e dei suoi problemi e dei suoi mezzi scientifici e tecnici, le ipotesi più ragionevoli e razionali per aumentare il tasso di desiderabilità di ogni rapporto sociale e politico, riducendone gli aspetti contrari; e che dal punto di vista emotivo e morale una tale educazione richieda la convinzione che valga la pena sacrificare il nostro utile immediato e personale per contribuire con intelligenza mediatrice e conoscenza di causa a scoprire quelle ipotesi ragionevoli. […] L’EaP non può che passare per tutto ciò, che gli insegnamenti quotidiani, per i duri impegni intellettuali di insegnanti e alunni, per più lunghi e fecondi tempi scolastici: per un lavoro collettivo di testa e di cuore nel quale la parola pace non sia mai pronunciata se non si abbia la coscienza certa di aver prima lavorato per essa senza bisogno di dirlo, imparando semplicemente ad essere persone nel mondo. Ogni altra forma conclamata di EaP sarebbe, a mio vedere, insincera, insicura, inutile, retorica, presuntuosa» (p. 17). ↩︎

  31. R. Farné, «Ambiguità e necessità…», op. cit., p. 307. ↩︎

  32. E. Melandri, «Educazione e cooperazione allo sviluppo», in Scuola Democratica (2-4/1988), p. 38. ↩︎

  33. Gli atti del convegno risultano ora in un volume curato da R. Maragliano, Educazione alla pace, SEI, Torino 1985. Tra i vari contributi, ci sembra di particolare interesse E. Damiano, «L’EaP nella scuola», ivi, pp. 271-318. È un intervento, che al di là del problema «pace a scuola» offre un serio e documentato sguardo d’insieme su peace research e peace education↩︎

  34. V. Telmon, «Valori etico-religiosi ed obiettivi politici nell’EaP», ibidem, pp. 62-68. ↩︎

  35. Idem, «EaP», in Scuola e città (5-6/1986). ↩︎

  36. Gli altri riguardano elementi marginali, fatta eccezione per lo status quaestionis dell’instancabile P. Cardoni, «Il dibattito più recente…», op. cit. ↩︎

  37. Idem, «Se l’insegnante di religione propone l’EaP…», op. cit., p. 260. ↩︎

  38. Ibidem, p. 264. ↩︎

  39. A. Rizzi, «Dalla pace alla giustizia. Esperienza religiosa e EaP», in Orientamenti Pedagogici (266; 2/1988). ↩︎

  40. Ibidem, p. 234. ↩︎

  41. Ne siamo stati sempre convinti, ma adesso vi sono i mezzi di una maggiore solidità intellettuale. ↩︎

  42. M. Corda Costa, «EPS. Aspetti pedagogici…», op. cit., p. 24. ↩︎

  43. P. Hassner, «Par-delà le totalitarisme et la guerre», in Esprit (248/1998), p. 16. ↩︎

  44. Cf. supra, al punto 1. ↩︎