Il problema dell’eutanasia. Per un approccio razionale, laico e universale

1. Razionalità, fede e laicità

Ritengo opportuno e necessario iniziare il presente saggio sulla questione dell’eutanasia, in specie riguardo alla posizione dello Stato laico, prendendo in esame i tre concetti chiave su cui si basa l’intera discussione intorno al tema. Le relazioni semantiche e speculative esistenti tra i tre termini non sono certamente di “nuova generazione”, ma hanno radici alquanto remote e implicazioni rilevanti all’interno di qualsiasi discussione filosofica, etica e sociologica. In particolare, e al fine di non allontanarmi troppo dal tema specifico dilungandomi in disquisizioni di carattere storico, nell’affrontare l’argomento dell’eutanasia e tutte le relative questioni ad esso correlate quali vita, morte, esistenza, persona, ecc. . ., non si può non tenere conto — in via preliminare — dell’importanza e delle conseguenze che le relazioni tra questi concetti e le loro differenti interpretazioni hanno all’interno del dibattito etico.

I due principali modelli teorici di bioetica, i quali si ispirano a due concezioni generali del mondo e a due distinte filosofie, rappresentati dalla bioetica cattolica della “sacralità della vita” e dalla bioetica laica della “qualità della vita”, edificano tutto il loro paradigma su questi tre pilastri piuttosto solidi e problematici. Il loro carattere di problematicità consiste nel fatto che ognuno di esso trova interpretazioni differenti a seconda del contesto ideologico in cui assume importanza e ciò determina le controversie, spesso insolubili, in merito alle questioni di bioetica. Naturalmente, per prendere posizione, in contesto legislativo, bisogna prescindere da considerazioni fideistiche e personali per porsi in maniera obiettiva e imparziale.

Se il maggior bioeticista cattolico italiano, Sgreccia, si propone di dare alla bioetica una «fondazione razionale, laica e universale»1 ai fini di una «difesa della vita umana e del rifiuto dell’eutanasia»,2 di contro, per il laico Boniolo, il ricorso ad un principio di laicità e razionalità conduce proprio ad una difesa dell’atto eutanasico, considerato in sé rispettoso della volontà e della scelta autonoma del soggetto. Due principi, almeno formalmente identici, conducono a due risultati opposti: un paradosso? No. Semplicemente una conseguenza che inevitabilmente scaturisce dal “dialogo”3 tra concezioni differenti.

Certamente Sgreccia ha il merito di aver tentato di fornire un’argomentazione libera da nozioni fideistiche4 così da rendere universale la considerazione sul rispetto della vita, tuttavia questo suo sforzo appare talvolta ambiguo, per il fatto che le motivazioni che vengono avanzate sono sovente di carattere religioso, poiché si fondano sul rispetto di Dio in quanto creatore e della fase finale dell’uomo in quanto incontro di quest’ultimo con Dio.5 È chiaro che un’etica pubblica, interessata a definire gli ambiti e gli argini del legislatore e la sua competenza di intervento, non può esimersi dal chiedersi se davvero non esista una curiosa contraddizione di fondo tra il proposito di una fondazione laica e l’argomentazione che ne viene fatta; e perché ci sia questa contraddizione, infine, o se in realtà essa è suffragata da motivazioni in qualche modo “oscure” che non sono esplicitate nel testo. Eppure se ricercassimo delle motivazioni di fondo coerenti al proposito e pertanto le trovassimo nelle considerazioni sul valore che ogni individuo attribuisce alla propria esistenza e sul significato che ognuno dà al termine “vita”, ci troveremmo nuovamente in “trappola” in quanto avremmo un criterio di difesa laico, ma decisamente relativo. Va tuttavia riconosciuto che approcciando alle argomentazioni di Sgreccia, e in generale dei filosofi cattolici, i parecchi interrogativi e le obiezioni che sorgono sono per lo più inerenti al senso delle questioni oggetto di dibattito, ma a livello logico-argomentativo esse si presentano forti, ben strutturate e, se ci si ferma ad esse, anche piuttosto convincenti. Viceversa, molte delle argomentazioni laiche mi appaiono carenti nell’aspetto logico-razionale tanto che più volte ho avuto l’impressione che i discorsi fossero stati lasciati in sospeso come se ci fosse un seguito che spetta ad ognuno trovare.6

Da un incontro vis à vis con il bioeticista cattolico le motivazioni “oscure” (di cui sopra) sono emerse insieme ad una sua “definizione” di razionalità per cui «il fatto che una persona assuma un atteggiamento di rispetto della vita altrui e della propria è razionale di per sé, ed è quindi condivisibile» e ancora

la razionalità sta nel fatto che la vita fisica, corporea, non ce la siamo data noi e nessuno, credente o non, può dire di essersi dato la vita da sé […] anche il dire che la vita è stata creata da Dio è razionale in quanto alla creazione si ci arriva con la ragione e non solo con la rivelazione. Che la vita deve avere una causa superiore, questo è frutto di un ragionamento: fin qui è tutto laico.

L’argomentazione sembrerebbe ora più chiara e completa se non fosse per l’apparizione del contradditorio il quale, con una altrettanto articolata e convincente esposizione, smonta nuovamente le considerazioni appena citate. Così dalla stessa perplessità, avanzata adesso a Boniolo, emergono nuovi spunti e nuove definizioni per cui ciò che prima era universalmente «condivisibile e razionale di per sé» adesso diviene relativamente accettabile e suscettibile di confutazione:

non è detto che l’equivalenza tra razionalità e laicità valga sempre: dipende molto dalle definizioni di laicità e di razionalità che si prendono in considerazione. Per esempio secondo l’individualismo metodologico, razionale è quel comportamento che è mirato a raggiungere un certo scopo.7 Di conseguenza, secondo questa definizione, anche il suicida mette in atto un comportamento razionale in quanto il suo scopo è porre fine alla sua vita e per raggiungerlo attua tutti i mezzi che gli permettono di farlo.

Successivamente Boniolo sposta l’accento sul rapporto creazione — razionalità ed è proprio a questo punto che la definizione di «argomento razionale» assume un significato completamente opposto in quanto

per poter dire che la vita c’è stata data da qualcuno, per poterlo affermare, dobbiamo di certo argomentare in maniera razionale, ma ad un certo momento dobbiamo anche dire che esiste questo Qualcuno e di questo Qualcuno non è giustificabile razionalmente l’esistenza. […] Dall’altra parte per essere effettivamente razionale nella sua completezza un argomento non deve far capo a nessuna nozione fideistica.

Da queste argomentazioni risulta piuttosto evidente come anche il concetto stesso di laicità8 sia caratterizzato da una sorta di ambiguità speculativa per cui non è del tutto chiaro il suo significato né tanto meno è esente da classificazioni erronee e fuorvianti. Riprendendo le parole di Fornero innanzitutto

si dovrebbe specificare preliminarmente in che senso ci si definisce laici, ossia se con questo vocabolo si intende alludere ad un semplice metodo di coesistenza e di ricerca (che può accomunare credenti e non credenti) oppure ad un metodo e […] ad un atteggiamento dottrinale non religioso. Fermo restando che non-religioso non significa necessariamente anti-religioso.9

E credo che tale distinzione sia necessaria considerato il fatto che, a seconda di come viene inteso, il termine laico determina alcune incongruenze. Infatti, se considerassimo il laico come colui il quale «non usa argomenti che rimandano a un principio d’autorità […] esterno al processo discorsivo stesso»,10 allora anche Sgreccia (e tutti i «filosofi cattolici»),11 appellandosi alla ragione quale strumento universale di difesa della vita, sarebbe un laico e di conseguenza svanirebbe anche la distinzione tra cattolici e laici che nella realtà dei fatti esiste ed è impossibile negare. D’altro canto l’equivalenza laicità = non religiosità non renderebbe giustizia al «laico (in senso forte) »12 il quale «ragionando “come se Dio non fosse” nelle sue argomentazioni non tiene conto né della possibile esistenza e “volontà” di Dio, né di un eventuale “progetto divino sulla vita”»13 e ciò non implica, per dirla con Mori, «né l’agnosticismo né l’ateismo, ma solamente l’esclusione di premesse metafisiche o religiose che pretendano di valere per tutti».14

Di fronte a considerazioni così distanti tra loro è inevitabile provare un sorta di sensazione di smarrimento per cui sembra quasi che si stia parlando di tutto e di nulla e che ognuna delle argomentazioni possa avere un proprio valore di verità. Forse perché in merito a questioni di bioetica, e nello specifico di eutanasia, non può esistere una verità assoluta? Forse perché è imprescindibile il fatto che nel momento in cui entrano in gioco coordinate esistenziali non si può stabilire un unico modello di riferimento a cui tutti devono conformarsi?

Tutta la questione dell’eutanasia ruota attorno a questo relativismo15 di valori inteso non negativamente come perdita di un orientamento morale o come mancanza di punti di riferimento per un’esistenza disciplinata, bensì positivamente come possibilità proficua di apertura al dialogo e di confronto tra realtà e concezioni differenti. Non credo che sia un fine necessario quello di tentare di trovare una soluzione condivisa e universale, anche perché sarebbe praticamente impossibile e sfocerebbe soltanto in «forme serpeggianti di supremazia — quando non di espressa prevaricazione — delle ragioni religiose su quelle secolari»16 e viceversa. Per dirla con Habermas:

lo stato Laico può comunque assicurare imparzialmente la tolleranza solo se garantisce che nella sfera pubblica politica il pluralismo di visioni del mondo possa liberamente dispiegarsi — senza normative pregiudicanti il contenuto — sulla base del rispetto reciproco.17

Per cui, stando a queste considerazioni, ogni concetto racchiuso in una definizione, che si configura necessariamente come soggettiva e relativamente condivisibile, dovrebbe essere liberamente interpretabile e questa interpretazione non dovrebbe costituire un motivo di esclusione o di condanna, ma essere considerata come “altra” rispetto a quella iniziale e perciò passibile di considerazione e rispetto. Di conseguenza nel termine vita è racchiuso un mondo di visioni differenti che possono scaturire da una stessa definizione: se «la forma superiore di vita è quella che si dà alla coscienza»18 e se «chi non è disposto a scegliere la vita cosciente come paradigma dell’interpretazione della vita in generale è costretto a disconoscere all’essere vivente il suo carattere di essere vivente e a ridurlo a una struttura “oggettiva” di un essere materiale»19 poiché «il problema della vita non è un problema biologico, ma è l’orizzonte, il senso all’interno del quale situiamo ogni altro problema»,20 un uomo può intendere come difesa e rispetto della propria vita quel rifiuto di determinate condizioni «invalidanti» proprio in quanto ha deciso di scegliere la vita cosciente come paradigma dell’interpretazione della vita in generale; una scelta che prende forma partendo dal senso che egli ha attribuito alla propria «esistenza»21 e che egli ritiene ormai perso nel momento in cui questa sua vita non ha più quella «capacità di azione immanente»22 che la contraddistingue come tale; viceversa un altro uomo il quale considera la vita cosciente come «il luogo dove emerge la sua origine da Dio e la sua destinazione a Dio»23 avrà attribuito alla propria esistenza il «valore della sacralità»24 e in virtù di ciò la difesa della sua vita sarà assoluta e senza possibilità di “morte anticipata” anche in condizioni invalidanti. Due diversi punti di vista per due risultati altrettanto differenti, ma entrambi accettabili. Per cui coloro che, ad esempio, non sposano la seconda accezione di vita non per questo devono essere tacciati di irrazionalità. Riportando le parole di Sgreccia emerse dall’intervista:

non tutti la intendono così perché non tutti ragionano! Non tutti hanno la lucidità, non tutti hanno sempre la serenità, molti sono stati colpiti da disgrazie. Ciò renderà più o meno scusabile un gesto di disperazione, ma non lo rende vero o falso» (e io aggiungerei) così come non si può ritenere vero o falso un orientamento ideologico.

25. Autonomia come dipendenza?25

La questione dell’autonomia rappresenta un punto focale all’interno del dibattito etico sull’eutanasia. Dico focale in due sensi: sia perché si configura come il “punto” in cui tutte le “linee” argomentative ed esistenziali convergono, sia in quanto costituisce un nodo inestricabile, ma di fondamentale importanza intorno al quale ruota tutta la discussione sull’eutanasia. Qualunque argomentazione, di “stampo” laico, cattolico, ateo o religioso (nel senso più ampio del termine), s’imbatte in questo concetto quasi “labirintico” nel quale sembra non esserci (e forse non c’è!) possibilità di scampo. Ciò è dovuto, in primis, alla complessità e problematicità del termine stesso al quale non può essere attribuito un senso univoco considerati i contesti in cui viene “chiamato in causa” e il soggetto (l’uomo) a cui viene riferito. Già partendo dall’etimologia del termine insorgono le prime perplessità: il termine autonomia deriva dal greco ed è composto da autòs e nòmos che rispettivamente significano se stesso e legge quindi, per dirla con la voce filosofica dell’ Enciclopedia, l’autonomia sarebbe la libertà di vivere con le proprie leggi, oppure ciò «che si governa da sé».26 È evidente che se ci fermassimo a questa definizione e al suo significato letterale il senso dell’essere autonomo potrebbe facilmente venire travisato in essere anarchico il che non renderebbe giustizia né al suo alto valore filosofico né tantomeno al suo rilievo in ambito etico.

Innanzitutto credo sia interessante riportare i tre differenti significati che Botturi attribuisce al termine libertà e le rispettive analisi compiute da Sgreccia: questa viene intesa come «autodeterminazione»27 per cui «gli atti del soggetto sono misurati solo su se stessi»28 e di conseguenza «si presuppone una perfetta autonomia»;29 come «autorealizzazione»30 e quindi secondo questa prospettiva

libertà significa cammino verso un/il compimento dell’agente; ha […] il senso di liberazione dalla povertà e dalla schiavitù dell’imperfezione, dell’incompiutezza, ecc» [di] «adesione al bene, realizzazione […] del soggetto».31 [E infine] «come rapporto con gli altri, e più precisamente con altra libertà. […] La libertà è bisogno costitutivo dell’altro come libertà. L’uomo e-siste in forza del riconoscimento che riceve; ha bisogno di riconoscimento […] per esistere da persona, cioè […] per raggiungere un intenso e stabile senso della propria identità.32

Ho ritenuto utile partire da questi tre significati in quanto sono convinta che essi racchiudano l’essenza33 di ciò che può essere inteso per libertà e autonomia. Tutte le altre considerazioni sono, a mio avviso, dei corollari che offrono un supplemento e arricchiscono la discussione. Ovviamente le tre “definizioni” non devono essere considerate come escludentesi a vicenda, bensì come interdipendenti in quanto aspetti diversi di una stessa medaglia.

Detto ciò, per entrare nel merito della questione, bisogna considerare in che modo questi concetti si intrecciano e dialogano tra loro all’interno del dibattito sull’eutanasia e soprattutto è interessante notare le sostanziali differenze, non tanto a livello semantico quanto a livello prioritario, che li caratterizzano a seconda che ci si riferisca ad un contesto cattolico o laico.34 Infatti, se per Sgreccia è «la vita» ad essere «presupposto dell’autonomia in quanto se non ci fosse un fatto ricevuto io non potrei essere autonomo neppure nelle azioni», e la conseguenza di ciò è che «non si ha diritto a disporre, in nome della libertà di scelta, della soppressione della vita»,35 al contrario, secondo la posizione di Boniolo al di sopra di qualsiasi ragionamento o principio sta proprio «il diritto» di ognuno «di gestire la propria vita e anche la propria morte come pensa sia meglio, e aldilà di costrizioni legali o religiose» con la diretta e ovvia conseguenza che il giudicare l’eutanasia come atto moralmente illecito è un fatto religioso tout court.36 Inutile dire che per Sgreccia (e per «chiunque si professi “veramente cattolico”»)37 «la fede avanza solo delle ragioni in più» che rinforzano l’argomento razionale fondamentale il quale già basterebbe a giustificare il fatto che «la libertà viene dopo la vita dal punto di vista dei presupposti, è al vertice, è il frutto maturo della vita, però per essere liberi bisogna prima essere vivi». Ora, se dal punto di vista del bioeticista cattolico il concetto di autonomia è un concetto legato agli atti per cui «la libertà che mi è stata data da Dio è una libertà quanto alle azioni» e per tale motivo «togliersi la vita è contro la libertà stessa in quanto si recide la possibilità di compiere qualsiasi atto successivo», è lecito chiedersi: ma se un individuo si trova in uno stato vegetativo persistente e pertanto in quel momento pur essendo vivo non possiede quella autonomia legata alle azioni, su cui insiste Sgreccia, proprio perché impossibilitato a «compiere qualsiasi atto» “volontario”, a quest’uomo sarà pure concesso di aver ritenuto la sua stessa condizione come priva di qualsiasi forma di libertà? Credo che la miglior risposta a questa domanda sia rintracciabile nel testo stesso di Sgreccia e precisamente in quell’argomentazione che fa appello ad un principio di libertà — responsabilità limitata e limitante allo stesso tempo e che racchiude l’intera questione problematica dei confini entro i quali si muove l’attività dell’uomo sull’uomo, non solo in campo bioetico, ma anche e soprattutto nella vita in generale:

[…] lo stesso principio di libertà — responsabilità del paziente, se viene delimitato dal principio di difesa della vita fisica […] limita a sua volta la libertà e la responsabilità del medico, il quale non può trasformare la cura in costrizione […] . Bisogna sempre ricordare che la vita e la salute sono affidate prioritariamente alla responsabilità del paziente e che il medico non ha sul paziente altri diritti, superiori a quelli che ha il paziente stesso nei propri riguardi. Qualora il medico ritenesse eticamente inaccettabili le pretese o le volontà del paziente può, e talora deve, scindere le proprie responsabilità, invitando il paziente a riflettere e a riferirsi ad altri ospedali o ad altri medici. Né la coscienza del paziente può essere violentata dal medico né quella del medico può essere forzata dal paziente: entrambi sono responsabili della vita e della salute sia come bene personale sia come bene sociale.38

Dunque, non una libertà che si riduca al suo contrario e neppure una libertà intesa come autonomia illimitata, bensì una “sovranità” su se stessi che allo stesso tempo trovi «una limitazione nell’eguale diritto altrui»39 e che di conseguenza non abbia influenze negative e nocive sulla società. Praticamente un’utopia direbbe qualcuno! In effetti la questione non è poi così semplice non solo nella pratica, ma anche in teoria perché, ad esempio, non basta dire che «i seguaci del paradigma laico insistono tutti […] sulla libertà e l’autodeterminazione degli individui, cioè sulla loro capacità di autoplasmarsi secondo un modello o uno stile di vita “da loro stessi scelto”»,40 ma bisogna capire fino a che punto per i seguaci del paradigma laico dovrebbe spingersi tale autonomia e se si tratta di una libertà da o di una libertà di. Difatti, quello promulgato dal Manifesto di bioetica laica è certamente un principio del primo genere in quanto libero da «autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere» per l’individuo «in tutte quelle questioni che riguardano la sua vita e la sua salute»,41 mentre nell’ottica di Demetrio Neri si tratta dell’autonomia del singolo di «definire e ridefinire per sé lo stile di vita che intende perseguire, i valori che intende condividere […] . Nessuno può arrogarsi il diritto di decidere»42 al posto suo «ciò che è bene»43 per sé.

Il principio di autonomia asserito con impeto da Giovanni Boniolo racchiude in sé entrambi gli aspetti tanto che da un primo approccio all’argomento, così come da lui esposto, si ha l’impressione che nel momento della malattia l’uomo si trovi solo con se stesso e diventi quasi un “egoista incallito” che vive a prescindere dalle strutture e dalle “figure” che lo circondano .44 “Fortunatamente” in seguito si comprende bene che quello teorizzato da Boniolo non è un cieco individualismo che sfocia in anarchia assoluta, al contrario è un principio di autonomia che tiene rigorosamente conto del contesto, delle influenze esterne e dei pregiudizi che inevitabilmente condizionano la sfera decisionale dell’individuo.45 Allora in cosa consiste realmente questa autonomia dell’essere umano, nello specifico, del paziente? Non significa più agire «in conformità a riflessioni del tutto indipendenti e autonome, ma […] in base a riflessioni filtrate attraverso la capacità» dell’individuo «di valutare criticamente l’influenza dell’ambiente esterno».46 Il problema sta nel capire quando e se l’auto riflessione del paziente è una buona riflessione, è davvero critica, è realmente libera. Tuttavia, visto e considerato che una persona non è mai totalmente incondizionata nelle situazioni della vita in generale, a maggior ragione le influenze e i condizionamenti possono essere più consistenti e dominanti in caso di patologie invalidanti per cui questo argomento, che Boniolo denomina «argomento della depressione»47 e contro il quale muove una critica per dimostrarne la debolezza,48 potrebbe essere utilizzato, e in effetti lo è, da tutti coloro che sostengono «l’indisponibilità della vita»49 in quanto rafforza maggiormente il principio per il quale il malato decide di porre fine alla propria vita perché influenzato da una enorme sofferenza che lo priverebbe anche di una certa lucidità mentale e lo farebbe agire irrazionalmente. A questa “obiezione” Boniolo risponde, e lo fa anche in sede d’intervista, in un modo piuttosto chiaro e conciso: « Nel momento in cui io sono, decido. E a chi sta giudicare? A me! Certo magari sarò indotto a quell’atto perché sto soffrendo enormemente e non ho più voglia di farlo, ma è una mia scelta».

È però doveroso sottolineare anche che Boniolo afferma che questo diritto dell’uomo «di gestire la propria vita e anche la propria morte come pensa sia meglio aldilà di costrizioni legali o religiose» è pur sempre vincolato al dovere di rispettare la società in quanto un individuo «è libero fintanto che il suo agire non ha influenze negative sulla società tali da danneggiare gli altri». Potremmo sostenere a questo punto di aver trovato finalmente proprio in questo principio, che potremmo chiamare di rispetto della società, un punto di contatto fra le due posizioni “antitetiche” se non fosse per il fatto che, secondo quanto sostiene Sgreccia, la decisione di porre fine alla propria vita in determinate condizioni costituisce esattamente quel danno alla società tanto “scongiurato” da Boniolo in virtù del fatto che «la vita è un bene della società e questa ha come ragione primaria quella di difendere il suo bene pertanto non può abbandonarlo all’arbitrio delle persone».

Ecco che per l’ennesima volta ci troviamo davanti a concetti che si ripetono ma la cui priorità reciproca si inverte e si ribalta a seconda del contesto ideologico in cui vengono chiamati in causa.

A questo punto credo sia ulteriormente interessante considerare il problema anche da un punto di vista genuinamente filosofico perché ritengo che ciò non significhi (come potrebbe pensare qualcuno) perdersi in disquisizioni teoriche a scapito di una riflessione autentica sulla questione; al contrario, valutare l’aspetto filosofico del problema, e con ciò intendo prendere in esame le argomentazioni stesse di alcuni filosofi in merito a questioni quali eutanasia, suicidio e morte, conduce a risultati interessanti che a loro volta offrono spunti per una riflessione più completa e ricca. L’idea di un approfondimento filosofico della questione prende le mosse dal colloquio avuto con Sgreccia il quale in risposta alla domanda sui limiti dell’autonomia umana cita Kant e afferma che

nel primo capitolo di Lezioni di filosofia morale egli risponde negativamente alla domanda ‘se è lecito per l’uomo togliersi la vita’ in quanto ‘una cosa per essere lecita deve essere passibile di universalità. Pertanto se tutti si suicidassero finirebbe l’umanità’.50 E anche lui che si muoveva con criteri del tutto razionali e che voleva prescindere, non solo dalla religione^[51] ma da ogni metafisica, cava subito che l’uomo non è libero di togliere e togliersi la vita la quale è condizione dell’esserci nel mondo

e inoltre Sgreccia sostiene che questa idea di universalità, e dunque questo criterio razionale, a Kant «bastava per dire ‘non posso perché non è mio’».51 Tuttavia è doveroso dare a Kant quel che è di Kant e rendere note, di conseguenza, anche quelle sue considerazioni sulla vita e sulla morte che presentano caratteristiche del tutto laiche e che sono ben lontane dal condannare il suicidio in sé e per sé:

Non si può invocare la conservazione della vita, quando si sia d’animo vile e si tema la morte che il destino rende ormai fatalmente incombente […] La vita non va assolutamente stimata in sé e per sé, ma al contrario va conservata solo nella misura in cui si è degni di viverla. Non si deve confondere il suicida con chi deve la perdita della sua vita alla sorte. Chi si abbrevia la vita per intemperanza è colpevole […] indirettamente della sua morte, ma non direttamente, perché egli non intendeva uccidersi e la sua non è una morte premeditata.52

Anche gli Stoici hanno basato la loro difesa dell’eutanasia proprio su un argomento razionale tant’è vero che la parte dei loro frammenti dedicata a questo argomento è intitolata appunto «la morte conforme a ragione»;53 ne consegue che:

il saggio, secondo ragione, si esporrà alla morte per la patria e per gli amici, e anche nel caso che sia vittima di dolori acuti, o di menomazioni o di malattie insanabili54

e ciò deriva certamente dal loro modo di concepire la morte non come evento da cui fuggire, ma come incontro al quale prepararsi durante il corso della vita. La possibilità di scegliere il momento e il modo in cui quest’incontro si presenta costituisce proprio «una forma di libertà assoluta»55 ostentata ancora più apertamente da Seneca il quale, se volessimo riportarlo all’interno del dibattito bioetico odierno, non solo potrebbe essere inequivocabilmente “collocato” tra i sostenitori della qualità della vita,56 ma costituirebbe a buon diritto il maggior difensore della libertà umana intesa nel doppio senso sopraccitato e cioè come libertà di e da, un’autonomia individuale che non ammette intrusioni né giudizi esterni57 e la cui manifestazione, lungi dal “classificare” l’uomo come un omicida e un oltraggiatore di qualsivoglia entità superiore lo qualifica come detentore di saggezza e coraggio.58

Altrettanto interessante è l’argomentazione di Hume il quale, sempre grazie a un nostro atto di astrazione temporale, si configurerebbe come un deciso sostenitore della ‘disponibilità della vita’ e la sua argomentazione è volta a smentire il fatto che chi decide di togliersi la vita commette un atto di violazione dell’opera della provvidenza e turbi l’ordine naturale dell’universo:

se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell’onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe egualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il dominio peculiare dell’onnipotente, prolungando la mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era assegnato.59

Per non parlare della posizione di Nietzsche in Così parlo Zarathustra che giunge a lodare la morte «al momento giusto» quale «spina e promessa per i viventi».60 Un vero e proprio elogio alla libertà umana di scegliere o meglio di volere61 la propria morte.

3. Consapevolezza, intenzione e colpa

Oltre che i concetti analizzati nei precedenti paragrafi il dibattito sull’eutanasia concerne anche un altro aspetto sostanzialmente legato ad essi e la cui importanza viene spesso sottovalutata e a volte, come sostiene Sgreccia, omessa. Si tratta della “sottile” distinzione tra eutanasia diretta ed eutanasia indiretta dalla quale scaturiscono una serie di considerazioni, conseguenze del fatto che non sempre tale distinzione viene ritenuta realmente consistente e di fatto esistente. Per essere maggiormente chiari: per parte laica non sussiste alcuna differenza tra sospendere i trattamenti e somministrare analgesici in quanto entrambi gli atti rispettivamente causano e possono causare la morte del paziente. La conseguenza è la medesima pertanto non importa quale sia stata l’intenzione o l’obiettivo reale del medico, bensì il fatto che il paziente sia morto “in anticipo”, ma in modo esente da dolore, conformemente al suo volere. Questa considerazione non è certamente frutto della mia immaginazione al contrario ha il proprio fondamento teorico in una delle affermazioni sostenute con linguaggio retorico, semplice e diretto da Boniolo in sede di colloquio:

se io sono un medico e le metto in bocca la pastiglia di cianuro allora io sono la causa della morte, ma se io sono un medico e le metto in mano una pastiglia di cianuro e lei se la mette in bocca, chi è la causa della morte? Sono io che gliel’ho causata o lei? In questo caso io sono meno responsabile della sua morte? Ecco, ad un certo punto si arriva anche a queste sofisticherie più che sofisticazioni del pensiero: tanto il risultato finale è sempre lo stesso: lei muore. In questi interrogativi retorici è racchiuso il concetto del «non fare»62 che Veronesi per esempio taccia di ipocrisia in quanto volto a «riparare le spalle ai medici […], mettere in pace la coscienza collettiva, non scontrarsi con i veti religiosi.63

Effettivamente si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di concettualizzazione che nel porre tali «sofisticherie» o «ipocrisie» (per dirla con i due studiosi sopraccitati) genera una contraddizione interna che a sua volta determina delle lecite perplessità. Per cui la domanda che si pone Veronesi sul perché «se inietto nelle vene una dose elevata di narcotici che porta la vita a conclusione sono colpevole, mentre se tolgo al paziente le terapie che lo tengono in vita […] sono invece assolto, anzi lodato»,64 è una domanda non solo lecita, ma anche generalmente condivisibile.

È chiaro che, per tutte le ragioni che ho in qualche modo dibattuto, questa posizione non può trovare accoglimento all’interno del magistero della chiesa cattolica, anzi trova in esso una radicale opposizione. Innanzitutto è opportuno spiegare che nel linguaggio utilizzato anche da Pio XII per «eutanasia indiretta s’intendeva la ‘terapia del dolore’, ritenuta lecita a determinate condizioni anche quando, come conseguenza, poteva abbreviare la vita».65 Questa attribuzione del concetto di liceità in modo differente ai due diversi “generi” di eutanasia affonda le proprie ragioni nella convinzione che nel caso della terapia del dolore «né l’azione per sé né l’intenzione sono orientate alla soppressione della vita e all’anticipazione della morte».66

Le perplessità in merito non mancano di certo. Innanzitutto verrebbe da chiedersi: è realmente possibile stabilire dall’esterno quale sia l’intenzione di un uomo nel suo agire in un certo modo? Chi può determinare in maniera obiettiva e verosimile che l’intenzione di quel medico, in quella precisa circostanza non sia stata effettivamente l’accelerazione della morte del paziente tramite una somministrazione di dosi massicce di analgesici? Perché il rischio che si verifichino pratiche occulte di «eutanasia vera e propria»67 esiste, e i bioeticisti cattolici prendono in considerazione tale pericolo tant’è vero che Sgreccia afferma che «la terapia del dolore non va considerata alla stregua di un atto eutanasico a condizione che la dose degli analgesici sia proporzionata al dolore». Eppure non credo che la possibilità di una pratica occulta di eutanasia rappresenti lo specchio di una società di medici perversi con istinti omicida, bensì penso che si manifesti come una sorta di “allarme” di una situazione in cui i medici troppo spesso sono costretti a lottare tra un sistema giuridico carente in tema di eutanasia e la loro coscienza, che a sua volta deve fare i conti con un impianto ideologico (a volte fin troppo schiavo di un’ideologia).68

Se le cose stanno davvero in questi termini allora mi chiedo: visto e considerato che secondo alcuni è possibile stabilire l’intenzione del medico e pertanto la liceità di un determinato atto tanto da non definirlo eutanasico, allo stesso modo si dovrebbe essere in grado di entrare nei suoi “abissi più profondi”, rendersi conto delle motivazioni etiche e ideologiche che lo hanno spinto ad aumentare la dose di analgesici così da poter comprendere il suo agire e renderlo esente da ogni genere di colpa. È piuttosto evidente, almeno a mio avviso, che né l’uno né l’altro tentativo è credibilmente realizzabile e ciò per costituzione ontologica dell’uomo stesso che spesso e volentieri a stento riesce a conoscere se stesso, figuriamoci le intenzioni e gli obiettivi reali dell’altro! L’intenzione non può essere scientificamente analizzata e provata, la scienza medica non può stabilirne i confini pertanto come si può basare su questo concetto un discorso bioetico ed etico sull’eutanasia? Non è credibile identificare un atto come eutanasico o no e conseguentemente renderlo fonte di colpevolezza o carico di liceità sulla base dell’intenzione che ne sta a monte.

Ben diverso è, invece, il discorso sulla consapevolezza. Il medico, per esperienza e professionalità, sa per certo che l’atto di somministrare analgesici di un certo tipo e periodicamente può determinare come conseguenza la morte anticipata del paziente. La scienza medica può stabilirlo sulla base di situazioni reali, di casi specifici che per il loro riscontro tangibile e visibile diventano fonti di discussioni etiche feconde, di analisi, di giudizi più o meno fondati. Dunque tra una morte causata da una somministrazione elevata di narcotici e una morte determinata dalla sospensione delle terapie che tengono in vita il paziente c’è una differenza sul piano della consapevolezza? Per dirla con Veronesi non sussiste differenza alcuna in quanto «tutti e due sono atti consapevoli e deliberati»;69 per dirla con Sgreccia, invece, esiste eccome perché il può accadere che non costituisce affatto un «collegamento di causa-effetto» e il medico è «giustificato a fare nel momento presente quello che gli viene richiesto e cioè cercare in tutti i modi di sollevare il paziente dal dolore» non essendo «più responsabile degli effetti secondari». Lo stesso Sgreccia adduce un esempio piuttosto eloquente al fine di comprendere il suo punto di vista in merito alla questione: «Se devo soccorrere un individuo che sta annegando e per farlo devo lanciargli una corda, ho la consapevolezza che questa potrebbe anche strozzarlo, eppure io intanto ho il dovere di provare a salvarlo». Senza dubbio la priorità sta nel tentare di “salvare” il paziente, nel compiere il proprio dovere di medico, tuttavia, nel caso in cui, ad esempio, ci si trova di fronte ad un malato la cui vita dipende da un macchinario e la cui ripresa è incerta (non si sa se potrà riprendersi o se resterà stabile a vita), anche in quella circostanza, così come nel caso dell’uomo in procinto di annegare, c’è una possibilità sia in un senso che nell’altro. E allora, sulla base di quale considerazione, di quale sorta di principio, si può stabilire un criterio di azione? La questione si ripresenta come un circolo vizioso considerando che si riconduce da sé ai concetti di autonomia di azione e di pensiero, di indisponibilità e disponibilità della vita umana, di fede e laicità quali criteri di giudizio.

Come sostiene Veronesi «qui si delinea il problema cruciale: fino a quando dobbiamo procedere? ».70 Sospendiamo i trattamenti giudicati inutili per il miglioramento del paziente oppure non ne intraprendiamo alcuno a priori? Perché, come sostiene Gattinoni, si tratta di «due azioni diverse […] determinate da osservazioni diverse e che hanno implicazioni diverse […] . Per tutti i comitati etici del mondo il non intraprendere e il sospendere il trattamento sono due azioni eticamente equivalenti. Ma non è così! È molto più facile non intraprendere che sospendere»,71 probabilmente perché per agire in questo secondo modo è necessaria un’elevata e forse eccessiva “dose” di coraggio, una resistente “armatura” e una forte motivazione e convinzione come “arma”, il tutto per prepararsi al meglio ad una battaglia giudiziaria, moralista e ideologica, senza esclusione di colpi.


  1. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vol. I, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 892. ↩︎

  2. Ibid. ↩︎

  3. Se poi tale dialogo viene approfondito e “analizzato” in ogni sua componente, così da trovare possibili punti di contatto o contraddizioni interne e reciproche, il discorso diventa almeno propedeutico per un legislatore che si appresti ad affrontare la questione in maniera argomentativa e a proporre “soluzioni” eque e imparziali. ↩︎

  4. «Per rispetto alla verità […] va evitato di fondare la polemica contro l’eutanasia unicamente sulle ragioni di fede, quasi che difendere la vita dei malati e dei morenti sia un dovere soltanto dei cattolici. La vita è un bene e un valore laico, riconoscibile da tutti coloro che intendono ispirarsi alla retta ragione e alla verità oggettiva». E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vol. I, cit., p. 892. ↩︎

  5. «Rispettare la verità della persona nel momento della vita nascente vuol dire rispettare Dio che crea e la persona umana così come Egli la crea: rispettare l’uomo nella sua fase finale vuol dire rispettare l’incontro con Dio, il suo ritorno al Creatore, escludendo ogni altro potere da parte dell’uomo, rifiutando sia il potere di anticipare questa morte (eutanasia), sia quello di impedire quest’incontro con una forma di tirannia biologica (accanimento terapeutico)». Ivi, p. 893. ↩︎

  6. In merito a questa mia sensazione di incompletezza delle argomentazioni laiche Boniolo, in sede di intervista a me rilasciata, afferma :«Ci sono certe argomentazioni che sono costruite bene, ma funzionano solo se si accetta qualcosa che è fuori dalle argomentazioni stesse. Se io sono all’interno di un contesto cattolico o comunque di un contesto religioso, il senso profondo del mondo, il significato del mondo, della mia vita sono al di fuori dell’ambito razionale per cui io riesco a fornire un’argomentazione basata su quel particolare senso del mondo che mi è dato dalla mia fede, ma che non è argomentabile razionalmente. Se io non ho questa fede il senso del mondo dove lo trovo? Devo trovarlo necessariamente in me stesso, però è qualcosa di totalmente soggettivo: ecco perché appaiono meno forti. In realtà non possono essere più forti. Ma anche le altre non dovrebbero esserlo in quanto io non dovrei chiedere un senso del mondo ricorrendo a un’istanza trascendente perché non è razionalizzabile». ↩︎

  7. «Negli esponenti della “Scuola Austriaca” […] si può ritrovare una teoria dell’azione razionale avente come premessa la limitatezza del conoscere umano, e come fine la realizzazione di un “bene” che non può essere insegnato e che non ha una derivazione fisica, metafisica o cosmologica, apparendo, al contrario, proprio della sfera umana e raggiungibile dall’uomo». AA.VV., L’individualismo metodologico: genesi, natura e applicazioni, Edizioni Borla, Roma 1993, pp. 33-34. ↩︎

  8. Al fine di evitare di distaccarmi troppo dal tema centrale mi limiterò qui ad un breve excursus sulle maggiori definizioni del termine. Per un approfondimento in merito e per una visione chiara e completa delle varie sfumature del concetto di laicità cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 62-73. ↩︎

  9. Ivi, p. 68. ↩︎

  10. G.E. Rusconi, Laici e cattolici oggi, in V. Possenti (a c.d.), Laici o Laicisti? Un dibattito su religione e democrazia, Liberal Libri, Firenze 2002, p. 28. ↩︎

  11. «Dal loro punto di vista «Dio non è […] un principio di autorità esterno al processo discorsivo» ma l’esito razionale (filosoficamente provato) del discorso stesso». G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., p. 64. ↩︎

  12. Ivi, p. 72. ↩︎

  13. Ibid↩︎

  14. M. Mori, Prefazione a U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano 1998, p. 73. ↩︎

  15. Al fine di evitare equivoci e indignazione per l’espressione da me utilizzata, tenterò di chiarire il mio discorso riportando le considerazioni di Privitera e Mori in merito alla questione, citate da Fornero: «Come relativismo […] bisogna considerare quello che afferma […] l’impossibilità di formulare giudizi morali oggettivi, assoluti e universalmente validi da tradurre in norme morali che dovranno essere seguite […] in qualsiasi epoca storica ed in qualsiasi area geografica»; «L’universalità e l’imparzialità dell’etica non implicano affatto l’immutabilità dei giudizi morali. Anzi, sembra implichino la variabilità del giudizio rispetto alle circostanze […] è giusto cambiare la gerarchia dei valori e dei doveri morali quando mutano le circostanze storiche cambiando le conseguenze delle azioni». G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., pp. 124-126. ↩︎

  16. L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Giappichelli, Torino 2008, p. 3. ↩︎

  17. J. Habermas, Tra scienza e fede, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Bari 2006, p. 164. ↩︎

  18. E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vol. I, cit., p. 101. ↩︎

  19. Ivi, pp. 101-102. ↩︎

  20. Ibid↩︎

  21. Per un interessante approfondimento sulle relazioni tra vita, senso ed esistenza cfr., G. Boniolo, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, Darwinismo, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 109-122. ↩︎

  22. E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vol. I, cit., p. 103. ↩︎

  23. Ivi, p. 102. ↩︎

  24. «L’essere densa di valore, l’essere dotata di senso, non comporta ancora che la vita sia sacra. La sacralità è solo uno dei valori che si possono attribuire all’esistenza, è solo uno dei modi con cui si può attribuire senso alla vita e trasformarla in esistenza, ma non certamente l’unico». G. Boniolo, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, Darwinismo, cit., p. 113. ↩︎

  25. A. Musio, L’autonomia come dipendenza. L’io legislatore, Vita e Pensiero, Milano 2006. ↩︎

  26. Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, Milano 2004, p. 74 (voce autonomia). ↩︎

  27. E. Sgreccia, Manuale di bioetica,Vol. I, cit., p. 205. ↩︎

  28. Ibid. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Ibid. ↩︎

  31. Ibid. ↩︎

  32. Ibid. ↩︎

  33. Utilizzo il termine essenza intendendo che da queste “definizioni” possono scaturire tutte le diverse argomentazioni e le varie sfaccettature della questione. ↩︎

  34. In questo saggio affronterò la questione solo basandomi sui principi di questi due maggiori modelli di bioetica, in particolare presentando le considerazioni di Sgreccia e Boniolo, esclusivamente per ragioni di chiarezza espositiva al fine di evitare di fornire un groviglio di informazioni confuse e non adeguatamente approfondite. ↩︎

  35. E. Sgreccia, Manuale di bioetica,Vol. I, cit., p. 224. ↩︎

  36. Dall’intervista a Boniolo: «In che modo potremmo dire no, e’ moralmente illecito che tu lo faccia? Quali sono gli argomenti forti che mi permetterebbero di dire no, è illecito moralmente che tu ponga fine alla tua vita? Io posso dirlo perché sono cattolico, perché la tua vita non è la tua ma è la vita di Dio, ma se io fossi ateo dovrei rispondere in maniera diversa». ↩︎

  37. G. Boniolo, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, Darwinismo, cit., p. 118. ↩︎

  38. E. Sgreccia, Manuale di bioetica, cit., p. 225. ↩︎

  39. D. Neri, Filosofia morale. Manuale introduttivo, Guerini, Milano 1999, p. 184. ↩︎

  40. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., p. 81. ↩︎

  41. Ibid. ↩︎

  42. Ivi, p. 82. ↩︎

  43. Ibid. ↩︎

  44. «Né Dio, né Stato devono arrogarsi il diritto di intervenire nella decisione della mia morte. […] Quanto segue vuole essere l’esempio di una presa di posizione individuale ed esistenziale intorno al non desiderare intrusione alcuna nella scelta personale relativa alla propria morte nel caso in cui eventi o patologie invalidanti abbiano ridotto la qualità della vita al di sotto di quello standard che solo la propria decisione personale può identificare con una soglia». G. Boniolo, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, Darwinismo, cit., pp. 85-86. ↩︎

  45. « […] Mai nessuno può riflettere su qualcosa senza pregiudizi, da intendersi in senso ermeneutico, che ne permettono una prima lettura. […] Pare proprio che la riflessione sia sullo stato personale sia sugli obiettivi personali non possa non essere fortemente plasmata, per arrivare a costituirsi come tale, anche da influenze esterne […] parimenti non si può agire se non in base a certe motivazione e a certi stati mentali che nuovamente non possono mai dirsi esenti da influenze esterne. […] Mai nessuno agisce in modo del tutto indipendente da influenze esterne e in base a riflessioni del tutto esenti da influenze esterne». Ivi, p. 94-95. ↩︎

  46. Ivi, p. 96. ↩︎

  47. «Vi è qualcuno che dice: “tu affermi che la scelta del suicidio è una tua scelta autonoma, ma non sei veramente autonomo, dal momento che decidi sotto l’influenza della depressione che il tuo stato, o la previsione del divenire del tuo stato, ha causato”». Ivi, p. 97. ↩︎

  48. Ivi, pp. 97-98. ↩︎

  49. Nell’espressione è racchiuso un “terreno” di dibattito più ampio e pertanto i sostenitori dell’indisponibilità della vita non si identificano esclusivamente con i bioeticisti di matrice religiosa/cattolica, ma rappresentano una sfaccettatura meno rigorosa della dicotomia tra laici e cattolici. Per un dettagliato quadro teorico delle teorie della indisponibilità e disponibilità della vita cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., cap. 9. ↩︎

  50. «Chi è giunto ormai al punto di disporre in ogni occasione di se stesso dispone anche della vita di tutti […]. Chi si è condotto in modo tale da non rispettare l’umanità e da trasformarsi in una cosa diviene un oggetto del libero arbitrio altrui, di cui ciascuno può fare quindi quello che vuole». Kant, Lezioni di etica, Del suicidio, tr. di A. Guerra, Laterza, Bari 1991, pp. 173-174. ↩︎

  51. «L’umanità nella persona di ciascuno è inviolabile, è qualcosa di sacro che ci è stato affidato; tutto è soggetto all’uomo, ma egli non può abusare di se stesso […]. Egli s’accorge, egli avverte che la vita gli è stata affidata». Ivi, p. 173. ↩︎

  52. Ivi, p.172. ↩︎

  53. Stoici antichi, Tutti i frammenti, tr. di R. Radice, Rusconi, Milano 1998, p. 1343. ↩︎

  54. Ibid. ↩︎

  55. C. Angelino, In difesa dell’eutanasia. Stoici, Seneca, Hume, Nietzsche, Il Melangolo, Genova 2007, p. 13. ↩︎

  56. «Non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa, infatti, non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come di deve. Pertanto il saggio vivrà quanto a lungo gli compete, non quanto più può […]; si preoccupa sempre della qualità, non della quantità della vita […]. Pensa che non abbia importanza il procurarsi o il ricevere la morte, se la fine sopraggiunge troppo tardi o troppo presto […]. Morire più presto o più tardi non conta; conta, invece, morire bene o male». Seneca, Lettere morali a Lucilio, VIII, 70, tr. di F. Solinas, Mondadori, Milano 1994, p. 204. ↩︎

  57. «In nessuna circostanza più che nella morte dobbiamo assecondare ciò che il nostro animo ci ispira […]. Ognuno deve rendere la propria vita accettabile anche agli altri, la morte soltanto a se stesso, e la migliore è quella che più piace […]. Si tratta di una decisione con cui le chiacchiere degli altri non hanno nulla da spartire […]. Per morire l’unico freno è dato alla volontà. Ognuno pensi ciò che vuole dell’atto di quest’uomo eroico, purché sia ben chiaro che la più immonda delle morti è preferibile alla schiavitù più decorosa». Ivi, pp. 205-208. ↩︎

  58. «Grande è quell’uomo che non solo si è imposto la morte, ma l’ha anche trovata». Ivi, p. 208. ↩︎

  59. D. Hume, Sul suicidio, in Opere filosofiche, Vol.3, Saggi morali, politici e letterari. Saggi ritirati. L’immortalità dell’anima, sul suicidio, Laterza, Bari 1987, p. 589. ↩︎

  60. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte Prima, Della libera morte, tr. di A.M. Carpi, Newton Compton, Roma 2007, p. 67. ↩︎

  61. «Libero verso la morte e libero nella morte, un santo negatore quando non è più tempo per dire sì: così intende la vita e la morte». Ivi, p. 71. ↩︎

  62. U. Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza Mondadori, Milano 2005, p. 55. ↩︎

  63. Ivi, p. 60. ↩︎

  64. Ivi, p. 57. ↩︎

  65. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica,Vol. I, cit., p. 890. ↩︎

  66. Ibid↩︎

  67. Ivi, p. 903. ↩︎

  68. Per rendere più chiara questa mia espressione trovo utile citare una distinzione fatta da Gianteo Bordero, caporedattore di una rivista online chiamata Ragionpolitica.it, con la quale mi trovo in perfetto accordo: «Ideale — si badi — e non ideologia […]. Sono due principi opposti, perché l’Ideale è qualche cosa che non si sceglie a priori, ma che fa parte delle corde più profonde del nostro essere, e viene a galla come in un’alba di verità e di scoperta di sé, mentre l’ideologia è l’applicazione di uno schema mentale alla realtà, che alla realtà finisce per fare violenza». www.ragionpolitica.it/cms/index.php/200909181876/attualita/l-ideale-e-la-patria.html ↩︎

  69. U. Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, cit. p. 57. ↩︎

  70. Ivi, p. 61. ↩︎

  71. Ibid. ↩︎