La questione religiosa in Eric Weil. La secolarizzazione, la fede e la politica

1. Introduzione

Inizieremo questa riflessione su La questione religiosa in Eric Weil: La Secolarizzazione, la Fede e la Politica, commentando due articoli: La secolarizzazione dell’azione e del pensiero politico in epoca moderna (La sécularisation de l’action et de la pensée politiques a l’époque moderne), pubblicato originariamente in tedesco nella rivista Marxismus-Studien nel 19621 e il Cristianesimo e la politica (Christianisme et politique), pubblicato nella rivista Critica nel 1953.2 Entrambi sono stati sucessivamente pubblicati in Essais et Conférences II, 1970.3 È interessante notare che la disposizione dei testi nelle Essais et Conférences, scelta da Weil stesso, riporti l’articolo su Secolarizzazione e l’azione politica prima dell’articolo Cristianesimo e la politica, nonostante la differenza di quasi dieci anni dal primo al secondo. Sembra che Weil stia indicando con questo che una corretta comprensione della fede cristiana dipenda da una prima comprensione dell’idea di secolarizzazione.

2. Religione e secolarizzazione in K. Marx

Il punto di partenza di Weil per trattare del secolarismo nel 1960 non potrebbe essere altro che il marxismo, dal momento che «è il marxismo, in forma di comunismo, che ha fatto della lotta contro la religione un programma sistematico e si sforza per far scomparire la religione attraverso l’educazione e la propaganda».4 Tuttavia, osserva Weil, contrariamente a quanto spesso si dice, la questione religiosa non è centrale per Marx: «anche nei suoi primi testi […], il problema politico della religione non appare».5 Secondo Weil, l’interpretazione ideologica della religione è fatta da Feuerbach, da Ruge e dai suoi discepoli, non da Marx. I marxisti, a questo punto, non sono stati fedeli a Marx. A differenza del maestro, hanno preferito tornare a Feuerbach e alla critica ideologica della religione.6 Per Marx, la religione non è, quindi, una falsa «ideologia», che deve essere distrutta in sé. È vero che «l’insegnamento del cristianesimo è oggettivamente falso, ma è proprio per questo che è vero nel senso hegeliano del termine, in quanto rivela l’essenza del mondo presente». Il cristianesimo è vero nel rivelare la contraddizione del mondo, il fatto che l’uomo è alienato e non si riconosce storicamente come libero.7 Di conseguenza, la religione può essere considerata falsa solo quando il mondo diventerà vero. «Per un uomo che è soddisfatto e riconciliato con se stesso, la religione non ha alcun significato».8 Quindi, se la religione continua ad esistere, è perché le contraddizioni sociali non sono ancora state risolte. Pertanto, contrariamente a quanto pensa Feuerbach, la religione rimane importante nella critica del mondo, per mostrare le contraddizioni storiche ancora in vigore.

La critica della religione è critica della «valle di lacrime», critica dell’illusione. È l’oppio del popolo, non è «veleno e vizio»,9 è solo un mezzo di consolazione e di sollievo. Per questo motivo la critica dell’illusione religiosa deve essere trasformata in critica della realtà. «È la filosofia “al servizio della storia” che deve trasformare la critica del cielo nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica».10 Ma la religione sarà totalmente ridotta alla storia, alla politica? Secondo questo principio, la religione può essere soppressa soltanto se viene compiuta, se il mondo è santificato e reso sacro. Il riferimento qui non è Feuerbach, ma Hegel, considerato da Marx come l’ultimo filosofo. Ma cosa ha esattamente detto Hegel sul rapporto tra la religione e la politica? In primo luogo, Hegel non ha creato un sistema ateo né lo ha voluto creare. Dice che è un cristiano luterano e che la sua filosofia è cristiana, o meglio, che ha completato il cristianesimo. Per questo motivo, Hegel non è un semplice cristiano: «Il contenuto della filosofia e il cristianesimo sono identici; ma le due forme di questi contenuti identici differiscono», nota Weil.11 Nel caso del cristianesimo, la «forma» dei contenuti religiosi è il sentimento e la rappresentazione, mentre per la filosofia la «forma» è nel pensiero e, nel caso della politica, nello Stato: è lo Stato che è il divino sulla terra, che ha la forma oggettiva dello Spirito. La religione è quindi solo una convinzione soggettiva, incapace di fondare la verità. Il riferimento qui è il paragrafo 270 della Filosofia del Diritto di Hegel.12 Tuttavia, avverte Weil, sarebbe un grave errore concludere da questi testi che lo Stato ha un diritto assoluto sulla religione. «La fede non viene eliminata né dev’essere eliminata».13 Perché è essenzialmente soggettiva, non è sottomessa alle leggi dello Stato. Più chiaramente: «la religione è privata: la libertà interiore dell’individuo, mentre rimane nel regno dell’interiorità, è irraggiungibile».14 È vero che lo Stato è il luogo di universalità, quindi, ha il diritto di intervenire quando la fede si esprime violentemente. Ma questo non dà diritto di eliminare la fede o la Chiesa. Lo Stato è superiore, non perché è contro la fede o contro la Chiesa, ma perché deve realizzarla oggettivamente.

Questa visione hegeliana non è pienamente accettata da Marx. Per Marx, «il cristianesimo non è la forma (aristotelica) del mondo moderno; è il sogno di questo mondo, un sogno inevitabile, al quale non è sufficiente esporlo come un semplice sogno, come voleva Feuerbach».15 Ad un certo punto, tuttavia, Marx rimane d’accordo con Hegel: «Il principio cristiano del valore infinito dell’individuo è il fondamento di ogni pensiero e ogni azione moderna; ma questo principio non è realizzato, come afferma Hegel; deve ancora essere compiuto. De jure, il cristianesimo è superfluo; de facto, deve essere reso superfluo, in modo che possa scomparire».16 Tuttavia, le previsioni del giovane Marx non si sono avverate. Né lo Stato né la religione sono scomparsi. Con questo, i socialisti e i marxisti hanno capito che la lotta principale dovrebbe essere combattuta nel campo ideologico. Le religioni sono diventate, contrariamente a quanto aveva pensato Marx, nemici «ideologici» del marxismo. Sebbene Marx sostenesse che i cambiamenti sociali rendano la religione automaticamente superflua, i suoi successori sono tornati a Feuerbach e hanno cominciato a difendere la lotta contro la religione come condizione necessaria per le rivoluzioni sociali.17 Per Marx, «non esiste conflitto tra la fede e la politica», anche per una politica che vuole essere laica e ateistica. Lontano dall’essere una contraddizione e un ostacolo alle religioni, «l’ateismo politico non dogmatico è una condizione necessaria e sufficiente per la libertà di fede».18 Per Weil, questo è il grande merito di Marx in relazione alle religioni. Marx ha capito che anche per un ateo, nella misura in cui capisce il suo ateismo, l’azione politica rimane limitata al dominio delle condizioni materiali necessarie affinché l’individuo possa cercare liberamente il significato della sua esistenza – che «sta fuori della sfera politica».19

L’uomo deve realizzare la libertà nelle condizioni materiali, ma proprio perché cerca di essere libero nel mondo condizionato, la sua libertà non può essere determinata dalle condizioni materiali. È assolutamente libero, anche di rimanere alienato: «L’uomo è libero di pensare alla realtà – come è libero di non fare, di alienare ed esprimere non il vero pensiero, ma il suo interesse materiale nella misura in cui partecipa ai vantaggi di una particolare forma di società».20 La fede religiosa si occupa dei fini ultimi, del significato dell’esistenza, mentre lo Stato rimane nel campo del calcolo e della tecnica. Quindi possiamo chiedere: se la fede si rivolge al Senso dell’esistenza umana, potrebbe in qualche modo orientare la politica? Come può il credente agire sul mondo politico con le sue convinzioni personali? Quale dovrebbe essere il rapporto della fede con la politica? La fede può determinare una politica, una buona politica? Ma la politica può essere influenzata e determinata da qualcosa che non appartiene alla politica? C’è una fine alla politica che non appartiene alla politica? La politica ha davvero bisogno di orientamenti esterni? Il cristianesimo potrebbe assumere questo ruolo? Ma la politica dipende intrinsecamente dalla fede cristiana, come pensano molti politici cristiani?21

3. Fede e Politica

Un punto è chiaro: il problema della fede e della politica interessa i cristiani e gli agnostici o post-cristiani. Per i primi, il motivo è teologico; per quest’ultimi, anche per Eric Weil, il motivo è storico, dato che è proprio il cristianesimo che ha prodotto una società secolarizzata e in una certa misura, ateistica. Dal punto di vista cristiano e teologico, il primo riferimento è S. Agostino. Per S. Agostino, il regno di Dio e il regno terreno sono inestricabilmente intrecciati e nessuno può dire chi è cittadino di uno e chi è dell’altro. È vero che la Chiesa è al fianco di Dio e che lo Stato è, in quanto non si sottomette alla verità annunciata dalla Chiesa, sul fianco del diavolo. Ma non tutti i membri della Chiesa visibile sono gli eletti di Dio e chi oggi persegue i santi può diventare domani un nuovo Paolo. Ma, osserva Weil, anche se le relazioni tra Stato e Chiesa non sono chiare in Agostino, la distinzione tra i due ordini è evidente: una tecnica, di questo mondo terrestre, composta di bene e male; e un’altra, del regno celeste e dei valori assoluti, ma che esiste anche sulla terra, mescolati con la prima fino alla fine del tempo. Nel frattempo, mentre la fine non arriva, c’è bisogno di uno Stato. Il cristiano vuole che questo Stato sia buono e lavorerà a tal fine, ma ovviamente la fede non dipende dallo Stato. Oltre allo Stato, c’è la vera società, composta da tutti coloro che hanno fede e che amano Dio prima di tutto. La Chiesa, come appare nel tempo, senza essere perfetta, è l’unica istituzione in grado di rappresentare nel tempo ciò che può essere solo perfetto fuori del tempo.22

Weil non è d’accordo con questa interpretazione di Sant’Agostino, fatta principalmente da Étienne Gilson nel suo libro Les métamorphoses de la cité de Dieu, pubblicato nel 1952.23 Se il riferimento per il cristiano è Sant’Agostino, bisogna essere più fedeli a lui che lo stesso Gilson. La Chiesa mira all’unità dei cristiani, ma non dovrebbe mirare all’unità terrestre, che è infatti una falsa unità. Quindi, secondo la lettura di Weil di Agostino, la Chiesa non dovrebbe impegnarsi negli affari dello Stato che, in quanto tale, appartiene al regno delle tenebre. «È proprio da questo deprezzamento che lo Stato diventa autonomo. Se non ha più a che fare con la salvezza e la santificazione dei cittadini, se ha perso la sua antica santità e la sua funzione educativa, diventa necessariamente un’organizzazione tecnica».24 La Chiesa deve rispettare l’autonomia tecnica dello Stato in relazione al messaggio evangelico e alla fede cristiana. Contrariamente a quanto è generalmente considerato, questa posizione secolare della fede è stata rafforzata dall’inquisizione stessa, «che ha trattato storicamente lo Stato come puro strumento per i propri fini, riconoscendo implicitamente la natura tecnica dello Stato e, perciò, contribuito in modo decisivo per la secolarizzazione della vita politica».25

Tuttavia, la maggior parte dei teologi e politici cristiani credono ancora che la fede deve informare la vita degli uomini e delle comunità. E questo è per Weil curioso! È come se l’ambiguità agostiniana fosse scomparsa e l’azione politica diventasse per i cristini più importante che il rapporto personale con Dio. Nella sua analisi, Weil preferisce mantenere la tensione essenziale esistente tra le due scale di valori: «Dobbiamo dare a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio». Tuttavia, «la difficoltà è di sapere cosa sia di Dio e cosa appartenga a Cesare».26 Se, da un lato, lo Stato possiede un’autonomia totale, diventa inevitabilmente totalitario; se, d’altra parte, la Chiesa è assoluta, fa male al principio fondamentale del cristianesimo, cioè la libertà di coscienza e la libera adesione alla fede.27 Ma una verità prevale: il mondo che si impone nella modernità è quello di Cesare, dei figli di Caino. Anche la civiltà europea, che è diventata globale, non è essenzialmente cristiana: «i migliori discepoli europei sono i giapponesi», ricorda Weil.28 Di fronte a questo si può chiedere: che cosa rimane per Dio in questo mondo che Cesare domina e che deve dominare se vogliamo mantenere i risultati della tecnica moderna? La tecnica non conosce altro impegno che quello dell’efficacia: o saremo efficaci o cesseremo di essere. Nella misura in cui la Chiesa vuole davvero agire nel mondo, avrà bisogno dei servizi del diavolo che domina l’organizzazione, la scienza e la tecnologia, moralmente e teologicamente neutri, cioè atei e amorali. Chi comanda la tecnica è il tecnico e il tecnico non conosce la differenza tra il bene e il male, conclude Weil.29

La fede deve tener conto del processo di secolarizzazione e laicizzazione effettuato in Occidente per il cristianesimo stesso. Quello che oggi si cerca è la libertà di coscienza. Ciò significa diritto di riunione, discussione, dibattito, senza essere sottomesso allo Stato e/o alla Chiesa. In questo modo lo Stato neutro, tecnico e laico non sarebbe un pericolo per il cristiano, ma una condizione per vivere la fede.30 Weil trova questa posizione nella filosofia kantiana. Pur essendo l’«unico filosofo del cristianesimo in tutta la filosofia moderna», Kant non era un cristiano, nel senso di una chiesa nazionale, dal momento che il suo pensiero era quello del «cristianesimo secolarizzato». In realtà, l’influenza di Kant nel mondo moderno non è dovuta al dogma cristiano, ma al suo pensiero secolarizzato: «non secolarizzate, non razionalizzate, le nozioni cristiane non sembrano avere avuto la stessa influenza».31 Il cristiano secolarizzato tiene ancora dentro la sua coscienza le due scale dei valori, ma oggettivamente cerca ora l’unità. La tensione continua, ma non si trova più nei rapporti Chiesa e Stato, fede e politica, mistero trascendentale e tecnica amministrativa. Il cristiano secolarizzato non vuole più scegliere tra Dio e Cesare. Per lui, il conflitto non è più nella comunità, ma nell’individuo stesso. È vero che la politica deve governare la comunità, ma deve fare in modo tale che l’intimità dell’individuo, la sua coscienza personale, non sia strumentalizzata dallo Stato. Lo Stato ha il diritto di esigere la fedeltà dai suoi cittadini; lo stesso si può dire della Chiesa nei confronti dei suoi fedeli. Ma sia lo Stato che la Chiesa devono rispettare le convinzioni dei individui ragionevoli. La libertà di coscienza è la conditio sine qua non per un mondo cristiano e ragionevole.

Ma questo mondo secolarizzato è ancora cristiano? No, almeno non nel senso in cui è stato stabilito dalla cristianità. In realtà, se il mondo cristiano è inteso come un mondo ragionevole, si deve ammettere che la richiesta di un mondo basato sulla libera coscienza degli individui non è originariamente cristiana. Viene dal mondo antico e si è avuta con Socrate quattro secoli prima del Cristianesimo; tuttavia, bisogna ammetere che è diventata una realtà e un valore «sacro» per la cultura occidentale con il cristianesimo stesso.32 Ma dire che la secolarizzazione è diventata possibile grazie al cristianesimo non significa dire che l’intero cristianesimo debba diventare secolarizzato. Il cristianesimo non è un mezzo, uno strumento per lo Stato e la tecnica moderna. È una religione transcendente (nel senso ontologico del termine). Egli è différent dal mondo. Il cristiano è nel mondo, ma non del mondo, e questo dovrebbe essere evidente per il cristiano stesso. Una religione trascendente e spirituale può anche cooperare con il mondo, ma non ha nulla a che vedere con il successo dell’ONU o con la crescita economica di un determinato Stato. Il cristiano può anche collaborare con questo, ma in linea di principio dovrebbe essere una preoccupazione di tutti gli uomini ragionevoli, indipendentemente dalla loro fede. Poichè è una religione trascendente, il cristianesimo è al di fuori della politica e, quindi, non serve direttamente la politica. Weil afferma: «La fede non è di questo mondo e, come fede, non è universalizzabile, poiché dipende, secondo i propri principi del cristianesimo, da un atto libero dalla grazia».33 Weil respinge qui il dogma oggettivo e universale della fede (fides quae), ma non l’atto della fede soggettiva (fides qua). Se la fede diventa una fides quae, diventa tirannica e «provoca la rivolta della coscienza ragionevole».34

4. Considerazioni su Fides qua e Fides quae

È vero che il credente non è d’accordo con questa posizione. La fede non è un sentimento puro soggettivo; implica anche l’adesione ad articoli di fede, ai dogmi e al discorso teologico. Tuttavia, nella fede pura, come presentata da Weil nella categoria di Dio della Logica della Filosofia, non c’è alcun discorso positivo. Per diventare concreta, la fede ha bisogno di altre categorie, come ad esempio la categoria della Certezza. Questo è ciò che accade al Dio biblico: quando Dio è oggettivamente inteso attraverso il linguaggio biblico, la fede cessa di essere pura e diventa una religione.35 Ma la fede pura rifiuta questa falsificazione, questa apostasia in un Essere separato, in una persona trascendente, in un contenuto esterno. È vero che la fede è sempre libera di aderire ad un discorso o ad un essere esterno, ma non può farlo senza falsificare l’essenza originale. Ma sarà possibile una fede pura, una fides qua senza fides quae? La prima esposizione della fides qua e della fides quae fu fatta da Agostino nel suo De Trinitate XIII, 2, 5: La fede proviene dallo stesso corpo di dottrina; ma una cosa è l’oggetto della fede (aliud sunt ea quae creduntur), e un’altra è la fede con cui si crede (aliud fides qua creduntur).36 C’è quindi un polo soggettivo della fede (fides qua) e un polo oggettivo della fede (fides quae). È vero che nel libro XIV, 8, 11, Agostino sembra dare più importanza alla fede soggettiva quando dice: «La fede infatti non è ciò che è creduto, ma ciò con cui si crede» (Fides enim non est quod creditur, sed qua creditur);37 tuttavia, alla fine, i due poli devono essere pensati insieme. Ciò è confermato da San Tommaso che, nella sua Summa Teologica, comprende la fides quae come l’oggetto materiale (credere Deum) ‒ la fede della Chiesa ‒ e la fides qua (credere Deo) come l’oggetto formale ‒ la fede individuale mediante la quale si crede in Dio.38 Quindi, per la tradizione ecclesiale, la fede suppone sempre l’oggetto della fede. Rino Fisichella, nel Dizionario Teologico Encyclopedico, non lascia dubbi su questo:

Termine tecnico di derivazione patristica e medievale con il quale si è soliti designare le componenti dell’atto di fede. Fides qua indica l’atto stesso con il quale il credente, sotto l’azione della grazia, si affida a Dio che si rivela e ne assume il contenuto come vero. Fides quae indica il contenuto della fede che viene accolto; le diverse verità di fede che sono accolte e credute come un tutt’uno, in un solo atto. Non c’è separazione tra fides qua e fides quae; entrambi i termini, infatti, vogliono specificare i diversi momenti di un único atto. Nel credere, ognuno accetta un contenuto che lo impegna; la fides qua, pertanto, non astrae dalla fides quae, ma da essa è determinata. La fides quae, a sua volta, rimanda alla fides qua come all’atto fondamentale mediante il quale il credente, nella sua libertà, accetta di affidare se stesso pienamente alla rivelazione di Dio.39

Contrariamente alla tradizione cattolica, che guarda più alla fides quae, il protestantesimo tende a sottolineare la fides qua. Ma anche così, la maggior parte dei teologi protestanti tende a pensarli insieme. Per esempio, Paul Tillich, che pensa la fides qua creditur come atto di decisione esistenziale, come preoccupazione assoluta, sostiene che non può esistere una fides qua senza una fides quae: «Non c’è fede senza un oggetto a cui ella si rivolge. C’è sempre qualcosa che è significato nell’atto della fede e non c’è modo di avere il contenuto della fede, oggetto della fede, al di fuori dell’atto della fede».40 L’atto di fede deve quindi rivolgersi a un contenuto, ad un discorso oggettivo. La necessità di una fede dogmatica o fides quae è stata enfaticamente difesa dal teologo cattolico Johann Baptist Metz. Nel libro Glaube in Geschichte und Gesellschaft, pubblicato nel 1977, Metz critica ogni tentativo di definire la fides qua creditur come un atto senza contenuto «come una figura della libera decisione non oggettiva (ungegenständliche Entscheidung) dell’uomo».41 Per Metz, la fede deve prima essere definita come il ricordo della passione e morte di Gesù Cristo. Pertanto, è legato al contenuto e può essere chiamata «fede dogmatica», una fides quae creditur. Per lui, solo questa fede può portare a una critica politico-sociale della realtà, basata sulla tradizione ecclesiale e sulle dottrine bibliche.42

Il gesuita Henri Bouillard, al contrario, sembra ammettere nei suoi scritti la possibilità di una fides qua senza la fides quae. Nel libro, Logique de la foi (1965), Bouillard, direttamente influenzato da Weil, fa notare che la fede è veramente una attitudine, un atto irriducibile e libero. Tuttavia, questo atto libero rimane sempre legato alla ragione.43 Inoltre, Bouillard è stato anche un lettore attento del Proslogion di S. Anselmo,44 inteso sopratutto da Karl Barth.45 Come osserva il filosofo italiano Francesco Tomatis, mentre nel Monologion, Anselmo cerca il ragionamento oggettivo della fede, un fides quae creditur, nel Proslogion, al contrario, il discorso della fede è chiaramente soggettivo, un qua creditur, una fede che cerca da sé l’intelletto, la sua comprensione.46 Infatti, la fede non dipende da un discorso esteriore. Kierkegaard lo ha visto chiaramente. Ha sottolineato «la fides qua in relazione alla fides quae».47 Per il filosofo danese, ciò che conta non è l’oggetto della credenza, il quae, ma il modo di credere, cioè, il come si crede: «si può pregare erroneamente al vero Dio e in verità rivolgendosi a un idolo». È vero che Kierkegaard si occupa anche dell’oggettività della fede. Parla di Cristo e dell’autorità della Bibbia, tuttavia si deve sempre mantenere l’incertezza oggettiva della fede. Ogni discorso su Dio deve partire dall’interiorità della fede, dall’esperienza del come o, semplicemente, dalla fides qua.48

Come dice Weil, si deve evitare di fare «ontologia sotto il titolo di teologia».49 Ogni rappresentazione di Dio è un tradimento al Dio stesso. Ma ciò non significa che il discorso su Dio debba essere irrazionale. «L’eternità della presenza, infatti, non è un’idea inventata: è al fondo e al punto di conclusione di ogni discorso umano».50 Questo è il modo in cui Weil capisce la trascendenza dell’Essere tradizionale metafisico-ontologico:

L’Uno, l’atto puro, Dio quale è in se stesso, la Sostanza, l’inteletto archetipo, la Ragione: sempre, i filosofi sono pervenuti (se non hanno cominciato da lì) a ciò che non è, perché questo sovra-essere indescrivibile, questo indicibile (non a caso questi vocaboli ritornano sempre, e sempre nel loro senso etimologico) è loro parso fondare ogni descrizione e ogni discorso e ogni essere.51

Si tratta qui di un Essere formale infinito, una Presenza, un Senso, ancora assente, ma desiderato come un fin da raggiungere attraverso il discorso filosofico e l’azione morale e politica. L’attitudine della fede conduce proprio a questo Senso, a questa Presenza-Assenza, contemporaneamente presente in ogni azione umana. Il nome Dio nella Logica di Weil indica soprattutto un’esperienza di Senso, espressa attraverso un desiderio di amore sperimentato dalle religioni monoteiste e che, come sentimento, è altrettanto presente in tutti gli individui, indipendentemente dalla loro esperienza religiosa. Pertanto, secondo Michel Castro, teologo della Università cattolica di Lille, in Eric Weil si può parlare perfettamente di Dio-Senso.52 Tutti gli individui hanno una fede naturale, tendono ad un senso immanente o trascendente. Tuttavia, dobbiamo distinguere la fede, come spontaneità poetica, comune a tutti gli individui, della fede religiosa. Per la teologia cristiana, la fides qua non esiste senza la gratuità di Dio. È un mistero! Questo è riconosciuto, inoltre, da Weil stesso. Siamo consapevoli, perciò, che la fides qua è usata qui in modo molto eterodosso.

Ecco perché Bouillard preferisce chiamare la fede cristiana «esperienza teologale», proprio per distinguerla da una fede puramente naturale comune a tutti. Tuttavia, anche in questo caso, non v’è alcuna differenza essenziale tra fede naturale e fede religiosa. L’esperienza teologale cristiana dipende anche da un atto libero, dalla spontaneità soggettiva dell’individuo, dal linguaggio poetico e mitologico. Ora, questo finirà per determinare anche l’ermeneutica teologica: Dio Padre e Dio Figlio possono essere meglio capiti in termini mitici, e non dovrebbero causare alcun scandalo per i credenti. Il discorso teologico tende a migliorare se adottiammo il linguaggio simbolico e abbandoniamo l’ontologia e il linguaggio rappresentativo.53 Ecco perché abbiamo scelto la fides qua per parlare dell’attitudine della fede weiliana. L’attitudine di fede de la Logica della filosofia, ben compreso, fornisce un nuovo linguaggio per la teologia cristiana, non più rappresentativo, ma ermeneutico e simbolico. Ognuno di noi ha, senza eccezione, ha una fede naturale, una fides qua, una intenzionalità pura, formale, senza altro, una fedeltà alla fedeltà stessa,54 che può perfettamente diventare una fede della ragione, aperta ad un senso formale infinito. Come dice Jean-Luc Nancy:

Così questa fede in atto che il teologo chiama fides qua creditur, questa «fede attraverso la quale si crede» attualizza, in quanto professione di fede del fedele, la fede come contenuto, la fides quae creditur, la fede che è creduta, il senso della parola di Dio. In altri termini il vero atto, l’entelechia della fides quae creditur è la fides qua creditur: l’atto attualizza il senso.55

5. Fede e Violenza

Ma può questa fede ispirare una particolare opzione politica? Può, finché continua come fides qua. L’azione politica e morale deve essere l’opera dell’uomo individuale, che deve agire come cittadino, non come militante di una religione istituzionale. Se la fede diventa fides quae, l’individuo credente agirà sotto l’influenza di una dottrina biblica o di una religione positiva e quindi la sua azione diventerà violenta, senza la possibilità di decidere liberamente in base alla sua coscienza individuale. In questo caso, avremo una istituzionalizzazione violenta della coscienza, nella misura in cui un contenuto oggettivo necessariamente si sovrapporrà alla libertà personale del credente. Si deve evitare la strumentalizzazione religiosa della politica e dello Stato. Non esiste un’economia cristiana nè una sociologia cristiana, e in senso stretto una politica cristiana, così come non esiste una medicina cristiana o una matematica cristiana. L’azione politica deve seguire principi puramente tecnici, indipendentemente dai principi evangelici. Se il cristiano vuole agire in politica, deve rispettare l’autonomia dello Stato e accettare le regole del gioco politico. La politica non è essenziale per il cristiano. Non ha bisogno della politica per raggiungere la salvezza. Se il cristiano desidera agire nella politica, sarà solo per creare le condizioni in modo che la salvezza possa essere offerta a tutti. Ma la politica stessa non è la Salvezza! E questo è perfettamente in linea con la filosofia. La teoria e il senso sono superiori alla politica. Platone si è disilluso della politica di Atene; Hegel, che ammirò lo stato prussiano, alla fine della sua vita lo ha criticato, come ha mostrato Weil nel suo Hegel e lo Stato.56 Nonostante viva in un mondo secolarizzato, il cristiano, come ogni individuo, mantiene ancora una doppia scala di valori per guidare la sua vita. Non si può ridurre tutto al calcolo tecnico-economico. Lo stato e le Chiese istituzionali non possono imporre dogmaticamente decisioni che vanno contro la coscienza degli individui. Lo Stato può esigere il rispetto delle leggi stabilite, ma non può impedire la libera discussione e che queste leggi possono essere criticate. Anche le minoranze devono essere ascoltate, sia religiose che atee. L’unico impedimento è la pratica della violenza. I gruppi che non praticano la tolleranza, che predicano la violenza, non devono essere tollerati.57

La politica deve mirare alla pace, deve educare alla pratica della pace. Questo è il fine ultimo della politica. Ora, è proprio in questo punto che il cristianesimo e altre religioni interessate possono collaborare con la politica. La politica buona è quella che cerca la pace. Come ha detto recentemente Papa Francesco: «nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace».58 I cristiani possono e devono lavorare per rendere la politica più giusta e più orientata alla pace. Ma, come è già stato sottolineato, per agire efficacemente, i cristiani devono accettare i mezzi tecnici disponibili. È vero che questo può essere noioso e burocratico. I cambiamenti nella struttura politica sono lenti. Ma proprio in questo momento la fede viene in aiuto al cristiano. È la fede (fides qua), incentrata sull’ideale formale della pace e del senso che sostiene il cristiano nella politica, animandolo, non facendogli perdere la speranza. Tuttavia, non può mai dimenticare che le armi utilizzate per il combattimento politico non appartengono al discorso della fede. Appartengono al nemico: «Questo significa che il nemico della religione ha la scelta delle armi e che l’uomo più religioso che è, se vuole agire nella vita politica, deve sottomettersi alle armi del suo avversario ed usarle».59 Il cristiano vuole la pace e crede nella possibilità della pace, ma per difendere la pace, finisce per scegliere la violenza contro la violenza: «Solo la violenza può combattere la violenza. Puoi essere un santo; ma se scegli di agire per creare un mondo in cui tutti possano vivere una vita santa, dovrai combattere contro la violenza al livello in cui la violenza ti costringe a prendere posizione».60 Il cristiano combatte per la pace, ma in un mondo dominato dalla violenza. Questo è il paradosso della pace. Ma un paradosso che ha in sé una sua soluzione. Come dice Weil:

Lottiamo per un mondo in cui il conflitto tra i mezzi e le cose essenziali sarà scomparso. La violenza ci tenterà sempre, specialmente quando il mondo è pieno di esso. È nostro compito fare attenzione che la violenza non diventi mai un mezzo da noi scelto per gli scopi che proponiamo: dobbiamo difendere la nostra religione, se necessario, con metodi violenti, ma non possiamo usare la violenza per raggiungere i nostri fini religiosi.61

In altre parole, per ragioni storiche il cristiano può usare la violenza per difendere la sua religione, ma di per sé la violenza non può mai essere giustificata dalla fede. Questa deve rimanere formale di fronte a qualsiasi contenuto storico.

6. Conclusioni

Contro il secolarismo e la violenza della tecnica moderna, Bouillard propone di comprendere, dal Senso weiliano, inteso come «l’eternità della presenza del tempo e della storia» – attraverso la fede e l’esperienza teologale – il significato concreto della poesia biblica: la presenza di Dio rivelata in Gesù Cristo.62 Per il teologo gesuita Joseph Moingt, questa posizione di Bouillard è significativa perché rinnova il discorso della fede e della ragione, sia da un punto di vista positivo che negativo: Positivo: la filosofia non intende più dire l’ultima parola sull’essere o sul mondo, sulla ragione e sulla libertà; non scarta in anticipo ciò che la fede pensa né nega apriori l’esistenza di Dio. La Teologia, liberata della ontologia tradizionale, avrà più libertà per parlare dei problemi dell’esistenza umana e per cercare una nuova razionalità per esprimere le diverse esperienze di fede. Negativo: la filosofia non si preocupa del problema di Dio o degli argumenti religiosi. Dio è un enigma a cui la ragione non ha accesso. La Teologia accetta il limite imposto dal discorso filosofico e si accontenta di spiegare le esperienze solo simbolicamente.63

«In entrambi casi [conclude Moingt], sembra che la violenza sarebbe stata espulsa, secondo il desiderio di Eric Weil, e la filosofia e la teologia sarebbero in ricerca del significato per il bene comune dell’umanità».64 La violenza è ovunque, anche nella metafisica, dice Paul Gilbert, all’inizio del testo Violence et compassion.65 La filosofia e la teologia devono cercare di evitarla. Entrambe hanno la violenza come un nemico comune. Per la teologia, la violenza sarebbe nella pura secolarizzazione; per la filosofia, nel campo senza senso della tecnica puramente calcolatrice. Per entrambi, nella limitazione della libertà dell’individuo per un discorso dogmatico: la fides quae per la teologia e l’ontologia dogmatica per la filosofia. Come dice Gilbert: «la Libertà è all’origine e alla radice dell’atto di filosofare».66 È l’atto di fede (fides qua) nella nostra libertà che ci rende liberi per il pensiero filosofico e per l’azione politica.


  1. E. Weil, Die Säkularisierung der Politik und des politischen Denkens in der Neuzeit, in Marxismusstudien, I. Fetscher, ed., IV, Tübinguen, 1962, pp. 144-162. ↩︎

  2. E. Weil, Christianisme et politique, in Critique, 9, 1953, pp. 748-776. ↩︎

  3. E. Weil, Essais et Conférences II, Vrin, Paris, 1991, pp. 22-79. ↩︎

  4. E. Weil, La sécularisation de l’action et de la pensée politiques a l’époque moderne, in Essais et Conférences II, Vrin, Paris 1991, p. 22. ↩︎

  5. Ivi, p. 23. ↩︎

  6. Ibidem. ↩︎

  7. Ivi, p. 25. ↩︎

  8. Ivi, p. 26. ↩︎

  9. Ivi, p. 27. ↩︎

  10. Ibidem. Vedi anche K. Marx, Crítica da filosofia do direito de Hegel, Boitempo, São Paulo 2005, p. 146. ↩︎

  11. Ivi, pp. 28-29. ↩︎

  12. G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto (testo tedesco a fronte), Rusconi, Milão1996. ↩︎

  13. E. Weil, La sécularisation de l’action et de la pensée politiques a l’époque moderne, cit., p. 31. ↩︎

  14. Ibidem. ↩︎

  15. Ivi, pp. 38-39↩︎

  16. Ivi, p. 39↩︎

  17. Ivi, p. 39-40. ↩︎

  18. Ivi, p. 43. ↩︎

  19. Ivi, p. 44. ↩︎

  20. E. Weil, Marx et la liberté, in Critique, 08, 1946, p. 75. ↩︎

  21. E. Weil, Christianisme et politique, in Essais et Conférences II, Vrin, Paris 1991, pp. 48-50. ↩︎

  22. Ivi, p. 52. ↩︎

  23. E. Gilson, Les métamorphoses de la cité de Dieu, Vrin, Paris 2005. ↩︎

  24. E. Weil, La sécularisation de l’action et de la pensée politiques a l’époque moderne, cit., p. 42. ↩︎

  25. Ibidem. Weil cita qui il libro dello storico inglese W. E. H. Lecky, History of the Rise and Influence of the Spirit of Rationalism in Europe, revised ed., New York, vol. II, 1873, pp. 114 s. [vedi E. Weil, La sécularisation de l’action et de la pensée politiques a l’époque moderne, cit., nota 22, p. 42]. ↩︎

  26. E. Weil, Christianisme et politique, cit., p. 64. ↩︎

  27. Ivi, pp. 64-65. ↩︎

  28. Ivi, p. 66. ↩︎

  29. Ivi, pp. 66-67. ↩︎

  30. Ivi, pp. 70-71. ↩︎

  31. Ivi, p. 73. ↩︎

  32. Ivi, p. 75. ↩︎

  33. Ivi, p. 77. ↩︎

  34. Ibidem. ↩︎

  35. H. Bouillard, Transcendance et Dieu de la foi, in H. Bouillard, Vérité du christianisme, Desclée de Brouwer, Paris 1989, p. 325. ↩︎

  36. S. Agostinho, A Trindade, São Paulo, Paulus, 1995, p. 399; [S. Aurelii Augustini, Opera Omnia editio latina], De Trinitate libri quindecim↩︎

  37. Ivi, p. 456. ↩︎

  38. Tomás de Aquino, Suma Teológica (II, II, q.2 a2), São Paulo, Loyola, vol. 05, 2004, p. 74. San Tommaso aggiunge un altro aspetto della fede nella sua Summa Teologica: il credere in Deum, determinato unicamente dalla volontà, e forse proprio per questa ragione, disprezzato dalla teologia intellettuale medievale e dalla ragione moderna [su questo, vedi S. Pié-Ninot, La Teologia Fundamental, Salamanca, Secretariado Trinitario, 2009, pp. 189-190]. Secondo Henri de Lubac, solo questa fede [credere in Deum], costituirebbe la pienezza della vita cristiana: «Tre atti [credere Deum, credere Deo e credere in Deum] sono concatenati insieme, seguendo una necessaria progressione. Solo il terzo, che suppone e integra i due precedenti, caratteriza la vera fede. Lui solo è il costituente del Cristiano» [Henri de Lubac, La foi chrétienne. Essai sur la structure du symbole des apôtres, Cerf, Paris 2004, p. 157] e, pertanto, deve completare la fides qua (credere Deo) e la fides quae (credere Deum). Infatti, questi due parlano della Rivelazione, ma da un punto di vista puramente intellettuale, quindi, non possono condurre l’uomo ad una personale esperienza salvifica. Consideriamo che il credere in Deum potrebbe davvero offrire una risposta soddisfacente al problema della fede cristiana, ma a causa della sua natura essenzialmente mistica e intrasistemica, non è possibile conoscere appieno il suo significato filosofico e teologico. Pertanto, dal nostro punto di vista, riteniamo sia conveniente mantenere la dualità tra fides qua e fides quae, data la natura intellettuale di entrambi, necessaria per l’attività filosófica e per il dialogo politico-religioso contemporâneo. Su questo, vedi S. Pié-Ninot, La Teologia Fundamental, cit., pp. 188-194 e J. B. Libânio, Eu Creio, nós Cremos. Tratado da Fé, Loyola, São Paulo 2000, pp. 152-156. ↩︎

  39. R. Fisichella, Dizionario Teologico Encyclopedico, Casale Monferrato, Piemme, p. 419. ↩︎

  40. Paul Tillich, Dynamique de la foi, Casterman, Tournai 1968, p. 28. ↩︎

  41. J. B. Metz, A Fé em História e Sociedade. Estudos para uma teologia fundamental prática, Paulinas, São Paulo 1980, p. 233. ↩︎

  42. Ivi, pp. 233-234. Su questo, vedi anche R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 338-339. ↩︎

  43. H. Bouillard, Logique de la foi, Aubier, Paris, p. 17. ↩︎

  44. H. Bouillard, Comprendre ce que l’on croit, Aubier, Paris 1971. ↩︎

  45. K. Barth, Fé em busca de compreensão, Fonte Editorial, São Paulo 2006. ↩︎

  46. F. Tomatis, O Argumento Ontológico. A existência de Deus de Anselmo a Schelling, Paulus, São Paulo 2003, pp. 11-15. ↩︎

  47. R. Gouvêa, Paixão pelo Paradoxo: uma introdução a Kierkegaard, Fonte Editorial, São Paulo 2006, p. 148. ↩︎

  48. H. Bouillard, La foi d’après Kierkegaard, in H. Bouillard, Logique de la foi, cit., p. 71. ↩︎

  49. E. Weil, Logica della filosofia, Il Mulino, Bologna 1997, p. 133. ↩︎

  50. Ivi, p. 108. ↩︎

  51. Ivi, p. 14. ↩︎

  52. M. Castro, L’itinéraiere théologique d’Henri Bouillard. De Thomas d’Aquin à Emmanuel Levinas, Cerf, Paris 2012, p. 213. ↩︎

  53. H. Bouillard, Transcendance et Dieu de la foi, cit., pp. 347-350. ↩︎

  54. J-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, Cronopio, Napoli 2007, p. 214. ↩︎

  55. Ivi, p. 213 ↩︎

  56. E. Weil, Hegel et l’Etat. Cinq conférences suivies de Marx et la philosophie du droit, Vrin, Paris 1994. ↩︎

  57. E. Weil, Christianisme et politique, cit., p. 78 ; vedi anche E. Weil, Religion et Politique, in Cahiers Eric Weil IV, Presses Universitaires de Lille, Lille 1993, p. 112. ↩︎

  58. Papa Francesco, Politique et société. Rencontre avec Dominique Wolton, Éditions de l’Observatoire, Paris 2017, p. 58. ↩︎

  59. E. Weil, Religion et Politique, cit., pp. 113-114. ↩︎

  60. Ivi, p. 114. ↩︎

  61. Ibidem. ↩︎

  62. H. Bouillard, Transcendance et Dieu de la foi, cit., p. 350. ↩︎

  63. J. Moingt, Deus que vem ao homem, vol. 01, Loyola, São Paulo 2010, pp. 201-204. ↩︎

  64. Ivi, p. 204. ↩︎

  65. Paul Gilbert, Violence et compassion. Essai sur l’authenticité d’être, Cerf, Paris 2009, p. 21. ↩︎

  66. Ivi, p. 33. ↩︎