Editoriale: Dieci anni dopo

Il primo editoriale di Dialegesthai è stato pubblicato nel 1999 con il titolo La verità dialogica, cioè aver bisogno dell’altro.

Dieci anni fa (ormai undici), 1999… Era un altro secolo, era un altro millennio. Un abisso di tempo soltanto dieci anni or sono. Se semplicemente ci volgiamo all’indietro, si fa molta fatica a «cucire» un semplice decennio al livello di ricostruzione «motivazionale». In molti casi siamo di fronte a cesure profonde che come filosofi ci interpellano direttamente. Nelle poche riflessioni che vorrei condividere, mi limito infatti al mio orizzonte professionale, quello del filosofo, a cui appartiene anche la rivista di cui celebriamo il decennale, Dialegesthai. Rispetto a dieci anni or sono forse possiamo iniziare con una constatazione amara e tragica: i filosofi tacciono, la filosofia vive dentro le aule universitarie, consuma carta per pubblicare libri, ma è sempre più lontana rispetto ai grandi nuovi interrogativi. Avrebbe, o, almeno, potrebbe avere, la funzione di indicatore di direzione, di senso, in un mondo che corre sempre più velocemente verso l’insensato.

Mondo domani, come ricorda anche l’amico e geniale gestore della nostra rivista, Giovanni Salmeri, doveva essere il nome di un’associazione che partiva dalla consapevolezza che non possiamo semplicemente aspettare il futuro, ma dobbiamo anticiparlo per poterlo guidare e costruire. Dopo dieci anni, i collaboratori e i lettori della nostra rivista sono molte migliaia e io vorrei rilanciare l’idea di costituire un’associazione che riprenda quel nome e che, contro Hegel, si impegni a pensare per il futuro, a fornire indicazioni di percorso da discutere ed elaborare in un’autentica comunità di ricerca. Proporremo presto alla discussione una bozza di statuto da discutere e costruire insieme. In questo modo vorrei ridare fiducia alla possibilità della filosofia che non è e non può essere soltanto una sistemazione inverante a posteriori, rispetto a un modello di verità che le preesiste e a cui deve soltanto adeguarsi.

La filosofia deve ripensare il suo ruolo e il suo senso. Che fa il filosofo? Non siamo in grado di rispondere perché ci sfugge chi è il filosofo. Non possiamo pensare a una categoria professionale, o almeno non soltanto. Ogni uomo è, o può essere filosofo, perché ogni uomo ha il compito e la responsabilità non soltanto di contemplare la verità, bensì anche di fare la verità. La verità non è già tutta manifesta, ma viene a manifestazione attraverso coloro che la «producono». Dal punto di vista antropologico, la verità viene a manifestazione nella parola vera che siamo capaci di costruire, nel comportamento vero che mettiamo in essere nella reciprocità dei rapporti, non nella contemplazione solitaria. Era il compito che c’eravamo dati con la rivista e per questo avevamo ripreso l’antico termine greco.

Tuttavia, se ci volgiamo indietro è proprio questo l’elemento più drammaticamente fallimentare a tutti i livelli: teologico-religioso, antropologico, politico, culturale. Dopo il 1999 sono accaduti eventi che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere il nostro mondo e che fanno mettere in discussione in maniera radicale la stessa possibilità del dialogo e del lavoro interculturale. È tragicamente tornata l’epoca dei fondamentalismi e delle rassicuranti gabbie protettive dell’identità. È tragicamente tornata la parola pesante di nemico ed è sempre più lontana la categoria dell’alterità. La parola stessa di dialogo è scambiata per un’utopia.

La crisi economica, crisi prima di tutto antropologica in quanto risultato di un individualismo miope che sul proprio profitto ha costruito la normatività dei mercati, ci costringe sempre più frequentemente dentro logiche che non conoscono più parole come solidarietà o cooperazione. Abbiamo costruito un mondo che non è più capace di prospettive, non ha davanti a sé un senso verso cui orientarsi e in cui la scollatura generazionale rischia di diventare la perdita totale della stessa possibilità della comunicazione.

Tutto ciò ha a che fare con la filosofia? Sì, perché in gran parte è colpa del silenzio dei filosofi, della mancata denuncia delle derive del non senso. Se la filosofia tace, in quanto sforzo di pensare secondo una logica motivazionale del senso, è l’umano che subisce i guasti maggiori. E oggi, ne sono profondamente convinto, siamo dentro una delle più radicali crisi antropologiche della storia.

Dopo dieci anni, con la nostra rivista, con un sano realismo utopistico, vogliamo rilanciare una volontà di dialogo ai vari piani del suo esercizio possibile, convinti che è l’unica strada sensata da percorrere per ridare significato pieno alle ansie dell’uomo nei vari spazi del pianeta. Un decennale è certamente importante per fare bilanci o anche per guardarsi narcisisticamente allo specchio, ma io credo che debba essere visto soprattutto come compito e come responsabilità. Nessuno ce l’ha assegnato dall’esterno, ce lo siamo dati da soli quando abbiamo deciso di iniziare questa avventura che oggi possiamo dire certamente molto significativa. L’invito, quindi, a quanti hanno già collaborato con noi e a quanti desidereranno farlo nel futuro, è quello di pensare non soltanto a partire dalle teorie dei filosofi, bensì attraverso il proprio contributo personale che cerca di pensare la realtà. Pensare la realtà è l’unico modo che abbiamo per fare la verità, ma con la consapevolezza che nessuno può farla da solo.