Recensione a Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz

Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 2004.

L’attualità de Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Jonas non risiede tanto nell’analisi di ciò che è stato, di ciò che è accaduto nell’ambito della «soluzione finale» prospettata dal nazismo; quanto di ciò che si intende per male assoluto. Un male portato alle estreme conseguenze da risultare quasi al di sopra di ciò che umana mente possa concepire.

Auschwitz rappresenta l’incarnazione perfetta di quello che Giobbe subisce e il fallimento di quello che Giobbe ostenta fieramente e senza nessun momento di cedimento: la fede verso Dio nonostante tutto: «Se da Dio si accetta il bene, il male non si deve accettare?» (Giobbe 2,10). Dio «guarda» ad Auschwitz attraverso gli stessi occhi di chi, in quel luogo, ha incontrato la morte, impotente e addolorato, forse pentito dell’assoluta libertà concessa all’uomo. Jonas si sofferma sul concetto di un Dio sofferente che ha in sé l’onnipotenza ma anche il dolore che lo avvicina a quegli occhi che hanno visto la morte e sofferto in silenzio.

Nelle mani dell’uomo è tutta la vita, Dio è il mondo, nel mondo, ma il mondo è nelle mani dell’uomo. La presenza dell’uomo come risultato della creazione, legittima l’onnipotenza di Dio anche se: «Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più niente da dare; ora tocca all’uomo dare» dice Jonas. E ciò che l’uomo ha dato giustifica quasi il non intervento divino, Dio pur essendoci non interviene, mostrando quanto l’uomo possa fare del male, un male spietato e privo di motivazioni valide, un male che non ha nessun obiettivo se non quello di mettere alla prova l’umanità stessa: «Forse non per nulla teme Giobbe Iddio? […] Ma e … stendi un poco la tua mano e tocca tutto quel ch’è suo: vedrai… se non ti benedice in faccia!» (Giobbe 1,11). Le parole di Satana rivolte a Dio affinché metta alla prova la fede di Giobbe, trovano la giusta collocazione nella vicenda ebraica del nazismo. Il popolo di Abramo (l’umanità tutta) è stato messo alla prova da un male che viene dall’uomo stesso, da un’ideologia che sacrifica ogni sentimento di compassione e pietà. «In tutto questo non peccò Giobbe con le sue labbra…» (Giobbe 2,10) e nella tragedia di Auschwitz nessun figlio di Davide pecca verso Dio, nessun atto di ribellione muove l’animo dei condannati stupiti, avviliti del non intervento divino. Dov’è la Sua forza? perché ha abbandonato il Suo popolo? La risposta è tutta nelle Sue parole: «Io non maledirò più la terra a causa dell’uomo, poiché i pensieri del cuore umano sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; non colpirò più ogni cosa vivente come ho fatto» (Genesi 8,21). Perché salvare l’uomo da sé stesso in ogni momento se la sua natura è costantemente votata alla perdita del bene? Jonas sottolinea un fatto importante; «il concetto di un Dio totalmente nascosto è conseguentemente inammissibile per la fede ebraica». Ma Dio non si nasconde anche durante le torture inflitte a Gesù? durante la sua crocifissione? persino quando Gesù, sofferente per il suo destino, è annientato dai dubbi nel Getsemani. E Gesù è Suo figlio.

«Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile». Potenza e onnipotenza sono due diversi concetti, per Jonas il primo è attribuibile a Dio e non il secondo, in quanto «il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male». Per Jonas la bontà Divina quindi, non esclude l’esistenza del male; e come se Dio si fosse privato di qualcosa, della sua assoluta onnipotenza per dare all’uomo determinati caratteri (la conoscenza del bene e del male) che gli permettessero di agire nella più completa libertà; e questo, nonostante tutto, potrebbe essere considerato un atto d’amore: «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza». Il non intervento non dà la misura di un limite Divino, casomai di una penosa, dolorosa incapacità nel ristabilire l’ordine del mondo attraverso l’esercizio di un miracolo. Perché farlo? Oggi, in questi ultimi anni non sarebbe stato costretto a rifarlo ancora ed ancora? Dio è imperscrutabile, il mistero che lo caratterizza riduce, secondo Jonas, ogni teoria, ogni illazione ad un misero (umano, io direi) balbettio dove solo la responsabilità umana può dare a Dio ciò che gli viene tolto attraverso il male da noi compiuto. Nei confronti del male Dio reagirebbe come con Giobbe e direbbe a Satana: «Egli è ancora saldo nell’interezza sua, e tu mi hai spinto su lui, senza ragione, per rovinarlo». (Giobbe 2,3) Il silenzio del dolore è tutto ciò che ha risuonato ad Auschwitz. Non un grido, non un lamento, ma un mutismo di rassegnazione di chi, all’oscuro di tutto, non può immaginare il motivo di tanto odio, perché troppo impegnato a cercare di comprendere il volere di Dio, il suo sentimento per l’uomo.

Ma a questo non c’è stata risposta, «Dio tacque, […] non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo». Quale potrebbe essere la risposta? «Voi chi dite che io sia?» dice Gesù ai discepoli: «Maestro la mia bocca non è assolutamente in grado di dire chi tu sia.» (Vang. di Tommaso 14, Vangeli apocrifi, Einaudi 1990, a cura di Marcello Craveri) risponde Tommaso forse vicino a quel mistero che nemmeno Giobbe era riuscito a penetrare. Dio non è in condizione di aiutare l’uomo perché l’uomo non è in condizione di comprendere Dio; ed anche il popolo ebraico, abituato, come dice Jonas, alla visione di Dio, al suo costante contatto, perde questo privilegio, resta attonito e non riesce più ad afferrare la presenza del divino che nella storia ebraica si è sempre mostrato. Il male assoluto diventa ad Auschwitz la pietra angolare, getta le fondamenta di una perpetua non presenza di Dio che, credo, ci porteremo fino alla fine dei tempi. Il mistero Divino non deve però diventare un triste alibi; quello che ha colto Tommaso in Gesù non è necessariamente inviso al resto dell’umanità, almeno fino alla conoscenza dell’aldilà, bensì intuibile già in questa nostra vita. Il balbettio che Jonas assegna, come unico risultato dell’umana intellezione del Divino è preferibile ad un osceno silenzio.