1. Introduzione
In due articoli precedenti abbiamo cercato, dapprima, di sviluppare alcune categorie utili ad una comprensione personalistica della conoscenza ed, in seconda battuta, abbiamo indicato nella testimonianza una forma del conoscere che particolarmente si adatta a questa visione.1
Questa riflessione ci spinge a fare ancora un passo ulteriore alla ricerca di una forma di conoscenza dove l’interpersonalità strutturi, in modo ancora più fondamentale, il conoscere e credo che questa forma la si possa individuare nel dialogo.
Il dialogo è stato fin dall’inizio della filosofia uno strumento prezioso della riflessione. Per buona parte del pensiero antico e sino ad Aristotele esso non è stato soltanto uno dei modi in cui può esprimersi il discorso filosofico, ma il suo modo proprio e privilegiato perché questo discorso non è fatto dal filosofo a se stesso e non lo chiude in se stesso ma è un conversare, un discutere, un domandare e rispondere tra persone associate dal comune interesse della ricerca. Ma crediamo che sarebbe un impoverimento davvero grande vedere nel dialogo solo un genere letterario che può rendere più gradevole un testo filosofico, magari personificando le varie tesi per rendere interessante il confronto fra di esse.
La comprensione profonda che la filosofia contemporanea ci ha dato dell’interdipendenza fra linguaggio e pensiero, la riflessione condotta sull’interpersonalità e sull’importanza che essa riveste, sono tutti strumenti preziosi che ci aiuteranno a cercare in quale senso il dialogo possa essere considerato una forma di conoscenza adeguata alla verità concepita in senso personalistico.
E tutto ciò ci permette di far saltare il dualismo tra soggetto ed oggetto tipico della gnoseologia moderna che, anche se si è dimostrato adeguato a certi di tipi di conoscenza (tipicamente quella relativa alle scienze fisiche), si è però rivelato assolutamente insufficiente ad altri (tutti quelli che includono in maniera forte l’elemento personale). Questa insufficienza si è fatta ancora più grave nella misura in cui anche nelle scienze fisiche si è cominciato a vedere come in ogni tipo di conoscenza l’elemento personale (in quanto c’è sempre qualcuno che conosce) non possa essere semplicemente messo fra parentesi.
Per quanto riguarda l’elemento linguistico dice infatti K. O. Apel nel quadro della sua riflessione sull’etica del discorso:
Linguaggio e comunicazione non vengono concepiti come indispensabili mediazioni e quindi condizioni di possibilità della validità intersoggettiva del senso, prima, e quindi poi, pienamente, della verità della conoscenza di qualcosa in quanto qualcosa entro la relazione soggetto-oggetto; bensì, vengono intesi soltanto come mezzi per la fissazione e la trasmissione di conoscenze già acquisite dal singolo nella relazione soggetto-oggetto. […] Questa situazione di blocco paradigmatico della possibile razionalità dell’etica viene rotta, allorché ci si avvede — e ciò implica in vero una trasformazione della filosofia trascendentale classica che la stessa validità intersoggettiva della conoscenza scientifica avalutativa (1’obiettività dunque) non è possibile senza presupporre contemporaneamente una comunità linguistica e comunicativa, con la relativa relazione soggetto-cosoggetto normativamente non neutrale. […] Il soggetto di ogni possibile domanda filosofica non è affatto un soggetto di pensiero in linea di principio solitario ed autarchico nel senso del solipsismo trascendentale. Egli è piuttosto — a motivo della strutturale mediazione linguistica del pensiero e delle pretese di validità intersoggettiva che esso avanza, pretese di senso, verità, sincerità e correttezza normativa — già sempre soggetto di un’argomentazione dialogica.2
Questa linea che Apel rappresenta ha però radici lontane e, in una certa misura, insospettabili. Possiamo infatti trovare in Kant, paladino della ragione pura, che trascende quindi ogni condizione materiale del suo esercizio, degli spunti che fanno cogliere come questa visione di un soggetto posto in una relazione esclusiva con un mondo, considerato come una collezione di dati offerti alla sua attività conoscitiva, sia insufficiente. Kant scrive infatti, a proposito del senso comune, nella Critica del Giudizio:
Per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori, del modo di rappresentarne di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive; illusioni che avrebbero una influenza dannosa sul giudizio. Ora ciò avviene quando paragoniamo il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ci poniamo al posto di ciascuno di loro, astraendo soltanto dalle limitazioni che sono attinenti in modo contingente al nostro proprio giudizio: il che si ottiene rigettando dal nostro stato rappresentativo tutto ciò che è materia, cioè sensazione, e portando unicamente l’attenzione sulle proprietà formali della nostra rappresentazione o del nostro stato rappresentativo.3
Vediamo qui chiaramente come si intreccino da una parte la percezione che una ragione isolata sia solo apparentemente «pura» e che travesta la propria soggettività da oggettività, dall’altra l’idea, persistente e tipicamente moderna, che tutto ciò che è situato, concretamente riferito al qui ed ora nella conoscenza, vada messo fra parentesi per concentrarsi su ciò che è puramente formale, che è costante al di là di ogni particolare situazione conoscitiva.
Questo fiume carsico è nuovamente riemerso, come dicevamo sopra, quando la svolta linguistica del ’900 ha permesso di liberare il linguaggio dall’angusto ruolo di esteriorizzazione del pensiero e questa nuova prospettiva ha reso ben diverso anche l’approccio a tutte le caratteristiche che rendono «situato» il dialogo e che concorrono a renderlo rilevante come situazione epistemologica:
Non vi è nessuna ragione pura, che soltanto in seguito indossa abiti linguistici. Essa è fin dall’origine ragione incarnata in contesti dell’agire comunicativo e in strutture del mondo della vita.4
Questa espressione di ascendenza husserliana, riassume, per Habermas, tutte le caratteristiche che rendono una situazione comunicativa concreta, una concretezza che non deve essere soltanto trascesa per ritrovare la caratteristiche che accomunano tutte le situazioni comunicative ma deve essere anche valorizzata e, direi, vissuta in pieno perché della comunicazione essa costituisce la «carne», evitando le troppo facili tentazioni di astrazioni affrettate.
La situazione linguistica è quella sezione di un mondo della vita, delimitata riguardo al tema relativo, che per i processi di intesa tanto costituisce un contesto quanto anche appronta risorse. Il mondo della vita costituisce un orizzonte ed offre al contempo una provvista di ovvietà culturali, a cui attingono i partecipanti alla comunicazione nei loro sforzi interpretativi. […] il mondo della vita può essere scorto soltanto a tergo. Dalla prospettiva frontale degli stessi soggetti agenti orientati verso l’intesa, il mondo della vita, che è sempre soltanto ‘dato insieme’, deve sottrarsi alla tematizzazione.5
È a partire da questa riflessione, condotta secondo un metodo che Apel e Habermas definiscono pragmatico-trascendentale, che essi arrivano a fondare un’etica del discorso o della comunicazione che può, secondo loro, sfuggire alla conclamata impossibilità di una fondazione razionale dell’etica che non paghi pesanti ipoteche ontologiche ormai difficilmente condivisibili a giudizio di molti pensatori e senza per questo doversi rifugiare in un decisionismo volontaristico.
Se il pensiero attento alla dimensione linguistica ci dà indicazioni su come la dimensione dialogica sia connaturale alla conoscenza proprio perché ogni conoscenza è essenzialmente atto che si compie nel linguaggio, il personalismo novecentesco pone la relazionalità e quindi la dialogicità nell’ontologia profonda dell’essere umano. Dice Martin Buber, fra i più profondi pensatori della relazionalità come categoria fondamentale dell’umano:
Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo-con-l’uomo. Ciò che caratterizza in modo singolare il mondo degli uomini, è da ricercarsi nela fatto che, tra-uomo-e-uomo, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura […] La scienza filosofica dell’uomo, la quale include l’antropologia e la sociologia, ddeve dunque prendere come punto di partenza, come oggetto della sua indagine, l’uomo-con-l’uomo.6
Da questo egli ricava una concezione del pensiero e quindi del conoscere che egli esprime attraverso le parole di W. von Humboldt:
L’uomo anche per poter semplicemente pensare aspira a un tu che corrisponda al suo io; il concetto gli sembra acquisire determinazione e certezza solo quando è riflesso da una potenza pensante estranea. Si produce liberandosi dalla massa movimentata della rappresentazione e costruendosi come oggetto di fronte al soggetto. Ma l’oggettività appare ancora più compiuta, se questa divisione non si dà solo nel soggetto, se il soggetto della rappresentazione scorge davvero il pensiero fuori di sé -cosa possibile solo in riferimento a un altro essere che come lui è dotato di rappresentazioni e di pensiero.7
2. Fenomenologia del dialogo
Come materiale esemplare per questa analisi prendiamo un dialogo fra i più ricchi dei Vangeli e precisamente quello che intercorre fra la Samaritana e Gesù nel vangelo di Giovanni.
In questo brano possiamo cogliere la dinamica che dal dialogo condotto su tematiche inizialmente banali, passa ad un coinvolgimento psicologico che sfocia poi in uno svelamento che nel caso di Gesù diventa autentica rivelazione di una realtà altrimenti insospettabile.
Proviamo ad analizzare questo brano:
Gesù giunse pertanto ad una città della Galilea chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno.8
Queste prime parole ci danno un quadro del luogo spazio-temporale in cui si svilupperà il dialogo fra Gesù e la donna di Samaria. Un luogo preciso, un tempo preciso perché il dialogo non è un’idea od un concetto ma qualcosa che ha carne ed ossa e queste sono date dalle persone che vivono in un luogo ed un tempo precisi, con tutto quello che ciò comporta a livello di dati situazionali. Questo è indispensabile se non vogliamo cadere nella trappola dell’astrattezza e fare di un dialogo fra persone una rappresentazione simbolica più o meno suggestiva di qualcosa che si svolge ad altri livelli, che siano quelli concettuali o quelli archetipici, comunque sia sottratti a quella concretezza che la relazione interpersonale richiede.
Allo stesso tempo non c’è solo una concretezza legata allo luogo immediato del dialogo ma questa concretezza spazio-temporale arriva fino ad inserire tutto questo in una storia più ampia che abbraccio il passato dei dialoganti perché la relazione interpersonale che fra essi si instaura non sia una sorta di big bang in cui tutto comincia da zero ma piuttosto sia ben chiaro che essa anche in quanto ha di nuovo e di creativo è qualcosa che si inserisce nella corrente più ampia di una storia fatta di molteplici relazioni interpersonali e delle persone con le cose che le circondano e, per chi crede, delle persone con Dio.
Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Gesù le disse: «Dammi da bere».9
Ancora qui siamo messi di fronte alla concretezza del dialogo, alla sua materialità. Ciò che porta la donna al pozzo è un’esigenza assolutamente normale, ciò da cui scaturisce il dialogo è una richiesta assolutamente normale, almeno in linea di principio, di Gesù. Entrambi sono portati ad un incontro da qualcosa che è loro connaturale come il bisogno d’acqua. Non possiamo trascurare, se vogliamo veramente comprendere cosa sia il dialogo, che siamo mossi ad esso da un bisogno; all’interno di questo bisogno, se il dialogo è autentico può svilupparsi qualcosa che dal bisogno si sgancia e assume un’altra dimensione ma non si può evitare il passaggio dalla strada del bisogno assolutamente naturale che ci spinge alla relazione reciproca ed alla comunicazione dialogica. Ogni scorciatoia provocherebbe un cortocircuito che altro non produrrebbe che una relazione a doppia faccia: una manifesta, dagli alti contenuti e dalle caratteristiche «platonicamente» spirituali ed una nascosta che al suo fondo non è altro che un «prendersi» reciproco, perché alla fine i bisogni vanno soddisfatti ed è chi nega questo che più facilmente resta intrappolato da essi.
Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»10
Cosa distingue il dialogo autenticamente inteso dalla chiacchiera pura e semplice?
Per rispondere a questa domanda non possiamo non riferirci alla magistrale analisi che Heidegger fa della vita inautentica in Essere e tempo.
In questa vita che egli qualifica come inautentica, non si arriva mai a cogliere la realtà più profonda delle cose perché essa rimane al livello ontico senza mai sfondare il «muro» degli enti per arrivare alla realtà dell’essere. Ancora nella vita inautentica tutto diviene oggetto d’uso, anche le altre persone e le relazioni che si instaurano con loro. Il linguaggio rimane, per usare il termine heideggeriano, al livello della «chiacchiera» che cerca nella curiosità del sempre nuovo un riempimento che non arriverà mai perché cercato ad un livello che assolutamente non può darlo. Tutto questo si completa nell’equivoco e tutto viene ridotto ad un «si dice» e ad un «si fa» spersonalizzanti in maniera direttamente proporzionale alla forsennata ricerca di un’individualità che di nuovo non può essere trovata perché la si cerca là dove essa non può essere presente.
Il dialogo reale invece, pur non rifiutando il bisogno anzi confrontandosi con esso, può produrre novità perché riesce in qualche modo a sottrarsi all’inautenticità attraverso il porsi, rimaniamo sempre all’interno dell’analisi heideggeriana, sul piano ontologico che dà il vero senso dell’essere, non di un essere in astratto ma del mio essere e di quello dell’altro. Anche nell’analisi che ne fa Buber c’è qualcosa di assai simile; egli dice:
Nella conversazione autentica il rivolgersi al compagno avviene in tutta verità, come rivolgersi dell’essere, Tutti coloro che parlano intendono colui o coloro, a cui si rivolgono come questa particolare esistenza personale.11
In conclusione, la differenza fra il dialogo e la pura e semplice chiacchiera è data dall’investimento dell’esistenza all’interno del rapporto, dalla disponibilità ad attingere dalla relazione la profondità dell’essere che vi è nascosta che vuol dire quanto di me e della mia esistenza gioco all’interno di quella relazione.
Beninteso sarebbe un’utopia impossibile quella di investirsi egualmente all’interno di ogni relazione, ciò non è possibile e, probabilmente, neppure auspicabile. Ma ci devono essere relazioni, nell’esistenza di una persona, che diano vita ad un autentico dialogo perché vi si possa far scaturire quella ricchezza e quella novità che permettono di far diventare la relazione interpersonale una vera esperienza di svelamento dell’essere che può diventare, addirittura, possibilità di cogliere qualcosa di Colui che dell’essere è la fonte.
Nel momento in cui Gesù fa saltare gli schemi di comportamento che sarebbero stati logici per lui maschio e Giudeo di fronte ad una donna per di più Samaritana, egli entra, all’interno di quella relazione nascente, non più in relazione con un qualcuno definito da categorie impersonali di genere, nazionalità o di religione ma con una persona ed è questa scelta che permette al colloquio fra lui e la donna di sfuggire alla trappola del diventare chiacchiera per divenire dialogo.12
Ed è nel momento in cui Gesù dice:
Se tu conoscessi il dono di Dio e che è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva.13
che il colloquio sfugge alla trappola della chiacchiera in cui la donna poteva ricondurlo nel momento in cui più o meno consapevolmente cercava di riportarlo ai canoni usuali della relazione che sarebbe stato lecito attendersi fra i due rispettivamente alla loro condizione.
Ed un altro passo in questa direzione viene fatto nel momento in cui Gesù dice alla donna:
«Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».14
È qui il momento decisivo: la donna cerca, e difficilmente le daremmo torto, di mettersi al riparo, di non denudarsi totalmente all’interno di questa relazione ma Gesù la incalza e, in un certo senso, la rivela a se stessa. Ormai il velo è tolto. Non importa che questo sia avvenuto almeno in parte contro la volontà della donna che, come ha potuto, ha cercato di neutralizzare il potenziale di quel dialogo, il passo è stato compiuto ed in qualche modo il continuo della conversazione mostra come la donna sia ormai entrata nel gioco ed accetti di giocarsi in esso completamente; è per questo che il dialogo può produrre il suo frutto, frutto assolutamente inatteso al suo cominciamento per diventare il luogo dove la realtà di quell’uomo viene disvelata:
Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo».15
3. Una lettura filosofica del dialogo: filosofia del dialogo ed ermeneutica
Se da una descrizione fenomenologica facciamo un’ulteriore passo verso un’analisi più profonda, cogliamo del dialogo due caratteristiche essenziali ed essenzialmente interconnesse l’una con l’altra: la prima è che esso è un evento che coinvolge persone e questo produce il fatto che, ed è la seconda caratteristica, il dialogo sia un evento eminentemente linguistico.
Queste caratteristiche di interpersonalità e di linguisticità caratterizzano il dialogo e chiedono di essere analizzate perché possiamo cogliere di questo tutto il potenziale produttivo di conoscenza che esso possiede.
Prima di tutto il dialogo è un evento che avviene tra persone. In questo senso dobbiamo riandare a quanto abbiamo detto altrove16 riguardo ad alcune categorie di pensiero che caratterizzano la realtà personale che non è possibile pensare alla stregua della realtà degli oggetti materiali di cui facciamo quotidianamente esperienza.
Fra queste, quella che più risulta interessante a questo punto della riflessione è quella della reciprocità. Abbiamo detto nell’articolo citato seguendo la riflessione che il teologo svizzero Heinrich Ott sviluppa nel suo libro Il Dio personale,17 che la persona arriva a se stessa solamente quando si trova nel campo del «fra» e cioè quando essa è in relazione ad un’altra persona. È evidente che questo diventa ancora più forte quando la persona parla. La parola è sempre parola detta a qualcuno, è sempre parola che mira a creare una relazione comunicativa con un «tu», a maggior ragione dunque, non è possibile comprendere la parola se non all’interno del campo d’azione che si origina all’interno della relazione interpersonale. Dice Martin Buber:
Uno stadio precomunicativo del linguaggio non è pensabile. L’uomo non è mai stato con il suo simile senza vivere in sua presenza, rivolto a lui, cioè senza avere rapporto con lui. Non c’è mai stato linguaggio che non fosse interpellazione; il linguaggio è diventato per l’uomo possibilità di monologo dopo che il dialogo si è interrotto o spezzato. Il primo interlocutore non è circondato di oggetti a cui egli assegna un nome, né premuto da dati che egli cerca di catturare denominandoli; mondo e destino gli diventano linguaggio soltanto nel rapporto con un altro.18
Questa visione del linguaggio come realtà essenzialmente dialogica ha radici lontane che possiamo rintracciare in forma sufficientemente compiuta nella filosofia espressivista19 tedesca del XVIII secolo. Soprattutto Humboldt, nel suo opporsi alla concezione strumentale del linguaggio rispetto al pensiero, afferma come già nel pensare avvenga un distanziamento da sé, il crearsi di una dualità che avviene nell’articolazione linguistica del pensiero:
Il linguaggio pertanto ha inizio in maniera diretta e immediata con il primo atto di riflessione; e proprio come l’uomo dall’oscurità del desiderio in cui il soggetto consuma l’oggetti si desta all’autocoscienza, così c’è anche la parola — il primo impulso, per così dire che l’uomo si dà ad arrestarsi subitaneamente, guardarsi attorno ed orientarsi.20
Il linguaggio non è dunque il semplice strumento con cui si etichetta la realtà una volta che la si è pensata, ma colloquio interiore che accompagna tutto il processo riflessivo e che diventa apertura al mondo e soprattutto al mondo delle relazioni interpersonali in cui, attraverso l’ascolto, si apprende il linguaggio e quindi il pensiero. La dualità del colloquio interiore diviene dunque dialogo in cui ascolto, espressione e pensiero sono coessenziali ed inseparabili.
Non è però sufficiente considerare il pensare come un colloquio interiore, è indispensabile porre l’accento sulla dialogicità reale e concreta, pena il ritrovarsi all’interno di un quadro monologico ancora più rigido.
Questa prospettiva di un’imprescindibile dialogicità del linguaggio rende a noi più facile comprendere come il conoscere possa essere concepito come qualcosa che è assimilabile ad una relazione interpersonale e non ad un monologo interiore del soggetto che esplora un orizzonte passivo fatto di oggetti muti, semplici terminali dell’attività dell’Io conoscente. E se il soggetto conoscente deve entrare in qualche modo in dialogo per conoscere, diventa facile immaginare che pure l’altro termine della conoscenza, quello che comunemente definiamo oggetto, debba invece essere pensato come co-soggetto del conoscere.
In questa prospettiva un oggetto muto e passivo come una cosa materiale, potrebbe essere co-soggetto in modo molto imperfetto e rudimentale e solo la persona viva potrebbe assolvere questo ruolo in modo pieno. Eppure anche qui può scaturire qualcosa che ha della relazione:
Con tutto ciò l’albero rimane per me un oggetto, un oggetto nello spazio e nel tempo, con il suo modo e le sue caratteristiche.
Tuttavia, per volere e per grazia insieme, può anche accadere che, osservando l’albero, io venga coinvolto nella relazione con lui, e allora l’albero non è più un esso. La forza dell’esclusività mi ha afferrato. Per questo non è necessario che io rinunci a uno qualsiasi dei miei modi di osservazione. Non c’è nulla che dovrei trascurare di vedere, per vedere, e nessun sapere che dovrei dimenticare. Anzi, è tutto lì insieme, immagine e movimento, specie ed esemplare, legge e numero, inscindibilmente unito. Tutto ciò che appartiene all’albero è lì insieme, la sua forma e la sua meccanica, i suoi colori e la sua chimica, il suo discorrere con gli elementi e il suo discorrere con gli astri, e tutto in una totalità. L’albero non è un’impressione, non è un gioco della mia immaginazione, non è uno stato d’animo, ma è un corpo vivo davanti a me e ha a che fare con me, come io con lui, solo in un modo diverso. Non si cerchi di svigorire il significato della relazione: relazione è reciprocità.21
Dopo aver colto la necessaria interpersonalità del linguaggio e quindi del dialogo, dobbiamo ora mettere in evidenza e trarre tutte le conseguenze dell’altra dimensione che del dialogo fa strutturalmente parte e cioè la sua dimensione linguistica e quindi il suo riferirsi all’interpretazione come atteggiamento necessario all’interno di esso.
Cosa vuol dire che il dialogo ha una dimensione essenzialmente interpretativa?
Vuol dire che la sua verità non è mai limitabile in maniera rigida a ciò di cui direttamente si parla ma che in esso è sempre evocato un orizzonte entro il quale la singola realtà si colloca e diventa comprensibile. Ci rifacciamo ancora una volta a Ott:
Ciò che la parola e soltanto la parola può fare, e che non può essere ridotto alla sua funzione significante, è questo: la parola dice la verità. Ma cosa significa dire la verità? In primo luogo manifestamente questo: cogliere la realtà nella parola. Ma ciò non significa soltanto dire le cose come stanno (secondo la definizione tradizionale di verità come adaequatio); la verità è ciò che rende vero l’uomo stesso e dunque lo rende libero. Soltanto la parola può liberare l’uomo e donargli futuro e libertà. E proprio questo potere della parola rimane inesplicato se si parte dalla sua funzione di significare. La parola dona all’uomo lo spazio per esistere; gli dà libertà e futuro: uno spazio, una libertà, un futuro, che egli non può prendersi, procurarsi, organizzarsi da sé, ma che appunto può soltanto essergli assegnata.22
In un’espressione semplice ed evocativa, Ott dice che la parola, il linguaggio istituisce il mondo, evidentemente non nel senso della totalità degli oggetti materiali (questo è più un ambito da svilupparsi in un’ottica strettamente biblico-teologica parlando della creazione divina attraverso la parola) quanto piuttosto nel senso dell’orizzonte della comprensione e dunque dell’essere in quanto oggetto di conoscenza. Ma anche se le cose sussistono indipendentemente da questo orizzonte istituito dalla parola ugualmente esse non possono essere concepite come indipendenti da esso, almeno quaod nos. Dice ancora Ott:
In questo concetto dell’intimità di mondo e cose, un intimità nella dif-ferenza -riecheggia qui l’idea heideggeriana della differenza ontologica tra essere ed essente- è contenuta la scoperta decisiva della struttura ermeneutica del linguaggio: è l’essenza del linguaggio che produce l’uno e l’altro: cose e mondo, cioè l’essente e l’orizzonte entro il quale questo essente si rivolge agli uomini col suo peso di significato, l’orizzonte entro i quale si può parlare dell’essente e dal quale esso appare. Il linguaggio produce ambedue: non nel senso della produzione tecnica. Esso li fa comparire per quel che sono: le cose come cose, il mondo come mondo, l’essente come essente e l’orizzonte dell’essente come tale. L’uomo che parla non è prima di tutto un produttore — un padrone che dispone delle proprie capacità — ma un recettore: è quanto Heidegger vuol dire con la nota espressione: «Il linguaggio parla».
Questo fenomeno appartiene senza dubbio alla struttura del linguaggio: l’uomo quando parla è recettivo; non come se il linguaggio esistesse prima dell’uomo, come un qualcosa che sussiste in sé e per sé; ma nel senso che neppure l’uomo esiste prima del linguaggio, e ne è invece determinato interamente nel suo essere.23
Queste parole in cui forte è l’influenza heideggeriana, ci mostrano come il linguaggio non sia semplicemente lo strumento con cui indichiamo qualcosa e scambiamo informazioni ma piuttosto come esso sia l’orizzonte imprescindibile dell’esistenza umana al punto che non c’è niente che sia umano che non sia per ciò stesso evento linguistico.
A questo punto, invece che provare a mostrare quanto il dialogo sia strutturalmente operazione ermeneutica in quanto operazione linguistica, vorrei piuttosto mostrare come l’operazione ermeneutica sia operazione essenzialmente dialogica e come dunque, in virtù anche di quanto abbiamo detto più sopra il linguaggio, imprescindibile orizzonte della conoscenza, sia dialogicità che si dispiega nella relazione che, implicitamente od esplicitamente, è sempre evento interpersonale.
La filosofia dell’interpretazione o filosofia ermeneutica è sicuramente, fra le correnti di pensiero del ’900, quella che, insieme ed in stretta collaborazione con le varie filosofie del linguaggio, è stata maggiormente elaborata ed è diventata, più che pura e semplice corrente filosofica per quanto diffusa e condivisa, vera e propria forma mentis, autentico approccio al mondo e all’uomo concepiti rispettivamente come orizzonte in cui l’interpretazione si dispiega e come essere la cui essenza è propriamente l’interpretare.
Quando affrontiamo l’ermeneutica nel suo costituirsi come forma di pensiero non possiamo fare a meno di rintracciare le sue radici nel suo essere scienza dell’interpretazione del testo, soprattutto sacro e giuridico, e quindi del suo aver a che fare con la parola scritta. Sembra quindi di essere lontani dalla vitalità del dialogo fra persone che interagiscono in una vivente dinamica di domandare e rispondere in cui l’apporto di ciascuno è essenziale e produce novità nell’altro; sembra più pratica necessaria all’intendere qualcosa che è cristallizzato una volta per tutte nel testo scritto da comprendere nel significato intenzionato dall’autore nel modo più preciso ed oggettivo possibile senza che la soggettività del lettore possa interporsi e divenire co-creatrice del significato.
Eppure accanto a questa dimensione del leggere, che costituisce senz’altro una delle radici dell’ermeneutica, ne esiste anche un’altra, altrettanto importante, e che nel dialogo trova il suo modello essenziale al punto che anche l’approccio al testo scritto è visto come un dialogo fra il lettore e l’autore, un reciproco domandare e rispondere più che come la passiva ricezione di qualcosa che è lì, immobile, da accogliere e al massimo parafrasare per garantirne la fedeltà dell’interpretazione.
Non a caso Gadamer, fra i massimi rappresentanti dell’ermeneutica del ’900, parla, nel quadro del collocarsi di fronte al testo da interpretarsi, di un dialogo che si crea fra il lettore e la tradizione di cui il testo è espressione ed è questo modello che, meglio di ogni altro, esprime la relazione ermeneutica.
In questo relazionarsi col testo si possono riscontrare quattro distinti tipi di dialogo: 1) il concreto dialogo intersoggettivo 2) il dialogo interiore dello spirito che riflette 3) il dialogo con le espressioni della tradizione 4) il dialogo come struttura esistenziale della persona umana. La visione della verità che in quest’ottica ermeneutica si realizza è proprio quella che si origina dall’intersecarsi di questi livelli, dove ognuno di essi risulta indispensabile e non può essere tralasciato.24
Non c’è dunque, seguendo la grande lezione platonica, via possibile di approccio alla verità in tutta la sua pregnanza esistenziale, che non sia quella del dialogo come luogo dove la profondità della struttura della persona umana si dispiega e si realizza nel conoscere. Il dialogo è l’heideggeriano evento della verità, non quindi un vago ed indefinito porsi in ascolto dell’Essere ma il concreto impegnarsi all’interno di strutture relazionali esplicite ed implicite in cui insieme ci si avvicina ad una verità che supera la fallacità delle opinioni personali ma che, nel loro gioco, trova il terreno fecondo dove germogliare e crescere.
È però importante notare che, poiché il dialogo è qualcosa d’ininterrotto e di mai terminato, nessuna formulazione della verità può mai ritenersi definitiva e perfettamente conclusa.
Il dialogo avviene nella storia concreta degli uomini e la verità che in esso si manifesta è sempre segnata da questa storia. Può questa sembrare una limitazione grave e che rende insoddisfacente l’ermeneutica dialogica come via alla verità, ma essa va invece compresa come un appello all’umiltà, come lo stimolo al riconoscimento che la verità è qualcosa che sempre trascende l’uomo, qualcosa che lascia tracce nella sua persona e nelle relazioni che le diverse persone intessono fra di loro. Con questo non si vuol dire che ciò che è vero oggi, sarà falso domani, oppure che ciò che è vero in un luogo, fra determinate persone cessa di esserlo in un contesto diverso, relativismo assai deprimente, ma piuttosto che la verità è punto di arrivo di un processo che non termina come non termina la vita delle persone che in dialogo fra loro e con la storia continuamente contribuiscono al cammino verso la verità e nella verità e che, quindi, questa è sempre qualcosa in cui siamo e che ci sta davanti, qualcosa che non possediamo ma che piuttosto ci possiede e ci spinge ad un inesausto percorso relazionale e dialogico in cui essa possa manifestarsi.
Questo ci riporta anche ad una dimensione morale della verità come essa è compresa nell’ermeneutica. Non si tratta solo di un orizzonte noetico quello in cui la verità si colloca ma anche di un orizzonte etico. Si deve prendere posizione per essa o contro di essa ed in questa presa di posizione si deve prendere posizione anche pro o contro quelle condizioni concrete che impediscono o favoriscono l’approdo dialogico alla verità in un richiamarsi reciproco di verità e giustizia. .25
4. La fusione di queste due prospettive come strada per la comprensione del dialogo come autentica forma di conoscenza
Abbiamo visto come il dialogo sia filosoficamente interpretabile attraverso le categorie dell’interpersonalità e dell’interpretazione. Proviamo adesso a delineare una visione d’insieme, in cui queste due categorie si compongano per darci il valore del dialogo come forma di conoscenza per eccellenza laddove la verità sia concepita come persona.
Ci rifacciamo qui alla lezione filosofica di Luigi Pareyson, il cui percorso teoretico attraversando i territori della filosofia esistenzialistica è approdato ad un personalismo ontologico che gli ha consentito una lettura personale e stimolantissima dell’ermeneutica.
Nella sua opera che maggiormente affronta i temi della verità e dell’ermeneutica, egli fa un’affermazione che nella sua perentorietà ci domanda una riflessione attenta per svolgerne tutte le implicazioni importanti nell’ordine di dare un senso alla nostra attuale ricerca:
La verità non è cosa che l’uomo inventi o produca, o che si possa in generale produrre o inventare: la verità bisogna lasciarla essere, non pretendere d’inventarla; e se la persona si fa organo della sua rivelazione è soprattutto per riuscire ad essere sede del suo avvento.26
Di fronte a questa affermazione che la persona è organo della verità e sede del suo avvento, noi ci poniamo due domande: la prima è riguardo al fondamento ontologico di questa possibilità che la persona umana sia il luogo dell’avvento del vero e cioè, che cosa rende la persona «organo della verità». La seconda domanda è più di tipo pratico, e cioè quali operazioni tipiche della persona e quali condizioni concrete dispiegano in misura maggiore questa possibilità.
Per rispondere alla prima domanda ci dobbiamo rifare a quello che Pareyson stesso definisce personalismo ontologico, per distinguerlo da quello di marca comunitaria o spiritualistica tipico del pensiero francese degli anni ’30 e ’40, come per esempio in Mounier e Marcel.
Attraverso questo concetto, con cui, come abbiamo detto più sopra, cerca di correggere il pensiero esistenzialista, di cui egli è comunque fortemente debitore, dalle sue derive di volta in volta individualistiche e finitistiche, cercando di comporre la singolarità della persona umana con la sua apertura all’alterità sia in senso trascendentale che in senso sociale. La persona in questo quadro diventa il luogo di manifestazione e di composizione di numerose tensioni, fra cui quella che tutte le riassume e che designa la persona stessa nel suo essere e cioè la coincidenza dialettica tra auto- ed etero-relazione. Questa tensione è solo la somma di tutta una serie di altre coincidenze dialettiche che caratterizzano la persona nel suo essere in sé e nel mondo.
Fra queste possiamo ricordare quella fra singolarità e universalità. La persona è una singolarità perché essa è irriducibile ad un ordine superiore che l’assorba e la riassuma, totalità che non ha bisogno di un’altra totalità che le doni valore e significato. La persona non è predicabile di nient’altro che di se stessa e non può quindi essere ricondotta ad un genere prossimo di cui essa sia concretizzazione individuale. In questo senso, il concetto di individuo non solo è insufficiente ma risulta addirittura pericoloso se si tenta di utilizzarlo per definire la persona.
Allo stesso tempo la sola singolarità è insufficiente perché, estremizzandone le conseguenze, si giunge ad isolare la persona in sé stessa. La persona ha anche una caratteristica di universalità che le consente di essere riconosciuta universalmente come valida. È questa acquisizione che Pareyson riprende dall’idealismo in cui era cresciuto al tempo della sua formazione. Queste due affermazioni poste accanto invece che contrapposte restituiscono un ritratto della persona autentico e completo.27
Ma ancora un’altra tensione merita di essere considerata per cogliere tutta la portata della definizione di persona data Pareyson ed è questa la contrapposizione tra la libertà di cui la persona gode nella sua possibilità di autederminarsi e la situazione concreta che condiziona la persona, o come in altri termini lo stesso Pareyson, la definisca la tensione fra attività e passività.
Sembra, a un primissimo sguardo, che fra libertà e situazione sussista una vera e propria contrapposizione: da un lato la nostra attività, che dipende da noi, e dall’altro il nostro luogo nello spazio e nel tempo, che non dipende da noi. […] Ma è un principio generale dell’esistenza che nell’uomo non c’è passività che non si risolva in attività; il che fa sì che situazione e libertà appaiano come termini impegnati in una dialettica di passività e attività facilmente riconducibile all’autorelazione della persona. Infatti la situazione è pur sempre situazione umana, cioè già qualificata dall’iniziativa che vi lavora, e inseparabile dalla reazione personale della libertà; e la libertà è pur sempre libertà concreta dell’uomo, cioè libertà incarnata, che prende corpo nella situazione facendone l’esistenza della persona, e in essa operando in vista di fini e secondo leggi; e in questo loro indissolubile rapporto situazione e libertà trovano la loro mutua qualificazione, conformemente al principio suddetto che nell’uomo non c’è passività che non si risolva in attività.28
Ma, come qui si afferma, questa dialettica fra attività e passività non esce ancora dal quadro dell’auto-relazione. La situazione possiede però la chiave per aprire questa porta, altrimenti chiusa ermeneuticamente, in quanto essa è anche relazione con l’altro che spinge, per chi sappia coglierla come occasione e non solo come mortificante costrizione, ad uscire dal ristretto cerchio della relazione con sé per arrivare all’apertura al più vasto orizzonte dell’etero-relazione.
Fin qui il discorso sulla costituzione ontologica della persona, ma in che modo ciò che abbiamo appena detto rende la persona capax veritatis e cioè quell’organo della verità, quella sede adatta al suo avvento?
Proviamo a sondare il pensiero di Pareyson sulla verità per vedere le possibili consonanze fra questa e la persona.
Contestando ogni concezione rinunciataria della filosofia che abdichi al suo essere un tendere alla verità, Pareyson, cerca di conciliare questo bisogno tipico dell’uomo, che solo rende la filosofia degna di essere esercitata, con ciò che la filosofia moderna ha apportato in consapevolezza critica riguardo alla precisa collocazione storica del pensiero umano con tutto ciò che essa comporta.
Ora, la ricerca filosofica è costituita appunto da questi due elementi: è al tempo stesso tendere alla verità e rispondere a problemi storici. La situazione dell’uomo consiste nel fatto che non si può tendere alla verità senza rispondere a problemi storici, né si può voler rispondere a problemi storici senza con ciò tendere alla verità […] Se la ricerca è tendere alla verità per rimanere soddisfatta, lo è in quanto programma di rispondere a problemi storici; e se la ricerca è programma di rispondere a problemi storici, lo è in quanto tendere alla verità per rimanere soddisfatta. Le due cose non sono affatto incompatibili, ma, anzi, l’una è condizione dell’altra.29
Qual è dunque la possibile via d’uscita a questa tensione apparentemente inconciliabile? Pareyson la trova in un porre il problema della verità non più in sé, ma, con un approccio che si richiama all’esistenzialismo, nell’orizzonte di colui che è il concreto ricercatore della verità e cioè l’uomo, persona storicamente condizionata che la ricerca, rispondendo a dei problemi storicamente condizionati. La verità non è più, dunque, un’affermazione assoluta, ma piuttosto la concreta risposta a concreti problemi ed il tutto posto da concrete persone. All’interno del quadro a cui la risposta si riferisce essa è assolutamente vera perché non esistono molteplici risposte allo stesso problema allorché esso sia posto esattamente nelle stesse condizioni, ma essendo legata a questo contesto essa non può pretendere validità universale e cioè applicarsi ad ogni caso senza considerare le differenze.
L’unità, immutabilità della verità non viene pregiudicata dalla sua storicità e relatività al determinato problema storico. Si tratta del valore di verità, della risposta vera data a un problema storico. La verità e la necessità logica di un pensiero filosofico non si possono riconoscere se non tenendo conto della sua storicità. Voler separare la verità di una filosofia dalla condizione storica di essa significa trovarsi a mani vuote perché per l’uomo la verità è valore di verità: verità dell’unica soluzione necessaria a quel problema storico. […] Ciò che esiste sono i molteplici veri ciascuno dei quali è insignito di validità assoluta benché singola, immutabile benché limitata. Né d’altra parte si dovrà dire che la validità di una soluzione è circoscritta al problema storico che essa risolve, perché proprio in quanto essa risolve il problema, lo oltrepassa e vale per sempre.30
Risulta abbastanza chiaro come le tensioni che abbiamo visto essere costitutive dell’essere della persona, siano anche, in altra veste, presenti all’interno del discorso sulla verità e non potrebbe essere altrimenti perché, come abbiamo detto sopra non ci si può porre il problema della verità a prescindere da colui che la verità conosce. Altrimenti si dovrebbe mettersi dal punto di vista di Dio per avere su di essa un punto di vista assoluto e valido sempre comunque ma il filosofo che volesse far questo è definito da Pareyson un mistificatore perché si proporrebbe un compito del tutto impossibile.
È in quest’ottica che il reciproco richiamo fra persona e verità risalta in modo chiaro ed è lo stesso Pareyson che ne trae la conclusione dicendo che, se il finito deve essere la porta d’accesso alla verità esso deve essere considerato
insufficiente ma non negativo, positivo ma non sufficiente, cioè come persona.31
Il problema della verità non è quindi più, in questo quadro, problema meramente gnoseologico ma diventa problema metafisico perché è solo all’interno di quadro di affermazione dell’essere si può collocare il problema del rapporto fra esso ed il pensiero e quindi il problema della verità.
Ma l’essere è anch’esso affermabile solo dall’essere che ricerca il senso di questo essere per cui ogni affermazione dell’essere non può essere che personale e in questo senso storicamente collocata.
Non posso affermare l’essere se non affermandomi in quanto sono, né affermarmi in quanto sono se non affermando l’essere. Essere, per me, cioè ch’io sia, significa essere prospettiva sull’essere: donde l’inoggettivabilità dell’essere rispetto a me.32
È questo termine «prospettiva» che diventa la chiave per cogliere il legame tra la verità e la persona. In quanto persona concreta, io sono prospettiva sull’essere ed è a partire da questa prospettiva che io conosco la verità ed è in questa determinata prospettiva che posso coglierla.
Ed allora si ritorna a quanto detto sopra sulla situazione come luogo dove si esplicita l’eterorelazione. Essa è non solo questo ma anche prospettiva sull’essere e sulla verità:
Ma il dato situativo non si irrigidisce in destino se la situazione, in ciò che essa non dipende da noi, acquista il carattere di un appello alla nostra libertà […] ed essa possiede realmente tale carattere perché è relazione con altro, e lo rivela a chi sa attraverso ad essa recuperare il proprio originario rapporto con l’essere. Inoltre la situazione è ciò per cui ogni persona è una prospettiva vivente sulla verità, sì che la conoscenza della verità non è un problema gnoseologico ma un problema metafisico; è ciò per cui la verità è inoggettivabile, e accessibile solo all’interno di un insostituibile rapporto personale.33
E questa prospettiva si esprime nell’interpretazione che è definita da Pareyson come «conoscenza di forme da parte di persone», dove le prime chiamano ad essere interpretate e solo le seconde sono all’altezza di questa chiamata. E la forma rende possibile una molteplicità, addirittura un’infinità di interpretazioni possibili e nessuna di queste singolarmente presa può esaurirne tutte le possibilità.
Questa tensione creativa fra universalità singolarità della persona, fra personalità dell’accesso alla verità e assolutezza di questa, la ritroviamo nella conoscenza che è possibile avere degli altri. Infatti, nel conoscere gli altri si deve tener conto del fatto che c’è un’umanità comune, un «universale» che lega tutti gli uomini ma che ognuno, nella singolarità del suo essere persona rappresenta un’incarnazione di questo universale che è diversa da quella di chiunque altro.
In questo senso è interessante notare come, per Pareyson, la conoscenza degli altri è concepibile solo come interpretazione perché essa è possibile in base all’universale che unisci tutte le persone ma, allo stesso tempo riguarda le differenze personali. Ed è questa interpretazione un tipo di conoscenza dove soggetto ed oggetto sono singoli e dove l’oggetto si rivela solo nella misura in cui anche il soggetto si esprime.34
Possiamo a questo punto tirare una provvisoria somma della ricognizione del pensiero di Pareyson fatta finora.
La conoscenza è atto eminentemente personale perché le medesime tensioni abbracciano e la persona e la verità in quanto questa può essere colta solo come affermazione personale, cioè compiuta da un persona, dell’essere che si vuol cogliere con il pensiero. La conoscenza è interpretazione e questa caratteristica risalta in modo particolare quando essa si esercita sugli altri.
Ci resta ora da rispondere compiutamente alla seconda domanda che ci eravamo posti, e cioè, capite le ragioni per cui è la persona l’organo per eccellenza della carità, quali siano le operazione della persona per cui questa funzione è maggiormente espressa e a quali condizioni.
Abbiamo concluso dicendo che l’operazione dell’interpretare è quella che caratterizza il conoscere da parte della persona, in modo ancora più forte quando questa conoscenza si porta su altre persone, ed abbiamo anche sommariamente spiegato cosa, per Pareyson, s’intenda con il termine interpretazione ma cos’è l’interpretazione in senso più concreto ed come essa si operi da parte della persona è qualcosa che non abbiamo ancora sufficientemente sviluppato.
Più sopra abbiamo, detto sulla scorta di Pareyson, che interpretazione è conoscenza di forme da parte di persone e che solo la persona è capace di interpretare. Deve esserci dunque qualcosa della persona che la rende capace in modo particolare, di avvicinarsi alla forma per compiere quell’operazione di interpretazione che è l’unica che sa cogliere la verità in essa racchiusa.
Domandiamoci prima di tutto in cosa consiste la forma per arrivare a cogliere come essa si collega alla persona in modo così specifico.
La forma dice Pareyson, è nesso inseparabile di invenzione e produzione, è qualcosa che, mentre si fa, inventa il proprio modo di fare. È quindi qualcosa che ha ben poco a che fare con la mera pòiesis tecnica, laddove si riproduce all’infinito un modello dato. Si potrebbe qui richiamare il discorso heideggeriano sul rapporto tra essere, ente e tecnica ma ci porterebbe lontano. Quello che qui importa particolarmente è cogliere come la formativa, il dare forma e quindi l’oggetto all’interpretazione è qualcosa che non è dato in un momento unico ma è la conclusione di un processo, di un movimento. È proprio per questo suo essere movimento che essa può essere colta da un altro movimento, da un conoscere processuale che è precisamente quello che si dà nell’interpretazione.
Una prima caratteristica che dobbiamo notare dell’interpretazione è proprio questa progressività che penetra a poco a poco nella forma, permettendole di disvelarsi.
Ma da una parte e dall’altra è all’opera un’infinità: dalla parte della forma l’infinità dell’essere che si rivela attraverso la forma, dalla parte dell’interpretante, l’infinità di punti di vista in cui la forma può essere colta. L’interpretazione è quindi un processo riuscito quando c’è una sintonia fra la forma che si dà in uno dei suoi infiniti aspetti e dall’altra l’interpretante che coglie questa totalità all’interno di uno dei suoi infiniti punti di vista possibili: è quindi una questione di congenialità, di connaturalità fra forma interpretata e persona che interpreta. Non è azzardato a questo punto dire che il grado più alto di questa connaturalità lo si può raggiungere quando e da un lato e dall’altro della relazione d’interpretazione troviamo due realtà personali. Ma attenzione, se è più alto il grado di possibile congenialità, è altrettanto alto il rischio che questa non si crei ed il rapporto fallisca. Come sempre, laddove la situazione riserva il massimo possibile di realizzazione, è altrettanto alto il rischio di fallimento.
Ancora una caratteristica che si deve tenere presente è che l’interpretazione è la conoscenza dove massimamente si coniugano pensiero rivelativo e cioè il pensiero che sa cogliere l’essere e pensiero espressivo e cioè il pensiero che esprime la situazione storica in cui esso è collocato. Non si dà conoscenza della verità se non in quanto si attinge all’essere, lasciando essere la verità che si offre, ma questo non può essere fatto che da una persona, che quindi vive, come abbiamo detto sopra, una situazione precisa che, lungi dall’essere solo condizionamento è piuttosto occasione e luogo in cui si può cogliere l’essere nella sua verità assoluta.
Conseguenza diretta di questo è che l’oggetto (ma diremmo più volentieri, facendo un passo più in là con Apel, il co-soggetto) si rivela tanto più quanto il soggetto si esprime e la conoscenza è il risultato di un movimento reciproco dell’uno verso l’altro, quella congenialità detta sopra.
Ma allora, e siamo ad un passo decisivo del pensiero di Pareyson, qual è l’atteggiamento che sta alla base del pensiero rivelativo, cosa vuol dire questo lasciar essere la verità?
Nella critica che egli fa al pensiero ideologico ritenuto pensiero solo espressivo, incapace di lasciar essere la verità e quindi di aprirsi all’essere, egli scrive:
Il dialogo è reso possibile da quel vincolo originario di persona e verità che sta alla base del pensiero rivelativo e ontologico, e che rende indivisibile e solidale il rispetto che si deve alla persona e il rispetto che si deve alla verità, dal momento che questi due termini cominciano essi stessi col rispettarsi a vicenda, la persona facendo consistere la propria dignità ed il proprio compito nel farsi ascoltatrice della verità, e la verità nel non concedersi se non alla libertà e all’interpretazione, che di per sé sono sempre personali.35
e ancora:
La persona infatti è costituita dal rapporto con l’essere, rapporto che è essenzialmente ascolto, sia pure attivo e rivelativo, della verità: solo la verità sovrasta la persona senza opprimerla, perché anzi non si concede se non a un atto consapevole di libertà.36
Credo che questa dialogia,37 perché non mi sembra che sia altrimenti definibile, del rapporto fra l’interpretante e l’essere che si dà nella forma sia proprio l’atteggiamento che deve caratterizzare l’interpretazione. L’ascolto dell’essere, un ascolto attivo ne è alla base e la conoscenza interpretativa ne è il frutto. Ma allora, torno a chiedermi, questo non si rende massimamente possibile laddove entrambe le parti in causa sono persone e non è la relazione interpersonale il luogo dove si coniugano rivelatività ed espressività?
Ed è lo stesso Pareyson che afferma come la crescita nella socialità sia causa e frutto di una matura capacità interpretativa:
Per quanto riguarda la società, il carattere evidentemente interpretativo della conoscenza interpersonale conferma che la personalizzazione è elemento essenziale e costitutivo della società: entrare in società significa entrare come persona in rapporto con persone, cioè non rinunciare a sé, ma sviluppare in sé quella congenialità che ci permette di comprendere gli altri e farci simili a loro, contribuendo così a istituire la società come colloquio e affinità.38
Dunque che un’affinata capacità di ascolto ed una matura disposizione alle relazioni interpersonali diventano base indispensabile ad una capacità interpretativa che non sia solo tecnicismo ermeneutico ma via d’accesso all’Essere, e perfino alla Persona che si rivela laddove si dialoga autenticamente con le altre persone. Questa constatazione credo che ci apra un’ulteriore prospettiva di riflessione sulla dimensione politica del dialogo.
5. Il dialogo come prospettiva politica
L’ampliamento delle prospettive di ciascun gruppo culturale legato alla disponibilità di mezzi di comunicazione rapidi e ramificati, i contatti diretti fra persone che appartengono a popoli diversi, contatto non più riservato alla ristretta categoria dei «nomadi» e degli «avventurieri» ritrovabile in ogni società ma che oggi è concreto per tutti, apre uno scenario dai chiaroscuri molto accentuati: possibilità inusitate di una nuova sintesi culturale per chi si avventura sul terreno della convivenza fra le differenti culture e pericoli pesantissimi di conflitti, di «scontri di civiltà», per chi è attento a difendere i radicamenti identitari di ciascun gruppo.
Mai come oggi il dialogo è necessario e difficile al tempo stesso perché, anche se questo ultimamente viene meno portato all’attenzione dell’opinione pubblica, la possibilità tecnica di una distruzione totale del pianeta non è cessata con la fine della guerra fredda e i conflitti a base identitaria (identità etnica, culturale, religiosa) sono anche più feroci, come le guerre dagli anni ’90 in poi ci hanno fatto chiaramente vedere, di quelli a base ideologica a cui il XX secolo ci aveva abituato.
È per questo che la riflessione sul dialogo, lungi dall’essere una questione accademica, assume oggi un’urgenza dai profondi significati politici.
Chi ha provato a trarre le conseguenze più rilevanti sotto questo aspetto dalla dinamica dei processi comunicativi sono senz’altro Jürgen Habermas e Karl Apel e. sviluppando le loro riflessioni, in Italia, Roberto Mancini.
L’etica dialogica sviluppata dai due pensatori tedeschi parte da quella che per loro è un’evidenza e cioè che non c’è ragione che non sia allo stesso tempo comunicazione e quindi dall’impossibilità di una razionalità solipsistica.39 Questo è vero non solo al livello della relazione interpersonale ma, evidentemente, ancora di più ai diversi livelli della convivenza politica. C’è quindi una strutturale «politicità» della ragione, per riprendere le classiche definizioni di Aristotele, potremmo dire che l’animale dotato di ragione e l’animale politico si implicano mutuamente.
Mancini fa un’ulteriore passo in avanti quando dice che l’etica della comunicazione è strutturalmente «ecumenica». Egli fa discendere questa conseguenza dal porsi dell’etica comunicativa come etica post-convenzionale40 in quanto una morale convenzionale, proprio perché legata, nelle sue motivazioni, all’ambiente in cui l’agente si muove, non riesce mai a liberarsi completamente dalla logica binaria amico-nemico, radice della violenza.
Il principio di universalizzazione che sta alla base della sistematizzazione di Habermas e Apel che prescrive come le uniche norme accettabili siano quelle le cui conseguenze possano essere accettate da tutti gli interlocutori che partecipino alla comunità ideale della comunicazione che è quella composta da tutti coloro che sono toccati da queste conseguenze, proprio per questa sua intrinseca universalità si pone al di là di questa logica binaria e diviene quindi naturalmente inclusiva, da qui la qualifica di «ecumenica» attribuitale da Mancini.
Questa inclusività è data dal fatto che l’etica della comunicazione è essenzialmente procedurale, non si pone cioè come portatrice di ideali valoriali che entrino in concorrenza con quelli delle singole culture e, anzi, si assume il ruolo di difesa di tutte queste particolarità nella misura in cui esse non diventano ostacolo alla possibilità dell’universalità del consenso etico raggiunto attraverso argomentazione.
Qui Mancini si pone il problema se ci si possa accontentare di questa pura proceduralità o se il fatto stesso dell’universalizzazione, almeno possibile, della comunicazione a tutti i soggetti coinvolti non sia già portatore di una certo numero di valori che vanno a formare un contenuto etico, non esaustivo ma comunque reale ed a questo problema dà senz’altro una risposta affermativa.
L’etica del dialogo non è dunque semplicemente una metodologia più o meno utile ma porta con sé un orizzonte valoriale verso cui muoversi sia a livello del singolo soggetto agente sia al livello di soggetti sociali.
A questo punto sorge spontaneo il problema sulla concreta praticabilità, al livello dell’azione politica, di questa etica sollevando ancora una volta il problema mai risolto dello spazio dell’etica all’interno della politica.
Anche Apel si domanda in che misura il principio di universalità dell’etica del discorso sia applicabile in tutte le situazioni concrete in cui questa comunità ideale della comunicazione è davvero soltanto tale per non ricadere nella critica weberiana della non applicabilità delle etiche dell’intenzione e del dovere (così come anche l’etica della comunicazione si comprende) ad ambiti che vadano al di là delle relazioni interpersonali rendendola quindi inutilizzabile sul piano politico. Apel ammette dunque la necessità di integrare un’etica della responsabilità verso la concreta situazione storica all’interno dell’edificio dell’etica comunicativa in vista di tutti quei casi in cui l’applicabilità dell’agire comunicativo invece che di quello strategico si possa rivelare, per le sue concrete conseguenze, «immorale». Questo principio di mediazione fra queste due prospettive, che permetterebbe a certe condizioni di agire in modo strategico (e quindi orientato al successo) invece che in modo orientato all’intesa, dovrebbe però essere sempre regolato dalla necessità di agire concretamente nella direzione di superare il divario esistente fra l’ideale della comunità dell’argomentazione e le reali condizioni di possibilità di argomentazione da parte dei soggetti concreti implicati nel processo comunicativo.
Un ulteriore passo, a mio giudizio assai rilevante, che Mancini fa rispetto a questa posizione già così carica di conseguenze, se presa sul serio, è la considerazione che egli fa a proposito di coloro che nella comunità storicamente concreta dell’argomentare sono esclusi, sono senza voce.
La consapevolezza che Habermas ed Apel hanno di quanto l’impostazione comunicativa dell’etica possa e debba declinarsi in un’ottica emancipatoria ma il rischio è quello che la volontà argomentativi, che è alla base della etica del discorso e le cui caratteristiche pragmatico-trascendentali forniscono le condizioni necessarie alla condotta di un’argomentazione valida, nel suo interesse verso la presa di parola e nella necessità di anticipare, sebbene nell’ambito di un onesto esperimento mentale, quella comunità ideale dell’argomentazione che raramente si dà nel concreto, possa anche involontariamente privare gli «altri» del loro diritto di parola nel contentarsi di un discorso che li rappresenta ma, paradossalmente, non li fa parlare.
Questa domanda che una priorità etica sia data all’ascolto come pratica che possa dare alla differenza di cui l’altro è portatore tutto lo spazio necessario perché la comunità argomentativa non sia fatta da tanti «me» che io riproduco sovrapponendo le mie fattezze ai volti altrui:
Con l’impegno ad anticipare mentalmente una comunità ideale della comunicazione, dev’essere considerato anche quello a mettersi deliberatamente nella condizione di ascoltare quegli interlocutori che rischiano di essere esclusi per motivi socio-economici, ideologici, etnici, ecc. In questo modo il valore della coappartenenza di condizione esistenziale non è più deformabile nel senso della somiglianza dell’altro a me così come è percepita nell’ottica convenzionale. Tramite l’ascolto posso capire l’altro senza omologarlo ai miei orientamenti: l’impegno a riconoscere la comune dignità si concretizza nel momento stesso in cui mi apro alla rivelazione della sua differenza.41
In un agone politico dove tutti urlano questa utopia dell’ascolto, se concretamente praticata a partire dai livelli più semplici della convivenza, su su, fino a quelli più elevati potrebbe veramente rendere il dialogo un programma politico dagli effetti benefici a tutti i livelli della convivenza sociale e dell’azione politica.
Questo però, come ogni programma etico e politico davvero impegnativo, richiede, per costruire una ragione davvero comunicativa, un’ascesi dura ma necessaria, quella che Jürgen Habermas descrive in maniera tanto sintetica quanto efficace:
La ragione comunicativa si esprime in una concezione decentrata del mondo.42
-
D. Silvestri, Basi per un epistemologia personalistica (31 gennaio 2003); Idem, La testimonianza (30 ottobre 2003). ↩︎
-
K.-O. Apel, Etica della comunicazione, Jaca Book, Milano 1992, pp26-28 passim. ↩︎
-
I. Kant, Critica del Giudizio, §40 (trad. A. Gargiulo). ↩︎
-
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 1991, p. 323. ↩︎
-
J. Habermas, Ibidem, p. 301. ↩︎
-
M. Buber, Il problema dell’uomo, Patron, Bologna 1972, 205-209 passim. ↩︎
-
W. von Humboldt, Über den Dualis, citato in M. Buber, Dialogo in Il principio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 213. ↩︎
-
Gv. 4, 5-6. ↩︎
-
Gv. 4, 7. ↩︎
-
Gv. 4, 9. ↩︎
-
M. Buber, Elementi dell’interumano in Il principio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 311. ↩︎
-
Potremmo qui riferirci anche alla caratteristica di post-convenzionalità attribuita all’etica del discorso da parte di Apel e Habermas ma ne parleremo più ampiamente alla fine di questo lavoro. ↩︎
-
Gv. 4, 10. ↩︎
-
Gv. 4, 16-19. ↩︎
-
Gv. 4, 25-26. ↩︎
-
D. Silvestri, Basi per un epistemologia personalistica cit. ↩︎
-
H. Ott, Il Dio personale, Marietti, Casale Monferrato 1983. ↩︎
-
M. Buber, Das Wort, das gesprochen wird in Werke I, p. 447, citato in H. Ott, Il Dio personale, Casale Monferrato 1983, p. 278. ↩︎
-
Usiamo qui la terminologia di Charles Taylor, Radici dell’Io, Feltrinelli, Milano 1993, p. 368. ↩︎
-
W. von Humboldt, Sul pensare e sul parlare in Scritti sul linguaggio, Napoli 1989, p. 57. ↩︎
-
M. Buber, Io e tu in Il principio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 63. ↩︎
-
H. Ott, Il Dio personale, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 272. ↩︎
-
H. Ott, Ibidem, p. 274. ↩︎
-
R. Mancini, L’ascolto come radice, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 75. ↩︎
-
G. Mura, Ermeneutica e verità, Città Nuova, Roma 1997 2 ed., p. 269. ↩︎
-
L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1982, p. 84. ↩︎
-
L. Pareyson, Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, pp. 174-181. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 231s. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 148s. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 149s. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 152. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 153. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 236. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 211. ↩︎
-
L. Pareyson, Verità e intepretazione, Mursia, Milano 1982, p. 170. ↩︎
-
L. Pareyson, Ibidem, p. 229. ↩︎
-
Per questa lettura del pensiero di Pareyson, cfr. R. Mancini, L’ascolto come radice cit. ↩︎
-
L. Pareyson, Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, pp. 221. ↩︎
-
cfr. sopra. ↩︎
-
Nella terminologia dello psicologo dello sviluppo e filosofo morale Lawrence Kohlberg, post-convenzionale è una morale che, sganciandosi completamente dai condizionamenti legati all’ambiente, sa darsi motivazioni esclusivamente a partire dai principi universali riconosciuti validi dal soggetto. ↩︎
-
R. Mancini, Comunicazione come ecumene, Brescia 1991, p. 81. Il discorso dell’ascolto è stato ampiamente sviluppato nell’opera successiva dello stesso autore L’ascolto come radice Napoli 1995. ↩︎
-
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 1991, p. 316. ↩︎