Basi per una epistemologia personalistica. Note a partire da Il Dio personale di Heinrich Ott

1. Introduzione

Un dato abbastanza indubitabile della cultura e della filosofia odierne è la crisi che il concetto di verità, su cui si è appoggiata la nostra civiltà occidentale per molti secoli, sta attraversando. Passando attraverso le relativizzazioni di questo concetto, siano esse di carattere storicistico o antropologico — culturale, fino allo svuotamento del contenuto di questo concetto operato dalla filosofia analitica, questo tema sembra apparentemente demodé, quasi indegno di far ancora il suo ingresso nei salotti buoni della discussione filosofica, come una vecchia zia ormai capace solo a raccontare storie del passato ed a scandalizzarsi di tutto quanto abbia sapore di modernità.

Un libro abbastanza recente che si propone di fare una sintesi del cammino filosofico di questa idea, può permettersi di terminare dicendo:

Così, la storia dell’idea di verità non dice molto sulla natura della verità, tranne forse che la questione non è particolarmente importante.1

Eppure questa vecchia zia è dura a morire ed ancora vuole recitare la sua parte sulla scena filosofica e le sue storie dei tempi andati continuano a suscitare discussioni e passioni come testimoniano altre opere recenti.2

Con questo articolo vorrei cominciare una riflessione che parta dal prendere sul serio, dal punto di vista filosofico, l’affermazione che Gesù fa nel vangelo di Giovanni quando di se stesso dice: «Io sono la verità».3

Quali conseguenze epistemologiche si possono trarre se la verità non è una qualità delle cose o una cosa essa stessa come nelle concezioni ontologiche della verità oppure una qualità del pensiero o del linguaggio come nelle concezioni logiche in tutte le loro varietà, ma è una persona e precisamente la persona storica di Gesù di Nazaret?

È possibile ed è praticabile un’epistemologia che parta da questa affermazione biblica?

La strada che conduce ad un adeguato sviluppo di questa idea è estremamente lunga e domanda tempo e spazio ed in questo articolo semplicemente si vuole gettare alcune basi che possano servire per un ulteriore riflessione che proceda in questa direzione.

2. Categorie della relazione interpersonale

Se la verità è una persona, il rapporto che il soggetto conoscente instaurerà con essa non è più rapporto con un oggetto sia esso reale o esclusivamente esistente nel pensiero o nel linguaggio ma diviene rapporto interpersonale che richiede categorie adeguate per essere pensato e compreso.

Mentre nelle filosofia antica e medioevale le categorie di pensiero, a partire da una concezione «forte» dell’essere, erano essenzialmente delle categorie di tipo sostanzialistico ed in quella contemporanea, dove «l’essere di cui si può parlare è il linguaggio»,4 sono categorie di tipo analitico e logico, un’epistemologia personalistica richiede delle categorie che siano adeguate alla persona o meglio alle persone implicate nel processo conoscitivo.

Il passo che ci s’impone, quindi, è quello di evidenziare quali categorie siano essenziali ad una relazione interpersonale per provare poi a rileggere, attraverso di esse, la relazione della conoscenza.

Non è infatti possibile inquadrare la conoscenza della persona come qualcosa che sia riconducibile alla conoscenza delle cose e lo stesso schema soggetto — oggetto risulta un impoverimento estremo quando questo «oggetto» non sia un tavolo od una roccia ma un altro soggetto cosciente.

Il tentativo di oggettivare, di cosificare un’altra persona per conoscerla non potrà che snaturare il valore di questa conoscenza perché di essa sfuggirà al conoscente la sua essenza più intima e cioè precisamente il suo essere personale.

In questo senso le scienze cosiddette umane non possono avere gli stessi paradigmi epistemologici delle scienze che si rivolgono principalmente a ciò che non ha coscienza;5 allo stesso tempo però anche la conoscenza tipica dello spiegare causale non può essere «compresa» in modo totalmente disgiunto da quella che si rivolge alla persona perché, come l’epistemologia più avvertita ha ormai chiarito, non c’è conoscenza che sia separabile da chi conosce e quindi una dimensione personale è sempre presente in ogni processo conoscitivo.6 Una dimensione personale, questa, da non concepirsi esclusivamente come un «rumore di fondo» da filtrare, ma come destinazione della conoscenza che è di persone e per persone: come vedremo più oltre, infatti, se si trascura questa dimensione personale si compromette tutto il processo e tutto il senso del conoscere stesso.

Per questo parto dall’interessante opera del teologo svizzero Heinrich Ott che, nel suo libro Il Dio personale7 ha provato ad elaborare, soprattutto in dialogo con Martin Buber e con Martin Heidegger, alcune categorie che aiutino a pensare la persona liberandosi dalle pastoie del pensiero sostanzialistico di cui sono impregnate la filosofia e la teologia occidentali.

Anch’egli si inserisce nel dibattito relativo a ciò che definisce la persona nel suo essere e trova che il pensiero basato sul concetto di sostanza, che produce una filosofia della persona sbilanciata sull’individualità, è incapace di attingere il cuore della realtà personale.

È solo un pensiero che rifletta sulla persona a partire dal dato di fatto assolutamente non aggirabile dell’interpersonalità, che riesce a cogliere qualcosa di questa realtà così complessa e così difficile.

È quindi dalla relazione interpersonale che egli parte per pensare la persona e delineare delle categorie di pensiero che permettano una comprensione di essa più profonda, ferma restando la difficoltà di catturarla in un concetto o in un’idea unica.

Egli distingue tre categorie essenziali della relazione interpersonale e due concetti che, pur non essendo categorie di pensiero personalistiche in senso stretto (è infatti possibile pensarle ed applicarle anche in un quadro non personalistico) costituiscono il necessario «orizzonte in cui esiste l’essere personale, in cui realmente si muove e si realizza».8

Le categorie sono la reciprocità, la pericoresi e la prossimità. I concetti sono il senso ed il tempo.

Proveremo ad esaminarli notando di volta in volta quanto in essi possa riguardare il nostro tentativo di delineare un’epistemologia a base personalistica.

3. Conoscenza e reciprocità

Per reciprocità Ott, sulla scorta di Buber, intende che la realtà della persona è realmente comprensibile solo nel campo della relazione interpersonale.

Una persona può esistere apertamente ed essere compresa non «in sé» ma soltanto nello spazio del rapporto (nel «tra») con altre persone.9

Ciò che da Buber era definito come il «tra», è visto da Ott come ciò che distingue la persona da ogni altra cosa. Né la dignità, né l’individualità irripetibile e neppure la responsabilità morale di ciascun essere umano aiutano a comprendere la persona in quanto questi concetti sono stati differentemente compresi e valorizzati nel tempo e nello spazio delle culture umane. Solo la reciprocità dell’uomo con l’uomo è un dato che, tipico dell’uomo, rimane costante nella sua esperienza pur cambiando nei modi e nelle forme. È, come abbiamo già detto, assai forte il debito contratto con Buber di cui questo paragrafo è costellato di citazioni. Su una cosa ancora Ott mette in guardia, e cioè dal pensare la reciprocità come un ente sussistente a sua volta. Essa è come una sorta di campo di forze che ha bisogno della presenza di distinte polarità personali per venire all’essere e non è percepibile né individuabile se non laddove queste due polarità sono all’opera. Inoltre, questo campo prende forza e complessità laddove, uscendo dal ristretto campo dell’Io — Tu, si entra nell’ambito più ampio della società dove molte persone vivono ed operano interagendo fra di loro in modi continuamente variabili.

Dobbiamo ora considerare questa categoria nell’ambito che è quello a noi proprio, e cioè della relazione personale che si instaura tra l’uomo che conosce e la verità in quanto si realizza e si incarna in una realtà personale.

Credo che la prima notazione da fare sia che entrambi i poli di questo rapporto non sono completamente giunti a se stessi se non nel rapporto reciproco. Se la reciprocità è ciò che fonda la persona né la persona che conosce né la verità — persona conosciuta realizzano pienamente la loro realtà al di fuori di un rapporto conoscitivo che li metta in relazione reciproca.

In questo senso non esiste una verità che abiti in un mondo delle idee, sempre e perfettamente uguale a se stessa e che attende solo che un’anima sapiente, squarciato il velo dell’apparenza, getti uno sguardo contemplativo su di essa.

La piena realizzazione della verità è nella relazione conoscitiva e la conoscibilità, quindi la verità dell’essere, come la si intendeva nel senso della dottrina dei trascendentali, diventa il parallelo della disposizione di un essere umano ad entrare in relazione con gli altri, rimanendo solo una brutta copia di quello che potrebbe essere quando la relazione per qualche ragione non si instauri.

È evidente che qui, riferendoci per quanto riguarda l’attribuzione della caratteristica di persona alla verità non ad una persona umana qualunque ma alla persona divina del Figlio di Dio fatto uomo, ci scontriamo con un ostacolo durissimo.

Impostato così, il discorso suona, un po’ hegelianamente, come se Dio, verità fatta persona in Gesù Cristo, avesse bisogno dell’uomo che conosce questa verità per arrivare a se stesso ed al compimento della propria natura ed è evidente che non può essere così, pena trovarsi a non aver più a che fare con Dio ma con l’uomo intronizzato in cielo nella peggiore delle proiezioni religiose.

Dobbiamo qui provare ad abbozzare una riflessione che, pur non oggetto diretto della nostra ricerca, diviene indispensabile almeno tentare.

Nella comprensione che la teologia cristiana ha avuto di Dio c’è stata sempre una tensione fra due distinte fonti d’ispirazione: la prima, quella normativa, è la maniera concreta con cui Dio si è rivelato nella Scrittura e la seconda, succedanea ma non di rado perfino più decisiva della prima, la filosofia greca dell’essere come essa è stata sviluppata soprattutto da Platone e quanti da lui hanno in vario modo tratto ispirazione. I secoli decisivi per la formazione della teologia cristiana di Dio e cioè quelli dal II al VI secolo (quelli delle grandi controversie trinitarie e cristologiche) erano dominati, per l’appunto, dalla filosofia platonica che attribuiva al divino alcune categorie che i teologi cristiani di quest’epoca ed anche di quelle successive non esitarono ad attribuire al Dio della Bibbia, anche quando queste erano difficilmente conciliabili con quanto di Dio la Scrittura aveva fatto conoscere. Ci fu, è vero, una resistenza soprattutto in ambito trinitario ad un’ellenizzazione completa del messaggio cristiano quale era di fatto quella propugnata dagli ariani, ma ugualmente il compromesso fu assai costoso per l’idea cristiana di Dio.

Per dare solo un esempio di questo tributo pagato all’idea greca del divino, possiamo citare l’idea tommasiana di creazione.

Per Tommaso infatti, la creazione è una relazione fra Dio e la creatura che da Dio viene posta nell’essere attraverso la sua potenza creatrice, solo che questa relazione se è reale vista ex parte creaturae, è solo di ragione ex parte Dei per evitare che la creazione ponga in Dio un mutamento inconciliabile con l’idea greca del divino.

Quali possano essere le conseguenze di questa concezione, per altro rimarchevole dal punto di vista intellettuale, quanto alla separazione fra l’idea intellettuale dei rapporti fra Dio e l’uomo e la loro comprensione all’interno del vissuto di fede, è facile immaginarlo.

Fra queste caratteristiche tipiche del divino platonico che furono applicate al Dio cristiano c’è senz’altro quella dell’immutabilità che, di fronte ad un Dio biblico che era descritto spesso come chi prende decisioni e poi ci ritorna sopra, creò non pochi problemi esegetici ai primi interpreti cristiani che, sotto le critiche feroci dei filosofi pagani, si trovarono costretti a liquidare tutto ciò come antropomorfismi dovuti all’ingenuità dei primi destinatari dei libri biblici e, quindi, come un’accondiscendenza di Dio alla limitata capacità dell’umano comprendere.

È però accaduto che quest’idea si è così saldamente radicata nella teologia cristiana che è divenuta criterio di giudizio di molte idee teologiche e filosofiche che sono state proposte attraverso i secoli.

È evidente che non si vuole qui propugnare una teologia della pura e semplice mutabilità di Dio. Allo stesso tempo però, ritengo che la pura e semplice categoria dell’immutabilità quale la si è mutuata dalla filosofia greca non renda giustizia a quella che è invece la categoria corrispondente della Bibbia e cioè la fedeltà. Questi due concetti non sono equipollenti e la traduzione dell’uno nell’altro non può avvenire se non al prezzo di una considerevole snaturamento.

Questo snaturamento credo che sia rimediabile se ad un pensiero dell’essere come sostanza si sostituisce un pensiero dell’essere come persona. Nella teologia trinitaria, soprattutto dei padri greci, ciò che è fondante della vita trinitaria non è la sostanza divina ma la persona del Padre secondo il concetto di monarchia che caratterizza la teologia trinitaria orientale oppure, nei Padri Cappadoci l’identificazione dell’ousía con l’hypóstasis. In questo senso, fonte dell’essere di Dio e quindi anche dell’intero essere delle creature è un principio personale che è il Padre e non uno impersonale quale sarebbe la sostanza o la natura divina.

Se accogliamo questa suggestione teologica, diventa assai più semplice, nel quadro della ricchezza di una vita personale, capire come l’immutabilità sia qualcosa di incompatibile con questa vita e come si debba fare lo sforzo teoretico di pensare, sulla scorta della rivelazione biblica, Dio come persona vivente e non come essere immutabile, senza con questo renderlo solo una caricatura o un semplice essere umano, solo un po’ più potente.

Inoltre, se concepiamo Dio a partire dalla categoria di persona e non da quella di sostanza impersonale arriviamo a comprendere che la relazione, come abbiamo visto sopra, è fondante dell’essere almeno quanto lo è l’individualità sostanziale: una relazione reale fra Dio e l’uomo è essenziale per la nostra comprensione di Dio, anche perché noi non abbiamo un’idea di Dio che non sia ricavata dal modo con cui esso si rapporta con noi.

È precisamente in questo senso che possiamo cogliere la necessità del «fra» perché la verità arrivi pienamente a se stessa. Potremmo dire, parafrasando l’adagio scolastico bonum est diffusivum sui, che la verità è fatta per risplendere, diffondendosi nelle persone che la conoscono, ed è precisamente nel darsi più pieno possibile della relazione che viene dalla conoscenza che essa si realizza. Non che la verità divina non possa essere concepita senza un uomo che la conosca; tuttavia, la verità esiste per essere conosciuta ed il suo dinamismo la porta, appunto, a questo.

Un altro luogo classico della teologia cristiana della creazione è quello del motivo che Dio ha per creare, motivo che non può essere, evidentemente, una qualche indigenza in Lui che lo spinga all’atto creativo, come se Egli dovesse colmare un vuoto od un bisogno. Al contrario, la teologia cristiana ha sempre affermato che le cose sono state create per la gloria di Dio, perché in esse risplenda, in gradi diversi secondo la loro perfezione ontologica, un riflesso della gloria divina.

Applicando al nostro tema tutto ciò, non risulta difficile dire che quanto più la verità è conosciuta, tanto più essa risplende ed è glorificata.

Allo stesso modo, che questa relazione si realizzi al livello della creatura non è necessario come se questo fosse un legame che Dio si trovi imposto dall’esterno e che lo spinga a creare colui che possa essere lo strumento di questo glorificazione della verità, perché essa si è realizzata da sempre nell’ambito della vita trinitaria nella conoscenza perfetta che intercorre fra le persone divine.

Ugualmente, nella sua gratuità, questo relazionarsi è in qualche modo connaturale alla natura della verità e, questo, in modo ancora più forte se pensiamo la verità come una realtà personale. Per parafrasare il titolo di un libro di molti anni fa, questa relazione è gratuita ma non superflua.

4. Conoscenza e pericoresi

La seconda categoria di pensiero che ci aiuta a comprendere la realtà della persona e che ci aiuta anche a progredire nel nostro cammino è quella di pericoresi.

Questo termine, mutuato dalla teologia trinitaria che, come diventa sempre più chiaro, risulta essere una fonte d’ispirazione assai importante per il nostro lavoro, e da cui, d’altra parte, lo stesso concetto di persona ha preso origine, chiede di essere spiegato anche perché nella storia della teologia le accezioni con cui esso è usato differiscono.

Questo termine di origine greca è usato diversamente nelle tradizioni teologiche orientale ed occidentale. Nella prima, come pericoresi si intende una perfetta reciproca compenetrazione delle persone divine, nella tradizione occidentale, invece, si va nella direzione di una mutua inabitazione delle tre persone divine,10 pensata secondo il modello agostiniano della similitudine psicologica della Trinità, per cui questa circuminsessio è pensata secondo l’analogia della persona conosciuta ed amata che è perfettamente presente in colui che la conosce e la ama.

In che senso possiamo intendere questo termine nel campo delle relazioni personali così come è presentato da Ott?

Secondo questo autore, una relazione personale non può restare confinata all’interno di un campo particolare dell’esistenza personale, ad esclusione di tutti gli altri. In essa, coloro che entrano in relazione portano tutti loro stessi, la loro realtà personale indivisibile.

Per quanto riguarda la nostra ricerca questo ci dice come il conoscere non sia parcellizzabile ma la realtà conosciuta e il conoscente si debbano incontrare nella loro totalità.

Dal punto di vista del conosciuto, questo significa che la verità è in qualche modo un tutto che non può essere diviso. Questa riflessione ci porta ad una concezione olistica della verità, non nel senso annacquato di una certa New Age ma in un senso assai più forte.

Non voglio dire che una verità parziale non sia conoscibile se non si conosce allo stesso tempo la totalità della verità. Questo porterebbe all’assurda conclusione che solo Dio può conoscere mentre alle creature la vera conoscenza sarebbe preclusa.

Questa necessità della totalità va piuttosto nel senso della necessità di una visione totale per comprendere il senso della verità parziale. L’autonomia dei saperi parziali è un’autonomia relativa che, se assolutizzata e scissa dal senso del tutto, provoca uno squilibrio, che diventa poi errore in quanto perdita di contatto fra il particolare che è conosciuto e la realtà più complessa all’interno della quale la realtà parziale trova il proprio posto.

In questo senso sarebbe necessario ritrovare un fattore di unità fra i vari saperi che compongono la cultura del nostro tempo senza che questo significhi il tentativo di ricreare un sistema totalizzante che assorba in sé in ogni altra cosa e questo proprio perché la realtà personale che attribuiamo alla verità, si oppone a ciò. Essa non può essere padroneggiata e dominata all’interno di un concetto. Se la verità è persona, essa non può essere rinchiusa in un sistema come abbiamo già visto sopra, a partire dalla difficoltà stessa di esprimere la realtà della persona a partire da un solo principio.

Allo stesso tempo, la persona ha un’unità per quanto difficilmente riconducibile ad un solo concetto. Nella persona che mi sta di fronte, io scopro sempre cose nuove che mi possono provocare a rivedere quello che potevo aver conosciuto precedentemente di lei, eppure so che è lei, so che c’è un’unita di fondo che permane e che si realizza in modo sempre più pieno nello svolgersi della storia di questa persona e nello svolgersi della storia del mio relazionarmi a lei.

Posso ridurre una persona ad una delle sue caratteristiche o far sì che essa sia assorbita in una delle sue molteplici relazioni e pensare che, in questo modo, ho colto la persona, l’ho afferrata?

Allo stesso tempo non c’è, nella conoscenza della verità, una gerarchia dei saperi, un punto di vista che sia assolutamente superiore agli altri, ma è il concorso di tutti i speri che si relaziona alla realtà della verità nel modo più completo e soprattutto passibile di sempre ulteriori approfondimenti.

È quindi l’unità che cerchiamo più nell’ordine di una pluralità portata all’unità dalla consapevolezza di un unico oggetto conosciuto sotto diversi aspetti che non in quello di una tirannide conoscitiva dove un punto di vista si arroga il diritto di riassumere tutto in sé o di dettare le norme che tutti gli altri punti di vista devono strettamente osservare.

È facile rendersi conto come siamo ancora ben lontani dall’essere anche solo consapevoli di questo e prova ne è il fatto che in assenza di questa unità per quanto dinamica e pensionale, la conoscenza viene ricondotta alla ragione economica per cui anche il sapere diventa, in qualche modo, merce di scambio.11

Dalla parte del soggetto conoscente, la pericoresi implica che il conoscere è qualcosa che non può essere limitato ad una particolare facoltà dello spirito e neppure, a dire il vero, allo spirito, se con questo termine vogliamo indicare qualcosa che sia in qualche sorta comprensibile a prescindere dalla corporeità.

La conoscenza, nella cultura occidentale, è spesso stata attribuita ad una particolare facoltà dello spirito o ad esso nel suo complesso, ma comunque ad una parte «più nobile» della persona che rimaneva in una sorta di torre d’avorio rispetto al complesso dell’essere umano. Questa parte veniva talmente nobilitata rispetto al resto che finiva per assorbire la persona che veniva definita a partire da questa. La classica definizione dell’uomo come «animale razionale» ne è una chiara dimostrazione. La differenza specifica, cioè ciò che nella definizione logica definisce l’uomo come specie rispetto al genere prossimo che è l’animale, è la razionalità.

Questa tendenza è particolarmente forte nella filosofia che, in un modo o in un altro, si richiama a Platone.

In essa la conoscenza è affare dell’anima che sola può, attraverso un cammino ascetico che la conduca a liberarsi della «follia del corpo»,12 arrivare ad una conoscenza dell’universale e dell’immutabile, solo oggetto ritenuto degno di essere conosciuto, ed a cui il corpo, in quanto partecipa della mutabilità ed instabilità del divenire, non può avvicinarsi. Questo cammino conduce l’anima a staccarsi dal corpo attraverso un «astenersi dai piaceri, dai desideri e dai dolori».13

Un passo avanti su questa strada è stato compiuto da Cartesio che fa diventare l’anima, assimilata al Cogito, l’orizzonte in cui si inscrive il mondo che viene così rappresentato. La differenza è importante e va nella direzione di una ancor maggiore egemonia dell’anima: infatti, mentre in Platone l’anima era la facoltà unica capace di percepire le idee ritenute come la realtà vera rispetto al mondo sensibile visto come semplice ombra dell’altro, qui tutto viene incluso nell’anima che diventa il centro del mondo ed in cui il mondo è costretto a riflettersi se vuole essere conosciuto. Spodestate le idee, spodestato in pratica Dio che arriva comunque, nell’ordine logico delle certezze, dopo il Cogito, un nuovo re si è insediato sul trono del conoscere ed è, secondo lo stile dell’epoca, un monarca assoluto a cui tutti devono inchinarsi.

Che ne è del corpo e di quelle manifestazioni dello spirito che sono più immediatamente legate al corpo (le passioni) in questo cammino?

Tutta questa parte della persona umana è ovviamente messa da parte, ritenuta più un ostacolo che non un aiuto al progresso sulla strada della conoscenza. L’unica maniera di relazionarsi al corpo in quest’ottica è quella di pensarlo e cioè di ridurlo, esso stesso, ad idea. Da qui la divisione del mondo in res cogitans e res extensa con il corpo condannato a restare irrimediabilmente di là dal fossato insuperabile che divide ciò che pensa da ciò che è solo materia:

E sebbene, forse (o piuttosto certamente, come dirò subito), io abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia, poiché da un lato ho una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e inestesa, e da un altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una cosa estesa e non pensante, è certo che quest’io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di lui.14

Come si vede qui il distacco del corpo dalla mente è totale, esso non ha più niente a vedere con l’identità della persona che è quello che è solo in virtù del suo Cogito. Siamo ben lontani dall’antropologia classica che in Aristotele riconosceva il corpo come sede propria dell’anima in quanto questa costituisce la realizzazione in atto di ciò di cui il corpo è capace in potenza al punto che essa è solo in parte separabile da esso, ed in Tommaso d’Aquino addirittura riconosceva nella materia signata quantitate il principio di individuazione, riconoscendole un ruolo fondamentale nel fare di un uomo proprio quell’essere umano diverso da ogni altro.

Su questa strada si va ancora più avanti con l’idealismo inaugurato da Kant e dalla sua concezione dell’attività di pensiero che detta la legge di ciò che è conoscibile attraverso il sistema delle categorie.15

Punto finale di tutto ciò è la concezione di Hegel dove lo spirito diventa Spirito Assoluto, e cioè sciolto da tutto e da tutti, principio del reale che lo porta a concludere con la famosa frase che «tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è razionale è reale».16

Questo dualismo, sempre più spinto fino a divenire un monismo razionalistico o spiritualistico (secondo le correnti filosofiche o religiose), ha condotto ad una infausta scissione, al limite della schizofrenia, nell’ambito della conoscenza che, nonostante i vari tentativi di riflessione, è ancora oggi presente nella nostra cultura. E credo che, almeno in una certa misura, questo ricongiungimento non sia possibile se non come tensione più che come possibilità di trovare un concetto unificatore che rimetta insieme i pezzi separati. Questo perché il centro di tutto ciò e cioè la persona umana vive a sua volta una tensione che, come abbiamo visto, ne impedisce la definizione in modo «chiaro e distinto» o secondo i canoni classici attraverso un genere prossimo ed una differenza specifica.

Nel libro Psiche e Techne, Umberto Galimberti cerca di trovare un principio che permetta di superare il dualismo anima — corpo e crede di rinvenirlo nell’azione umana la quale è caratterizzata da quella carenza istintuale che gli permette, a differenza degli animali, di non limitarsi a reagire ad un mondo ma di crearsi un ambiente che sia alla misura delle sue possibilità. Resta però da vedere in che cosa l’azione umana differisca da quella animale e come la carenza istintuale invece di condannare l’uomo ad una rapida estinzione lo abbia condotto ad essere la specie dominante del pianeta.

Risulta davvero difficile capire come una mancanza possa generare qualcosa che non esisteva precedentemente e credo che, a dispetto di ciò che Galimberti dice, sia ancora più economico dal punto di vista del pensiero concepire l’uomo come avente qualcosa in più degli animali che compensi ciò che ha in meno, piuttosto che pensare il contrario e credere che da questo «meno» possa nascere la cultura, a meno di non voler rovesciare la definizione classica di uomo, definendo l’animale come un «uomo dotato di istinto».

Credo che sia assai più fecondo rimanere dentro questa tensione senza voler cedere alla tentazione della reductio ad unum, sempre molto invitante per il nostro intelletto, ma spesso causa di riduzionismi assai deleteri.

Sempre nell’ottica della ricerca di una visione totale dell’uomo come colui che entra in relazione con la verità, non si può non riflettere sul ruolo essenziale che il corpo è chiamato a svolgere in questa così come in tutte le altre relazioni interpersonali.

Con questa affermazione voglio affermare, contro ogni dualismo antropologico, a qualunque livello lo si voglia porre e sulla scorta di tanta riflessione contemporanea, come il corpo, lungi dall’essere ostacolo ad un reale conoscere, sia l’esistere dell’uomo all’interno del mondo: non si dà contatto con il mondo che non sia, direttamente o indirettamente, mediato dalla dimensione corporea.

Particolarmente interessante a questo proposito è la posizione di Merleau — Ponty il quale ribadisce l’unità della persona come totalità inserita nel mondo e protagonista, proprio in quanto totalità, del processo del conoscere:

Né lo pischico rispetto al vitale, né lo spirituale rispetto allo psichico possono venir considerati come sostanze o mondi nuovi. Il rapporto che ogni ordine ha con l’ordine superiore è quello del parziale al totale. Un uomo normale non è un corpo portatore di certi istinti autonomi unito ad una «vita psicologica» definita da taluni processi caratteristici — piacere, dolore, emozione, associazione di idee — e sormontato da uno spirito che compirebbe i propri atti su queste sovrastrutture. La realizzazione degli ordini superiori, nella misura in cui si realizza, sopprime come autonomi gli ordini inferiori e conferisce ai processi che li costituiscono un nuovo significato. È per questo che abbiamo preferito parlare di un nuovo ordine umano, anziché di un nuovo ordine psichico o spirituale.17

In questa concezione, la sensazione come punto di contatto fra il corpo ed il mondo diventa qualcosa che non può essere semplicemente tacciato di mendacità come fosse essa stessa l’incarnazione del dio malvagio di Cartesio. Piuttosto:

Tutte le scienze si pongono in un mondo completo e «reale» senza rendersi conto che l’esperienza percettiva ha un valore costitutivo nei riguardi di questo mondo. Ci troviamo dunque di fronte ad un campo di percezioni vissute anteriori al numero, alla misura, allo spazio, alla causalità, e che, però, non si offre come una visione prospettica di oggetti dotati di proprietà stabili, di un mondo e di uno spazio oggettivi. Il problema della percezione consiste nel vedere come attraverso questo campo si perviene al mondo intersoggettivo di cui la scienza a poco a poco precisa le determinazioni.18

Evidentemente data la centralità della percezione, il corpo diventa attore attivo del conoscere non come semplice «antenna» rivolta verso il mondo esterno:

Il mio corpo […] è il mio punto di vista sul mondo.19

Il corpo è il nostro mezzo generale di avere un mondo.20

In conclusione, possiamo affermare come il rapporto con la verità non sia appannaggio di una parte dell’uomo artificiosamente distinta dal resto, ma sia piuttosto affare della totalità personale così come essa si configura e cioè costituita indissolubilmente da una dimensione spirituale ed una corporea; esse vivono un’indiscutibile dialettica che ha portato a volte ad opporle, ma allo stesso tempo sono il dato fondamentale del dire «Io» che vive dell’esperienza di questa unità prima di ogni tensione e contraddizione. Prendiamo ancora a prestito le parole di Merleau — Ponty che esprimono benissimo questo punto di vista:

La verità non «abita» soltanto l’«uomo interiore» o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno a me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io non trovo un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo.21

In questo senso giova ricordare come la visione antropologica cristiana sia segnata dalla concezione della risurrezione della carne come destino finale dell’uomo e l’immortalità dell’anima, spesso posta in primo piano nella predicazione e nella controversistica, sia piuttosto solo una verità accessoria che non ha altra mira che quella di garantire la continuità dell’identità personale fra l’Io che vive su questa terra e quello che vivrà la vita eterna, garanzia che necessita di un qualche elemento di continuità che unisca i due segmenti di vita del corpo. Non mancano d’altronde tentativi di assicurare questa continuità senza far ricorso all’immortalità dell’anima, almeno pensata secondo il modo tradizionale nella cultura occidentale sentito come contrastante con la concezione biblica.22 Credo che si sia ancora lontani da un adeguato ripensamento filosofico di tutte le acquisizioni della psicologia cognitiva e della percezione e che il contesto personalistico in cui ci poniamo nel nostro discorso epistemologico sia un terreno fertile su cui far germinare questa riflessione per evidenziare ancora di più l’unità della persona nel conoscere e disporre di ulteriori elementi per comprendere la conoscenza come relazione essenzialmente personale.

Ancora, la dimensione sociale è essenziale all’uomo in quanto la persona umana è definita, allo stesso tempo, dalla sua singolarità e dalla sua relazionalità. Nella conoscenza questa dimensione sociale è coessenziale. Con questo non intendo soltanto, come spesso in modo assai povero si intende, che la conoscenza è condizionata da paradigmi culturali, convenzioni sociali, metodi scientifici che sono sempre il frutto di una comunità di qualche genere, ma che l’essere inserito dell’uomo in una società, lungi dal rappresentare solo una limitazione, è invece una possibilità in quanto, se la conoscenza è da concepirsi sul modello di una relazione personale o, meglio, se essa è davvero una relazione personale, è su un terreno ricco di tali relazioni che tale conoscenza può fiorire al meglio.

5. Conoscenza e prossimità

La terza categoria di pensiero personalistico è quella della prossimità. Con questo termine non si intende una più o meno grande vicinanza fisica, ma una qualità emotiva della relazione personale per la quale due persone possono essere «prossime» anche se si trovano ad una grande distanza fisica e non hanno l’occasione di incontrarsi durante un tempo assai lungo.

Se ciò è assai facilmente comprensibile quando lo si inquadra all’interno di una relazione fra due persone che hanno avuto, almeno per un certo periodo, una consuetudine di presenza l’una all’altra, diventa più difficilmente comprensibile come la prossimità possa essere vissuta all’interno di un rapporto di conoscenza della verità, anche pensato come relazione personale fra chi conosce e la verità che è essa stessa persona.

Proviamo dapprima ad esaminare come questa prossimità si realizzi fra le persone in una relazione ordinaria per arrivare, in un secondo tempo, a vedere come questa realtà possa essere riletta all’interno del rapporto fra conoscente e verità.

Per trovare occasione di riflessione, vorrei rifarmi a un brano di un romanzo che, credo, esemplifichi in modo sufficientemente chiaro quello che provoca una maggiore o minore prossimità fra le persone:

Acquietatosi per merito di Olga, (Gregory) poté prendere gusto alla lettura, approfittando di ogni momento libero per andare alla biblioteca municipale, dove fece amicizia con Ciro, un vecchio ascensorista. L’uomo manovrava i comandi con una mano e con l’altra reggeva il libro, tanto assorto che l’ascensore funzionava a suo piacere come una macchina sconquassata. Sollevava gli occhi solo quando arrivava Gregory, allora il suo anemico viso da profeta si illuminava per qualche istante e un lieve sorriso sostituiva il contrarsi ostile delle labbra, ma immediatamente bloccava il gesto e lo salutava con un grugnito, per mettere bene in chiaro che ciò che li univa era solo una certa affinità intellettuale. Il ragazzo arrivava di solito a metà pomeriggio, dopo la scuola, e si tratteneva solo mezz’oretta, perché doveva lavorare. Il vecchio lo aspettava per tempo e man mano che si avvicinava l’ora si sorprendeva a guardare l’orologio, sempre in guardia per dominare gli affetti non necessari, ma se non veniva era come se se ne fosse andato il sole. […] A volte, nel fine settimana, Gregory cercava la compagnia di Nora per discutere sulle sue letture, ma di giorno in giorno i loro rapporti si facevano più freddi e non godettero mai più delle conversazioni del tempo del camion zingaresco, quando lei gli raccontava gli argomenti delle opere e decifrava per lei i misteri del firmamento nelle notti stellate. Aveva ben poco in comune con la sorella e avrebbe dovuto essere proprio distratto per non percepire la sua decisa ostilità.23

È chiaro, dal brano appena citato, come la prossimità sia fondata su una qualche sintonia che si costituisce fra le persone e che costituisce la base di una vicinanza spirituale che va al di là di spazi meramente fisici. Allo stesso tempo, ugualmente, la frequentazione assidua e regolare costituisce un solido fondamento di questa prossimità.

Nel campo della conoscenza questa cosa verificata nelle relazioni personali quotidiane ha un qualche riscontro?

Direi proprio di sì, ed in effetti nella tradizione filosofica occidentale l’idea di una qualche somiglianza fra conoscente e conosciuto ha, per lungo tempo, costituito una delle costanti dell’epistemologia.

Questa somiglianza ha avuto due interpretazioni: la prima riconosceva una reale somiglianza fra la conoscenza nei suoi elementi costitutivi e l’oggetto conosciuto. La nota formula veritas est adaequatio rei et intellectus ne è l’esempio più tipico.

Ma questa interpretazione nella filosofia classica aveva conseguenze ancora più profonde al livello dei legami fra epistemologia ed antropologia.

Empedocle diceva che l’uomo conosce la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, cioè che gli elementi costitutivi dell’uomo entrano in «risonanza» con gli elementi costitutivi delle cose riconoscendoli. Al di là della spiegazione che Empedocle dà della dinamica del processo conoscitivo, importante per noi è il ritrovare questo principio che la base di un’adeguata conoscenza è data da una somiglianza profonda tra conoscente e conosciuto.

Come può allora l’uomo conoscere tutto? Questo gli richiederebbe di essere simile a tutte le cose esistenti. È infatti questa la conclusione di Aristotele che dice che l’anima è in un certo modo tutte le cose24 e che la conoscenza in atto è identica col suo oggetto,25 anche se Tommaso d’Aquino modera questa affermazione dicendo che «l’oggetto conosciuto è nel conoscente secondo la natura del conoscente stesso».26

Questa interpretazione è però, attraverso un lungo cammino in cui piano piano il soggetto conoscente ha preso il sopravvento rispetto all’oggetto conosciuto, implosa su se stessa, in quanto la somiglianza non è stata più data dall’accordo fra conoscente e conosciuto ma dall’accordo dello spirito che conosce con se stesso ed è precisamente questo accordo che assicura la somiglianza nella conoscenza.

La seconda interpretazione è la versione edulcorata della prima, in cui la somiglianza non è vista fra il pensiero e le cose in sé, in quanto queste ultime sono pensate come al di là dell’orizzonte raggiungibile dal soggetto. La somiglianza sta fra l’ordine delle idee e quello degli oggetti. È evidentemente difficile per noi immaginare come, se gli oggetti in sé sono irraggiungibili da parte del soggetto, il loro ordine in sé invece lo sia, ma tant’è!

L’ultima ricognizione che vogliamo fare prima di provare a trarre qualche conclusione su come la categoria della prossimità si possa applicare al processo conoscitivo, inteso come relazione personale, è quella nel pensiero teologico a riguardo della cosiddetta conoscenza per connaturalità.

La conoscenza che viene dalla fede infatti, non è mai stata concepita semplicemente come possesso di idee e concetti sul modello dell’erudizione profana, la quale è vista come sorgente dell’orgoglio dell’uomo che si contrappone a Dio.27 Quella che si origina dalla fede è vista piuttosto come un’esperienza viva che mette in contatto il credente con Dio che si rivela in Gesù Cristo per opera dello Spirito Santo che agisce nel cuore dell’uomo.28

Questa esperienza è vista inoltre come un trasformarsi del conoscente a somiglianza della cosa o meglio della persona conosciuta, per cui questa somiglianza, progredendo sempre più, produce una vera con naturalità,29 la divinizzazione del credente che diventa simile a Dio, non perché spontaneamente possa riprodurre in sé le caratteristiche della natura divina, ma piuttosto perché Dio stesso assimila a sé colui che è inabitato dalla sua grazia.30

Per descrivere questo processo, una delle metafore più frequentemente utilizzate dagli autori cristiani è quella dei sensi spirituali e questo a conferma del fatto che l’esperienza autentica del conoscere è sempre concepita sul modello della relazione concreta in cui la sensibilità corporea deve avere uno spazio irrinunciabile.31 Si crea così quello che viene chiamato l’organismo soprannaturale che è il complesso delle virtù e dei doni dello Spirito Santo, e già questo termine, che richiama l’idea di una specie di metabolismo altro che viene a sostituirsi gradualmente a quella naturale nell’uomo, ci richiama alla realtà di una persona nuova che nasce per opera dello Spirito che dona una vita nuova a colui che crede.32

Stimolati da tutto questo, come possiamo concepire la prossimità allorquando siamo nell’ambito epistemologico e non in quello teologico?

Credo che questa prossimità possa essere concepita come un movimento reciproco del conoscente verso il conosciuto e viceversa.

Come abbiamo detto più sopra, a partire dall’età moderna è entrata in crisi la fiducia, fino ad allora scontata, che la realtà fosse naturalmente disponibile alla conoscenza. Prima, il verum, concepito come una caratteristica trascendentale dell’ente, testimoniava questa conoscibilità data come scontata e che poteva essere solo impedita dall’errore del conoscente; in questo senso il movimento del conosciuto verso il conoscente era realizzato.

Con il dubbio metodico e con la netta separazione tra spirito e materia, senza più niente che potesse fare da ponte di riunificazione il movimento che va dal conosciuto al conoscente si è perso sempre di più e quello che va dal conoscente al conosciuto è stato considerato sempre più velleitario, incapace, cioè, di cogliere davvero la realtà al punto che, l’idealismo, si è trasformato in un movimento dello spirito verso se stesso.

In qualche modo l’uomo, per nascere come individuo, si è tolto dal grembo dell’essere, ponendosi al di fuori di esso come qualcosa di unico e di totalmente diverso da tutto il resto del reale. Il tentativo di rimettere a Dio la funzione di unificare queste due realtà era condannato fin dall’inizio al fallimento perché ormai anche Dio era divenuto una realtà estranea. Credo che si possano comprendere anche in questo contesto le famose parole che Nietzsche mette in bocca all’uomo folle:

Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e davanti? C’è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla?33

C’è un modo di uscire da questo infinito nulla dove ogni cosa è lontana ed ogni prossimità sembra essere perduta per sempre?

Credo che il primo passo da compiere sia proprio quello di contestare la separazione che è stata fatta tra le realtà dell’uomo e tutto il resto del reale, magari anche sulla scorta di una maldestra comprensione del messaggio della fede ebraico — cristiana.

Non c’è bisogno di separare: di distinguere, questo sì, ma di una distinzione che si articoli all’interno di un’unità di fondo del reale.

Credo che in questo sia da comprendere anche l’istanza positiva di una certa New Age che nasce proprio dal rimpianto di questa unità di fondo anche se poi questo rimpianto la rende incapace di distinguere e il rientro nel grembo del reale si produce spesso come una regressione ad uno stato fetale di assoluta ed indifferenziata unità da cui, come ci testimonia il racconto biblico del Genesi, l’uomo è ormai uscito per sempre.

C’è quindi, come sempre nella realtà, una tensione fra unità e differenza e la tentazione, come abbiamo già detto a proposito della comprensione filosofica della persona, è quella di uscire da questa tensione fra due poli apparentemente inconciliabili, per scegliere in modo reciso l’uno o l’altro.

Comprendere la conoscenza come relazione personale, credo, comporti prima di tutto recuperare questa fiducia originaria che, in questo contesto, non ha nessuna ragione per essere messa in questione ma, allo stesso tempo, senza nascondersi che l’Eden epistemologico l’uomo l’ha abbandonato fin da quando a cominciato a comprendersi come distinto dal resto del reale.

È importante dunque restare dentro questa tensione perché essa, pur passando attraverso momenti anche laceranti, produca frutto.

E credo che sia importante recuperare anche il primato logico del movimento del conosciuto verso il conoscente, una disponibilità primigenia a rivelarsi, ad entrare nel gioco di questa relazione. Questo primato, infatti, riduce il rischio di concepire il movimento dell’uomo verso la realtà come una conquista, come una presa di possesso di un territorio straniero ed ostile di cui ci si debba impadronire.

Considerare la verità come persona significa prendere atto di una permanente indisponibilità di essa a lasciarsi catturare in un concetto, per quanto elaborato esso sia, ma allo stesso tempo significa comprendere la naturale tendenza all’apertura ed alla relazione con l’altro.

Il reale è disponibile ed aperto all’uomo perché si instauri questa relazione di conoscenza, ma questo essere disponibile non è un lasciarsi catturare, ingabbiare. In questo senso l’avventura della ricerca della verità, se davvero vuole essere tale, deve essere sempre consapevole di un «di più» e di un «al di là» che, come in ogni relazione personale autentica, resta sempre da conoscere e da scoprire, la linea dell’orizzonte che si sposta a mano a mano che ci muoviamo verso di essa.

6. Conoscenza e senso

Questo che abbiamo appena detto ci introduce alla riflessione sul primo dei due concetti che, come abbiamo detto sopra, costituiscono il necessario orizzonte in cui le tre categorie di pensiero personalistico, si dispiegano e prendono la loro consistenza.34

Questa categoria è quella del senso e pochi concetti filosofici potrebbero contendere a questo il primato dell’importanza nella filosofia degli ultimi due secoli.

Il senso, tuttavia, non è totalmente assimilabile alla categoria di finalità presente già nella filosofia greca per la quale la causa finale, e cioè la destinazione di un ente o di un’azione sono parte integrante della sua spiegazione secondo la teoria aristotelica delle quattro cause. Essa nasce con la visione giudaico — cristiana del mondo che vede la categoria di finalità inscritta nella realtà nel suo complesso, in quanto opera della potenza creatrice di Dio che conduce tutta la realtà a Sé così come da Lui essa era stata originata. Questa movenza argomentativi era, effettivamente, in qualche modo già presente anche nella filosofia greca, laddove tutte le cose sono attirate al Motore immobile che le attira a sé in quanto amato da esse di un amore che non è tanto frutto della volontà, ma struttura ontologica.

Il senso è strettamente collegato invece alla consapevolezza, alla libertà. È infatti la visione del divino nella forma del Dio personale consapevole e libero che diventa la condizione necessaria per attribuire alla realtà un senso. Alternativamente è possibile solo un eterno ritorno dell’uguale dove le cose si riproducono eternamente identiche a se stesse.

Dire che la realtà è dotata di senso è dire che essa prende una direzione e che questa direzione è irreversibile. È dare alla realtà una dimensione escatologica e cioè, dire che essa ha un fine e trova la propria compiuta esplicazione al momento del suo compimento finale: la «fine» mostra il «fine» a cui la realtà fin dal principio era stata destinata.

Dire questo è dire anche che la realtà è irrevocabilmente portatrice di una dimensione etica che non si limita alle singole azioni, ma, in modo strutturale, si estende alla sua interezza e da cui l’eticità delle singole azioni trova la sua giustificazione o la sua contestazione.

Anche quando, nella filosofia moderna, questa categoria è stata sganciata dalla sua origine religiosa e ritradotta in termini come storia, progresso, rivoluzione, evoluzione, le sue caratteristiche sono rimaste le stesse.

Dall’analisi che abbiamo fatto risulta chiaro come questa categoria sia indissolubilmente legata a quella di persona.

Non può esserci senso se non là dove ci sia un essere ragionevole che produce senso, per il quale le cose hanno senso e che questo senso ricerca.

Non a torto Galimberti definisce la domanda che Leibniz si pone riguardo all’essere («Perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla?»), definita da Jaspers la domanda fondamentale della filosofia, come la versione ontologizzata della domanda assai più antropologica: «Perché c’è l’umanità e non piuttosto la sua estinzione?».35

Credo che questa giusta osservazione possa essere un segno che ci riconduce ad una dimensione intrinsecamente personale della realtà, leggibile in chiave religiosa come la testimonianza che c’è una realtà personale all’origine dell’essere nella sua varietà, versione contemporanea del classico argomento a favore dell’esistenza di Dio che prende spunto dalla finalità.

Quello che abbiamo detto più sopra sull’origine biblica del concetto di senso come finalità applicata all’intera realtà, ci consente di intuire anche come le realtà dotate di senso siano quelle che godono della caratteristica dell’irripetibilità. Nella cosmologia greca dove tutto ritorna uguale all’infinito, non c’è senso perché ogni cosa si ripete infinite volte ed ogni ripetizione non aggiunge e non toglie niente alla realtà. Dove il tempo diviene storia e scorre non più circolarmente ma in modo lineare con un inizio ed una fine, il mondo è in sé irripetibile nella sua totalità e, allo stesso tempo, persone, cose, azioni hanno lo stesso statuto di unicità. Davvero non ci si può bagnare due volte nello stessa acqua se il fiume è quello della storia. L’evento è dotato di senso in quanto è unico e già questo ci fa rendere conto di come la scienza moderna, che si basa invece sulla ripetibilità degli esperimenti, non possa accedere al senso che va cercato, se lo si vuole, altrove, in categorie che sono non scientifiche in senso stretto come quella, già nominata sopra, di progresso.

Proprio perché unica, la realtà è appello alla responsabilità sia se la si voglia considerare nella sua totalità sia se la si consideri nell’evento singolo. La responsabilità dell’uomo è quella di realizzare e cioè di rendere reale il senso sperimentato nell’esperienza fatta. In questo quadro, il senso non è scindibile dalla capacità di decisione nella libertà propria dell’uomo, che è la fonte di «realizzazione» del senso.

Dire che la realtà è dotata di senso, quindi, non va confuso con un fatalismo che vede questa come incamminata in un binario che la conduce verso qualcosa che da sempre è già inscritto in essa e che niente può cambiare.

Entriamo qui nello spinoso problema del rapporto tra la libertà finita dell’uomo e quella infinita di Dio che non è compito di quest’opera sviluppare. Ugualmente possiamo affermare che la libertà finita è una grandezza assolutamente reale ed influente nel percorso della realtà e che il senso di questa realtà è «realizzato» anche dalla nostra libertà che altrimenti, se non avesse nessun tipo di influenza sul senso del reale, sarebbe una pura illusione e non avrebbe neppure più senso in sé.

Il passo successivo che Ott fa, nella sua analisi del necessario orizzonte di senso di ogni pensiero personalistico, è quello di delineare l’evento unico come portatore di senso ed appello alla responsabilità come evento interpersonale.

Abbiamo visto come il concetto stesso di senso nasca a partire dalla considerazione della realtà come originata da un essere personale che è il Dio creatore, ma quello che abbiamo già detto sia a proposito della persona che a proposito del senso, ci aiuta cogliere altre consonanze fra queste due nozioni.

Abbiamo caratterizzato il senso per l’unicità dell’evento che rende questo stesso dotato di senso, e per l’appello alla responsabilità umana che rende il senso qualcosa che va «realizzato». Troviamo qui una simmetria con ciò che abbiamo detto della persona: l’unicità dell’evento sarebbe simmetrica all’individualità singolare ed irripetibile della persona e l’appello alla responsabilità come simmetrico alla relazionalità.

A partire da questo possiamo dire come il senso appaia solo là dove l’uomo si riconosce come persona, il che vuol dire laddove egli si riconosce come individualità irripetibile e come relazionalità in atto.

Se questo è vero, il senso non può fare a meno dell’interpersonalità perché, così come la persona non sarebbe adeguatamente compresa se la si considerasse isolatamente, allo stesso modo il senso se considerato solo in relazione all’individuo singolo, sganciato dalle sue relazioni con gli altri, ne uscirebbe irrimediabilmente mutilato proprio nella sua dimensione di appello alla responsabilità in quanto non ci sarebbe un Altro che chiama ad una risposta di qualche genere.

Questo, nella misura in cui la comunità è una delle realizzazioni più tipiche dell’inter — relazionalità umana, ci dice che il senso ha anche una dimensione sociale.

Tutto ciò non significa che sia la società a dare senso al reale, ma piuttosto che il senso appare nella società ed è questa uno dei campi privilegiati della sua realizzazione. Dobbiamo però anche porci il problema di esistenze umane che per vari motivi, siano tagliate fuori da questa interpersonalità che si dispiega nella convivenza umana. Forse che queste esistenze sarebbero private di senso e quindi anche della caratteristica che le rende autenticamente umane?

Se quindi la realtà nella sua interezza è dotata di senso e l’interpersonalità puramente umana, in quanto interna a questa realtà, non è sufficiente a dare fondamento a questo senso complessivo, si deve postulare un’interpersonalità ulteriore che è quella fra l’uomo e Dio che assume la duplice veste dell’interpersonalità fra il singolo e Dio — il luogo della manifestazione del senso dell’unica esistenza dell’individuo stesso — e l’interpersonalità che intercorre fra l’umanità presa nel suo complesso, quasi come unico corpo, così come la Bibbia testimonia, ed il creatore. Questa relazione è quindi il luogo dove si manifesta il senso della creazione nel suo complesso.

Sarebbe qui interessante sviluppare, seguendo l’accresciuta sensibilità verso tutte le forme di vita non umane ed in generale verso l’ambiente, una visione che sappia unire quanto detto fino ad ora al fatto che la realtà, in cui l’uomo vive, è costituita non solo da uomini e che quindi tutto il resto della realtà è luogo di manifestazione e realizzazione di un senso che abbraccia la totalità della creazione. Questo resta come compito ad una concezione che voglia essere personalistica senza essere antropocentrica.

Ancora una volta, per quanto abbiamo detto sopra, ci troviamo di fronte al problema se il senso che, come abbiamo visto ha bisogno dell’interpersonalità per dispiegarsi, non sparisca proprio per colui che dovrebbe esserne l’origine, e cioè Dio stesso, se lo consideriamo in sé e quindi senza l’uomo.

Ancora ci viene in aiuto la visione cristiana di Dio come Trinità perché possiamo cogliere il divino come luogo autonomo di manifestazione del senso in cui l’unicità della natura divina e l’interpersonalità che si dà fra le tre persone della Triade divina realizzano in modo misterioso ma in modo ineguagliabile il senso che si trasmette poi alla creazione a cui, gratuitamente e proprio grazie a questo senso, Dio ha dato inizio.

Dopo aver analizzato il concetto di senso, dobbiamo ora vedere in che modo questo concetto si applichi al contesto epistemologico di cui quest’opera si occupa.

Se il senso è qualcosa che si verifica laddove si intersecano l’unicità e l’interpersonalità, anche il conoscere, se concepito come evento interpersonale, deve essere un luogo dove il senso appare e si «realizza». Per questo è conoscenza nel senso pieno del termine, quella che si presta all’apparizione del senso ed alla sua «realizzazione».

Questo presuppone che il senso della conoscenza non sia dato esclusivamente dalla conoscenza stessa. Se la conoscenza in quanto tale è senso a se stessa, non ci sarà bisogno di nient’altro per giudicare se la conoscenza realizzi o meno il senso perché essa, semplicemente in quanto tale, è giustificata.

Credo che qui si tocchi un punto molto sensibile della nostra concezione del conoscere. Infatti la conoscenza, soprattutto nella figura della scienza che, a torto o a ragione, è quella prevalente nel sentire comune del nostro tempo, e la sua conseguenza più diretta e cioè la tecnica con le sue possibilità di dominio e perfino di distruzione del mondo in cui viviamo, vanta un diritto primigenio ad essere giustificata in se stessa, e non di rado anche il semplice domandarsi se la scienza possa avere dei limiti, delle colonne d’Ercole da non oltrepassare, viene tacciato di oscurantismo, anche se queste colonne d’Ercole non sono state poste da nessun tabù di tipo religioso, ma semplicemente da un’elementare prudenza che teme l’incontrollabilità degli sviluppi che possono scaturire da una ricerca per quanto bene intenzionata.

Eppure proprio la consapevolezza di questa fondamentale incontrollabilità, spinge sempre più persone ai più svariati livelli a porsi queste domande ed a cercare dei criteri che siano efficaci nel rendere la conoscenza qualcosa che sia per l’uomo e non viceversa.

Nell’ottica da noi sposata, la risposta non può che venire dalla natura interpersonale della conoscenza. Nel conoscere, non entriamo in contatto ed in possesso di cose ma entriamo, se la verità è persona, in relazione con un Altro ed è a partire da questo che dobbiamo ricercare i criteri di senso del conoscere.

Il senso della conoscenza, dunque, è rintracciabile all’interno delle categorie che danno senso alla relazione interpersonale.

In questo campo le suggestioni filosofiche più profonde vengono da Emmanuel Levinas che sul Volto dell’altro che si fa vicino ha costruito la sua etica ed in generale la sua filosofia in quanto l’etica che è, per lui, la filosofia prima.

Qual è l’appello contenuto in ciò che lui chiama «l’epifania del volto» e cioè l’apparire dell’altro che mi interpella?

È l’appello a lasciarlo essere in quanto altro, a non tentare un inglobamento della sua realtà nella mia, a non ridurre la sua alterità al medesimo che è il cerchio chiuso del mio io.

Quindi un primo senso che ricaviamo dal concepire la conoscenza come relazione interpersonale è la rinuncia all’impossessarsi della verità, ad appropriarsi dell’essere attraverso lo strumento del pensiero.

In questo senso, si evince dalla filosofia di Levinas una critica della verità come qualità del giudizio espresso dal soggetto e quindi della verità come carattere puramente logico del pensiero in quanto questo carattere sarebbe inevitabilmente anche ego — logico e cioè tendente alla cattura dell’altro in quel campo di forze dell’io che abbiamo detto sopra.

Ma credo che debba esserci di più che questo

Per Levinas, il volto è, allo stesso tempo, epifania del vero e del bene per cui l’appello alla responsabilità coinvolge sia la dimensione etica che quella epistemologica. Nell’affermare questo ci distanziamo dall’autore francese che pone la dimensione etica come originaria con il rischio però di creare un’etica che non ha ragioni. In questo senso la contestazione del giudizio di cui sopra abbiamo accennato va sfumata, perché nel momento in cui colui che ha colto questa epifania accetta di prendersi la responsabilità del volto che gli si è manifestato questo avviene per il riconoscimento del vero e del bene come tali e quindi attraverso il riconoscimento del loro valore e l’accoglienza del loro appello.

Questo riconoscimento avviene attraverso il giudizio. Riconosciamo con lui che non è il giudizio che l’io esprime a creare la verità, ma allo stesso tempo la relazione che si instaura tra il destinatario dell’appello che viene dal volto che si manifesta e questa realtà di alterità non può vedere il soggetto solo nel ruolo di passivo destinatario capace di dire un sì od un no irriflesso, senza aver avuto una parte reale e significativa in questo processo per cui l’alterità diventa uno dei termini della relazione.

Levinas dice bene quando, criticando Buber, pone l’alterità come più originaria rispetto alla relazione in quanto non si ha relazione vera se non c’è un alterità che entra in gioco. Allo stesso tempo, però, non è possibile una risposta all’appello del volto se non si è instaurata una qualche forma di interscambio e questo interscambio vede ciascuno degli attori contribuire alla sua buona riuscita con tutte le capacità a sua disposizione.

Quindi questo aver parte al processo di riconduzione del conoscere al suo senso non può darsi se dal lato del conoscente non ci sono alcune disposizioni che mettono in sintonia il soggetto con il tipo particolare di interscambio che si sta svolgendo. Quando si parla di relazione interpersonale l’acme della relazione lo si ha quando questa è improntata all’amore. Anche nella relazione del conoscere questo avviene e non ci deve sembrare né strano né sentimentale, considerando che da sempre la figura più tipica del sapere e della riflessione sul sapere stesso, la filosofia, significa con il suo nome proprio questo, l’amore del sapere. E questo amore, lungi dall’essere visto come una passione per qualcosa come la musica o l’arte, deve essere visto come passione per qualcuno.

Allo stesso tempo, si può dire che l’amore per il sapere non può andare disgiunto dal sapere dell’amore, e cioè da una saggezza che integri tutte le componenti dell’uomo, come abbiamo già detto sopra, e che sola può mettere in sintonia il conoscente con il senso.

È da questa sintonia che possiamo ricavare anche una risposta sulla destinazione del conoscere e, ancor prima, se ve ne debba essere una o se, invece, l’amore per il sapere è di un tipo che trova risposta in sé stesso senza bisogno di ulteriori giustificazioni.

Fin dal mito platonico della caverna, chi è arrivato alla conoscenza sente pietà per chi è ancora nell’ignoranza e cerca di rimuovere la coltre nera che impedisce alla gran parte degli uomini di «vedere» la verità. Ovvio che l’ambiente sociale da cui Platone viene non può che fargli vedere questa missione che come una sorta di «discesa» in basso per far salire chi è ancora ai piedi del monte e, in generale, anche in quei climi sia religiosi che filosofici che combattono per l’uguaglianza, questo processo è stato sempre visto come un ridiscendere per risalire insieme.

Sempre dunque si è vista una destinazione della sapienza alla promozione dell’umanità, sia essa nelle dimensioni della polis, sia essa nelle dimensioni più allargate dell’intero genere umano. Ed è precisamente da qui che si deve partire per valutare se la conoscenza risponda o no al senso che le è inscritto, allargandosi sia nel verso dello spazio che in quello del tempo, non ponendosi dunque solo il problema del senso del conoscere relativamente a noi qui ed ora ma anche in relazione a chi verrà ad abitare nel futuro il nostro mondo.36 Ed anche se questo compito, per la complessità delle conoscenze e per la frequente imprevedibilità degli effetti che possono apportare, è divenuto oggi difficilissimo, non è questa una buona ragione per arrendersi, per consegnare nelle mani di un cieco meccanismo tecnologico — scientifico il destino dell’essere umano e della terra in cui esso abita.37

7. Conoscenza e temporalità

La seconda dimensione che avvolge la persona in tutto il suo evolversi (ed il verbo non è usato casualmente) è il tempo.

La persona è una realtà che, come abbiamo detto, si evolve, si sviluppa cioè raggiunge un di più nel suo portare a compimento le sue potenzialità e tutto questo processo avviene nel tempo. Il bimbo appena nato è persona, ma questo suo essere è in gran parte presente in potenza, come possibilità da compiersi e questa potenzialità sarà portata a compimento attraverso tutto il processo temporale che coinvolge la persona per la durata della sua esistenza. Evidentemente strumento principe di questo sviluppo saranno le relazioni personali che egli intratterrà con gli altri e che sono, fin dai primi momenti di esistenza, la voce che lo chiama ad una vita non solo biologica ma realmente umana. Così Von Balthasar descrive questa nascita all’esistenza personale del bimbo attraverso la relazione con la madre:

Il bambino si risveglia alla coscienza di sé nel sentire il richiamo che gli rivolge l’amore della madre. Questa ascesa dello spirito al possesso cosciente di sé è un atto di semplice pienezza, che solo in abstracto può essere analizzato in diversi aspetti e fasi successive. Esso non è reso comprensibile movendo dalla «struttura» formale dello spirito; e cioè mediante impressioni sensoriali che mettono in gioco una costituzione categoriale strutturante, la quale a sua volta sarebbe al servizio di una capacità dinamica tesa all’affermazione dell’essere in genere e nella oggettivazione dell’esistente che in concreto si presenta qui, determinato e finito. L’interpretazione del sorriso e di tutta la dedizione della madre è la risposta dell’amore all’amore, da lei suscitata per il fatto che l’io riceve l’appello rivoltogli dal tu.[^38]

E quello che succede nei primi momenti sarà quello che in tutta la vita sarà il motore dello sviluppo della persona, sviluppo che non è da intendersi ingenuamente come un progresso continuo ma piuttosto, anche attraverso sconfitte e ritirate, come una vita incessante che pulsa in ogni nostra azione, anche in quelle meno positive in quanto sono espressione del nostro essere personale per quanto lo possano essere in modo mutilato e addirittura pervertito.

Questo quadro temporale avvolge tutto ciò che coinvolge la persona e quindi le sue relazioni. In quest’ottica dobbiamo riflettere su come questo si compia all’interno della conoscenza della verità concepita come relazione interpersonale.

Credo che conseguenza principale di questo sia il cogliere la conoscenza come realtà integralmente calata nella storia e non concepibile al di fuori di essa. Un limite che spesso si riscontra in tanta riflessione è proprio quello di essere più o meno coscientemente vittima di una visione a — temporale della verità.

Le cosiddette verità eterne sono in quest’ottica qualcosa di assolutamente insignificante. Non certo perché ciò che è vero oggi possa non essere più vero domani. Questo relativismo, se anche in certi contesti può essere adeguato, sarebbe un’applicazione di un semplicismo esasperante e facilmente attaccabile.

Il problema è piuttosto il riconoscere che le verità non esistono in un platonico iperuranio dove le idee vivono una loro esistenza lontana dal «sudicio fossato della storia», ma che esse esistono nella vita di persone concrete che vivono esistenze concrete e che questa concretezza è calata in una storia che cammina senza posa per cui ciò che è vero oggi sarà spesso vero anche domani, ma io che conosco domani non sarò come sono oggi e di conseguenza anche la mia relazione con la verità, mutato uno dei termini, muterà. Questo, dal lato della verità, ha degli effetti? Possiamo postulare che la relazione fra conoscente e conosciuto muti solo in quanto il primo cambia mentre il secondo resta stabile ed immodificabile?

Credo che anche qui dobbiamo arrischiare uno sforzo teoretico per arrivare a riconoscere che anche l’altro lato non può rimanere non modificato e che anche da questo lato la relazione importi una sorta di evoluzione. In che senso?

La verità è tale in quanto è conosciuta. Con questo non intendiamo dare un’impronta idealistica ma semplicemente dire che una cosa per quanto in sé verissima se non è conosciuta in qualche modo fallisce allo scopo. Allo stesso tempo, essa è effettivamente conosciuta in relazione alla capacità conoscitiva di chi conosce per cui la realizzazione dell’essenza della verità è tanto più completa quanto più chi conosce può accogliere la verità stessa.

Se poi concepiamo il manifestarsi della verità come un’attività, considerazione a cui siamo portati dal nostro assunto di fondo, e cioè quello della verità come persona e della conoscenza come relazione interpersonale, non possiamo non pensare che questa relazione non abbia effetti su entrambi i termini della conoscenza. In una relazione personale, quale quelle a cui siamo abituati, l’essere conosciuti da un altro è strumento, in qualche modo, di una più completa verità di sé e del proprio essere. Come non pensare che nella relazione interpersonale della conoscenza non avvenga la stessa cosa?

In qualche modo, nella misura in cui la verità è sempre più accolta da colui che conosce essa diventa sempre più pienamente se stessa, in quanto la sua essenza che è quella di essere conosciuta, è sempre più pienamente realizzata. Non è quindi un cambiamento nel senso di una diminuzione o di un aumento ma piuttosto nel senso di un’accresciuta «attività». È evidente che questo richiede di pensare la verità non come passivo oggetto dell’attività di pensiero di un soggetto ma come «attore attivo» del processo conoscitivo, quale la nostra concezione che stiamo sviluppando, ce la presenta.

Allo stesso tempo quell’esigenza di stabilità che nella mentalità greca era stata affidata ai concetti di immutabilità e da essa trasmessi alla teologia cristiana per caratterizzare il Dio della fede, è nel nostro quadro molto meglio rappresentata dal concetto biblico di fedeltà che nella concezione biblica è indissolubilmente legato a quello di verità.

Questo concetto lascia aperto lo spazio per una vitalità della relazione che coniughi necessità di stabilità e necessità di evitare una concezione della verità che, per preservarne la solidità, la ingessi in un’immobilità che non esiterei a definire mortale.

In conclusione possiamo dire che laddove si concepisca la conoscenza come una relazione interpersonale, essa forzatamente si dipana nel tempo che è una sua dimensione fondamentale. In quanto che coinvolge persone e che queste persone esistono nel tempo e nella storia, la loro relazione reciproca non può che vivere della stessa aria, pena, in caso contrario, il divenire cosa morta e quindi inutile.

8. Conclusione

Questi pensieri, che fanno parte di un progetto più ampio ancora in fieri, sono solo alcuni spunti che vorrebbero cominciare ad intravedere un orizzonte che, preservando l’esigenza prima di tutto esistenziale e poi filosofica di una verità che non sia solo l’espressione di preferenze personali, non ricada nelle pastoie di un oggettivismo ingenuo e spesso metafisicamente «violento».

Il cammino da fare è ancora lungo ma spero che ciò che qui è detto possa essere d’aiuto e di stimolo ad altre e più complete riflessioni.


  1. M. Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 159. ↩︎

  2. Cfr. ad esempio la raccolta di lezioni nel volume Aa. Vv., Il concetto di verità nel pensiero occidentale, Il Melangolo, Genova 2000 e il libro di Franca D’Agostini, Disavventure della verità, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  3. Giovanni 14, 6. ↩︎

  4. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000 p. 965. ↩︎

  5. Cfr. la distinzione fra spiegare e comprendere così come fu formulata da Dilthey in Introduzione alle scienze dello spirito (1883).

    6 Cfr. ad esempio l’opera di M. Polanyi, La conoscenza personale, Rusconi, Milano 1990 e su un versante più teologico l’opera di B. Lonergan. ↩︎

  6. H. Ott, Il Dio personale, Marietti, Casale Monferrato 1983. ↩︎

  7. H. Ott, Il Dio…, op. cit., p. 90. ↩︎

  8. H. Ott, Il Dio…, op. cit., p. 62. ↩︎

  9. «Propter hanc unitatem Pater est totus in Filio, totuts in Spiritu Sancto; Filius totus est in Patre, totuts in Spiritu Sancto. Spiritus Sanctus totus est in Patre, totus in Filio» così al Concilio di Firenze (1442) riportato in Denzinger-Schonmetzer, Enchiridion Symbolorum, ed. XXXVI. ↩︎

  10. Cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1979. ↩︎

  11. Platone, Fedone, 67a. ↩︎

  12. Platone Fedone, 83b. ↩︎

  13. R. Descartes, Meditazioni filosofiche sulla filosofia prima, in Id., Opere filosofiche, vol. 2, Laterza, Bari 1986, pp. 72-73. ↩︎

  14. «Gli investigatori della natura compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno» (I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, pp. 18-19). ↩︎

  15. Cfr. per queste riflessioni U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 116-133 con il quale però dissento per quanto riguarda le conclusioni da lui tirate. ↩︎

  16. M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, Milano 1963. ↩︎

  17. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano 1965. ↩︎

  18. Ibidem. ↩︎

  19. Ibidem. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Cfr. per esempio Aa. Vv., Nuovo corso di dogmatica, Queriniana, Brescia 1995, pp. 544-550. ↩︎

  22. I. Allende, Il piano infinito, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 88-90. ↩︎

  23. Aristotele, De anima, III, 8, 431 a 20. ↩︎

  24. Aristotele, De anima, III, 7, 431 a 1. ↩︎

  25. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 2, a. 1. ↩︎

  26. «La scienza gonfia, mentre la carità edifica» (Prima lettera ai Corinzi, c. 8, v. 1). ↩︎

  27. «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”» (Lettera ai Romani, c. 8, v. 15). ↩︎

  28. «Mi pareva di udire la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci e mi mangerai…, tu ti trasformerai in me”» (Agostino, Confessioni, VII, 10, 16). ↩︎

  29. «Con questo Dio ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina» (Seconda lettera di Pietro, c. 1, v. 4). ↩︎

  30. Cfr. già nell’Antico testamento il Salmo 33: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore». ↩︎

  31. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 45, a. 2. ↩︎

  32. F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1972. ↩︎

  33. H. Ott, Il Dio…, op. cit., pp. 90-126. ↩︎

  34. U. Galimberti, Psiche e…, op. cit., pp. 702-703. ↩︎

  35. Per un approccio di questo genere cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990. ↩︎

  36. Per confrontarsi con l’opinione di chi crede che questo compito sia ormai irrealizzabile cfr. U. Galimberti, Psiche e…, op. cit., pp. 466-467. ↩︎

  37. H.U. Von Balthasar, Il movimento verso Dio in Spiritus Creator, Morcelliana, Brescia 1972, p. 13. ↩︎