Norma fondamentale e norma originaria. Un confronto tra Kelsen e Husserl sul rapporto tra teoria della conoscenza e principi del diritto

«E l’ideologia democratica della libertà, di fronte alla realtà dei legami sociali che vi corrisponde, sembra avere lo stesso ruolo che l’illusione etica del libero arbitrio ha di fronte al fatto, stabilito dalla psicologia, dell’ineluttabile determinazione causale di ogni volere umano.» — Hans Kelsen

«Ci si chiede se il rapporto con gli altri soggetti non abbia parte nella costituzione di uno spazio unitario. Ad ogni modo abbiamo questa particolare identificazione, nella quale vengono identificate le cose viste da me e quelle che si suppongono come viste dagli altri (in manifestazioni correlative) e così le cose divengono cose comuni di molti io. Molti Io — uno spazio, un tempo, un mondo di cose per tutti.» — Edmund Husserl

1. Avvio

Ai fini di una riflessione tesa a mostrare una differente interpretazione di quella «norma fondamentale» kelseniana su cui poggia l’ordinamento giuridico concepito come sistema positivo puro, appare utile soffermarsi sul concetto di «Urnorm»1 così come inteso da Husserl e ripreso da Bruno Romano.

Nonostante le molteplici interpretazioni avviate a partire dalla riflessione husserliana sull’intersoggettività — destinate a riflettersi conseguentemente su differenti interpretazioni di questo concetto2 — si possono infatti intravedere, in Husserl, le linee essenziali di un principio originario proprio dell’essere umano dal quale discende una norma della relazione basata sul riconoscimento e sul rispetto della propria motivazione personale (volontà), nonché sul riconoscimento e sul rispetto, nell’agire, della motivazione personale dell’altro.3

A tal riguardo, partendo dalla riduzione fenomenologica, da cui deriva la conoscenza «pura» prospettata da Husserl, è utile domandarsi se e in che modo questa «messa fuori gioco o tra parentesi in via di principio di tutte le appercezioni psicologiche naturali e delle realtà che esse pongono»4 possa condurre, sotto un altro versante, ad individuare nell’ambito del diritto, al di la della teorizzazione di una dottrina pura incentrata su una legalità formale «riempita» da contenuti contingenti, un contenuto giuridico proprio della relazionalità e dunque dell’io, pur se inteso come «io puro» in senso husserliano.

Se è vero infatti che la riduzione fenomenologica conduce all’essenza delle cose ed esclude l’oggettività di una conoscenza condivisa, è pur vero che in Husserl non si estromette mai la presenza, anche nella concezione di un «io trascendentale», dell’altro inteso come «altro trascendentale», strutturalmente uguale all’io.

Nella possibilità di coniugare la teoria della conoscenza husserliana con una norma originaria dell’io trascendentale si apre quindi uno scenario che non può non tener conto del principio, individuabile proprio in Husserl, che regola le modalità di incontro dei due «ego trascendentali» a confronto, e che potrebbe presentarsi come una ‘norma originaria della relazione giuridica’destinata al reciproco riconoscimento dei soggetti della conoscenza.

In questa direzione si nota che, riconducendo il pensiero husserliano all’ambito del diritto, da una parte il contenuto riferibile alla condizione esistenziale dei soggetti non è tenuto in considerazione poiché viene lasciato in disparte a seguito di una riduzione fenomenologica che esclude la reciproca conoscibilità delle qualificazioni degli individui a confronto in un contesto giuridico-relazionale, dall’altra proprio questo contenuto esistenziale viene ridotto, in questo modo, a quanto si mostra come il livello più profondo della struttura dell’io, comune ai soggetti della conoscenza che si rapportano l’uno all’altro. Se infatti procediamo nella direzione di una riduzione che lascia emergere l’essenza delle cose e dei soggetti, al di là delle qualificazioni per così dire «accessorie», ciò che residua come originario, nel momento del rapporto io-altro, è il sostrato della stessa relazionalità, basata appunto su una «norma originaria» (Urnorm) che lascia emergere il proprio dell’io senza mettere in discussione il proprio dell’altro.

Dunque, anche se nelle Ricerche Logiche di Husserl è possibile intravedere il momento da cui prende avvio la concezione kelseniana della Grundnorm, occorre tuttavia notare come il collegamento tra la Urnorm e l’analisi husserliana dell’intersoggettività lascino spazio alla possibile interpretazione in senso contenutistico di una giuridicità radicata nell’io, pur se intesa come giuridicità pura.

La questione si presenta di fondamentale importanza poiché, seguendo questo itinerario interpretativo, si può riconoscere, nella differenza tra la Grundnorm kelseniana e la Urnorm husserliana, una distinta concezione del diritto, individuando, nella scelta di considerare vigente l’una o l’altra norma primaria, la possibilità di istituire, nell’un caso, un ordinamento basato su una legalità autonoma e ideale eretta a principio, e nell’altro, un ordinamento che rimanda ad un originario principio relazionale da ricercare nella realtà intersoggettiva.

A questo proposito occorre considerare innanzitutto che il realismo fenomenologico che discende da una interpretazione dell’opera di Husserl incentrata sulla riduzione fenomenologica, conduce appunto alla ‘purezza’che elimina i contenuti del diritto dando la prevalenza alla forma pura teorizzata da Kelsen. Infatti, come afferma Avitabile:

La primitiva idea di riduzione fenomenologica di Husserl, vale a dire l’epochè, si accorda (…) con il realismo fenomenologico. Husserl manca soprattutto di considerare che il modo in cui si conoscono le essenze necessarie non significa necessariamente esclusione totale dell’esistenza reale; va verso questa direzione quando afferma che la riduzione eidetica non porta all’esistenza reale ma all’essenza dell’esistenza, quindi non esistenza concreta ma esistenza ‘ideale.5

È chiaro quindi che proprio a partire da tale impostazione prende avvio, in ambito giuridico, la concezione di un diritto positivo che si rivolge alle essenze e perde i contenuti della concretezza dell’esistenza, i valori della persona, ed i presupposti della giuridicità.

Tuttavia occorre anche rilevare che, come afferma Avitabile, un realismo fenomenologico così inteso, basato solo sulla riduzione fenomenologica, rappresenta una delle possibili interpretazioni del pensiero di Husserl senza tuttavia esaurire le direzioni interpretative che discendono dalla prospettiva fenomenologica applicata alla riflessione giuridica. Infatti:

Il formalismo giuridico rappresenta, senza dubbio, un derivato dell’esperienza legata al realismo fenomenologico radicato nel metodo fenomenologico di Husserl, ma non si deve e non si può archiviare l’incidenza della svolta della Realontologie voluta dai suoi allievi.6

poiché questa svolta conduce a molteplici direzioni interpretative che si sviluppano a seconda delle tematiche di volta in volta introdotte dai suoi allievi all’interno della riflessione sul metodo fenomenologico. Il momento fondamentale che consente di aprire il discorso husserliano alle questioni essenziali del diritto inteso come fenomeno relazionale si ha infatti con l’opera di Stein, la quale introduce, all’interno del metodo fenomenologico, la riflessione sul concetto di «persona», restando quindi fedele al realismo fenomenologico, ma ampliandone la prospettiva, fino a ricomprendere al suo interno una profonda riflessione sulla relazionalità e sulla giuridicità.

Quindi da una parte «si può sostenere che il concetto di purezza, nell’opera di Husserl, ha determinato l’astrazione pura della Grundnorm — ripresa nelle sue tesi da Kelsen», ma dall’altra si deve tenere in considerazione il fatto che tale impostazione contrasta con quanto emerge dalle tematiche husserliane relative all’intersoggettività come riprese e chiarificate da Edith Stein. Infatti:

Tra gli allievi più sensibili alle incongruenze e alle ambiguità dell’idea di «purezza», Edith Stein con la sua opera coniuga l’insegnamento di Husserl («il ritorno alle cose stesse») con il fenomeno diritto, al quale dedica un impegno destinato a concretizzarsi nel realismo fenomenologico che non si ferma al positivismo giuridico ma lo supera, sia in direzione della differenza posta tra «diritto puro» e diritto positivo, sia nella dimensione dell’atto empatico in quanto inizio della relazione interpersonale diretta alla formazione della comunità.7

Si mostra chiaro quindi che il realismo fenomenologico, solo se rigidamente ancorato all’analisi della conoscenza degli «oggetti», conduce ad un diritto considerato «cosa» e ricondotto a quella «conoscenza pura» che si rivolge alle essenze delle cose e genera norme ideali. In questa direzione infatti è esclusa la possibilità di ricondurre la metodologia husserliana ad un concetto di «persona» inteso in senso giuridico-relazionale dato che si trascura la riflessione husserliana sulla inersoggettività nonché le questioni fondamentali attinenti all’empatia, approfondite da Edith Stein, e individuate da Avitabile come il punto di partenza necessario per avviare una interpretazione del diritto in prospettiva fenomenologica.

Occorre rilevare dunque che questa particolare impostazione del realismo fenomenologico discende dal fatto che «nel campo della fenomenologia il termine «riduzione» rinvia di norma alla riduzione fenomenologica o epoché», la quale, nella necessaria connessione con la riduzione eidetica, sostituisce la considerazione delle cose naturali con l’intuizione delle essenze attraverso un metodo che diviene «scienza delle essenze». In questo senso emerge una fenomenologia che deve ricercare l’apriorità universale, «L’universale legalità d’essenza che a ogni proposizione di fatto intorno al trascendentale prescrive il suo senso possibile.»8

Ne deriva che una riduzione così intesa conduce necessariamente alla positivizzazione di contenuti contingenti del diritto, non essendovi, nella realtà sociale, contenuti condivisi, concreti, reali e personali, dei soggetti delle relazioni giuridiche.

Tuttavia, ciò che rileva a questo punto è che:

La riduzione fenomenologica trascendentale e quella eidetica sono le prime due riduzioni che Husserl mette in campo, ma non le uniche. Nel mondo circostante io non trovo solo cose, ma anche altri esseri viventi, in particolare altri soggetti, per i quali, da una pare, continuano ad essere valide le norme fondamentali della percezione, dall’altra, è necessario mettere in atto nuove strategie: riduzione eidetica e fenomenologica continuano ad essere attive, ma a queste deve unirsi anche un nuovo tipo di riduzione, e cioè quella alla sfera del proprio (Eigenheitsphäre).9

Ciò che emerge dunque è che questa «riduzione primordiale»10 consente di conoscere l’altro nel suo proprio, nel suo momento costitutivo originario, ovvero nel suo essere un altro soggetto della conoscenza allo stesso modo in cui lo è l’io. È chiaro quindi che nell’opera di Husserl emerge una attenzione all’analisi della relazionalità intersoggettiva che può individuarsi proprio nella introduzione di una Urnorm concepita come quel contenuto «puro», «trascendente», della relazionalità capace di tradursi, una volta trasposto sul piano sociale, nel contenuto puro della giuridicità.

Ne emerge che, in Kelsen, l’errore fondamentale — per così dire — è quello di aver costruito una teoria pura del diritto senza tenere in considerazione la possibile mediazione con un contenuto puro del diritto, individuabile proprio nella riflessione husserliana sulla intersoggettività. È in questa direzione che occorre guardare per comprendere come una riflessione sul diritto «puro» non può non tener conto del fatto che in Husserl è presente, oltre a quella riduzione fenomenologica che conduce ad un solipsistico «io puro», una «riduzione primordiale» che costituisce una «seconda forma di trascendenza» destinata al confronto conoscitivo con l’altro e dunque ad una giuridicità non completamente svuotata del suo contenuto proprio, ma anzi vivificata da un contenuto appartenente a tutti gli individui e identificabile con la struttura della persona, concepita originariamente come soggetto della relazione.

Secondo questo itinerario, la derivazione del formalismo giuridico dal realismo fenomenologico si mostra dunque direttamente collegata ad una «ricerca logica» incentrata solo su una teoria pura del diritto che trascura volutamente il problema dell’origine della relazionalità e dunque della giuridicità.

Senza rinvio ad una Urnorm intesa come originario principio relazionale individuabile al di la della mutevolezza della realtà sociale, è chiaro che il principio originario del diritto si rinviene in quella Grundnorm kelseniana che resta confinata nella vuota autoreferenzialità priva dei contenuti propri della giuridicità. La giuridicità della norma resta ancorata a quella ‘tecnica sociale’che da sola, secondo Kelsen, costituisce il proprio del diritto.

È necessario pertanto rilevare a questo punto che la correttezza logico-formale tipica della costruzione pura kelseniana non determina affatto la correttezza materiale dell’aspetto contenutistico, la quale, secondo Husserl, si può conoscere e capire nelle sue linee essenziali solo tramite l’esperienza.11 È utile osservare infatti che «in una riflessione retrospettiva attorno alle Ricerche Logiche, Husserl sottolineava l’importanza decisiva che aveva avuto in quel periodo la riflessione attorno all’intreccio fra la vita conoscitiva e quella pratico-valutante, ribadendo la necessità di conseguire dall’interno (in innerer Erfahrung):

Una chiara comprensione di come la «verità» sorga come prodotto del conoscere «razionale», il valore autentico come prodotto del valutare «razionale», i beni etici nel volere eticamente giusto come prodotto soggettivo.12

A partire dalla soggettività dunque, secondo Husserl, è possibile risalire a quella conoscenza di sé che, a seguito della riduzione alla sfera del proprio, consente di effettuare una scelta di valore che tenga conto delle proprie inclinazioni, della propria motivazione personale e dunque della volontà, e di ricondurre gli elementi soggettivi accessori non coincidenti con l’io, all’interno di quel contenuto giuridico proprio della relazionalità. È il confronto tra soggettività che, tramite la riduzione primordiale, lascia emergere quanto di più profondo ed essenziale vi è al di là delle strutture che si frappongono tra i soggetti della relazione. Ed è la soggettività che bisogna tenere in considerazione per individuare il valore, il contenuto di fondo del soggetto, senza il quale l’ordinamento giuridico resta una pura forma i cui contenuti possono, di volta in volta, essere definiti dalla contingenza o essere creati in maniera logico-ideativa dal complesso tecnicismo di una società macchinalizzata.13

Pertanto, mentre la norma fondamentale kelseniana tende ad escludere la realtà relazionale per affermarsi come pura forma e come pura idea,14 indipendente dal contenuto che l’ordinamento giuridico può esprimere, la «norma originaria» husserliana, mostrandosi come quel «principio» che consente all’io di comprendere se stesso tramite l’esperienza dell’altro, al contrario sembra affermarsi come una norma fondamentale basata sulla conoscenza dei soggetti della relazione in quanto tali, piuttosto che sulla creazione delle norme positive riferite ai soggetti.

Questa «norma originaria» husserliana dunque, differentemente dalla Grundnorm, non appare come una costruzione normativa tesa a giustificare l’ordinamento giuridico,15 ma sembra presentarsi, al contrario, come il presupposto stesso su cui il diritto si fonda, essendo il risultato della capacità del soggetto di esercitare intenzionalmente la sua attività conoscitiva mediante l’uso di una volontà indipendente dalla determinazione causale. In questa prospettiva la «Urnorm» non è riferibile ad una norma positivamente istituita, bensì si mostra collegata al presupposto della normazione, al suo contenuto proprio, indipendente dalla effettiva trasposizione di questi o quei contenuti nella disposizione legislativa: ne emerge quindi un contenuto giuridico che si consolida attraverso le forme di quel principio del diritto che stabilisce il rispetto della originarietà dell’io e dell’altro, intesi come soggetti di una relazione costitutiva di riconoscimento.

È utile notare ora che, come accennato, si può giungere a questa lettura dell’opera di Husserl passando attraverso la riproposizione e la rielaborazione attuata da Edith Stein dei momenti principali del pensiero husserliano. Infatti, come afferma Avitabile:

La questione di una rappresentazione del «giuridico» nella fenomenologia, in termini reali, è la sfida che si propone Stein, senza mai arrivare a presentarla ed esaurirla in termini giusnaturalistici o giuspositivistici, contrario al suo procedere fenomenologico.16

In questo senso si mostra rilevante il fatto che «per Stein lo Stato di diritto è una struttura radicata nella comunità a statuto empatico che persegue ed esprime il dovere di voler istituire una dimensione giusta nella produzione delle disposizioni legali» laddove di questa dimensione giusta «non è propriamente portatore lo Stato ma la comunità in esso compresa». Quindi:

Si può dire che questa espressione condensa sia la riflessione di Husserl, sia il nuovo assetto del realismo fenomenologico, poiché essendo la genesi dello Stato nella comunità che rinvia alla persona e quindi all’atto sociale empatico, la questione del diritto in Stein è centrata nella comunità in quanto asse di relazioni interpersonali, giuste nella legalità.17

È evidente che proprio al concetto di persona come formulato da Stein è possibile guardare per interpretare Husserl in senso giuridico-contenutistico, tralasciando così l’interpretazione che conduce al diritto puro kelseniano. Infatti:

In questa architettura, l’empatia — intesa come un ri-trovarsi, riconoscere l’alterità — segnala un percorso interpresonale che non risiede in una premessa biologica, ma nella scelta del soggetto di «mettersi nei panni» dell’altro, realizzando un tipo di progetto che comincia proprio dalla relazione interpresonale. Se fosse consegnato nelle mani della natura non avrebbe ragion d’essere la riduzione fenomenologica che, appunto, non si basa sulla natura, ma, attraverso il metodo fenomenologico, è essa stessa oggetto di chiarimento (…). L’empatia indica e sottolinea l’esperienza dell’altro, nel rapporto con l’altro l’io diventa se stesso cogliendo l’alterità in prima istanza come corpo, corporeità e quindi fisicità in un luogo e in un tempo: è la possibilità di incontrare la realtà in modo non privilegiato cognitivamente, non puro e asettico ma ricco di significatività.18

Ne emerge che:

L’aggettivazione di purezza, in tal caso, non è più in direzione della purificazione dal contesto reale, della decontaminazione della scelta dell’uomo di relazionarsi empaticamente, ma al contrario è tale perché riferita alla persona: il diritto puro è — in Stein — il diritto della persona.19

Prendendo le mosse da queste considerazioni si può dunque giungere ad affermare che se la Grundnorm rappresenta l’origine della forma pura del diritto, la Urnorm, husserlianamente intesa, posta alla base dell’ordinamento giuridico ed interpretata alla luce di quanto emerge dalla chiarificazione di Stein, sembra pertanto manifestarsi come il contenuto puro del diritto.

2. Conoscenza intenzionale e determinazione causale

Alla luce di quanto esposto si rende evidente il fatto che per chiarire la differenza tra Grundnorm e Urnorm è necessario partire dalla prima per notare successivamente come l’introduzione dell’originarietà dell’elemento intersoggettivo ne metta in crisi la costruzione normativa pura.

È importante rilevare innanzitutto che, nella sua costruzione teorica pura, Kelsen elimina la collettività come elemento reale, idealizzando lo Stato e la società necessaria a preservare il sistema giuridico positivo. In Kelsen l’unica vera realtà diviene la necessità di preservare l’individualità mentre la collettività si traduce in idea. Proprio la rimozione di una realtà collettiva costituita dall’incontro tra individui conduce dunque alla costruzione artificiale sia delle forme che dei contenuti di un diritto basato su quella norma fondamentale che legittima un sistema fondato sulla mera legalità formale dell’ordinamento giuridico. Si mostra che:

Questa norma base quindi non è una norma nel senso in cui Kelsen parla delle altre norme, perché è un atteggiamento delle persone, cioè un convincimento, un insieme di convinzioni delle persone, le quali convinzioni sono appunto fatti psicologici, fatti sociologici; appartengono cioè a quel mondo del Sein che Kelsen vorrebbe lasciare da parte quando parla delle norme.20

Emerge, a questo punto, che la preservazione dell’individualità viene elevata a principio cardine del sistema poiché Kelsen avvia la sua riflessione giuridica prendendo le mosse da una concezione basata sulla determinazione causale di ogni volere umano. In un simile scenario, qundi, si rende necessario istituire una legalità che definisca i confini dell’io costruendo in questo modo, per ogni soggetto e in ogni fattispecie, un artificiale centro di imputazione da cui far discendere, di volta in volta, l’applicazione di una specifica norma di legge. L’individuo diviene, in ogni situazione, un centro di imputazioni e smette di essere considerato come un soggetto responsabile. A tal proposito infatti Kelsen afferma:

Così come la causalità è il principio fondamentale per conoscere la natura, l’imputazione è il principio base della conoscenza della società come ordinamento normativo

È evidente che in Kelsen, il principio base è sempre la causalità, la quale, ricondotta nell’ambito del contesto relazionale diviene mera imputazione. La conoscenza naturalistica e la conoscenza dell’altro nella società, fondate sulla determinazione causale del volere umano, restano ancorate ad un principio che non lascia spazio ad una libera autodeterminazione del soggetto, restando appunto preclusa, in questa direzione, la scelta di rivolgersi intenzionalmente all’altro. Afferma ancora Kelsen:

La differenza decisiva tra i due principi consiste nel fatto che la catena di causa ed effetto ha un numero infinito di anelli, per cui non vi può essere una causa prima, essendo ogni causa necessariamente l’effetto di un’altra; mentre la catena dell’imputazione ha solo due anelli, crimine e punizione, merito e permio, sicchè se la punizione viene collegata al crimine e il premio al merito, essa è già completata. Il fatto che l’uomo come membro della società, soggetto ad un ordinamento normativo, sia «libero» non significa che la sua volontà è il punto di partenza della causalità, ma piuttosto che egli è il punto finale dell’imputazione. L’idea illusoria della volontà come causa prima è il risultato della confusione metafisica tra realtà e valore, natura e società, causalità e imputazione; cioè è un’errata interpretazione del punto finale dell’imputazione come causa prima.21

Si comprende da questo passaggio che, presupponendo la mancanza di una volontà come causa prima, Kelsen è conseguentemente portato a concepire l’individuo come «il punto finale dell’imputazione». In un ordinamento kelsenianamente concepito il soggetto coincide dunque con le norme che disciplinano il suo essere un centro di imputazioni. Ogni soggetto è orientato a difendere questa sfera normativa che lo definisce, riconoscendo in essa ciò che lo costituisce essenzialmente.

È qui che si mostra il motivo per cui l’ordinamento giuridico, kelsenianamente inteso, finisce per rafforzare il suo formalismo: le procedure e gli schemi del diritto contribuiscono a garantire il massimo livello di sicurezza alla intangibilità del soggetto della conoscenza il quale, tuttavia, sempre più chiuso in un sistema di protezione dall’altro e dalla responsabilità, viene a perdere definitivamente il principio della libertà dialogica nella relazione con un altro-io nonchè la titolarità della propria ipotesi di senso.22 Infatti, secondo Kelsen il diritto è una «tecnica sociale» che:

Consiste nell’indurre l’individuo ad astenersi dall’interferire con la forza nelle sfere di interessi altrui, mediante mezzi specifici: nel caso che una simile interferenza si verifichi, la comunità medesima reagisce con un’interferenza eguale nella sfera degli interessi dell’individuo responsabile dell’interferenza precedente.23

Appare chiaro quindi che nel sistema kelseniano non si incontrano più un io e un altro-io, bensì una sfera giuridica costituita da norme positive e un’altra sfera giuridica costituita da altrettante norme positive. La responsabilità viene frammentata in innumerevoli e confliggenti direzioni di senso con le quali il soggetto, di volta in volta, coincide, poiché, per preservare tale costruzione giuridica l’individuo non può considerarsi come un complesso unitario, né come il titolare del suo proprio conflitto. In quest’ultimo caso infatti, si metterebbero in discussione le singole norme tra loro potenzialmente confliggenti e dunque la stessa auto-costituzione dell’io effettuata per mezzo delle forme dell’ordinamento giuridico.

Si nota dunque che in Kelsen, il «principio», inteso come norma astratta dalla realtà del caso particolare ed indirizzata alla relazionalità, mette a repentaglio l’intangibilità delle singole disposizioni di legge destinate invece ad una costruzione puramente normativa dell’io, autonoma rispetto alla relazione intersoggettiva. Nella concezione di Kelsen, all’ordinamento giuridico, gli individui affidano il compito di costituire l’io. Di conseguenza non viene riconosciuta la validità di principi universali, bensì vengono creati contenuti giuridici che rimandano automaticamente a principi necessari alla preservazione dell’ordinamento stesso. Ne deriva che, in Kelsen, la norma giuridica è:

Un comando depsicologizzato: un comando la cui esistenza è divenuta autonoma dall’effettiva sussistenza dell’atto intenzionale dal quale esso ha avuto origine.24 Ebbene: secondo Kelsen, una norma giuridica — e in generale il diritto (…) — è (…) un artefatto intenzionale.25

Si rende chiaro che in questo modo viene ad affermarsi un sistema positivo che porta la collettività a costruire normativamente ed autonomamente la forma del «se stesso», anziché favorire la ricerca del «se stesso» — e della propria motivazione — in quella relazione intersoggettiva che avvicinando l’io alla realtà dell’altro, lo avvicina alla comprensione di sé. Si perde la possibilità di istituire un vero e proprio principio di diritto da destinare alla relazione giuridica. L’unico principio che si afferma resta quello che, come la Grundnorm, serve a giustificare tale complesso normativo puro.

3. Formalismo giuridico e formalismo conoscitivo

Alla luce di quanto esposto si mostra il fatto che, nella concezione kelseniana, la conoscenza della realtà relazionale è conseguentemente limitata a quel complesso di frammenti normativi che nell’insieme rappresentano la costruzione ideale che l’individuo crea di sé, destinata a riflettersi nell’ordinamento giuridico. Si afferma dunque, in Kelsen, un ego normativo che sostituisce la forma originaria dell’io, e che alimenta l’esclusione dell’altro favorendo la ricerca deviata della autocostituzione di sé.

Da ciò discende la concezione di un individuo chiuso in una rigida sfera di conoscenze, non comunicanti tra loro, che concorrono a determinare in maniera causale le sue azioni. Le conoscenze non costituiscono un tutto a disposizione dell’io, un complesso unitario distanziato rispetto alla fattualità, ma una serie di frammenti che, di volta in volta, appaiono come l’unica realtà.

Ogni individuo, in questa direzione, possiede una sfera di conoscenze che non può essere messa in comunicazione con la sfera di conoscenze di un altro soggetto. L’unica mediazione possibile nel momento dell’incontro con l’altro è la costruzione di una nuova realtà, ideale, normativa e convenzionalmente stabilita, che mantenga stabili gli elementi accessori degli ego normativi a confronto. La conoscenza dell’altro è esclusa poiché l’io si avvicina ad esso soltanto come ad un complesso di norme riferite ad un ego. Non ci si avvicina più all’essenza dell’altro poiché la comprensione della sua vera realtà, svelando l’artificio dell’ego normativo, farebbe crollare la convinzione dell’io di avere, alla stregua dell’altro, un sistema di protezione costituito da quella struttura normativa.

Secondo questo itinerario, l’oggetto della conoscenza, nel momento dell’incontro, non è mai l’altro, ma la sua struttura accessoria normativa, che di volta in volta, fornisce una fattispecie differente da classificare secondo quel rapporto con l’oggetto che coincide con un rapporto di dominio. A questo proposito infatti Kelsen afferma:

Esiste anche una certa affinità […] tra la teoria della politica e altre parti della filosofia, come l’epistemologia o teoria della conoscenza e la teoria dei valori. Il maggior problema della teoria politica è la relazione tra il soggetto e l’oggetto del potere; il maggior problema della epistemologia è la relazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza.26

A questo punto si nota come la visione filosofica di Kelsen relativa alla teoria della conoscenza condizioni il suo pensiero giuridico e giustifichi l’impianto normativo ideale della teoria pura del diritto. Kelsen afferma infatti:

Il processo del potere non è molto diverso da quello della conoscenza, attraverso il quale il soggetto cerca di dominare il suo oggetto portando un certo ordine nel caos delle percezioni sensoriali, e non si discosta troppo dal processo di valutazione attraverso il quale il soggetto dichiara un oggetto buono o cattivo e pertanto esperisce un giudizio sull’oggetto stesso.27

Se l’oggetto della conoscenza viene considerato al pari di un oggetto del dominio dell’io, favorire un confronto tra individui che si avvicinano alla conoscenza l’uno dell’altro significa esporre i soggetti al rischio di essere dominati dalla capacità conoscitiva dell’altro in uno scenario in cui viene riconosciuto valore normativo all’ideazione. In Kelsen infatti la norma non discende più dalla realtà del relazionarsi intersoggettivo, ma da una creazione logico-ideativa indipendente. La paura di essere conosciuto nella propria reale essenza e di essere trasposto nel piano ideativo dell’altro, conduce quindi l’io a costruire un sistema che funga da schermo. In questo modo i soggetti della relazione non conoscono ognuno il complesso unitario dell’altro ma ogni volta la norma della fattispecie che protegge il loro centro originario, la loro motivazione personale, la loro volontà; tutto ciò proprio perchè nella concezione kelseniana la conoscenza dell’altro viene vista come un potenziale mezzo per dominare l’altro: mostrando all’altro la propria essenza, l’individuo si aprirebbe alla possibilità di essere dominato dall’ideazione dell’altro.

A nulla rileva il fatto che tale dominio si estenderebbe soltanto all’interno dei confini della sfera logico-ideativa dell’altro, poichè in una concezione in cui la norma discende non più dalla conoscenza della realtà bensì dall’ideazione, il dominio dell’io nell’ideazione dell’altro comporta il possibile conferimento, agli altri soggetti della conoscenza, di potere normativo sulla costituzione di ogni individuo.

Consentire all’altro di dominare, a suo modo, la percezione che esso possiede dell’io, significa, nella direzione tracciata da Kelsen, dare all’altro, in ogni confronto intersoggettivo, la possibilità di definirne normativamente i confini. Per rimediare a ciò, nello scenario kelseniano, viene preferita una costituzione normativa dell’io convenzionalmente stabilita da una società che, per non intaccare il centro originario dell’io, resta ideale, lontana dalla relazione e priva di quei contenuti di valore che risiedono nelle soggettività a confronto.

È evidente tuttavia che tale costruzione ideativo-normativa è destinata a restare confinata nell’ambito della contingenza poiché non essendo fondata su un riconoscimento dei principi conseguente alla conoscenza dei valori delle soggettività, i suoi contenuti si affermano in maniera casuale o arbitraria. Infatti, come emerge dalla riflessione di Romano su Luhmann, se l’io non è più il soggetto responsabile delle proprie azioni ma un centro di imputazioni giuridiche, la realtà resta confinata in una struttura sociale costituita da un complesso di dati informazionali che nel loro insieme danno vita ad una contingenza che assorbe le realtà soggettive. In questa direzione:

Un rapporto tra conoscenza e realtà, rivolto alla ricerca della verità, non può proprio sussistere, poiché condurrebbe ad un sovraccarico di informazioni ed escluderebbe così la conoscenza, la renderebbe impossibile.28

Occorre però rilevare che tanto ciò è vero quanto si ammetta che il soggetto della conoscenza sia condizionato da questa necessità di imbrigliare l’oggetto all’interno di una classificazione conoscitiva che non lascia spazio ad interpretazione alcuna. Una conoscenza intesa secondo le forme di una rigida classificazione schematica è, in sostanza, ciò che conduce ad una concezione che equipara il processo della conoscenza ad un processo di dominio. Solo laddove si affermi il bisogno di costituire questo stringente schema classificatorio si realizza una forma di conoscenza che non viene liberamente mossa dalla volontà di comprendere se stesso tramite l’altro, ma dall’impulso a classificare l’altro in uno schema per dominarne la forma costitutiva, giungendo così alla convinzione di avere la possibilità di dominare anche la propria forma costitutiva.

Questo ego conoscitivo si realizza dunque sulla base di uno schematismo che tende a rafforzare la stabilità delle conoscenze a scapito della mutevolezza della realtà e della interpretazione del senso in formazione. L’impulso a dominare l’oggetto della conoscenza, e ad escludere le possibili interpretazioni soggettive, conduce ad affermare, nella linea di pensiero di Kelsen, che la conoscenza non è liberamente esercitata ma appunto è vincolata ad una determinazione causale condizionante.

Quindi se l’individuo, secondo Kelsen, nel percepire, subisce la conoscenza poichè condizionato dall’impulso a dominare il suo oggetto, ne consegue che la valutazione, il giudizio, la scelta, non sono intenzionalmente esercitati, ma sono al contrario subordinati alla necessità di ordinare, classificare, schematizzare la percezione che di volta in volta resta avulsa dal complesso unitario dell’io, relegata in un formalismo conoscitivo.

Si può osservare ora che, se da un lato la concezione kelseniana della conoscenza, trasposta nella realtà sociale, riduce i principi a norme destinate a giustificare un sistema ideale che esclude la realtà relazionale a favore di una costruzione ideativo-conoscitiva dell’io e della società, dall’altro lato, un ordinamento improntato alla qualità della relazione io-altro si mostra, al contrario, più aperto alla mutevolezza della realtà e a quel principio di diritto capace di inglobarne i contenuti quali elementi fondanti.

Infatti ciò che rileva a questo punto è la capacità dell’essere umano riunito in società di comprendere gli aspetti della propria conoscenza in un contesto relazionale che racchiuda una pluralità di soggetti della conoscenza. Se infatti le differenze tra soggetti comportano una differente percezione della realtà e un differente rapporto con gli oggetti, con il mondo e con l’altro, è proprio l’individuazione di un principo conoscitivo che si mostra saldo, valido per tutti, e duraturo, ad avvicinare l’individuo, inteso come essere reale dotato di una propria realtà, alla società, intesa come complesso ricomprendente la molteplicità data dai soggetti a confronto.

Infatti per essere compresa dall’individuo, una simile varietà di contenuti, se non concepita come il risultato di una molteplicità di relazioni strutturalmente uguali alla relazione io-altro, disciplinate da una norma originaria comune a tutte le relazioni intersoggettive, richiede necessariamente una astrazione creata in maniera positiva per mezzo di una idea di collettività classificata all’interno di forme troppo limitate per contenere le infinite direzioni di senso dei diversi soggetti della conoscenza.29 In questo ultimo caso il principio finisce per essere creato ex novo anziché riconosciuto all’interno di quel vasto complesso. La conoscenza viene abbandonata in favore dell’ideazione, la quale accresce, inventa, moltiplica, frammenta i contenuti del diritto. Infine, non potendo individuare una conoscenza condivisa se ne alimenta una fittizia che ha la funzione di giustificare l’attenzione del diritto alla costruzione normativa di un ego solitario che solo tramite l’auto-ideativo-normativa costituzione di sé riesce a stabilizzare il flusso di conoscenze che lo attraversa, allo scopo di trovare sicurezza nella fissazione di norme oggettive, e quindi logico-ideative, della conoscenza.

Il parallelismo tra teoria della conoscenza e principio di diritto mostra a questo punto che la rigida chiusura sistemica dell’individualismo è ciò che impedisce il riconoscimento del principio originario relazionale su cui poggia la capacità di giungere ad una originaria forma di conoscenza dell’altro. Si rende evidente infatti che se, in una situazione di assenza di regole, si ha quel dominio dell’angoscia e della paura che alimenta un individualismo teso alla mera sopravvivenza, allo stesso modo ed in maniera simmetrica, questa angoscia «sociale» corrisponde ad una angoscia nei confronti del reale, tipica dell’uomo che non è ancora uscito da una percezione pre-logica del mondo.30

In questo caso non vi è alcuna possibilità di riconoscere un principio vigente poiché la sopravvivenza dell’io si afferma come l’unica norma, essendo la realtà dell’io l’unica realtà.

Se dunque il principio si caratterizza per la distanza dalle singole disposizioni particolari e per la attenzione ad una realtà relazionale unitariamente concepita, è evidente che esso sarà tanto più valido quanto più riuscirà ad armonizzare norme confliggenti (molteplicità) per mezzo dell’analogia (unitarietà) secondo una concezione dell’analogia intesa come capacità di ampliare, di volta involta, il proprio punto di vista, aprendosi alla comprensione del complesso unitario costituito dalla molteplicità delle conoscenze. È in questo senso che si può affermare con Romano che «le strutture della coscienza dell’io, sono date all’uomo, non costituiscono una sua creazione, ma appartengono al singolo come forma in formazione ed in quanto tali manifestano la libertà che ha una struttura già data all’uomo e però è sempre in attesa di ricevere una ristrutturazione.» Seguendo questo itineratio emerge che «l’imputabilità e dunque il diritto si radicano nella struttura della libertà-volontà, che risponde dello scegliere una sua personale ristrutturazione, concretizzata in condotte inscritte nel mondo condiviso.»

Al di la della mera analisi dei processi cognitivi dunque non può che apparire di fondamentale importanza il fatto che:

L’altro uomo è quel Tu che infrange il mio essere chiuso nelle operazioni della coscienza=conoscenza; toglie il mio Io dalla condizione narcisistica di coincidere con le immagini di un me stesso spento nelle strutture impersonali e disincarnate della purezza del conoscere.31

Alla luce di ciò, si può far riferimento ad una particolare concezione della condizione umana primitiva prospettata da quanti tendono a dimostrare la discendenza della norma giuridica dalla determinazione causale applicata alla capacità conoscitiva dell’uomo. Secondo tale indirizzo l’uomo ‘primordiale’viveva un’angoscia del reale che si rifletteva nella necessità di ordinare la propria capacità conoscitiva per classificarne e dominarne i contenuti: In questa direzione si afferma che:

Una realtà non ancora ordinata in cosmo non poteva quindi apparire che caotica: i dati dell’esperienza erano inevitabilmente confusi, frammentari e contraddittori, formati da immagini che si accavallavano o sfumavano le une nelle altre, con un movimento continuo causante stupore, a volte terrore, sempre comunque angoscia. La fluidità del reale minacciava di riassorbirlo nella sua materia instabile: era necessario fissare in questa massa informe qualche punto fermo che consentisse di provare a trasformarla in «mondo».32

Secondo questa linea di pensiero, la mancanza di ordine nella conoscenza, allo stesso modo della mancanza di ordine nelle leggi, si mostra come fonte di angoscia da cui deriva la necessità causale di far prevalere il proprio interesse alla sopravvivenza sull’interesse alla conoscenza dell’altro. Il rafforzamento dei processi conoscitivi viene individuato come il momento in cui si passa dalla chiusura individuale in una sfera di conoscenze approssimative alla chiusura in una sfera di conoscenze abbastanza chiare da poter essere individuate come verità normative applicabili causalmente ed in maniera automatica all’idea di relazione intersoggettiva. L’ideazione, così come la conoscenza, si consolida, e viene trasformata in «mondo». Di qui la conseguente incapacità di relazionarsi all’altro secondo un principio conoscitivo libero dalla determinazione causale e da quel desiderio di dominio che conduce a considerare l’altro come una interferenza nella «sfera di interessi» dell’io. Ne consegue che l’individuo, invece di cercare nel mondo delle relazioni il senso in formazione caratteristico della spiritualità dell’io, mai classificabile all’interno di una forma di conoscenza divenuta strumento di dominio, avvia la costruzione ideale di un ‘mondo’dato non più dalle relazioni intersoggettive, ma da una intersezione delle singole idealità individuali che non mette in discussione la sfera di interessi dell’ego.

Proprio sulla base di questa prospettazione della condizione primordiale si può notare come, secondo G. Corsi:

La scoperta dell’idea di «norma» sia emersa originariamente come forma intellettuale di ogni operazione diretta al dominio e al controllo dell’altrimenti ignoto; come un rapporto d’implicazione che costituisce uno strumento per sopravvivere […] . In quanto rapporto d’implicazione, questa sorta di Urnorm, di norma «originaria», può essere vista ricomprendere in sé unitariamente:

  1. la descrizione della regolarità di eventi naturali;

  2. la prescrizione della regolarità di azioni umane.

Tale indirizzo interpretativo lascia emergere il fatto che partendo da una concezione deterministica della volontà umana, fondata sull’angoscia e sulla paura dell’incontro con l’altro, si giunge ad una norma primaria, (anche qui Urnorm) fondata tuttavia sulla determinazione causale. Si esclude la possibilità di conoscere l’altro in quanto altro soggetto della conoscenza. È preclusa quindi, in questo caso, la possibilità di giungere ad una conoscenza reciproca che consenta di individuare, al di là del reticolato di norme, di vissuti e di esperienze, la struttura originaria dell’io, basata non sugli elementi accessori dati dallo schema dell’imputazione, ma sulla centralità dell’elemento della volontà. L’ordinamento giuridico in questo senso si manifesta come l’insieme delle norme destinate a proteggere l’individuo dal dominio conoscitivo dell’altro.

Da quanto esposto emerge quindi che la Urnorm non si configura di per sé come una norma originaria destinata alla apertura relazionale, ma viene interpretata nell’uno o nell’altro modo a seconda delle distinte concezioni della volontà umana nella relazione intersoggettiva, dominata nell’un caso dalla determinazione causale, e nell’altro basata sulla originaria possibilità-scelta di rivolgersi all’altro.

4. Determinazione causale e motivazione indiretta in Kelsen

Il principio primo, in questa direzione, e seguendo la linea di pensiero di Kelsen, si rinviene, appunto, nella determinazione causale del volere umano. La volontà, in Kelsen, non ha alcuna causa prima e di conseguenza si manifesta soltanto come azione condizionata da uno scopo normativo. È l’ordinamento giuridico, in Kelsen, a stabilire il legame tra la causa normativa e l’azione dell’individuo. In questa prospettiva:

Un ordinamento sociale fa fare certe cose a certi individui. In che modo? Fornendo loro dei motivi per comportarsi in un certo modo anziché in un altro. L’ordinamento regola (organizza, ordina) la condotta reciproca dei consociati fornendo a ciascuno di essi dei motivi per compiere, o omettere, certe azioni anziché altre. La funzione di un ordinamento sociale consiste, in breve, nella motivazione del comportamento dei consociati.33

In questa prospettiva il motivo «è approssimativamente un fattore o un insieme di fattori di carattere psicologico che spinge (inclina, induce, o determina) ad agire in un certo modo».34 In questa direzione l’ordinamento giuridico fa le veci della psiche umana, divenendo, di fatto, un intelletto collettivo desoggettivizzato.

Pertanto lo schema dell’azione — e potremmo dire della scelta dell’individuo — per Kelsen si configura come di seguito:

Voglio conseguire lo scopo S.

A meno che non faccia A, non conseguirò S.

(Conclusione) Dunque devo fare A.35

Qui si presenta un ordinamento incentrato sul principio della motivazione indiretta:

L’ordinamento fornisce una motivazione «indiretta» a fare A perché non fa in modo che Tizio desideri, direttamente o immediatamente, fare A, di per se stesso. Piuttosto, fa in modo che il fare A sia connesso a qualcosa che l’individuo desidera ottenere, o evitare, di per se stesso (sia, cioè, un mezzo per ottenere, o evitare, S); e in questo modo fa del desiderio, o del timore, per S il motivo per fare A.36

È dunque chiaro, alla luce di quanto esposto, che la costruzione tipica della motivazione indiretta discende dal fatto che, ritenendo inesistente una causa prima data dalla volontà, l’ordinamento costruisce positivamente una motivazione normativa da cui consegue una volontà normativa. Muovendosi all’interno di questa volontà normativa collettiva, l’individuo non fa altro che trasferire se stesso, inteso come coincidenza dell’io con la propria soggettività, all’interno degli schemi normativi, al fine di effettuare l’elaborazione causalmente intesa dell’azione che in quel contesto si rivela migliore sulla base di un calcolo automatico dei vantaggi e degli svantaggi.

Si può notare quindi che, non riconoscendo la volontà come ciò che essenzialmente costituisce l’io, nè la motivazione personale come ciò che consente la presa di distaza dalla soggettivita, proprio la volontà viene sostituita dalla determinazione causale, e la motivazione personale da una motivazione indiretta fornita dall’ordinamento giuridico. L’azione diviene frammentata poiché non è più la motivazione del singolo a consentire l’ampliamento della prospettiva meramente fattuale, ma è l’ordinamento stesso che si fa carico di creare la distanza tra atto e scopo con l’istituzione di una motivazione indiretta, collettiva, e valida per tutti indipendentemente dalle soggettività. Non è più l’io, in sostanza, a dirigere la propria soggettività verso uno scopo, ma è lo scopo, normativamente posto, a determinare positivamente l’azione necessaria in relazione a quella specifica soggettività.

La soggettività viene a coincidere con la struttura dell’io e diviene un reticolato di vissuti, esperienze, e conoscenze, privo di un titolare. L’azione viene semplicemente individuata sulla base di quanto è «già dato» da una conoscenza che, senza l’elemento intenzionale dato dalla motivazione personale, acquisisce passivamente le informazioni, elabora automaticamente i dati, e crea arbitrariamente i suoi tautologici contenuti (ideazione) .

A questo punto è interessante notare, come fa Bruno Celano in «La teoria del diritto di Hans Kelsen», che portando il discorso di Kelsen alle estreme conseguenze, si arriva a concludere che la motivazione è sempre determinata da fattori non riconducibili al soggetto e dunque rappresenta in ogni caso una forma di coercizione. Non essendovi, per Kelsen, una motivazione personale propria dell’uomo, la motivazione deriva necessariamente dalla contingenza, dalla causalità, dalla fattualità. Ne deriva che, secondo Kelsen:

  1. Ogni forma di motivazione è una forma di coercizione; dunque non è libertà.
  2. L’obbedienza volontaria è una forma di motivazione.
  3. (Conclusione) Dunque, l’obbedienza volontaria è una forma di coercizione (non è libertà).
  4. La coercizione può essere: 1. fisica (minaccia o impiego della forza fisica); 2. psicologica (coercizione «in senso psicologico»).
  5. L’obbedienza volontaria non è una forma di coercizione fisica.
  6. L’obbedienza volontaria è una forma di coercizione psicologica.37

È emblematico il fatto che, portata all’estremo, la tesi di Kelsen conduce ad affermare che l’obbedienza volontaria non è volontà poiché, non essendo data una motivazione personale, essa discende in ogni caso da una motivazione causale collettiva e dunque da una coercizione. Il motivo, in Kelsen, si presenta sempre come un fattore condizionante estraneo all’io:

Stando a questo modo di vedere, infatti, agire liberamente significa agire senza alcun motivo: chiunque abbia un motivo per agire in un certo modo, se un motivo è un fattore, o un insieme di fattori che spinge (induce, determina) un individuo ad agire in un certo modo (…), non è libero.38

5. Conoscenza dell’altro e motivazione personale in Husserl

Ora, proprio a partire dalla motivazione personale, si può avviare quel percorso tracciato da Husserl teso a svelare gli elementi che, mostrandosi essenziali nel momento dell’incontro io-altro, chiarificano il principio primo della relazione intersoggettiva.

È necessario innanzitutto osservare che, come afferma Romano:

le condotte umane si formano muovendo da ipotesi concepite dal pensiero di un io. Le ipotesi non sono il prodotto di operazioni materiali, non possono essere descritte come sintomi di organi del corpo.39

Come invece emerge dalla concezione kelseniana del diritto:

Nascendo dal pensiero le ipotesi riguardano l’interezza dell’io delle donne e degli uomini, che sono responsabili delle intenzioni concepite con i loro pensieri. Tuttavia non è possibile dominare integralmente ciò che viene pensato, poiché molteplici contenuti del pensiero si presentano senza essere stati voluti. Appartengono anche alle memorie involontarie, relative a situazioni diverse; sono sollecitati dal presentarsi di trasformazioni non prevedibili dell’ambiente, che colora la realtà storica della condizione umana.40

Emerge chiaramente da queste considerazioni che la consapevolezza di non poter dominare integralmente ciò che viene pensato apre la via alla libertà della interpretazione delle ipotesi di senso dei soggetti delle relazioni. La conoscenza, mai assoluta e mai fissabile in forme di pensiero condizionanti, può e deve essere esercitata intenzionalmente, mai dominata. Il dominio è quanto di più distante dalla conoscenza.

In questa direzione conoscere la propria capacità di conoscere significa accettare il limite di ciò che non si conosce e quindi individuare nel principio della apertura alla relazione giuridica la possibilità di adeguare costantemente alla realtà il complesso delle conoscenze dell’io. Al contrario, non accettare l’inconoscibilità significa avviare quell’ideazione sostitutiva che crea positivamente i contenuti della conoscenza secondo un principio teso a stabilizzare le conoscenze dell’io in un incontro con l’altro che diviene uno scontro tra sfere di conoscenze immutabili.

Nella direzione tracciata da Romano quindi si può affermare conseguentemente che, poiché la conoscenza non discende dalla determinazione causale né dal desiderio di dominio, l’imputabilità non coincide con l’imputazione necessaria a preservare l’io dal desiderio di dominio dell’altro bensì:

È radicata nella qualificazione personale, nelle motivazioni del pensiero e della volontà, che formano le condotte e non sono semplicemente il risultato di una combinazione di elementi occasionali, ma presentano la forma in continua formazione dell’identità esistenziale scelta e voluta dall’io.^[41]

In questo senso il soggetto non subisce la conoscenza come il risultato di una attività meramente biologica, bensì sceglie di esercitare intenzionalmente la sua conoscenza riconoscendo nella scelta di conoscere ciò che lo costituisce.41 Infatti, secondo Romano:

La conoscenza, non radicata nella volontà e non imputabile alla libertà, è il vedere, formativo del «conoscere» degli animali, ma non esaustivo dell’uomo, che sceglie di conoscere quel che vuole conoscere, avviando le diversificate attività della ricerca, irradiate dalla priorità esistenziale della ricerca del senso.42

Seguendo questa linea di pensiero è possibile avviare una analisi del concetto di «Urnorm» incentrata su una fenomenologia tesa a svelare il fondamento della qualità della relazione in rapporto proprio ad una teoria della conoscenza che consente di far emergere la scelta responsabile del valore nel contesto intersoggettivo.

Di qui la distinzione tra sentimento (soggettivo) e valore (oggettivo) essenziale ai fini della emersione di quella norma fondamentale che, fornendo un «apriori materiale intersoggettivo», può consentire la conoscenza della soggettività necessaria ad effettuare una scelta di valore e guidare così l’agire umano nella direzione del rispetto di sé stesso conseguente alla conoscenza delle soggettività a confronto.

Prendendo spunto dal saggio di Venier, «Norma fondamentale e fenomenologia dei valori», si può affermare infatti che il concetto di Urnorm si mostra strettamente collegato alle questioni dell’etica e della libertà di scelta dell’uomo. Qui si nota che nella prospettiva di Husserl:

Prima ancora di chiedersi quali siano i valori positivi da tradurre in una prassi razionale e quindi quali siano le norme effettive rispetto alle quali poter orientare il nostro agire, la questione etica privilegiata è (…) quella di saper riconoscere la propria motivazione personale, quella norma fondamentale che può essere rintracciata esclusivamente in relazione alla propria vocazione (Bestimmung): una norma in grado di orientare il proprio agire razionale verso una buona vita etica assolutamente dovuta, in grado di individuare «lo scopo guida che sta in cima a tutto, come la strategia per la guerra o la medicina per la salute, come se fosse uno scopo ultimo».43

Dunque alla luce di ciò si rende evidente che solamente a seguito della individuazione di una motivazione personale è possibile fondare un diritto che successivamente positivizzi i contenuti «giuridici» del relazionarsi intersoggettivo in una norma fondamentale che rinvia al rispetto delle soggettività e delle motivazioni dei singoli. È chiaro tuttavia che in questo caso la precedenza della motivazione personale rispetto alla norma fondamentale non deve essere intesa in senso temporale ma in senso logico. Nella linea di pensiero di Kelsen, come visto in precedenza, si è portati ad individuare un momento in cui l’individuo passa da uno stato primordiale, dominato dall’impulso individualista alla sopravvivenza, a uno stato relazionale, basato allo stesso modo sulla determinazione causale ma arricchito da una psiche che inizia a distinguere in maniera meno approssimativa i contenuti della conoscenza.

Secondo la direzione tracciata da Husserl invece non vi è una temporalità connessa alla costituzione di un individuo inteso come soggetto di diritto: l’individuo, in un contesto sociale-relazionale, manifesta i tratti caratteristici della giuridicità nella titolarità della scelta di riconoscere l’altro e di considerarlo, allo stesso modo, un soggetto della conoscenza. Di conseguenza l’’io primordiale’di Husserl non ha nulla a che vedere con un ‘io’storicamente individuabile e caratterizzato da specifiche determinazioni, bensì rappresenta la struttura originaria di un soggetto della conoscenza considerato in potenza, il quale, già si presenta, di per sé, un soggetto di diritto indipendentemente dalla effettiva esecuzione dei processi psichici che forniscono una determinata sfera di conoscenze.

Se in Kelsen dunque la classificazione delle conoscenze da parte dell’io rappresenta il momento in cui l’individuo diviene un soggetto di diritto, in Husserl, al contrario, il soggetto della conoscenza è un soggetto di diritto indipendentemente dalle sue conoscenze. È evidente che nella prospettiva di Kelsen le conoscenze forniranno il materiale necessario a costruire idealmente, di volta in volta, i contenuti del diritto in uno specifico contesto storico, mentre nella direzione di Husserl, il diritto sarà sempre fondato sul principio che sancisce la parità e l’uguaglianza tra due soggetti della conoscenza che, in quanto tali, possiedono intrinsecamente la scelta di conoscere.

Nella direzione di Husserl i contenuti della conoscenza non possono modificare o creare principi di diritto perché il principio si rinviene in tutto ciò che concerne la parità dialogica tra i soggetti della conoscenza indipendentemente dalla fattualità. Dunque, come afferma Avitabile in riferimento all’opera di E. Stein, ne deriva che «l’uomo, proprio nella sua qualità di soggetto di diritto, è titolare di diritti incondizionati che trascendono il diritto positivo e il suo storicizzarsi in forme anche contro-giuridiche». Emerge infatti che «la persona, o il soggetto giuridico, attraverso il diritto attualizza una sua dignità, entrando di conseguenza nella dimensione oggettiva del diritto con una sua «realtà giuridica», derivante dall’essenza giuridica»44

È dunque a questa essenza giuridica propria della realtà dell’individuo che occorre far riferimento per comprendere la Urnorm husserliana. Al contrario invece:

Nella teoria di Kelsen la Grundnorm ha un rapporto con gli enunciati normativi tale da fondarsi all’interno di una dottrina che non permette valutazioni sul giusto e sull’ingiusto ma produce in sé l’idea del «giusto» attraverso una manifestazione convenzionale, in questo senso la norma fondamentale può «fondare» sia una società criminale che uno stato legale.45

Ora, tornando al saggio di Venier di cui si è detto, occorre notare che anche se il termine «Urnorm» viene richiamato soltanto nel finale, tuttavia è proprio l’analisi che precede a mostrare l’importanza di avvicinarsi gradualmente a tale concetto indagando gli aspetti principali del rapporto tra percezione e intenzione, conoscenza e norma, individuo e mondo.

Venier infatti giunge alla interpretazione di una norma fondamentale husserlianamente intesa affrontando la tematica intersoggettiva a partire dalla possibilità di coniugare il sentimento ed il valore nel momento della percezione del bene.

Proprio da questo tema prende avvio un discorso che mostra come dall’analisi della conoscenza si possa giungere a quella norma fondamentale personale, necessaria per l’individuazione di valori comuni all’interno dell’ordinamento sociale.

Si nota innanzitutto come in Husserl il fondamento dell’attribuzione del valore alla sensazione sia l’intenzione. Seguendo la ricostruzione del pensiero di Husserl fornita da Venier, si osserva che la sensazione, riferita ad un oggetto in quanto da esso provocata, diviene sentimento grazie alla attenzione che il soggetto vi pone. In questo modo, tramite l’intenzione, l’io trasferisce il suo complesso unitario costituito dai vissuti, dalle esperienze e dalle conoscenze, sulla situazione che, a questo punto, viene filtrata attraverso il reticolato costituito dalla molteplicità unitaria di quell’io che, così, intenzionalmente, percepisce.

L’oggetto quindi, nell’interiorità dell’io, aquista una valenza conferita ad esso a seguito della classificazione delle sensazioni provocate, le quali, una volta riconosciute e reindirizzate all’oggetto divengono sentimento.

Il sentimento infine diviene valore, secondo Husserl, nel momento in cui l’io, nel rispetto della sua motivazione personale, confronta tra loro i sentimenti al fine di effettuare una scelta.

La scelta, in Husserl, si presenta dunque, di per sé stessa, una scelta di valore. Tuttavia questa scelta è concessa solo laddove l’io riconosca i suoi sentimenti come parte di una soggettività distinta rispetto ad uno spazio proprio e «primordiale» dell’io. Nessuna scelta infatti sarebbe data se l’io, coincidendo con sensazioni e sentimenti, non avesse la possibilità di conoscere quella sfera soggettiva.

Vi è allora, come detto, una prima forma di trascendenza che, in Husserl, si mostra come una «riduzione fenomenologica» che consente di considerare la propria soggettività come un che di distinto rispetto alla propria struttura originaria. Tuttavia vi è una seconda e più importante forma di trascendenza che consente di ricondurre tale trascendenza primaria alla realtà dell’altro.

Questa trascendenza intersoggettiva secondaria discende dalla comprensione del fatto che la propria motivazione personale esiste in quanto distinta dalla motivazione personale dell’altro. L’elemento che impedisce l’identificazione dell’altro all’interno della sfera propria dell’io è infatti il riconoscimento di una volontà altra che non si conforma alla mera determinazione causale, la quale al contrario potrebbe ben risultare parte di una realtà interna all’io.

Ciò che rileva quindi, è il fatto che senza il confronto con l’altro, l’io non potrebbe giungere a concepire la sua soggettività come un complesso unitario esperibile dal soggetto che conosce. Solamente tramite la riduzione primordiale,46 secondo Husserl, è possibile confrontarsi con l’altro per lasciare emergere il proprio dei soggetti dell’incontro, rinvenibile nella struttura monadica dell’io.

L’incontro con la scelta dell’altro, quindi, si mostra come l’elemento che consente all’io di osservare una direzione di senso differente rispetto alla propria, e conseguentemente, una motivazione che discende da qualcosa che non è riconducibile al rapporto causale tra la struttura monadica e la realtà sociale collettiva.

Se infatti la scelta dell’altro derivasse direttamente dalla determinazione causale l’io sarebbe portato a concepire la scelta dell’altro come il frutto della naturale applicazione della monade al contesto sociale. Osservando solo azioni calcolabili e predeterminabili l’io non avrebbe alcun elemento per considerare realmente esistente un altro soggetto titolare di un complesso di applicazioni automatiche.

Al contrario invece, si riconosce necessariamente un proprio nella scelta dell’altro, identificabile nella motivazione personale, che esclude qualsiasi possibile aspettativa dell’io data dal calcolo deterministico-matematico delle possibilità dell’altro.

La motivazione personale si mostra pertanto come l’elemento che manifesta l’esistenza di una scelta propria dell’altro, indipendente dalla determinazione causale. A seguito della «riduzione primordiale»,47 l’io prende consapevolezza dell’esistenza di una scelta che sfugge alla determinazione causale, facendo emergere, in questo modo, nel contrasto con quella dell’altro, la propria motivazione personale.

Si nota dunque che in Husserl è la conoscenza della motivazione personale a consentire la presa di distanza dalle singole sensazioni e dalle singole conoscenze, con le quali altrimenti l’io verrebbe a coincidere.

Pertanto, tramite la riduzione fenomenologica, un primo riconoscimento delle sensazioni consente di uscire dalla condizione infantile o animale caratteristica di un «essere meramente sensibile» e di ricondurre la sensazione ad un oggetto dando vita al sentimento. Tuttavia, anche con la comprensione delle sue sensazioni l’individuo avrebbe ben poca libertà di scelta laddove queste restassero confinate nella sfera soggettiva intesa come una realtà assolutamente autonoma e distinta rispetto alla realtà dell’altro. L’insieme delle sensazioni infatti, non riferite ad oggetti, e prive dell’intenzione, condizionerebbero, come semplici pulsioni, il comportamento umano e l’io, subendo conoscenze imposte da una percezione sensibile slegata dalla comprensione del rapporto tra sensazione e oggetto, sarebbe privo di scelta.

Solamente con la riduzione primordiale si ha l’introduzione della scelta tra sentimenti, fondata su una conoscenza delle conoscenze (motivazione personale) scaturita dall’incontro con l’altro. In questo modo l’io si eleva al di sopra della relazione tra sensazione ed oggetto (sentimento) e diviene il titolare della possibilità di instaurare quella specifica ed intenzionale relazione tra sensazione e oggetto (valore) destinata a prendere forma in un contesto relazionale intersoggettivo in cui ogni soggetto effettua una sua scelta di valore.

È di estrema importanza notare tuttavia che il complesso unitario dell’io è costituito da una complessità attiva, data da tutte le scelte e le intenzioni razionali e consapevoli, e da una complessità passiva, costituita invece da quanto, accolto come recezione inconsapevole, si stabilizza nelle forme di una conoscenza abitudinaria, ritenuta già data e potenzialmente immutabile. La questione rilevante a tal proposito, e che Venier chiarisce sin da subito, è che in questo caso non si tratta di due distinte soggettività, bensì di una soggettività complessiva costituita da due tipi di conoscenze differenti, l’una consapevole ed attiva, l’altra inconsapevole e passiva.

La capacità del complesso recettivo passivo di condizionare l’io nelle sue scelte e nella sua intenzionalità deriva dalla inconsapevolezza della propria sfera di conoscenze, cioè dal fatto di non aver voluto o scelto i contenuti di quella conoscenza, ma di averli subiti passivamente. Si può osservare inoltre che tali contenuti passivi della conoscenza possiedono una forza coattiva: laddove i contenuti della conoscenza siano scelti dall’io si avrà la consapevolezza di potere, allo stesso modo, scegliere di modificare il proprio punto di vista, e di effettuare nuovamente una scelta di valore. Al contrario invece, trovando dei contenuti della conoscenza stabilizzati attraverso forme di cui non si ha consapevolezza (desiderio di dominio e determinazione causale), non sarà altrettanto possibile ritenerli soggetti ad un processo di revisione basato sulla scelta, poiché essi saranno considerati alla stregua di conoscenze normativamente imposte.

La questione rilevante sta nel fatto che il complesso di conoscenze recettive passive è presente in ogni soggetto. Il punto fondamentale è che in Husserl quel complesso di conoscenze passive fa parte di una soggettività che viene esperita e conosciuta. In questo modo gli elementi recettivi della conoscenza si mostrano per ciò che sono, ovvero elementi accessori rispetto alla struttura dell’io. In Kelsen, invece, la questione è completamente differente, poiché, secondo quest’ultimo, anche le conoscenze passive, così come tutto il complesso di conoscenze, costituiscono la struttura dell’io. In Kelsen, non essendo rintracciabile una volontà originaria, emerge un individuo che coincide con le sue conoscenze e che resta imprigionato in uno schema costituito da conoscenze attive e passive.

A partire da questo presupposto si rende evidente il fatto che queste due diverse concezioni mostrano le due diverse interpretazioni della norma fondamentale discusse sopra. In Kelsen la stabilizzazione della conoscenza acquisita passivamente porta l’individuo a creare una norma fondamentale con funzione stabilizzante e ad alimentare una logica sempre più distante dalla realtà e sempre più ideale. L’intelletto in questo caso, lontano dalla realtà relazionale, viene dunque a dominare la relazione in maniera puramente formale e conduce alla costruzione ideale dei contenuti del diritto; l’altro viene ridotto a pura idea e si perde definitivamente la possibilità di incontrarlo nella sua reale essenza ovvero come un altro uguale all’io ma titolare di una scelta che manifesta una personalità differente da quella dell’io. In Husserl invece, la comprensione della mutevolezza della conoscenza conduce ad una norma fondamentale:

Che, senza smarrire il suo carattere di assolutezza, deve essere continuamente riguadagnata, riconquistata attraverso quella continua lotta con se stessi, una «lotta per una vita piena di valore», in cui si cerca di comprendere e dare ordine alla propria parte pulsionale ed alla propria dimensione passiva istintuale.48

Questa forma di conoscenza, come intesa da Husserl, è la sola che consente di conoscere se stessi al di là del formalismo dei processi conoscitivi e della stabilizzazione delle conoscenze. Conoscere se stesso, seguendo questa linea di pensiero, significa infatti conoscere la propria capacità di percepire, di classificare le percezioni, e di organizzarle in una unitaria sfera di conoscenze. Non più dominare la percezione, ma conoscere il modo in cui l’intelletto classifica, ordina, organizza.

L’io in questo modo non coincide più, come nello scenario kelseniano, con la logica formale dell’intelletto ma, grazie al confronto con la scelta dell’altro, ovvero con la motivazione personale dell’altro, giunge a riconoscere la propria sfera di conoscenze e ad effettuare, all’interno di essa, una scelta di valore.

È necessario considerare a questo punto il fatto che tale scelta si rende possibile solamente a seguito del superamento-conservazione della logica formale dell’intelletto. Questo superamento, reso possibile dal riconoscimento del complesso unitario dell’altro e dalla accettazione della uguaglianza strutturale con l’altro, consente la comprensione dell’esistenza di una motivazione personale distinta dalla propria, di una volontà autonoma riferibile all’altro, e quindi di una volontà umana indipendente dalla determinazione causale.

Pertanto, una volta superata la coincidenza con il puro intelletto, la conoscenza della propria capacità di conoscere consente all’io di prendere consapevolezza della cristallizzazione di percezioni inconsapevoli e della stabilizzazione di conoscenze abitudinarie, destinate a divenire ideazioni indipendenti rispetto alla scelta di valore.

Maggiore è la conoscenza della propria capacità di conoscere, maggiore è la comprensione della limitazione alla conoscibilità, e l’apertura alla discussione, al confronto, alla relazione. Il sapere si avvicina in questo modo sempre di più alla consapevolezza di non sapere. È esclusa la rigidità della conoscenza assoluta; la realtà non viene mai fissata in immutabili principi logico-ideativi poiché la comprensione della mutevolezza conduce l’io ad aprirsi alla ricerca del senso, costantemente in formazione, in una realtà, dominata dal solo principio, originario e senza tempo, della conoscenza di sé nella relazione io-altro.

Si arriva in questo modo a riconoscere infine la possibilità di individuare un «Io morale» che è, per Husserl, uno:

Specifico io-razionale, quell’io ideale in grado di condurre a se stessi, tramite il continuo sviluppo coerente delle proprie motivazioni, nella costante attuazione della vocazione (Bestimmung) personale. Si tratta quindi di un’idea normativa che l’io empirico ha stabilito per sé come auto-regolativa, una norma originaria (Urnorm) che sta al fondo stesso della possibilità, sia di un significato permanente per un’identità che chiamiamo «io», sia della costante ricerca personale che deve guidare la nostra vita. E dunque «il fine della ricerca di sé non è l’auto-conservazione ma un costante divenire se stessi (Selbstwerdung) […] che dobbiamo praticare nel senso più vero; la ricerca di sé, del vero sé, consiste in un continuo trovare e in un continuo cercare.» Nel mettere in pratica la propria vocazione, la propria norma fondamentale, la volontà si fonde quindi con la motivazione.49

Si mostra chiaro come questa prospettiva sia diametralmente opposta rispetto a quella kelseniana poiché, proprio questa idea normativa di sé che in Kelsen è imposta da una collettività che crea artificialmente la forma dell’io, in Husserl è, al contrario, ciò che l’individuo stesso continua a cercare, ad esperire, a conoscere, nell’incontro con l’altro. Non vi è alcuna norma della stabilizzazione dell’ego normativo, ma una norma della apertura all’altro finalizzata alla conoscenza di quell’io che nel rapporto modifica se stesso senza modificare il proprio della relazionalità.

È evidente allora che, in Husserl, proprio l’introduzione dell’elemento oggettivo, scaturito dalla scelta intenzionale del sentimento che diviene valore, consente un raccordo tra mondo interiore soggettivo e mondo esteriore intersoggettivo. La soggettività viene preservata grazie alla consapevolezza della sensazione data dalla realtà della relazione; l’oggettività del valore si rende invece possibile grazie all’intelletto, forma pura di quel reticolato personale di ogni soggetto, che avvia alla possibilità di mettere a confronto le interiorità dei soggetti delle relazioni. L’incontro tra la soggettività dei sentimenti, personali ed unici per ogni individuo, e l’oggettività dei valori, frutto di un intelletto formalmente uguale per tutti, garantisce una mediazione tra una forma pura del diritto (puro intelletto) che da solo rimuoverebbe la realtà del relazionarsi mutevole, ed il contenuto puro del diritto (pura sensazione), che da solo escluderebbe una forma necessaria ad evitare il dominio della contingenza del relazionarsi.

È proprio in questa capacità umana di instaurare la mediazione tra sensibilità ed intelletto a seguito del confronto con l’altro dunque che può ravvisarsi quel principio originario che in Husserl appare come la norma primaria posta alla base di un diritto teso al rispetto della realtà personale degli individui. La norma originaria husserlianamente intesa si configura quindi come una «norma fondamentale personale» che ogni individuo riconosce vigente per se stesso e che discende dal rispetto di se stesso e della proria realtà personale nel confronto intersoggettivo. Se dunque la Grundnorm è un principio necessario, in quanto teso a giustificare una costruzione giuridica ideale che rispecchia l’idealizzazione della collettività, la Urnorm si mostra invece come una norma indirizzata all’unica realtà, ovvero a quella relazionale di un incontro io-altro teso al rispetto di due personalità a confronto che osservandosi e comprendendosi, escludono quanto riconoscono appartenere ad aspetti accessori, lasciando emergere la struttura originaria dell’io, non isolata ma concepita all’interno di un mondo di relazioni, intese come relazioni, di per sé stesse, giuridiche.


  1. Il termine ricorre sia in »Einleitung in die Philosophie», in riferimento ad una norma originaria data dall’esperienza, sia nelle «Caresianische Meditationen», in un passo in cui Husserl afferma: «io stesso sono, nell’ordine della costituzione, la norma originaria di tutti gli uomini». «Alles Wissen über die Natur, alle über sie gebildeten Meinungen, alle für sie möglichen Begriffe und Sätze haben ihre Urnorm, obschon nicht die voll ausreichende, in der Erfahrung.», Einleitung in die Philosophie, cit. p. 474; «Zu der Problematik der Anomalitäten gehört auch das Problem der Tierheit un ihrer Stufenfolgen »höherer und niederer? Tiere. In Bezug auf das Tier ist der Mensch, konstitutiv gesprochen, der Normalfall, wie ich selbst konstitutiv die Urnorm bin für alle Menschen.», Cartesianische Meditationen, cit. p. 125. ↩︎

  2. Secondo Dan Zahavi infatti, lo stesso concetto di Urnorm può essere interpretato in una duplice direzione poiché affermare che la Urnorm è il fondamento di ogni esperienza dell’altro può significare che essa rappresenta, da una parte, una spece di matrice a cui l’individuo deve affidarsi per creare mentalmente la sua conoscenza dell’altro, e dall’altra parte, un piano sulla cui base l’altro può essere esperito in quanto ‘altro’. «When Husserl insist […] that this Urnorm is the foundation of every experience of others (Husserl 1973a: 57; 1973b: 125-6), one might understand the notion of Urnorm in two rather different ways. Either one can understand it as a kind of matrix that I rely and draw on when understanding others. On this reading, Husserl would claim that the subject interprets others in terms of a sense of mentality that it has first grasped in foro interno and which it then projects and imposes more or less successfully onto others. Another possibility, however […], is to see the self-experience in question as a necessary foil on the basis of which others can be experienced as others.», cit., Dan Zahavi, Self and Others: Exploring Subjectivity, Smpathy, and Shame, Oxford 2014, p. 136. ↩︎

  3. V. Venier, La norma fondamentale. Husserl e la fenomenologia dei valori, Thaumazein 2, 2014. «Solo nel saper riconoscere la propria autentica motivazione personale e nel volerla realizzare si rivela allora il vero carattere della volontà etica e il valore di norma dell’imperativo categorico. Una volontà è eticamente buona, per Husserl, quando dirige il proprio agire e le proprie decisioni verso il bene in base all’apriori assoluto della motivazione personale.» Cit., p. 286. ↩︎

  4. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, Milano 2004, cit. p. 179. L’espressione è ripresa da B. Romano in Due studi su forma e purezza del diritto, p. 60. ↩︎

  5. L. Avitabile, Interpretazione del formalismo giuridico in E. Stein, Torino 2012, cit. p. 30. ↩︎

  6. Ivi, p. 8. ↩︎

  7. Ivi, pp. 8-9. ↩︎

  8. D. Bandiera, Tra corporeità, spazialità e immaginazione: forme dell’empatia in Husserl, Univ. degli Studi di Padova, Scuola di dottorato di ricerca in filosofia, XV ciclo, p. 13. ↩︎

  9. Ivi, pp. 13-14. ↩︎

  10. Ivi, p. 15. Secondo Bandiera «questo particolare tipo di nuova riduzione alla sfera del proprio ha come primo tratto essenziale quello di essere uno strato astrattivo interno alla riduzione fenomenologico-trascendentale; con parole più chiare: la riduzione al proprio viene effettuata sulla base della riduzione fenomenologica e di quella eidetica, le quali permangono sempre a fondamento, creando le direttive fondamentali anche per l’indagine sull’alter-ego, che non è mai dunque assunto ingenuamente come semplice essere contingente.» ↩︎

  11. Cfr., Venier, p. 280. ↩︎

  12. Ibidem, p. 267. ↩︎

  13. B. Romano, Il dovere nel diritto, Torino 2014. Secondo Romano la frammentazione dell’azione, tipica del funzionalismo macchinale, non è riconducibile alla condizione umana poiché la peculiarità dell’io risiede nella possibilità di effettuare una scelta responsabile tra le alternative aperte dal confronto dialogico con l’altro. Nella applicazione automatica delle norme si rinviene dunque solamente una macchinalizzazione della giustizia che spegne il senso in formazione caratteristico del confronto tra parlanti. La società macchinalizzata si afferma dunque, come emerge dal confronto che Romano instaura con le Lettere personali di O. Mannoni, laddove l’efficienza dell’applicazione oggettiva prevalga sui valori della persona e sul rispetto delle differenti ipotesi di senso dei soggetti delle relazioni giuridiche. ↩︎

  14. H. Kelsen, La democrazia, Bologna 1995. In Kelsen si rende evidente la connessione tra questa «idea» di libertà che si tramuta in ordinamento ideale, e una teoria della conoscenza tesa a mostrare una seconda «legalità», quella della legge della conoscenza, formalmente identica alla legalità naturale. «Se l’idea di libertà può diventare un principio di questa organizzazione sociale - di cui essa era la prima negazione - e perfino un principio di organizzazione statale, ciò è solo possibile attraverso un cambiamento di significato. La negazione assoluta di ogni legame sociale in generale e perciò dello Stato in particolare, porta al riconoscimento di una particolare forma di questo legame, la democrazia, che, col suo contrario dialettico, l’autocrazia, rappresenta ogni possibile forma dello Stato, anzi della società in generale. […] In termini della teoria della conoscenza, se la società deve esistere come sistema diverso dalla natura, accanto alla legalità naturale deve esistere una legalità sociale specifica. La norma viene ad opporsi alla legge causale. Dal punto di vista della natura, libertà significa, originariamente, negazione della legalità naturale o causale (libero arbitrio). […] L’ascesa alla società (o alla libertà sociale) significa «libertà dalla legalità naturale». Questa contraddizione si risolve soltanto allorchè la «libertà» diventa l’espressione di una legalità specifica cioè della legalità sociale (…), allorchè l’antitesi della natura e della società diviene quella di due legalità diverse e, quindi, di due modi diversi di considerazione.» Cit. pp. 46-47. ↩︎

  15. Cfr. B. Leoni, Lezioni di filosofia del diritto, Catanzaro 2003. «Per Kelsen, l’ordine giuridico è una specie di gerarchia di norme (…), in cima alla quale c’è una norma base che si chiama basic norm (in tedesco, Urnorm). Vi sono casi, dice Kelsen, in cui l’ordine legale viene ad essere completamente mutato, perché cambia la norma base. L’Urnorm a sua volta non è una norma - qui sta il punto critico di tutto il sistema kelseniano - come tutte le altre: in definitiva, più che una norma, è un atteggiamento delle persone; più che una norma intesa come proposizione linguistica da analizzarsi nella sua formulazione, è un atteggiamento delle persone che sono partecipi di un certo ordine giuridico. In virtù di tale atteggiamento queste persone riconoscono un certo numero di norme oppure riconoscono come legittime determinate autorità, alle quali poi compete l’emanazione delle norme. Se in una certa società politica le persone convengono di ammettere che determinati loro concittadini possano emanare una costituzione, le norme della costituzione non saranno le norme o la norma base; la norma base sarà questa specie di consenso delle persone di tale società, le quali ammettono che determinati loro concittadini creino la costituzione e sono pronti a obbedire alla stessa.» Cit p. 230. ↩︎

  16. L. Avitabile, Interpretazione del formalismo giuridico in E. Stein, cit., p. 53. ↩︎

  17. Ivi, p. 56. ↩︎

  18. Cit, ivi, p. 60. ↩︎

  19. Cit., ivi., p. 62. ↩︎

  20. B. Leoni, Lezioni di filosofia del diritto, Catanzaro 2003. Cit. p. 230. ↩︎

  21. Cit., H. Kelsen, La democrazia, Bologna 1995, p. 231. ↩︎

  22. B. Romano, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli, Torino 2009. «Nella situazione contemporanea, le intenzioni e le motivazioni sono sempre più svuotate della loro peculiarità; vengono trasmutate, come propone Luhmann, in elementi contingenti della struttura funzionale dei sistemi sociali. La Contingenza è il Nessuno di un mondo plasmato dal Nulla. Anche la descrizione del tempo presente continua però a mostrare che mai un uomo rinuncia al suo io ed alla sua parola; non acconsente che l’io di un altro prenda il posto del suo, né che le parole degli altri si sostituiscano alle sue. In ogni manifestazione del singolo uomo si coglie che «nessuno altro può fare al mio posto» quel che mi appartiene nel profondo, perché ne va «del mio tutto; è la mia persona e tutto me stesso che metto in gioco».» Cit. p. 18. Le espressioni riportate tra virgolette da Romano sono di M. Blondel (L’azione, cit. p. 69). ↩︎

  23. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1942, cit. p. 22, trad. it. Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, Etas 1966, p. 22. Passo riportato in B.Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, p. 59. ↩︎

  24. Cit., B.Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, p. 249. ↩︎

  25. Cit., ivi, p. 252. ↩︎

  26. Cit., H. Kelsen, La democrazia, Bologna 1995, pp. 119-120. ↩︎

  27. Ivi, cit., p. 120. ↩︎

  28. B. Romano, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli, Torino 2009, cit. p. 27. Qui Romano richiama l’espressione di Luhmann contenuta in Osservazioni sul moderno (p. 62). ↩︎

  29. B. Romano, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli. Secondo romano, nella prospettiva di Luhmann emerge che «la genesi della massa di dati si presenta nelle forme della contingenza, non riguarda la ricerca del senso, non si interroga sulla verità. Si tratta di una massa di informazioni che c’è ma non è di nessuno […]; è di una società senza autori». Cit. pp. 27-28. ↩︎

  30. Cit., G. Corsi, Legge, diritto, giustizia: Un percorso nell’esperienza giuridica, Torino 2013, cit. p. 11. ↩︎

  31. B. Romano, Due studi su furma e purezza del diritto, cit., p. 68. ↩︎

  32. Cit., ivi, p. 12. ↩︎

  33. B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, Bologna 1999, cit. p. 31. ↩︎

  34. Ivi, cit. p. 32. ↩︎

  35. Ibidem↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. Ivi, cit. p. 43. ↩︎

  38. Ivi, cit. p. 48. ↩︎

  39. B. Romano, Nichilismo finanziario e nichilismo giuridico. Coscienza e conoscenza, Torino 2012, cit. p. 30. ↩︎

  40. Cit., Ivi, pp. 30-31. ↩︎

  41. Cfr., B. Romano, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli. «Io voglio conoscere. La conoscenza non determina la mia volontà». Cit. p. 37. ↩︎

  42. Ivi, cit. p. 37. ↩︎

  43. V. Venier, La norma fondamentale. Husserl e la fenomenologia dei valori, cit. p. 300. ↩︎

  44. L. Avitabile, Interpretazione del formalismo giuridico in E. Stein, Torino 2012, cit. p. 72. ↩︎

  45. Cit., ivi, p. 42. ↩︎

  46. E. Husserl, Phänomenologie der Intersubjectivität. Zweiter Teil 1921-1928. «Io attuo, potrei dire, accanto a quella fenomenologica, la riduzione solitaria all’io solitario (Monade).» Cit. p. 264. La citazione di Husserl è riportata in italiano da Daniela Bandiera in Tra corporeità, spazialità e immaginazione: forme dell’empatia in Husserl↩︎

  47. Cfr. D. Bandiera, Tra corporeità, spazialità e immaginazione: forme dell’empatia in Husserl, Univ. degli Studi di Padova, Scuola di dottorato di ricerca in filosofia, XV ciclo. «L’altro si presenta come una Monade, cioè (…) come un’altra sfera originaria all’interno della mia sfera originaria stessa, come una trascendenza radicale in quanto raggiungibile, per così dire, solo in modo mediato, attraverso empatia, e mai invece attraverso quell’afferrare diretto che contraddistingue le cose «appartenenti» al mio mondo primordiale. Il termine monade è usato da Husserl in questo contesto in senso molto pregnante, come sinonimo di individuo, di soggettività concreta, mostrando chiaramente come «nella costruzione del concetto di «soggettività primordiale trascendentale» questa soggettività è concretamente inclusa.» Cit. pp. 24-25. ↩︎

  48. V. Venier, La norma fondamentale. Husserl e la fenomenologia dei valori, cit. p. 300. ↩︎

  49. V. Venier, La norma fondamentale. Husserl e la fenomenologia dei valori, cit. p. 301. ↩︎