Il Logos della fenomenologia. Spunti fenomenologici sull’interpretazione heideggeriana del fr. 50 di Eraclito

1. Introduzione

È auspicabile una lettura in chiave fenomenologica dell’Eraclito di Heidegger? Si può rintracciare nell’interpretazione del Logos una matrice intrinsecamente fenomenologica?

Queste le problematiche che stimolano e sorreggono il seguente intervento, il quale — per questioni interne alla sua stessa efficacia — si pone come una riduzione, una nota a margine del monumentale tentativo heideggeriano di inscrivere l’essere nell’oscillante quanto inesauribilmente cangiante rapporto di mutua implicazione tra cosa e pensiero.

Affrontare la questione della presenza di un indirizzo o di una semplice componente fenomenologica nell’opera del «secondo» Heidegger — dove essa si lascia individuare, andando oltre la tripartizione di Vattimo1 e collocandosi fuori dalla fraseologia della Kehre, per ciò che sussegue al naufragio del tentativo di risolvere la questione dell’essere all’interno dell’analitica esistenziale — comporta una serie di scelte ermeneutiche che investono solo parzialmente l’individuazione di quei luoghi in cui si può intravedere l’intento dell’autore di approfondire la questione strettamente fenomenologica.

Vi è nel filosofare heideggeriano in generale, e tanto più nella sua matrice metodologica, un rimando sempre ultimo e fondamentale ad una forma ellittica di pensiero che si legittima, rinviandosi ad esse, nelle nervature della Sache che al pensiero si offre (o si destina). Un simile rinvio trova la sua origine nella «riflessività»2 fenomenologica che accompagna ogni passaggio teorico caratterizzante il transito dalla coscienza3 trascendentale4 all’«aperturalità» della Lichtung,5 transito di cui la trascendenza dell’esserci è trascinatrice concettuale.6 Di questo lungo itinerare teorico che a molti è parso come un portarsi lontano dalla fenomenologia e che a noi sembra, come vedremo, semplicemente un rivolgere lo sguardo fenomenologico7 più a fondo nella «sostanza»8 del rapporto pensiero-essere, si ha testimonianza diretta o indiretta in larghi tratti dell’opera e del lavoro seminariale di Heidegger.

Seguire la via fenomenologica significa, dunque, non solo — o quantomeno non in maniera definitiva — analizzare quanto vi sia di contenutisticamente rivolto allo scopo di chiarire la strada che porta ad una fenomenologia più radicale ed emancipantesi dagli ultimi residui trascendentalistici ma anche, e più radicalmente, comprendere quanto di fenomenologico vi sia di costitutivamente inscritto nel plesso pensiero-cosa, nel ritorno cioè del pensiero dalla via che lo conduce dall’apertura dell’esserci all’essere, alla cesura del co-evenire dell’essere nella struttura fattiva del suo esplicarsi. Questo contromovimento comporta una serie di valutazioni che investono in prima linea e sincronicamente le due costellazioni teoriche che permeano «endemicamente» la seconda parte del Denkweg heideggeriano: l’Ereignis e la Seinsgeschichte.9

Guardare con gli occhi di Heidegger significa tradursi sempre di nuovo nell’acquisizione di un punto di vista che in qualche modo si propone come deferimento10 — seppur articolato dal domandare sempre proprio dell’esserci11 — alla donazione di un avvenimento anticipatorio come quello della donazione dell’essere al pensiero attraverso una cortina ontica la cui impenetrabilità è data proprio dalla modalità con cui la donazione avviene (Zwiefalt).

La duplice tensione interna al domandare: il rimando alla propulsione destinale dell’ente nella dynamis dell’essere, e la risalita alla co-evenemenzialità del pensiero e del linguaggio con l’essere ed il mondo che di suddetta complessione è portato inquanto fenomeno strutturalmente articolato, costituisce, a nostro modo di vedere, lo «stilema» heideggeriano con il quale il filosofo di Meßkirch affronta le questioni fondanti la storia della filosofia: l’ontologia, la verità, il linguaggio.

Se per quanto riguarda l’ontologia tanto l’Heidegger di Essere e Tempo quanto il successivo ne individua i limiti «storici» nella cristallizzazione sul piano dell’ente, i cui punti di fuga sono: nel momento analitico il tempo come proiezione questionante dell’esserci e l’essere come contraccolpo fenomenico della pre-comprensione che accompagna il domandare12 e, nel secondo Heidegger, la messa in campo di una fenomenologia aletheiologica, che scava nell’adombrato evenire dell’essere nell’avvento dell’ente; se nel caso del problema della verità si può parlare di un convergere sempre maggiormente su di essa di una concettualità fenomenica, che sia essa individuata nell’aprire mondo dell’esserci nell’intermezzo analitico o nella svelatezza dell’essere dal trattato «Vom Wesen der Wahrheit» (1930) in poi; per quanto riguarda il linguaggio, si può parlare di un’evoluzione concettuale che si fonda su un’involuzione strutturale. Le linee guida di questo addentrarsi nel problema del linguaggio fin nelle zone liminari dell’essere e oltre, presso l’origine del suo evenire, si possono rintracciare nel passaggio «involutivo»13 dal logos apophantikos dell’interpretazione aristotelica, al Logos dell’interpretazione eraclitea, un passaggio che coinvolge inevitabilmentela questione di una continuità di carattere fenomenologico tra il primo ed il secondo Heidegger.

Seguendo le linee guida di questa parzialissima esposizione riteniamo inadatta dunque ai nostri scopi la domanda proposta, tra gli altri da Boelen, di quanto Heidegger sia stato fedele al Maestro Husserl o meglio agli intenti della fenomenologia del medesimo,14 e ne proponiamo una più modesta e tuttavia non meno fondamentale e storicamente discussa dalla critica: quella che riguarda la fedeltà fenomenologica del secondo Heidegger al primo. In quest’ultima domanda non è esclusa d’altronde nemmeno una collaterale considerazione della prima. Nel momento in cui, seppur trascinati dalla vicenda storica del dissidio irreversibile tra di essi, non si addivenga necessariamente a considerazioni unilaterali sui rispettivi punti di vista, si potrà vedere come nella fenomenologia dell’allievo sia riproposta ad un livello più intimo quella spinta tutta fenomenologica del Maestro ad affidarsi alle cose stesse, ai fenomeni, a ciò che in qualche modo è già predisposto alla fruizione percipiente o pensante dell’uomo che aspira ad un conoscere fondato, che esso lo sia dal punto di vista ontologico o gnoseologico.

In questa sede ci impegneremo ad individuare il trait d’union teorico tra la strutturazione del panorama fenomenologico-ontologico del periodo di Marburgo e la decostruzione della storia dell’essere che caratterizza ampia parte dell’opera heideggeriana posteriore ad Essere e Tempo. Essa costituisce l’orientamento di pensiero dell’autore fin dagli esordi della speculazione filosofica, quando, nel risuonare delle parole dei primi Greci egli trovava quel fronte fenomenico-linguistico, nel quale, pur celandosi, l’essere si offre ancora nella sua apertura originaria, fuori dalle successive restrizioni imposte dal pensare metafisico.

Il Leitfaden di questo tracciato sarà l’esplicitazione del doppio-fondo fenomenologico che caratterizza la lettura heideggeriana dei presocratici. Se il fondo dell’impianto metodico approntato da Heidegger nel periodo di Marburgo è costituito dall’esplicitazione teorica della fenomenologia, nel suo essere plesso di un logos apophantikos e di un phainomenon dove l’uno porta sul piano della presenza la spinta rivelativa dell’altro, nello studio dei presocratici abbiamo quello che è stato qui etichettato come il «doppio fondo», creato dallo sprofondare del metodo nella cosa del pensiero che in essa sembra come imprimersi condizionandone geneticamente la struttura. Alla base di questo doppio fondo troviamo il trasfigurarsi del logos in Logos. Esso diviene da «portatore di presente» a presenza-assenza strutturale, Versammlung di una «giacenza d’essere» finora estranea a qualsiasi pensare metafisico.

Tra l’interpretazione del logos apophantikos aristotelico e l’interpretazione del Logos eracliteo avviene, seguendo l’impostazione precedentemente tratteggiata, qualcosa come un deferimento assoluto della forma fenomenologico-ermeneutica di pensiero verso la Sache. In questo rimandare, che è come un rammemorare (andenken) la coappartenenza dell’origine del domandare e dell’origine dell’essere, avviene una fluidificazione delle polarità stesse del metodo fenomenologico nella «cosa» stessa sulla quale Eraclito e in generale i presocratici ci invitano a meditare. In un deferimento similmente tracciato si può collocare uno spostamento del centro di gravità del meditare heideggeriano dalla fenomenologia alla «fenomenologicità»15 della cosa da pensare, in una sorta di reduplicazione della visione fenomenologica sul livello del Sachgehalt del fenomeno, fenomeno che a tale visione si offre in maniera già articolata e pensata.

Il logos della fenomenologia dunque, in questa ipotesi, rinvierebbe ad un Logos più strutturale ad un Logos che raccoglie (Sammlung) il fenomeno nella sua «compostezza» e lo dispone alla captazione tattil-uditiva del logos-nous (nel saggio «Logos» il rapporto identificativo tra fenomeno e logos individuato nell’omologhein viene spostato dal piano analogico del toccare a quello dell’udire). In questo rinvio all’ avvento fenomenico dell’ente nella contumacia dell’essere, il logos passa da una dimensione disvelativa e svelante ad una dimensione appropriante nella quale l’«appropriato»16 possiede strutturalmente una propensione articolata al disvelamento.

Come tutto ciò abbia delle ricadute su un possibile ampliamento del metodo fenomenologico è questione mai affrontata dalla critica. Questione che, nonostante meriti una seria considerazione, verrà da noi per il momento accantonata. In questa sede ci accontenteremo di tracciare una prima messa in moto del problema descrivendo il passaggio dalla fenomenologia alla «fenomenologicità» della cosa da-pensare. Un passaggio che avviene nella torsione del pensiero all’interno della Wendung17 heideggeriana e che ha come fonte sorgiva il deferimento del pensiero verso quel «già pensato» che caratterizza la complessione «eventica» della traspropriazione/appropriazione-messa al riparo di essere e pensiero.

2. Husserl e Aristotele nella fenomenologia heideggeriana

La genesi del peculiare imprinting fenomenologico heideggeriano — quello che troviamo esposto sistematicamente nel paragrafo 7 di Essere e Tempo (il cosiddetto paragrafo di metodo) — è presentata chiaramente dallo stesso autore nella lettera a Padre Richardson. In quella che è una sorta di introduzione all’opera che forse più di tutte alimenterà una visione discontinuista della Kehre (W. J. Richardson, Trough Phenomenology to Thought, Martin Nijhoff, The Hague, 1974), leggiamo:

Attraverso l’immediata esperienza del metodo fenomenologico, colloquiando con Husserl, venne elaborandosi il concetto di fenomenologia, per come è esposto nell’introduzione di Essere e Tempo (§7). In esso svolge un ruolo fondamentale, la «retrorelazione» (Ruckbeziehung) con le corrispondenti parole fondamentali (Grundworte) del pensiero greco: logos (rendere manifesto) e phainesthai (mostrarsi).18

Grazie all’esperienza immediata del metodo fenomenologico husserliano Heidegger può individuare nelle corrispondenti Grundworte greche che la compongono: logos e phainesthai un «retroriferimento», una simbiosi articolata dei loro rispettivi campi semantici che restituisce, secondo l’autore, più originari campi di ricerca per la fenomenologia stessa. Logos viene tradotto dal filosofo di Meßkirch con «rendere manifesto», phainesthai con «mostrarsi».

Nel prosieguo della lettera Heidegger spiega che una tale concettualizzazione procura una chiave di lettura prospettica per una «rinnovata» trattazione di Aristotele (in particolare del IX libro della Metafisica e del VI libro dell’Etica nicomachea) nella cui opera trova il concetto di aletheuein come disvelamento (Entbergung) e la definizione di aletheia come svelatezza. A quest’ultimo termine viene ricondotto il luogo cui ogni mostrarsi dell’ente appartiene.

Importante testimonianza dell’itinerario di pensiero che caratterizza l’esperienza speculativa di questo tratto della filosofia heideggeriana sono i due corsi tenuti a Marburgo tra il ’25 ed il ’26: Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (Sommersemester 1925)^[19] e Logik: Die Frage nach der Wahrheit (Wintersemester 1925/26).19

Il campo su cui si gioca, in essi, il confronto interpretativo tra Aristotele ed Husserl è caratterizzato da una struttura complessa che include il compenetrarsi di orientamenti e pensieri, settoriali e pervasivi, di dinamiche evolutive e di tagli netti; tuttavia si può riconoscere un nucleo teoretico nel concetto di verità. L’articolazione di un simile nucleo si esplica tra l’acquisizione husserliana di un ambito veritativo più ampio di quello corrispondentista e il rimando di tale ambito alla verità come la dovettero pensare i Greci, in quanto aletheia. Una siffatta conquista diviene, in seguito, il nuovo punto di partenza per l’individuazione heideggeriana dei modi di pervenire per via fenomenologica, cioè attraverso l’atto del logos, al sotterraneo, all’inesplicato in cui la verità viene a ingenerarsi, creando uno scarto manifestativo, quello tra ousia e esser-disvelato, tra l’ente e l’essere dell’ente, in una coappartenenza di essere e verità nel luogo dell’ente che esprime sempre il venire da una presenza (Anwesenheit), da una donazione originaria.

Tracce di un primo spostamento del fenomeno fuori dalla centralità del soggetto intenzionante e di conseguenza dalla possibilizzazione dell’atto percettivo fondata sugli atti intenzionali, si trovano nell’unico scambio epistolare sull’argomento tra allievo e Maestro di cui si ha testimonianza. L’occasione è la richiesta rivolta ad Husserl da parte dell’Enciclopedia Britannica di redigere la voce «Fenomenologia» (1927), un lavoro per il quale il padre della fenomenologia richiede il supporto dell’allievo ritenuto all’epoca più ricettivo ai suoi insegnamenti: Heidegger.

Stimolato da Husserl sul costituirsi dell’ente nell’atto intenzionale, egli risponde:

Ricondurre (ridurre) la tendenza apprensiva dalla percezione e spostare l’apprensione al percepire modifica la percezione in misura talmente minima che la riduzione la rende accessibile proprio come essa è: percezione della cosa. Per essenza la cosa naturale stessa non è mai oggetto possibile di una riflessione psicologica, tuttavia essa si ‘mostra’ allo sguardo riducente orientato al percepire, che è percezione essenziale della cosa, inerente alla sua percezione come suo percepito.20

Lo spostamento dalla percezione all’atto percipiente, tipico del passaggio «assicurativo» del fenomeno che si svolge tra la prima e la seconda riduzione nella fenomenologia husserliana, viene ritenuto da Heidegger un passaggio superfluo che non fa altro che dislocare il fenomeno al di fuori della «cosa stessa». A rilocalizzare il fenomeno sul piano dell’ente percepito si volgerà il primo passo distruttivo dell’interpretazione del pensiero del Maestro di cui si ha ampia testimonianza nei Prolegomena ed è al fondo di questa rivalutazione del peso ontologico21 del fenomeno che trova posto l’interpretazione dell’ente come alethes caratterizzante la lettura heideggeriana del libro X della Metafisica di Aristotele presente nella Logik.

Nella prima parte del seminario del ’26 Heidegger ricostruisce l’itinerario veritativo sviluppato già nei Prolegomena, ma in esso si parla di una «necessità di un ritorno ad Aristotele nel porsi il problema dell’essenza della verità» («Notwendigkeit des Rückganges der Fragestellung nach dem Wesen der Wahrheit zu Aristoteles»).

3. Il logos della Logik

Per comprendere le coordinate di questo ritorno sono necessari due strumenti concettuali: il primo riguarda il generarsi sul piano ermeneutico di un’apertura significante in relazione all’aspetto poietico che caratterizza l’esserci nel suo essere-nel-mondo; il secondo riguarda la possibilità intenzionale del logos di collocarsi sul donare-significato dell’apertura pre-concettuale derivante dal trascendere dell’esserci.22

La genesi del mostrarsi del fenomeno trova un punto d’appoggio nella proiezione degli enti sul piano poietico dell’esserci. L’essere degli enti e il piano semantico della loro comprensione preconcettuale, si risolvono nella finalità intrinseca al loro utilizzo, nell’avere un Wozu un «a-che-fare». A quel piano di coappartenenza tra l’esserci «utilizzante» e l’essere degli enti utilizzati, il logos si rivolge, indicando verso quello spaccato proiettivo di mondo — articolato dalla significatività (Bedeutsamkeit) — nel quale un ente si colloca, isolandolo dalla rete di riferimenti strutturali e strutturandone la messa in moto verso la presentificazione, la determinazione concettuale, la venuta fenomenica.

La caratteristica principale del logos apofantico risiede secondo Heidegger nell’Aufweisend-sehenlassen nel «mostrante lasciar vedere». A questa prerogativa apparterrebbe poi un’opzionalità23 essenziale: il logos può, mostrando, scoprire o velare, può esso cioè cogliere il suo obiettivo o mancarlo. In questa caratteristica peculiare Heidegger individua il concetto greco di verità:

Compresa rettamente ed in senso strettamente letterale, l’espressione che in greco sta per esser-vero (Wahrsein) — aletheia — significa [qualcosa di simile] a s-coprire (ent-decken) nel senso dello svelare (enthullen) togliere la copertura (Verborgenheit) da qualcosa […] .24

Esser-vero tradotto dalla lingua greca suona come un ent-decken, uno scoprire, dove il verbo ‘coprire’ riceve dal prefisso privativo ent- una modificazione di segno, una secondaria tendenza a negare ciò che rimane semanticamente riferimento, il coprire. Dunque nel senso di s-coprire si intende il gesto svelante, il togliere qualcosa dalla velatezza. Questo tuttavia non significa portare qualcosa alla prima apparizione, ma liberare quella spinta manifestativa residente in esso. Allo stesso modo il concetto opposto, quello che è espresso dal greco pseudesthai, va tradotto con il termine tedesco verdecken, esso va inteso nel senso di tauschen: cambiare di posto, scambiare qualcosa con qualcos’altro.

«Dunque scoprire (entdecken) e velare (verdecken) sono ciò che determina il logos come determinante lasciar vedere (aufweisend sehen lassenden)».25

L’enunciato viene definito nella sua peculiare intenzione come coprente-scoprente lasciar essere l’ente, vale a dire come apophainesthai: «Sehenlassen ein Seiendes, apo: von ihm selbst».26 Il logos ha il compito di lasciar mostrare la cosa da sé stessa, e di aprire, rendere disponibile e accessibile un campo manifestativo dell’ente — il suo intorno a cui (worüber) — per la com-prensione.

Quello che qui è necessario sottolineare è che il carattere manifestante del logos nel periodo di Marburgo è legato al piano ermeneutico da un doppio filo: da un lato vi è l’apo- il riferimento diretto all’ente, l’essere agganciato del logos al piano dell’apertura di mondo, all’in-quanto (als) ermeneutico, e tale questione si svolge nell’apertura del significato dell’ente su un piano pre-predicativo, dato dalla pratica procurante; dall’altro lato c’è una visione strutturale del logos, come atteggiamento coprente o scoprente dell’esserci verso l’ente pre-predicativamente aperto.27

Nella predicazione dell’enunciato apofasico avviene una stratificazione fenomenica che crea un differimento ontologico.

Il logos mantenendo l’ente nella sua provenienza dalla significatività, ricevuta dall’aver-a-che-fare, nel mostrare, lo porta sul piano della presenza cogliendolo assieme a qualcosa. Il presupposto di questo «mettere assieme» risiede nel movimento complesso del logos che, indicando nello spazio di apparizione dell’ente nel suo intorno a cui, porta, nel momento predicativo, una caratterizzazione dell’ente nella sua predicabilità. In quanto ha la possibilità di mostrare, di chiamare all’apparenza l’ente predicandone, il logos presentifica un quadro ontico prospettico, uno stagliarsi del fenomeno su uno sfondo d’essere. In un’espressione come «la lavagna è nera» la nerezza viene a chiamare in causa la lavagna. Ciò che si presentifica, che sia qui realiter o meno, è la lavagna nella sua nerezza.28 Se all’ente cui mi riferisco appartiene il predicato chiamato in causa, nell’enunciato svelo qualcosa dell’ente tracciando nell’in-quanto (als) un’area di visibilità, di svelatezza, ma se dico della lavagna che essa è bianca, il bianco venuto a presenza copre quell’ in-quanto della lavagna che la presentifica in quanto nera. Il bianco chiude lo spazio al vero predicato dell’ente, la nerezza. Quanto detto dimostra la vera caratura intenzionale dell’enunciato: esso mira sempre a mostrare ciò che è già aperto, seppur a volte mancandolo, o se si preferisce, facendo riferimento alla concezione di Schein del §7 di Essere e Tempo, portando l’ente ad apparire nella sua mistificazione. Tutto ciò ha un’implicazione importante: all’ente stesso, nel suo venire dalla significatività, vale a dire nel suo radicarsi nell’essere e nel suo dare manifestazione ontica di sé nel piano strutturale dell’intorno a che, appartiene già una struttura sintetica.29

«L’intorno a che nell’enunciazione viene raccolto assieme come giacente-insieme (zusammenliegend). L’ente così viene compreso come presente insieme».30

L’ente presenta una stratificazione, un quadro ontico aderente alla cosa stessa di cui il logos coglie la composizione fenomenica. Il logos può, installandosi nella manifestatività dell’ente, condurre il fenomeno a mostrarsi nella sua «compostezza», nel suo stare assieme.

A questo punto però ci troviamo di fronte ad una impasse. Proprio nel momento in cui avviene il processo manifestativo, nel momento in cui lo sguardo si volge tematicamente all’aspetto dell’ente che il logos porta alla fenomenizzazione, viene lasciata alle spalle l’apertura d’essere che sorregge la possibilità dell’ente di manifestarsi e del logos di manifestare. Si genera cioè quella «differenza ontologica» il cui studio caratterizzerà gran parte del pensiero heideggeriano e di cui, non a caso, si hanno le prime tracce nel seminario coevo Grundprobleme der Ph? nomenologie (1927).

4. Tracce del secondo Heidegger nella Logik

Un aspetto poco evidenziato dalla critica, nella valutazione del peso teorico che assume l’interpretazione heideggeriana di Aristotele presente nella Logik, per lo sviluppo del pensiero successivo, forse anche a causa della sua adiacenza con l’approccio analitico preponderante in Essere e Tempo, è il tentativo dell’autore di approfondire in chiave ontologica, vale a dire dal lato del Sein als solches il problema ermenutico dell’in-quanto (als)^[32] e di scandagliare in termini fortemente anticipatori il rapporto di co-apparatenenza, da un lato, di essere e pensiero e, dall’altro, di pensiero e logos.

Nella trattazione della Satzwahrheit, del rapporto tra enunciato e verità, Heidegger si è occupato delle diverse problematiche relative all’aletheuein ed allo pseudesthai, e di conseguenza alla sintesi, intesa come struttura coappartenente all’ente, nel suo essere «giacente assieme», e all’esserci, che nel gesto apofantico raccoglie l’ente per come è disposto, posato, dove la «posa» è caratterizzata dal convergere nel presente di un ente individuato attraverso un in-quanto.

Successivamente, nell’affrontare la vera caratura ontologica che assume il problema della verità nel pensiero di Aristotele, Heidegger si concentra sulla dimensione monotetica dell’ente.

Oltre che degli enti «composti» che, scoperti, sussistono insieme e, coperti, non sussistono insieme, Aristotele si occupa degli enti semplici, gli asyntheta, per i quali non esistono mediazioni teoriche: o li si percepisce o non li si percepisce. Proprio su questo ordine di enti Heidegger fa convergere il suo concetto di alethes, alla ricerca di una verità più ampia e svincolata da criteri formali, ma che allo stesso tempo doni un fronte d’incontro all’ente nel quale il logos possa corrispondergli.

A ciò che è alethes non appartiene composizione, ma solo la possibilità di essere svelato in se stesso.

L’essere di questo ente, che dev’essere preso come filo conduttore dello scoprimento (Entdeckung), può essere raggiunto solo riguardo a come questo ente si mostra in se stesso (von ihm selbst her sich zeigt) in questo scoprire (Entdecken), cioè l’incontrante (begegnende) ente che si da liberamente. In questo caso lo sguardo si dirige unicamente al da-comprendere (zu Fassende) stesso, non ad altro, da cui può essere resa possibile una determinazione, ma il considerato (Hinblicken) è il puro scoprire, di modo che esso non necessita di nessuna determinazione ne può richiederla.31

In queste parole si possono individuare i primi accenni di quel movimento teoretico che condurrà Heidegger ad uno svincolamento dell’ente dalla proiezione comprendente estatica dell’esserci verso una dimensione di indipendenza disvelativa. Ciò che viene fuori dall’ente non è una sustruzione a carico del percepire, ma è, piuttosto, quella serie di caratteri ontici che da sempre appartengono a quell’ente, alla «cosa stessa» cui l’ente viene finalmente a corrispondere e nella quale l’essere trova uno spiraglio manifestativo.

Aristotele pone il problema dell’essere seguendo il filo conduttore del thigein e del semplice noein e ponendo in questo modo una diretta relazionalità tra l’ente e l’esserci. La risposta al problema della verità (lo scoprimento) può addossarsi finalmente il compito di colmare il vuoto ontologico generato dal dualismo metafisico tra soggetto e oggetto. Al riguardo scrive Heidegger: «L’essere viene determinato attraverso il pensiero, ed entrambi sono posti come identici»32 («Das Sein wird»durch« das Denken bestimmt, beide identisch gesetzt»).33

Nelle ultime pagine dell’analisi dell’opera aristotelica, Heidegger struttura quello che è il panorama veritativo nel quale è possibile la falsità. Lo scopo è quello di ricondurre ciò che è articolato (l’ente nella sua composizione) e ciò che è articolante (il logos nel manifestare apofantico) al piano di una presenza «essenziale»34 dalla quale il logos indicando e predicando, può riportare ciò che è giacente nella presenza — la serie inclusiva di relazioni ontiche all’interno di uno spaccato di mondo — alla presente manifestazione. Il nodo teorico che rende possibile questo passaggio è la strutturazione di un fronte unitario nel quale il thigein, il toccare del nous, si appropri dell’essere dell’ente, di quello spazio cioè nel quale l’ente viene a mostrarsi, a rendersi disponibile per il «dire» del logos.

La tendenza allo scoprimento (Entdeckungstendenz) dell’indicazione mostrante (logos) ha in precedenza uno sguardo sull’ intorno a che del determinare grazie al quale questo si mantiene. Il ritenente avere presente (durchhältende Anwesendhaben) dell’intorno a che non è dal canto suo già un determinare, ma uno schietto avere (schlichtes Haben), nella maniera certa del thigein (toccare).35

Quel che si viene emancipando allo sguardo fenomenologico nel suo risalire verso il proprio luogo sorgivo è un’assimilazione di ciò che è dato previamente nel semplice toccare, il possesso pre-comprensivo dell’ente, e di ciò che si struttura come presenza primaria cui questo toccare attinge per mantenere fermo lo spazio di manifestazione di ciò che è compresente nell’essere: gli enti presenti nello stare assieme in una presenza originaria.

La preliminare sussistenza del semplice (Vorhandenheit des Einfachen), dell’essere dell’incontrante qualcosa, si comporta come il punto di vista sulla reggente preliminare svelatezza (tragenden vorg? ngigen Entdecktheit) dell’incontrante qualcosa (begegnenden Etwas). Essere dice Aristotele è esser-svelato.

L’essere scoperto viene individuato come peculiare carattere d’essere di ciò che è in maniera vera e propria, del semplice. Heidegger, individuata la caratteristica ontologica peculiare dell’ente — l’essere di per sé fruibile e già disponibile per una messa in risalto dialogica da parte dell’esserci36 — può ora affermare che la verità si fonda sull’insieme unitario di essere ed essere scoperto, il che lo introduce alla più felice scoperta sulla strada dei Greci nel periodo di Marburgo: il carattere peculiare d’essere dell’ente, l’esser alethes (scoperto).

Pensatori quali Aristotele e Platone tuttavia non si sono interrogati, secondo Heidegger, sullo statuto veritativo dell’essere, ma si sono limitati a portarne a compimento la determinazione. Ciò che viene compiuto nel pensiero dei Greci lascia un fondo di inespresso che rimane il quadro fenomenico di riferimento cui ora è diretto un pensiero più consapevole, volto ad ascoltare l’appello di quel richiamo proveniente dalla cosa stessa per riportare in superficie ciò che nel compimento determinante è rimasto impensato. Heidegger a questo punto interroga il contesto fenomenico cui è pervenuto: l’identità di verità ed essere (Wahrheit gleich Sein) nella formulazione del pensiero greco: «La nostra domanda è: cosa significa essere se la verità dev’essere compresa come carattere d’essere?» («Unsere Frage ist: Was besagt Sein, damit Wahrheit als Seinscharachter verstanden werden kann?»).37

Nell’interpretazione heideggeriana del libro T della Metafisica la determinazione dell’essere del composito è la presenza, intesa nel senso di qualcosa di compresente con qualcosa, di «raccolto» nell’unità di un presente. L’unità soggiacente a ciò che si dà nella composizione compresente va presa come presenza primaria (Anwesenheit, Präesenz). Secondo Heidegger, quando viene preso l’essere — anche se inespressamente — come presenza, si esprime nella maniera più genuina il carattere di rapporto con l’ente che si attua nella forma del presentare. Tale presentare non consiste nel semplice avere una percezione psichica — il che ciò comporterebbe una messa sullo stesso piano di oggetto e soggetto nella composizione compresente — ma nel portare alla presenza (Gegenwärtigen), nel rendere possibile l’incontro di una cosa presente (Anwesendes).

«Il render-presente, il portare all’attenzione qualcosa corrisponde alla presenza essenziale soggiacente e necessitante ciò stesso che nel presentare è scoperto e aperto» («Dem Gegenwärtigen, dem Präsentieren von etwas entspricht die Anwesenheit dessen, was der Gegenwärtigung genügt, unterliegt, im Gegenwärtigen selbst entdeckt und erschlossen ist»).38

Il lasciar venire incontro del logos di cui Heidegger parla in gran parte del suo percorso fenomenologico viene ricondotto, in queste occorrenze, alla liberazione dell’ente sul piano «modale» della presenza, alla preservazione di esso nello spazio di apertura in cui si attua la provenienza da una presenza primaria che è essa stessa fronte aperto d’incontro. Il piano fondante di questa presenza e il presente da essa sostenuto non hanno una scissione a livello fenomenico, né l’una è trasposizione a livello ideale dell’altro, in una reiterazione con termini diversi del problema metafisico per eccellenza; piuttosto la presenza costituisce il fondo fenomenico che caratterizza l’infinito potenziale manifestativo dell’ente. Nel rapporto vivo, nel nostro essere già installati nell’atto rappresentativo tra ciò che si viene liberando nel fronte presente (l’ente) e ciò che posseggo come spazio residuale di una presenza primaria (il «giacente»), nella quale si apre una zona di illuminabilità manifestativa, non avviene mai che la presenza essenziale pervenga completamente sul piano del presente a svelatezza, ma ciò che sempre si fa spazio nella presenza essenziale, vale a dire nell’apertura d’essere nella quale l’ente è disvelato, è solo ciò che viene scoperto, ciò che è reso noto nel processo apofantico. La presenza è ciò che rende possibile il pervenire dell’ente ad un luogo di svelatezza, ad essere scoperto. A sua volta ciò che di tale presenza essenziale è sempre manifestazione è solo e unicamente l’ente scoperto nella sua presenza: «Così l’esser-scoperto, come il più alto modo della presenza, cioè come presente, è un modo dell’essere e di certo il più autentico, la ‘presentificante presenza’ stessa» («Also ist Entdecktheit als der höchste Modus für Anwesenheit, nämlich als Gegenwart ein Modus von Sein und zwar der allereigentlichste Modus von Sein, die anwesende Anwesenheit selbst»).39

Presenza (Anwesenheit) e presente (Anwesendes) in questo scorcio di pensiero, sono termini che si relazionano in un’unità sintattica differenziale (Präsenz), in un involucro di mondo e parola, di logos e fenomeno, nel quale il luogo identificativo, il farsi presente dell’ente (Entdecktheit, l’essere scoperto) non è null’altro che il rendere presente la presenza, il più genuino portare a manifestazione l’ente, da parte del logos preservandolo nel fenomeno dell’essere.

5. Transizione nella Metafisica

Lo scavo fenomenologico — fondato su una messa in questione dell’essere — trova il suo movimento e la sua coordinazione in una dialettica della pienezza e del vuoto, dell’aderenza e della distanza. Nel senso ampio del logos, nell’inclusione in esso dell’aspetto tattile del thigein,40 si innestano le coordinate del rapporto tra essere e verità. Il pieno di questo rapporto è la coappartenenza del pensiero e dell’essere nella quale trova posto un dispiegamento dell’alethes, dell’ente svelato. Il vuoto è la «messa in mora» dell’essere nella chiamata dell’ente alla presenza. Il richiamo ontologico del domandare dell’esserci si risolve in una siffatta impostazione sempre in una eco ontica che satura gli intenti e gli sforzi stessi del pensiero che in un simile domandare si avventura.

Ripercorrere le vicende del rapporto tra essere e logos vuol dire tracciare una linea di visibilità sui fondamenti fenomenici che lo sostengono, vuol dire cioè in qualche modo affidarsi all’ineluttabile «cosalità» del rimando del pensiero all’essere. Questa risalita di carattere ontico struttura l’ultimo piano della locazione dell’ente su un orizzonte comprensivo d’essere. In quanto tocco possedente e ostensione manifestante il logos inteso in senso ampio, indica ciò che già possiede, portando nel processo manifestante a svelatezza i caratteri che appartengono all’ente nella sua «determinatezza», nella sua enticità (Seiendheit).

Ogni sguardo fenomenologico finora gettato sull’essere poggiava per così dire i piedi nell’ente. La presenzialità dell’essere è in un pensiero siffatto, metafisica, ancora rivolta all’ente in quanto presente. Si tratta dunque, se si vuole portare l’essere a mostrarsi da sé senza alcun riferimento all’ente, di volgere lo sguardo più a fondo, di rivolgersi a quella «datità» che ogni percezione o sguardo indagante già presuppone e che il risvolto ontico dell’enunciare obnubila di continuo ponendosi come risultato ultimo di ogni analisi e interrogazione sull’ente, persino quella ontologica. Si tratta infine, di rinviare il pensiero ad un’altra origine, all’evento della svelatezza dell’essere.

Heidegger spiega nell’introduzione postuma a Was ist Metaphysik? un siffatto rivolgimento nei seguenti termini:

Risiede tutto in ciò: che il pensiero diventi a suo tempo più pensante (denkender), e questo accade quando esso invece di concentrare i suoi sforzi a un livello più alto è rinviato ad un’altra origine (Herkunft). In questo modo il pensiero rappresentante e chiarificatore dell’ente posto come tale si risolve nel pensiero dell’essere stesso avvenuto (ereignetes) come appartenenza di essere e pensiero […] . Ogni qualvolta il pensiero diviene più pensante diviene anche maggiormente corrispondente (entsprechender) al riferimento (Bezug) con l’essere in cui si compie, con ciò situandosi da sé già in quell’unico agire ad esso conforme: nel pensiero di ciò che gli è dato da pensare (Zu-gedachten) e che così (in qualche modo) è già pensato (schon Gedachten).41

Il rispondere del pensiero all’avvenimento del «da-pensare» che lo appropria all’evento dell’essere come ad un qualcosa di già compreso poiché strutturalmente co-eveniente al pensiero è come un qualcosa di espresso (Ausgesprochenes)^[44] nell’essere. Una tale formulazione scavalca la metafisica poiché scavalca l’esigenza metafisica di rappresentarsi l’essere sempre a partire dall’ente, ponendosi in tal modo come velo sulla comprensione originaria dell’essere in quanto tale.

Il superamento della metafisica implica un risalimento oltre di essa verso ciò che la precede nella storia dell’essere, quest’ultima concepita non semplicemente come succedersi di epoche nelle quali l’uomo ha di volta in volta una concezione diversa dell’essere in funzione dell’ente, ma come ciò che si è già destinato all’uomo in quanto dispiego (Zwiefalt), piega dell’essere che nel dispiegarsi della differenza ontologica trova il suo avvenire epocale:

Parmenide parla dell’eon, della presenza (di ciò che è presente) del di-spiego e mai dello ‘essente’. Egli nomina la Moira, l’assegnazione (Zuteilung) che concedendo ripartisce e così dispiega il di-spiego. L’assegnazione dispone (beschickt) (provvedendo e donando) circa il di-spiego. Essa è l’invio (Schickung), in sé raccolto e quindi dispiegante, della presenza come presenza di qualcosa di presente. Moira è il destino (Geschick) dell’’essere’ nel senso dell’eon. Essa ha liberato (entbunden) l’eon aprendogli il dispiego che lo ha legato nella totalità e nella quiete dalle quali e nelle quali avviene la presenza di ciò che è presente.42

Con l’interpretazione di Parmenide Heidegger trova il nuovo referente del domandare filosofico post-metafisico nel destinarsi dell’essere come differenza strutturale ed indemandabile. Sulla strada di questo differire che è un de-ferire,43 nel senso dell’affidare il pensiero al destinarsi dell’essere, l’autore conduce il suo risalimento verso il pensiero greco aurorale.

Un compendio estremamente efficace del risalimento verso l’alba dell’Occidente — oltre Platone come iniziatore del pensiero metafisico — che ispira una Wendung nel filosofare heideggeriano, viene offerto da alcuni passi del «corpo a corpo» che il filosofo di Meßkirch ingaggiò con Nietzsche tra il ’36 ed il ’44, il cui risultato è un’opera pubblicata nel ’61 in doppio volume presso Neske.44

Il passaggio epurativo del pensiero, rivolto ad una concezione dell’essere non più vincolata all’ente, trova un momento cruciale nel concetto greco di proteron. Nella sfera di «ciò che precede» viene fatta convergere la posizione metafisica di Platone, la quale sposta i caratteri generali dell’ente nella posizione ontologica d’essere, e quella pre-metafisica dei presocratici nella quale l’essere viene a distogliersi dal riferimento percettivo e noetico per collocarsi su di un piano erompente di manifestazione, quello della physis45, descritta da Heidegger come un «sorgere da sé»:

I Greci concepirono primariamente e inizialmente l’essere come il da sé «sorgente» (von-sich-aus-Aufgehen), ciò che essenzialmente si dispone nella «levata» (sich-in-den-Aufgang-stellen) e così facendo si palesa nell’aperto. Perciò, interrogando l’essere in se stesso in quanto physis, cioè come te physei si dirà: te physei è l’essere, il precedente l’essente e quest’ultimo l’hystheron, il susseguente (l’essere).46

Platone sarebbe dunque l’artefice di una caratterizzazione metafisica della verità che comporta uno spostamento della questione dell’essere dall’erompere iniziale, alle costanti ontiche meta-empiriche che caratterizzano l’onticità degli enti. Una mistificazione ontologica in grado di collocare nel proteron i caratteri costanti dell’ente e di velare la spinta rivelativa dell’essere, il suo pervenire a svelatezza (Unverborgenheit) spostando la verità dal «sorgere dell’essere» alla correttezza dello sguardo che cerca di coglierne il risvolto ontico.

Pervenuto a quel crocevia in cui si incontrano le strade della metafisica e del pensiero iniziale con il prevalere di una decisione sulla verità che favorisce la prima e occulta la seconda, Heidegger nel Nietzsche, con un’efficacia che non appartiene alle altre opere, espone la storia dell’essere in maniera schematica, distendendo tutte le trame concettuali del suo pensiero e disegnando un panorama metafisico nel quale lo sguardo fenomenologico può rinvenire le tracce del pensiero aurorale.

In una sorta di istantanea che cattura il pervenire dell’Unverborgenheit all’idea, Heidegger coglie il tratto fondamentale del procedere dell’aletheia dall’Anfang, l’iniziale, al Vorrang alla «precedenza» del ti estin dell’idein: il Was-sein.

L’autore sostiene che il soggiogamento (Unterjochung) dell’aletheia all’idea avviene attraverso un rilascio (Entlassung) dell’ente in un’incipiente presenza (beginnende Anwesenheit) la quale viene liberata proprio dallo stesso rilascio.47 In questo rilascio l’ente prende la posizione iniziale dell’essere grazie ad uno sporgere (Vorragen) del mostrarsi e dell’apparire dell’idea: lo hen come phainotaton. In questo modo l’essere diviene primariamente Was-sein, in quanto eidos del ti estin, aspetto di un qualcosa.

La precedenza dell’esser un che-cosa (Was-sein) produce la precedenza dell’ente stesso in ciò che di volta in volta è. La precedenza dell’ente determina l’essere come il koinon a partire dallo hen. Il principale carattere della metafisica è deciso. L’uno come unità unificante diviene decisivo per la successiva determinazione dell’essere.48

L’autore ha così disegnato il passaggio dal carattere iniziale dell’essere a quello dell’essere come Was-sein, ha cioè individuato lo spostamento, nell’indistinzione iniziale tra essere ed ente, sul piano dell’ente. Egli può dire perciò, a conclusione, che dalla misura del Was-sein scaturisce il mutamento dell’essere in esser-certo.

6. Variazione dell’Einheit

Come accade spesso nel filosofare heideggeriano, una variazione di uno stato di cose comporta uno spostamento concettuale oltre l’origine, verso il derivato. Nel mutamento dell’essere verso l’esser-certo avviene una trasfigurazione dello hen che si potrebbe definire come una sorta di risemantizzazione della stabilità dell’essere nell’oggettualità dell’ente.

Risalire lungo la storia di questo «spostamento» significa decriptare la storia temporale delle vicende filosofiche dall’antichità alla contemporaneità con un criterio interno alla storia dell’essere pensata come Sache, come fenomeno nel senso pregnante del termine, come campo visivo nel quale il logos può scorgere la struttura che fonda il manifesto, celandosi dietro di esso. La configurazione della Sache come celantesi-svelantesi si situa nella destinazione differenziale e nel passaggio strutturale dall’essere della verità alla verità dell’essere, dove il genitivo soggettivo della prima e il genitivo oggettivo della seconda sussumono il movimento dispiegante dall’ente all’essere e dall’essere all’ente,49 in una variazione concettuale del termine medio, l’essere, nelle tre diverse concezioni heideggeriane — temporalità, verità, locità — che caratterizzano la storia produttiva del suo pensiero attraverso quella distruttiva.

Queste tre concezioni risuonano nella descrizione sintetica del cosiddetto System, uno schema in cui Heidegger riassume il rapporto tra oggettualità, unità ed essere nel par. 16 della «Critica della ragion pura» di Kant.50

«L’unità, l’ousia è l’hen come unità dello stare insieme prima e per la coscienza» («Einheit — ousiahen als Einheit des»Zusammenstehens« vor dem Bewußtsein und für dieses»).51

Lo stare insieme caratterizza nella metafisica moderna, in una trasposizione dell’hen iniziale, l’essenza dell’unità. Ma in questa concezione l’essenza dell’unità non è ancora stata interrogata secondo la verità dell’essere.

Interrogare l’unità secondo la verità dell’essere significa, secondo l’autore, riportare lo zusammenstehen (stare-insieme) della metafisica ad una co-azione52 che richiede il legein la raccolta (Sammlung) come Hen e Logos.

Heidegger prosegue la sua trattazione lasciando spazio ai diversi spostamenti semantici: fra i tanti ne evidenziamo due. Nel primo ha luogo la prima connotazione della strutturazione ontica di ciò che è «presente»: «Zusammen: beisammen — anwesend». Lo stare insieme è un «essere assieme» di ciò che è presente. Nel secondo un’altra connotazione del «presente» è individuata nello «stare», nel permanere costante: «Stehen: Ständigkeit». Lo stare assieme degli enti in quanto «presenti» implica una costanza di ciò che si presenta insieme, una persistenza. In questa persistenza l’uomo pone qualcosa come certo, lo assicura nella Ständigkeit (stabilità), e lo lascia stare così com’è nel suo essere insieme. Questo è il significato del termine vor-stellen nella valenza semantica tradizionale di rappresentare (vorstellen) e nella risemantizzazione heideggeriana la cui traduzione è «porre qualcosa di fronte» (vor-stellen). Quel che c’è da considerare in questo passo è che ciò che è «posto» secondo l’autore non è generato dal gesto stesso del porre, ma proviene già da una «sussistenza composita».

Alla domanda: «Was heißt dann das Kantische»Ich denke«?» Heidegger dunque risponde: «Soviel wie: Ich stelle etwas als etwas vor, d. h. ich lasse vor mir etwas zusammenstehen. Für das Zusammenstehen und durch es im Wesen bestimmt, ist Einheit notwendig»53 (« io pongo qualcosa come qualcosa di fronte, cioè io lascio stare-insieme qualcosa di fronte a me. Per lo stare insieme e determinato attraverso la sua essenza, l’unità è necessaria»).

Heidegger intende così dimostrare che: «L’unità è condizione della sintesi e del collegamento ma la sua essenza stessa è condizionata dall’essenza dello stare insieme […] ma tutto già nella “Presenza”, nell’ousia dell’ego cogito cogitationes».54 Il filosofo di Meßkirch mostra come nella Presenza, nella posizione dell’essere come «posito», come cogitationes del cogito, e nella stabilità di ciò che viene collegato rappresentando, risiedano quelle posizioni caratterizzanti la metafisica da Aristotele a Kant.

L’essere viene in tal modo pensato come oggettualità (Gegenständlichkeit) e da questa determinazione ci si «affanna» poi per l’essente an ihm selbst, lasciando l’essere come indomandato (ungefragt).55

La strategia esplicativa di Heidegger in questo scorcio è volta ad enucleare per spostamenti semantici le strutture radicate più profondamente nella storia della metafisica e proprio per tale motivo più vicine al luogo del fraintendimento e più aderenti a ciò che è il «frainteso» cioè quei caratteri propositivi della Sache che hanno subito una deviazione concettuale nell’interrogare metafisico.

Uno degli aspetti più importanti da tenere in considerazione sotto questo rispetto è la struttura para-tattica del fenomeno. Nello sguardo metafisico il mostrarsi strutturato del mondo viene collocato su un piano unitario di manifestazione alla base del quale viene posta la stabilità del campo percettivo data dall’io percipiente. La ricerca di un’altra origine, non più metafisica, per questa coordinazione fenomenica si basa invece su una liberazione della para-tassi fenomenica da qualsiasi riferimento gnoseologico. Quella stessa struttura, viene ora distolta da un guardare storicamente viziato e ne viene colta la pertinenza e l’aderenza con il piano strutturale appena individuato nella presenza.

«La presenza fonda il para, il Bei-. Questo sostiene e mantiene lo stare assieme e l’essere insieme; esso può essere preso ovviamente come unità e uno, ma allo stesso tempo la sua vera essenza può rimanere inesperita e dimenticata» («Anwesenheit begründet das para, das Bei-. Dieses trägt und hält das Bei-sammen und Zu-sammen; dieses kann selbstverständlich als Einheit und Eines genommen werden, zugleich aber in seinem wahren Wesen unerfahren und vergessen bleiben»).56

Presenza, come si è già segnalato, è lo spazio in cui qualcosa si può donare come un compositum, e tuttavia, come fa notare ora Heidegger, questo compositum, seppur espresso come unità, rimane inesplorato nella sua essenza.

«La stabilità fonda la costanza, unitamente con il venire alla presenza (Anwesen) come contro-stabilità (stare di fronte), dove il «contro» diviene essenziale attraverso la re-presentatio» («Beständigkeit begründet die Ständigkeitin ein mit Anwesen als Gegen-ständigkeit, sobald das»Gegen« durch die re-presentatio wesentlich wird»).57

Nel rappresentare il venire a presenza del «compos (i) to» ontico viene posto come un fronte percettivo, e questo avviene solo nell’«insurrezione» del «subiectum qua ego als res cogitans qua certum».58

Heidegger, raccogliendo quanto detto finora, mostra come l’hen abbia subito un mutamento nei seguenti termini: «Così l’unità in quanto figura mutata, determinata dalla verità come certezza dell’ousia giunge ad un riferimento al rappresentare. Esso nella vista ed in quanto vista (rappresentare) necessariamente guarda all’unità ed è l’«io collego» nel modo del rappresentare» («So kommt die Einheit als die gewandelte, von der Wahrheit als Gewißheit her bestimmte Gestalt der ousia in den Bezug zum Vor-stellen, das im Hinblick (Vorstellen) notwendig auf Einheit ausblickt und das»ich verbinde« in der Weise des Vor-stellen ist»).59

Questa la linea espositiva che ha condotto Heidegger a mettere in relazione unità (hen), insieme delle cose (ente) e soggetto (esserci), e questi gli elementi che Heidegger ricercherà nell’interpretazione dei presocratici, epurati dallo «spostamento» cui li ha condotti la metafisica e ripresi nella loro originarietà «semantica».

«Inizialmente tuttavia l’hen non viene concepito né come «io penso» né come idea ma a partire dal nous di Parmenide e dal logos di Eraclito nel senso del celante-svelante raccogliere» («Anfänglich aber ist das hen weder vom»ich denke« noch von der idea her begriffen, sondern aus dem nous (Parmenides) und aus dem logos im Sinne von Heraklit als das entbergend-bergende Versammeln»).60

7. Polisemia del Logos in quanto legein

Cogliere gli aspetti più squisitamente speculativi del percorso dell’hen lungo l’articolarsi storico e strutturale della storia dell’essere, significa per Heidegger risalire fino alla Sache, all’origine dimenticata, al centro irradiante da cui sono dipartite le varie interpretazioni di carattere mistificatorio nella storia del pensiero occidentale, per carpirne il sorgivo manifestarsi, offuscato dai fraintendimenti metafisici. Per cercare di disporci all’ascolto del risuonare dell’hen nel Logos di Eraclito, inteso come quella figura originaria nella quale sono sussunti la molteplicità coordinata degli enti (Panta) e l’unitarietà manifestativa dell’essere che la sorregge, dobbiamo seguire pedissequamente — più di quanto non abbiamo fatto finora — il lavorio al fondo della lingua greca che Heidegger compie nello studio dell’Efesino, cercando di non trascurare la fitta rete di analogie semantiche e teoriche nella quale sono coinvolti i diversi termini tedeschi e greci61 — in parte già chiamati in causa — che per l’autore fondano la costellazione concettuale della Sache per come dovette disporsi nel e per il pensiero greco «aurorale».

Qui prenderemo nello specifico in esame la lettura del Fr. 50 di Eraclito effettuata nello scritto Logos presente in Vorträge und Aufsätze. Esso si presenta, insieme al saggio Aletheia che lo precede nel volume, come un compendio maturo dei seminari dei Sommersemesters del’43 e del ’44.62 Il saggio si caratterizza per la messa a tema del rapporto tra l’ente e l’uomo, in una concezione più fonda del fenomeno e dell’unità del campo nel quale viene a manifestarsi. L’hen e i Panta come vedremo si coordinano in una figura «fenomeno-logica» originaria, nel senso più fondo e articolato del termine: una figura nella quale l’essere viene a diffondersi in ogni campo del proporsi del fenomeno sostenendone il gioco di chiaro-scuri tra la manifestazione e la latenza che la rende possibile.

Nell’apertura del saggio il frammento originale: «ouk emou alla tou Logou akousantas homologhein sophon estin Hen-Panta», viene sin da subito riportato da Heidegger nella traduzione secondo lui più autorevole, quella di Snell: «Habt ihr nicht mich, sondern den Sinn vernommen, so ist es weise, im gleichen Sinn zu sagen: Eins ist alles», che in italiano potrebbe suonare: «Se avete ascoltato non me ma il senso, allora è saggio nello stesso senso dire: l’uno è tutte le cose».

L’autore dunque, prima di intraprendere la sua personale risemantizzazione del frammento, ne riassume gli elementi fondamentali.

«Il detto (Spruch) parla di akouein, udire ed aver udito, di homologhein, dire lo stesso (das Gleichesagen), del Logos del detto e della parola63 (Sage) dell’ego, del pensatore stesso, precisamente in quanto legon, il parlante, «colui che sta conducendo il discorso».64 Eraclito pensa qui all’udire e al dire. Egli esprime ciò che il Logos dice: lo Hen Panta, l’uno-tutto (Eins ist alles)».65

Nonostante il detto sembri comprensibile in tutti i suoi elementi Heidegger non di meno ci spinge ad interrogarlo più a fondo della sua immediata comprensibilità.

L’enigma (Rätsel)^[69] che compenetra il detto, o per meglio dire, la parola-enigma che lo regge è Logos. Logos viene tradotto fin dall’antichità in modi diversi, non dobbiamo tuttavia pensare che la molteplicità delle traduzioni susseguentisi nel tempo risieda nell’ambiguità del detto o nella mancanza di accuratezza nella comprensione dei diversi interpreti, ma nella cosa stessa in quanto «pensata» (gedachten Sache). Dunque per avvicinarci al mistero dell’enigma della parola dobbiamo predisporci ad un chiarimento (Erhellung) di ciò che Logos e la sua messa in atto, il legein, significano, vale a dire della cosa che «indicano».

«Was Logos ist, entnehmen wir dem legein66». Cosa vuol dire dunque legein? Lo studio «semantico» svolto da Heidegger segue un percorso articolato, ma è fondamentalmente rivolto ad enucleare l’originaria complessità del significato di legein «antecedente»67 a quello di dire, quello cioè che richiama al gesto del raccogliere (sammeln). Un gesto che è caratterizzato dalla cura del posare, dalla disposizione che esso comporta come messa al riparo e dalla predisposizione di ciò che è posato a disporsi da sé.

Questa duplicità interna alla raccolta (Sammlung) ha un origine e un portato già disponibile nel fronte «semantico-strutturale» del logos. Esso, evidenzia Heidegger, significa: «legein als Aussagen und legomenon als das Ausgesagte»,68 «legein come affermare e legomenon come ciò che è affermato».

«Allein es (legein) bedeutet […] das was unser gleichlautendes “legen” meint: Nieder- und Vorlegen».69 Heidegger traduce legein con il tedesco legen, il posare, che suona similmente al mettere giù e posare davanti (Nieder- und Vor-legen). Ciò che domina in questa traduzione, spiega Heidegger è il Zusammenbringen, il mettere insieme, quello stesso senso che risuona nel termine legere come nel tedesco lesen, il prendere (einholen) e il mettere insieme (Zusammenbringen).

«Propriamente legein significa deporre e porre davanti a sé e ad altro riunendo («Eigentlich bedeutet legein das sich und anderes sammelnde Nieder- und Vorlegen»).70

Nel mettere insieme il legein si cura di ciò che è deposto e in tal modo posato davanti. Heidegger spiega che la forma mediale legesthai indica un: «Sich niederlegen in die Sammlung der Ruhe», un «disporsi nella raccolta del riposo»; lokos invece è l’Hinterhalt, letteralmente l’agguato,71 ma suggestivamente il «sostare dietro», nel rifugio: «wo etwas hinterlegt und angelegt ist», «dove qualcosa è depositato e collocato». Al riguardo è citato anche il termine arcaico caduto in disuso alego, tradotto con il tedesco anliegen72, impiegato ad esempio nell’espressione: «mir liegt etwas an, es bekümmert mich» «qualcosa mi sta a cuore, mi interessa».

Per distendere tutte le implicazioni risiedenti nella semantica del legein ora l’autore illustra il rapporto tra Lesen e Legen: «Ogni Lesen è gia un Legen, vale a dire ogni posare è di per se disponente insieme. Cosa significa dunque legen? Il legen porta alla giacenza, (mette a giacere) ,73 in quanto lascia il giacente davanti insieme» («Jedes Lesen ist schon Legen. Alles Legen ist von sich her lesend. Denn was heißt legen? Das Legen bringt zum Liegen, indem, es beisammen-vor-liegen laßt»).74 «Ogni Lesen è gia un Legen, vale a dire ogni posare è di per se disponente insieme. Cosa significa dunque legen? Il legen porta alla giacenza, [mette a giacere], in quanto lascia il giacente davanti insieme».

Ritornando all’accezione dell’anliegen, Heidegger sostiene che il gesto del lasciare il «giacente», l’ente disposto «davanti» nella sua compostezza-composizione75 indica la vicinanza dell’uomo e il riferimento dell’uomo alla «giacenza».

«Dem “legen” ist als dem beisammen-vor-liegen-Lassen daran gelegen, das Niedergelegte als das Vorliegende zu behalten»76 («Al legen in quanto lasciar-giacere-davanti-insieme preme di «ri-tenere» ciò che è posto come stante dinnanzi»).77 L’autore evidenzia la necessità di distinguere tra la disposizione del legein e il movimento «sorgente» del fenomeno nel suo proporsi, con la traduzione del termine alemanno «Legi» che esprime la difesa che è già posta davanti al flusso del fiume, all’affluire dell’acqua.

Il legein dunque come ci propone lo stesso Heidegger rinuncia alla pretesa di mettere esso stesso per primo ciò che riposa davanti nella sua posizione78 (Lage).

Il Legen come legein risiede solo nel lasciare nella custodia (Hut) il da sé-qui-insieme-giacente come ciò stesso che giace e che in essa rimane deposto. Che cos’è questa custodia? Il giacente-davanti-insieme è posto nel non nascondimento,79 in esso messo via, in esso deposto, in esso riposto, cioè in esso messo al riparo. Al legein importa, nel suo raccolto-lasciar-giacere-davanti, mettere al riparo il giacente-davanti nel non nascondimento.80

Ciò di cui si occupa il logos è un attività di rilascio che avviene attraverso un «raccogliersi» presso l’essere, il quale, uscendo dal nascondimento, viene a svelatezza, . Quello che nella lettura di Aristotele era un movimento svelante del logos, diventa ora una stasi-attiva che comporta il «sostare-raccogliendosi» presso ciò che si svela da sé. In tal modo «l’azione» del logos si caratterizza come un serbare,81 un raccogliere ciò che si presenta come di per sé già «raccolto».

«Legein è posare. Posare è: l’in sé raccolto lasciar-giacere-davanti del (ciò che è) presente insieme» («Legein ist legen. Legen ist: in sich gesammeltes vorliegen-Lassen des beisammen-Anwesendes»).

8. logos, legein, Logos

Pervenire al piano in cui il legein si «essenzia» come posare, dove ci conduce?

Legein, come ha evidenziato Heidegger, significa principalmente dire e discorrere. Come avviene dunque lo spostamento di significato da quello che ne caratterizza l’essenza (legen) a quello che ne esprime linguisticamente l’affermazione storica (sagen)?

Accade che nel passaggio venga conservato il significato primario di posare, avviene cioè che nella storia del termine abbia luogo uno spostamento dall’esperienza del posare, alla limitazione del dire e discorrere degli uomini. La suddetta limitazione tuttavia mantiene, in quanto derivata, un riferimento al significato iniziale. In questo riferimento l’iniziale si preserva seppur oscurandosi dietro la derivazione restrittiva nella quale ha luogo la decisione deviante per l’essenza del linguaggio.

Il dire e il discorrere dei mortali eviene (ereignet sich) dagli inizi in poi come legein, posare. Dire e discorrere si essenziano (wesen) come lasciar-giacere-davanti-insieme (beisammen-vor-liegen-Lassen) tutto ciò che si presenzia (anwest) come posato nel non nascondimento (in der Unverborgenheit gelegen). Il fatto che il legein sia un posare, nel quale il dire ed il discorrere esplicitano la loro essenza, contiene l’indicazione alla più originaria e ricca decisione sull’essenza del linguaggio.82

A dire il vero i due percorsi che nella sua lettura Heidegger pone in atto — quello discendente, dal sagen al legen, verso la determinazione semantica di ciò che il legein significa, e quello ascendente dal legein al Logos come lesende Lese, posa raccogliente originaria, che ne esprime l’origine impensata — ruotano attorno alla trama interna alla «storia» dell’esplicabilità del termine che si è resa visibile all’esperienza pensante di Heidegger attraverso il crocevia aristotelico. Ciò significa fattualmente che la tendenza alla discesa verso un significato meno letterale del logos ha un’origine nella vicenda filosofica del pensatore di molto precedente alla Kehre ed all’intermezzo analitico-esistenziale, e che tale origine può essere ricondotta a quella necessità prettamente fenomenologica di avere un accesso pre-logico alla verità. Ma soprattutto ciò implica che il percorso ascendente — quello che mira ad un risalimento oltre la storia della metafisica, che disponga una visione del logos tale da radicarsi nella storia dell’essere in quanto Seyn des Seyendes, oltre che nello spostamento dello sguardo fenomenologico heideggeriano verso l’essere in quanto tale — venga prendendo forma soprattutto nel periodo della Kehre e soprattutto a seguito dell’affermarsi di una concezione dell’aletheia svincolata dall’Entdecktheit dell’ente e più originaria dell’Erschliessen dell’esserci.

«E se il pensiero finalmente imparasse ad avere il presentimento di cosa significa il fatto che ancora Aristotele possa circoscrivere il legein come apophainesthai? Il logos conduce ciò che appare, ciò che viene fuori nel giacere-davanti, a rilucere da sé, a mostrarsi illuminato» («Ob das Denken endlich lernt, einiges von dem zu ahnen, was es heißt, daß noch Aristoteles das legein als apophainesthai umgrenzen kann? Der logos, bringt das Erscheinende, das ins Vorliegen hervor-Kommende, von ihm selbst her zum Scheinen, zum gelichteten Sichzeichen»).83

Il pensiero nel suo farsi più pensoso, più vicino all’essere, può gettare ora dall’evenire del Logos — come lasciar-giacere-davanti-insieme ciò che da sé si dispone nella svelatezza — lo sguardo verso l’apophainesthai del logos aristotelico in quanto ultimo fronte nella comprensione dell’esperienza del legein nel quale risuona l’originaria comprensione del «raccogliere»84 (sammeln).

Cerchiamo di disporci su questo scorcio seguendo le parole dell’autore. Egli parte dalla definizione del legein come «legen wesende Sprechen der Sprache», come un «parlare del linguaggio che si essenzia come posare», per poi collocarne l’attività sulla spinta manifestativa che caratterizza l’essere dell’ente nei termini dello svelarsi di ciò che è nascosto (l’essere) attraverso il presente (l’ente).

«Dunque il dire come raccogliente lasciar-giacere-davanti riceve il suo modo d’essere dal denascondimento di ciò che giace-davanti-insieme. Ma lo svelamento del nascosto nel non-nascosto è l’esser-presente stesso di ciò che è presente. Noi chiamiamo questo l’essere dell’ente».85

Ora cerchiamo di percorrere un possibile itinerario interpretativo, raccogliendo le suggestioni derivanti da quanto detto sinora. Abbiamo visto nel nostro studio precedente sul logos aristotelico come l’aspetto sintetico-diairetico trovi appiglio nella composizione dell’ente nello spazio di mondo in cui si apre una presenza essenziale, l’als (in quanto). Il logos, nell’indicare verso questa apertura, si dispone nell’Entdecktheit dell’ente che quest’ultimo riceve dal sostare dell’esserci, nella trascendenza, presso l’essere delle cose. L’esserci per predicare dell’ente e per manifestarne una configurazione ontica deve compiere un passo indietro dalla proiezione trascendente. La via di questo passo indietro conduce alla presentificazione di ciò che è già avvenuto come significazione nella pratica procurante, una presentificazione che preserva l’ente in quanto «scoperto» nell’apertura d’essere. Da queste considerazioni in seguito abbiamo seguito la via che conduce Heidegger ad un tentativo di superamento del limite enunciativo del logos, verso una concezione del prepossesso dell’ente che avviene nel thigein del nous, primo ed elementare presupposto per un oltrepassamento del concetto di verità come rispondenza della cosa all’enunciato e dell’enunciato alla cosa, cioè come cor-rispondenza. L’oltrepassamento suddetto avviene attraverso la possibilità del logos di essere falso. Si danno tre condizioni della falsità che discendono dalle seguenti tre possibilità proprie del logos: (1) la possibilità di lasciar che l’ente sia l’ombra significativa che esce fuori dal Wozu, vale a dire dalla proiezione esperiente l’essere dell’ente nella sua utilizzabilità; (2) la possibilità di inserirsi in uno spazio aperto di mondo; (3) la possibilità che in uno spazio aperto di mondo qualcosa si doni come beisammen, composizione ontica nella relazionalità intrinseca all’ente all’interno di una rete relazionale appartenente all’apertura mondana. Da queste tre condizioni Heidegger desume quel concetto di presenza primaria che fonda qualsiasi compresenza ontica, come fronte unitario che si dona nell’incontrante disvelare del logos, aperto all’essere dal tattile prepossesso noetico.

L’hen è ciò che rende possibile e che struttura la presenza primaria come un fronte unitario nel quale si dona lo svelato, come ciò che viene incontro da un possesso preliminare d’essere che ne illumina la manifestazione e che in tal modo ne garantisce il venire a presenza. Questa presenza è caratterizzata dalla liberazione di uno spazio nel quale l’ente rimane «scoperto» e dalla copertura della composizione essenziale dalla quale tale ente da sempre proviene: giacenza ontica sempre disponibile alla tensione svelante del logos, che si dispiega come fondo necessario d’oscurità nel quale qualcosa può rilucere.

Ora, se riprendiamo il passo dell’interpretazione del Fr. 50 sopra citato ci rendiamo conto che esistono dei punti di continuità. Si può dire, certo, che l’atmosfera teorica nel quale si sono venute delineando le due interpretazioni è completamente differente, visto lo spostamento della possibilità «schiudentesi» dell’essere dal disvelare dell’esserci al venire alla presenza della physis; ma il piano cui perveniamo dall’interpretazione del legein come attività umana rimane praticamente lo stesso, nel primo caso configurandosi come limite ultimo, nel secondo presentandosi come il piano strutturale del pensiero verso un superamento della prospettiva metafisico-ontologica. Se infatti nel corso del ’25/26 lo sguardo è sempre rivolto ad una giustificazione della manifestatività dell’ontico in una ricerca che riguarda ancora principalmente l’essere dell’ente, nel saggio Logos, invece, come si può notare già da una prima lettura del passo sopracitato, il punto di riferimento, il referente da cui il logos riceve la sua essenziale determinazione come raccogliente lasciar-giacere-davanti, è la svelatezza di ciò che già è predisposto nello svelamento.

È vero, il risultato è lo stesso, cioè una determinazione dell’essere dell’ente, ma in un caso il pensiero è rivolto all’ontico, nell’altro il pensiero, fattosi più fondo, ritorna all’ontico per risalire oltre la storia della metafisica, partendo dalla concezione dell’essere che essa suppone, quella della presenza, e riappropriandosi dell’ente in quanto «ente dell’essere».86

9. Il legein: akouein, homon, Logos. L’uno e lo stesso

La vera questione che preoccupa Heidegger in tutto il suo percorso di pensiero — la determinazione dell’essere in quanto tale — richiede, oltre al superamento della metafisica, la capacità del pensiero di trasferirsi in una dimensione dell’essere che abbia dimenticato qualsiasi riferimento all’ente. La formulazione del legein nel detto di Eraclito, oltre ad aver ricondotto il logos- come atto umano del «serbare» ciò che, «denascondendosi», viene a presenza — sul piano della diretta rispondenza all’essere, ha già predisposto il terreno per un superamento di tale dimensione e per il farsi evento del Logos come «parola dell’essere» che si dispiega essenzialmente nello Hen-Panta. Questo ulteriore spostamento avviene attraverso un raddoppiamento della portata del legein, una doppia cassa di risonanza, nella quale il significato appena delucidato del legein come lasciar-giacere-davanti-insieme trova nuove possibilità rispondenti: nell’akouein, l’udire umano, e nella posa raccogliente del Logos, componenti che vengono a costruire il crocevia di pensiero verso una dimensione eveniente dell’essere.

«Se il dire è un raccolto-raccogliente lasciar-giacere-davanti-insieme, che ne è dell’udire, se vige una simile essenza del dire?» («Sagen ist gesammelt-sammelndes beisammen-vor-liegen-Lassen. Was ist dann, wenn es so mit dem Wesendes Sprechens steht, das Hören?»).87

Questa la domanda con la quale Heidegger avvia la trattazione dell’akouein, l’udire.

Il passaggio quasi sottotraccia che qui Heidegger compie è volto ad un’assimilazione dell’hören e del legein. Per udire veramente in un senso ampio e originario del termine, dobbiamo essere raccolti (gesammelt) in ciò che è detto (Zugesprochene) rivolgendosi a noi. Ma ciò che è detto è già esso stesso un gesammelt vorgelegte Vorliegende, ciò che in maniera raccolta è posato e giace davanti a noi. «Das Hören ist eigentlich dieses Sichsammeln, das sich auf Anspruch und Zuspruch zusammennimmt. Das Hören ist erstlich das gesammelte Horchen». L’udire è propriamente questo raccogliersi che si concentra sulla parola che richiede e sulla parola che esorta.88 In questo caso il raccogliersi significa appartenere alla parola che viene detta, che, per così dire, «posa», dispone «davanti», cioè su un fronte di presenza, ciò che esce fuori nella «svelatezza».89 Per farci capire cosa ciò significhi e quanto la parola sia in questo frangente teorico un «infiammarsi del mondo nel suo mondeggiare»,90 di cui l’uomo nella duplice veste ricettiva ed espositiva del legein si rivela il custode, Heidegger scrive: «I mortali odono il tuono del cielo, il fremere del bosco, lo sgorgare delle fonti il rumore della città solo e soltanto nella misura in cui, in qualche modo, essi a tutto ciò già appartengono o non appartengono».91

Questa appartenenza è caratterizzata da un rapporto anticipatorio che permette a ciò che è lasciato-riposare-davanti-insieme di essere proprio quello stesso che già nella parola-mondo, nel fiammeggiare del Logos che porta il mondo a svelatezza,92 è posato-davanti-insieme nel «detto» di ciò che a noi si rivolge.93 Esiste dunque un duplice risuonare del fenomeno nella doppia valenza del Logos: fenomeno è sia l’esplicarsi dell’ente nella sua imposizione manifestativa sia il traspropriarsi del «detto» — l’espresso nell’ente — nell’udire umano, il suo offrirsi ad una diretta fruibilità da parte del legein come elemento che in qualche modo già strutturalmente vi appartiene. «Abbiamo udito quando apparteniamo al detto» («Wir haben gehört wenn wir dem Zugesprochenen gehören»). In questo modo la forza del legein viene spinta da Heidegger oltre il dire umano. Per aver udito ciò che si dispone verso di noi esplicandosi come ciò che giace-davanti-insieme, dobbiamo già appartenervi in qualche modo:

Il parlare di ciò che è detto (rivolgendosi a noi) è legein, lasciar-giacere-davanti insieme. Appartenere al parlare non è altro che: ogni volta lasciar giacere insieme nel suo complesso ciò che un lasciar-giacere-davanti dispone insieme. Un tale lasciar-giacere posa il giacente-innanzi come un giacente innanzi. Esso pone questo come lo stesso: l’uno e lo stesso in uno. Esso pone lo stesso come l’uno. Un tale legein posa l’uno e lo stesso, l’homon, esso è homologhein. Uno e lo stesso, il raccolto lasciar giacere davanti il giacente-innanzi nella medesimezza del suo giacere innanzi.94

Trasporsi nel detto, significa lasciare giacere davanti nella sua «compostezza» ciò che è già stato disposto da un lasciar-giacere-davanti, il che significa tradursi nel detto e custodirlo nella sua «sintassi», mantenere ciò che giace davanti lasciandolo giacere come quello stesso in cui, traspropriati, udiamo la cosa stessa nel suo disporsi raccolto. In questo atteggiamento conservativo rispetto al «fenomeno», che consiste nel lasciar giacere ciò che giace nella maniera in cui è stato disposto innanzi a noi, raccogliendoci presso tale giacenza, ci disponiamo all’udire autentico di ciò in cui il Logos si fa evento.

Nel legein in quanto homologhein si essenzia l’autentico udire. Questo è dunque un legein, che lascia giacere davanti ciò che già giace-davanti-insieme e certo in virtù di un posare, tutto ciò che da sé è già giacente-davanti-insieme nel suo giacere. Questo peculiare posare è il legein come ciò in cui il Logos si fa evento.95

Il Logos che si fa evento viene chiamato semplicemente Ho Logos, il posare: das reine beisammen-vorliegen-lassendes von-sich her Vorliegenden in dessen Liegen. In questa trama tautologica delle componenti in campo si evidenzia un movimento coordinato dell’ente all’interno del «radunare» del Logos. Avviene un «disporsi» del Logos a lasciare ciò che si «dispone» davanti. Il Logos in questo caso è il raccolto «raccogliente» ciò che di per sé è già raccolto. Nel Logos che si fa evento eviene un duplice raccogliersi: quello del Logos, come ciò che raccoglie la disposizione giacente che ha a «disposizione», e il raccogliersi di ciò che giace davanti come un in sé raccolto «disporsi»96 alla raccolta: «Il Logos è l’originario radunamento della raccolta iniziale dall’iniziale posa» («Der Logos ist die ursprüngliche Versammlung der anfängliche Lese aus der anfänglichen Lege. O Logos ist: die lesende Lege und nur dieses»).97

Nel legein si dà una compresenza strutturale caratterizzata da una circolare raccolta liberante di ciò che già è disposto, come giacenza composita, da una posa raccogliente. Il legein, caratterizzandosi come homologhein, non fa altro che adeguarsi, raccogliendo e riunendo, a ciò che già è stato riunito e lasciato giacere. Questo circolo non è un semplice ruotare di ciò che è «raccolto» intorno a due fuochi «raccoglienti», ma porta ad una differenziazione tra l’atto del legein in quanto umano appartenere al Logos e l’atto del Logos in quanto «ontologico»98 appropriarsi del legein dei mortali. La matrice ultima e unitaria di una siffatta differenziazione si trova nel dispiegarsi ontologico del Logos come ontico-ontologico portare l’ontico a manifestarsi nel legein, nell’alveo della spinta manifestativa dell’essere.

Heidegger spiega, traducendo alla sua maniera, l’inizio del frammento (Ouk emou alla tou Logou akousantas) con le seguenti parole: «Wenn ihr nicht mich (den Redenden) bloß angehört habt, sondern wenn ihr euch im horchsamen Gehören aufhaltet, dann ist es eigentlich Hören» («Quando voi, non me — il parlante — , avrete unicamente ascoltato, ma voi stessi vi siete trattenuti nell’appartenere in ascolto, allora si sarà dato autentico udire»).

Quando si dà l’autentico udire, avviene l’homologhein, che può essere ciò che è solo in quanto legein. L’udire in quanto homologhein è in un certo qual modo lo stesso del Logos (als solches ist das eigentliche Hören der Sterblichen in gewisser Weise das Selbe wie der Logos). Ma, proprio in quanto homologhein, allo stesso modo esso non può essere in tutto e per tutto lo stesso che il Logos: «L’homologhein rimane piuttosto un legein, che solo sempre posa, lascia giacere, ciò che già come homon, in quanto complesso, riposa davanti e certo di modo che giaccia davanti in un posare che non scaturisce mai dall’homologhein, ma consiste nella posa raccogliente del Logos» («Das homologhein bleibt vielmehr ein legein, das immer nur legt, liegen läßt, was schon als omon, als Gesamt beisammen vorliegt und zwar vor-liegt in einem liegen, das niemals dem homologhein entsprigt, sondern in der lesenden Lege, im Logos beruht»).99

Qui trovano espressione i due piani su cui si articola la duplice spinta dinamica, all’interno del «lasciar-giacere-davanti-insieme». Da un lato, l’umano disporsi all’ascolto non è altro che la trasposizione del manifestare del logos in quanto lasciar essere l’ente per come si mostra da sé — , dove però sia il peso intenzionale che quello fenomenico ricadono tutti sull’essere in quanto autoproponentesi nello svelato; dall’altro lato, vi è un qualcosa a cui il legein mortale deve adeguarsi, il Logos in quanto posa raccogliente. Qui c’è da notare che la duplice spinta data dal manifestarsi dell’ente e dal raccogliere da parte del legein si ripercuote ad un livello più fondo sul piano del Logos, della posa raccogliente, dove lo stesso raccogliere non è altro che il disporre davanti, ciò che già si è disposto davanti da sé.

Giunti a questo punto ci troviamo a dover muovere un passo azzardato, ma oramai forse non così privo di fondamento. Possiamo dire, infatti, che la duplicità caratterizzante il confluire nella manifestazione presente di fenomeno e logos, tipica della fenomenologia dell’Heidegger di Essere e Tempo, si rapprende nella duplicità insita allo stesso muoversi dell’essere nella Zwiefalt (dispiego), che è appunto un raccogliere ciò che è già disposto alla raccolta: di qui discende l’attitudine umana al legein, che, nell’homologhein, riceve la sua fenomenologicità.

10. L’adatto e Lo Hen Panta

Un pensiero come quello del Logos richiede la fatica di incamminarsi più indietro del parlare, più indietro del pensare. Un pensiero come quello del Logos deve diventare a tal punto riflessivo da scavalcarsi, da disporsi sulla soglia della messa in discussione dei suoi principi per porsi all’ascolto di ciò che da tale soglia riecheggia come qualcosa che è già stato detto. Il detto nel Logos è la parola che si appropria del pensiero sostando nella differenza, nominando la cosa che rimane sempre da pensare, la scaturigine della presenza nella quale l’ente presente da sempre attende una luce che ne illumini la disponibilità per la semplice percezione. La vicenda del pensiero in una simile avventura verso le origini non ha dimenticato il suo cominciamento, la semplice percezione: ha solo preso tale «cominciamento» come un punto di partenza verso «l’iniziale»,100 verso ciò che sta prima del pensare in quanto atto psichico, la «cosa» che da sempre si dà al pensiero come quel già pensato che traccia le linee guida per tutto ciò che, sfondato il muro della metafisica e delle varie filiazioni, fino alla stessa opera husserliana, resta da-pensare.101

Una delle figure che illuminano la via di questo ritorno, e che ne caratterizzano uno scorcio epifanico, si può ritrovare nello Hen Panta di Eraclito, la struttura nella quale si essenzia (west) e si dispiega la vera portata di Ho Logos.

Heidegger per descrivere l’intera struttura unitaria del Fr. 50 chiama in causa gli ultimi due elementi: il to sophon e lo Hen Panta.

To sophon spiega Heidegger è ciò che avviene quando si dà un autentico udire come homologhein: «Wenn homologhein geschiet dann ereignet sich, dann ist sophon».102

Sophon significa: « [ ] dasjenige, was sich an das Zugewiesene halten»,103 quello che è in grado di attenersi a ciò che è assegnato. Il sophon è per Heidegger l’adatto (geschicklich) ,104 quello che nel suo evenire rende il legein mortale adatto al Logos.

Ma in cosa consiste il dispiegarsi dell’«adatto»? È questa la domanda che Heidegger si pone cercando di disegnare il fronte essenziale nel quale l’adatto salda il legein umano al Logos.

«Heraklit sagt: homologhein sophon estin Hen Panta, “Geschickliches ereignet sich, insofern Eins alles”».105 «L’adatto si fa evento in quanto uno tutto».

Heidegger prende subito le distanze da una circoscrizione dello Hen Panta nell’ambito asseverativo del Logos. Lo Hen Panta non è ciò che in definitiva il Logos ha da annunciare, ma piuttosto: «Hen Panta, besagt in welcher Weise der Logos west», l’uno tutto dice in quale maniera il Logos dispiega il suo essere.

Vi è una differenza di piani esplicativi tra il Logos, l’Hen Panta e il legein. Seppure essi appartengano strutturalmente allo stesso evento, ognuno si dispiega indicando verso l’evenire dell’altro.

«Lo Hen è l’unico-uno in quanto ciò che unifica. Esso unifica radunando. Esso raduna, mentre lascia giacere davanti raccogliendo il giacente-innanzi come tale e nella sua totalità. L’unico-uno unifica come posa raccogliente» («En ist das Einzig-Eine als das Einende. Es eint, indem es versammelt. Es versammelt, indem es lesend vorliegen läßt das Vorliegende als solches und im Ganzen. Das Einzig-Eine eint als die lesende Lege»).106

L’uno come ramo raccogliente della composita «figura» Hen-Panta è il singolo che raccoglie, e che lasciando giacere dispone e si dispone, raccogliendo, nell’uno raccogliente.

L’uno in quanto ab-solutus raccoglie in sé la posa, ciò che pertiene alla giacenza interna al movimento liberante-unificante. L’uno-tutto sotto questo rispetto indica nella direzione del Logos, vale a dire che apre uno spiraglio di illuminabilità nel «fenomeno» del Logos, che in qualche modo nel raccogliere dell’uno eviene,107 in quanto ciò che primariamente raccoglie.

«L’ Hen Panta dà il semplice cenno a ciò nella direzione di ciò che il Logos è.» («Hen Panta gibt den einfachen Wink in das, was der Logos ist»).108

«Alla domanda su cosa sia il Logos vi è solo una risposta adeguata. Essa suona nella nostra formulazione: Ho Logos leghei. Esso lascia giacere-davanti-insieme. Cosa? Panta.» («Auf die Frage, was der Logos sei, gibt es nur eine gemäße Antwort. Sie lautet in unsere Fassung: O Logos leghei. Er läßt beisammen-vor-liegen. Was? Panta»).109

In questa formulazione compare quella che è l’irriducibile differenza tra il gesto del raccogliere e l’alterità del raccolto, per dirla in maniera semplicistica. Il Logos come raccolta unificante si dispiega completamente nel raccogliere, un raccogliere che rimane a livello strutturale legato all’Hen come principio unificatore. Nella raccolta tuttavia esso si dispone ad altro rendendosi ricettivo per ciò che già di per sé è lasciato giacere insieme, la totalità degli enti, panta ta onta:

Ciò che questa parola (panta) indica, Eraclito ce lo dice immediatamente e in maniera chiara all’inizio del frammento B 7: ei panta ta onta “Se tutto [tutte le cose] (cioè) il presente… ”. La posa raccogliente ha, in quanto Logos, deposto tutte le cose nella svelatezza. Il posare è un serbare. Esso serba tutto il presente nel suo esser-presente, dal quale quello, proprio come ciò che di volta in volta è presente, può essere preso e può essere tirato fuori per mezzo del legein mortale.110

Nel suo posare adunando ciò che si dispone da sé nel fronte composito della presenza come hen, come unità nella quale si dispongono i panta, il Logos serba, assicura l’ente nella sua svelatezza al piano della presenza, e in tal modo rende disponibile ciò che viene a presenza e che può essere nuovamente scoperto dal legein mortale e tirato fuori da tale messa al riparo.

«La parola ho Logos nomina quello che raduna tutto ciò che è presente nel suo essere presente e che in esso lo lascia giacere. Il Logos nomina quello in cui si fa evento l’esser presente di ciò che è presente» («Das Wort o Logos nennt Jenes, das alles Anwesende ins Anwesen versammelt und darin vorliegen läßt. O Logos nennt Jenes, worin sich das Anwesen des Anwesenden ereignet»).

11. Conclusione

Siamo pronti a questo punto a rispondere alla domanda che ci eravamo posti: esiste una componente fenomenologica nel secondo Heidegger?

Il problema ha un’apparenza di superficialità poiché si corre il rischio di incappare nelle assonanze che uno scritto come quello analizzato mantiene con l’esposizione della fenomenologia dell’Heidegger di Essere e Tempo. La chiave di lettura della questione si articola su diversi piani e ha richiesto più di una prospettiva d’analisi.

Nel tematizzare il saggio sul Logos di Eraclito ci siamo sin da subito mossi sul piano di ciò che è antecedente, apriorico, in due sensi: in senso storico, in quanto il saggio anticipa lo spostamento della concezione dell’essere sul piano dell’ente, e in senso ontologico, in quanto il disporre proprio del Logos si configura come quel piano d’essere che anticipa l’ente nel suo movimento disvelativo e nello svelare del logos. Le due concezioni tuttavia non divergono nel Denkweg heideggeriano, piché invero esse si intersecano sul piano della storia dell’essere. Sotto un altro rispetto siamo passati oltre l’apertura trascendente dell’esserci e ci siamo collocati presso la «Sache», quella cosa che rimane sempre da pensare e che rappresenta il coappartenersi di pensiero ed essere nella strutturale spinta serbante-esponente del Logos. Infine, sulla scorta delle torsioni semantiche cui Heidegger dà corso nella sua lettura del pensiero eracliteo e del pensiero aristotelico, abbiamo notato che quella duplicità fenomenologica intrinseca al movimento di ente e logos nel fronte dell’incontro della presenza, rimane invariata, seppur risemantizzandosi, in una irriducibile disposizione originaria, che, nel suo offrirsi in maniera composita, si dispiega ad un tempo come rilasciante-serbante l’ente. Il risultato è un distacco del pensiero dalle possibilità manifestative del logos verso un ascolto del richiamo del farsi evento di essere ed ente nel raccogliere del Logos.

Con queste notazioni non si sarà messa la parola fine alla questione, ma ci si sarà solo spinti fino al punto limite, ci si sarà cioè disposti all’ascolto del Logos come quella «precedente»111 figura fenomenologica originaria112 nella quale avvengono il disvelarsi dell’essere ed il manifestarsi dell’ente e che, proponendosi come cosa stessa del pensare, dona le linee guida per un percorso che sia definitivamente fenomenologico, in una trama appropriantesi-espropriantesi di cosa stessa e pensiero, di essere ed ente, di legein e Logos; ed è proprio in ciò che ci sembra risiedere la possibilità di un cammino «mortale» verso il linguaggio, un cammino che impegnerà quasi esclusivamente l’ultimo tratto della Weg heideggeriana.


  1. Nella sua celebre introduzione ad Heidegger, Vattimo divide il pensiero del filosofo di Meßkirch in tre fasi: la prima riconducibile alle istanze teoriche convergenti in Essere e Tempo, la seconda assimilabile con la storia dell’essere ed il tentativo di superamento della metafisica in essa implicito, la terza riguardante l’Ereignis ed il linguaggio. Si veda G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 2010 ↩︎

  2. Nel senso del «Widerschein» richiamato da Heidegger nei Grundprobleme der Ph?nomenologie, vale a dire nel senso della rifrazione dell’esserci nelle cose con cui si relaziona: «Reflektieren heisst hier: sich an etwas brechen, von da züruckstrahlen, d.h. von etwas her im Widerschein sich zeigen» (M. Heidegger, GA 24, Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt 1975 p.226). Nel riverbero della luce proiettata dall’esserci - nel suo trascendere - sulle cose, l’esserci trova una forma di “riflessione”, che è come un interpretarsi, un riscoprirsi attraverso il senso che le cose restituiscono dall’apertura trascendente da esso inaugurata. ↩︎

  3. Ovviamente come base da cui Heidegger parte per la decostruzione della fenomenologia husserliana. ↩︎

  4. Emblematiche al riguardo le parole di Heidegger presenti in Essere e Tempo: «Jede Erschließung von Sein als des transcendens ist transzendentale Erkenntnis» (Sein und Zeit, p. 6). La questione viene affrontata criticamente da Severino, Heidegger e la Metafisica, Adelphi, Milano 1994 pp. 328-329, il quale mira a collocare su uno sfondo umanistico la questione del rapporto tra trascendenza ed essere. L’interpretazione proposta da questo studioso è indubbiamente molto interessante, ma, a mio parere, tradisce un approccio ancora fortemente trascendentalistico. Ciò che viene a mancare in essa è proprio quel tentativo peculiare del secondo Heidegger di superare qualsiasi reiterazione di una fondazione ontica (sia anche essa sul piano dell’ente-esserci) del problema dell’essere. Severino pone la manifestatività dell’ente al centro della trascendenza ove esserci ed essere si co-estendono, e in essa individua l’essenza dell’uomo, la sua soggettività, in questo misconoscendo quella che è una decentralizzazione del manifestarsi dell’essere dall’apertura dell’esserci caratteristica del secondo Heidegger. All’adeguatezza dell’esserci a manifestare l’ente messa in evidenza da Severino si può contrapporre il geschicklich del saggio Logos (concetto che approfondiremo nel seguito di questo intervento). Nel geschicklich risuona qualcosa di più di una possibilità dell’esserci di porsi come centro manifestativo dell’ente, in esso riecheggia l’evento dell’essere nel cui avvento il logos mortale viene richiamato all’ascolto dell’ente ad esso pre-disposto. Non dunque una trascendenza fondante, ma un puro trascendere, un porsi all’ascolto del venire a svelatezza dell’ente nello svelarsi dell’essere. ↩︎

  5. I due testi fondamentali in cui viene configurandosi un cambiamento nella concezione heideggeriana della verità attraverso uno spostamento dal piano del trascendentale e della struttura fondante la trascendenza come essere nel mondo, a quello del mantenersi dell’uomo nell’aperto - nella radura della Lichtung - per custodire il manifestarsi dell’ente ed in questa custodia aprirsi per l’imporsi del mondo, sono Vom wesen des Grundes e Vom Wesen der Wahrheit. Di questi testi si può dire che il primo rimane incagliato ancora nella prospettiva analitica pur preparando il terreno per l’emancipazione dall’aspetto trascendentale dell’esserci, e che il secondo costituisce quel passaggio fondamentale verso un decentramento dell’essere dal progetto-gettato dell’esserci e dalla struttura dell’essere-nel-mondo. Non potendo qui trattare a fondo tutte le tematiche che caratterizzano i vari passaggi, ci si limita a rinviare ad alcuni passi nei quali si evidenzia il passaggio dall’esser-scoperto, alla svelatezza dell’ente: M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento in Segnavia trad. a cura di F. Volpi p. 99; Dell’essenza della verità in Segnavia trad. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 pp. 143-144. Per una trattazione molto accurata del problema che prende in considerazione entrambi i saggi richiamiamo a Zarader, Le parole dell’origine, trad. a cura di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp.67-74. ↩︎

  6. Su tale questione Heidegger si espresse in forma sintetica ed efficace durante i seminari di Zähringen del 1973: «Diventa dunque assolutamente necessario abbandonare la sfera della coscienza e della rappresentazione a essa inerente, se si vuole essere in grado di ri-pensare ciò che i Greci hanno pensato. Abbandonare la sfera della coscienza e raggiungere quella dell’esser-ci: per vedere quindi chiaramente che l’uomo, inteso come esserci (cioè partendo dall’e-statica), è soltanto se arriva da se stesso fino a quel completamente altro da sé che è la radura (Lichtung) dell’essere. Questa radura […] questa apertura non l’ha creata l’uomo, non è l’uomo. Al contrario, essa è quello che gli è assegnato perché a lui si rivolge: è ciò che gli è destinato (das ihm Zugeschichte).» Cfr. M. Heidegger, Seminari, a cura di F. Volpi trad. di M. Bonola, Adelphi, Milano 2003 p. 163. ↩︎

  7. Sotto questo rispetto ci sembra del tutto condivisibile la lettura «metafenomenologica» proposto da Esposito :« […] se già dai primi accenni che ne fa, Heidegger individua il problema della fenomenologia, in generale, in quella direzione intenzionale verso la «cosa stessa» della ricerca, allora questo suo ripercorrere le strutture essenziali della fenomenologia, in vista della loro originaria «natura», ci sembra che assuma il carattere di una (ci si passi l’espressione) fenomenologia della Fenomenologia.» (C. Esposito, Il fenomeno dell’Essere, Dedalo, Bari 1984 p.60). ↩︎

  8. Nel senso più lontano che sia possibile da fraintendimenti metafisici e più vicino che sia possibile al west di heideggeriana fattura. ↩︎

  9. Ardovino in un intervento che riguarda il «differimento» del problema della vita verso quello dell’essere nel Denkweg heideggeriano, parla di un transito della domanda ontologica nell’evento: «La Seinsfrage comincia a destrutturarsi in Seinsgeschichte, innescando il movimento in base al quale l’interrogazione ontologico-trascendentale dell’essere transita nel pensiero dell’evento (cioè nella storia) riconoscendo bensì nella trascendenza metafisica un erramento, ma un erramento necessario e non descrivibile in termini di mero superamento, bensì di remissione.» (Ardovino, Dal vivere all’essere. Heidegger e il problema della fatticità tra logos tes zoes e logos tou ontos «FIERI» 3 pp. 86.) ↩︎

  10. Ardovino parla di retrocessione dell’ermeneutica su di un piano più ontologico-strutturale nel periodo di Marburgo. L’autore sembra aver colto in maniera particolarmente brillante la caratteristica retrocedente del pensiero heideggeriano (si veda nota precedente), ma non segue la via di questo retrocedere, piuttosto cerca di individuare quel riferimento costante al problema della fatticità, che caratterizza un nucleo continuamente rimosso lungo tutto l’esplicarsi del pensiero heideggeriano da Essere e Tempo in poi. Il nostro punto di vista coglie in maniera più letterale il concetto di «rinvio» e lo sposta sul piano della «cosa stessa», individuando in questo «deferimento» un «differimento» fenomenologico. Si veda Ardovino, Dal vivere all’essere pp. 86-87. ↩︎

  11. Di una simile attitudine si può trovare testimonianza sin dall’introduzione di Essere e Tempo, anche se in quel luogo ha ancora un peso preponderante l’approccio analitico e si tende a risolvere il problema dell’essere nell’ermeneutica dell’esserci. Nel crocevia tra ermeneutica come interpretazione del comprendere dell’esserci e la fenomenologia come trasparente aderenza metodologica al darsi fattuale di tale comprensione von Herrmann individua il senso dell’introduzione di Essere e Tempo: «Die Einleitung ist überschrieben ‘Die Exposition der Frage nach dem Sinn von Sein’. Ihre Aufgabe besteht in der Gewinnung der Fragestellung. Ist diese erarbeitet, kann in der auf die Einleitung folgenden Abhandlung jene Frage ‘konkret’ ausgearbeitet werden. Die konkrete Ausarbeitung besteht in der Ausführung der Frageschritte und deren Beantwortung auf dem Wege konkreter Sachaufweisung» (F.W. von Herrmann, Hermeneutische Phänomenologie des Daseins, Klostermann, Frankfurt am Main 1987, p. 12). Il domandare trova la sua concrezione nell’esposizione dei suoi passi e delle sue risposte sulla via della dimostrazione concreta della ‘cosa’. Nella duplice cosalità dell’atteggiamento e dell’oggetto intenzionato trova la sua vera dimensione l’ermeneutica fenomenologica. ↩︎

  12. Secondo Pöggeler il fallimento della metafisica dal punto di vista heideggeriano risiede nella concezione dell’essere come Vor-Augen-Sein, l’essere presente alla vista del pensiero. Questo approccio impedirebbe al vivere fattuale di pervenire all’esperienza del pensiero come modo d’essere. Il modo impensato di esperire l’essere è il tempo: la metafisica concepisce l’essere come Anwesenheit, senza portare mai la temporalità allo sguardo questionante. La grande assente nel discorso metafisico è la fatticità dell’esserci nella sua dimensione storica. La domanda sul senso dell’essere si orienta tra l’essere e il tempo. Pöggeler si concentra sull’aspetto fondativo della domanda sul senso dell’essere nella sua posizione trascendentale, nel suo luogo rimasto inesplorato dalla metafisica: il fondamento stesso del domandare nel quale si esplica il riferimento unitario che permette all’essere di essere dicibile in molti modi. «Das Dasein hat ein Seinsverhältnis und somit ein Seinsverständnis» (O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heidegger, Neske, Pfüllingen, 1963 pp. 46). Dunque l’unico senso che si pone a delimitare la variabilità dei modi d’essere è la relazione dell’esserci all’essere: «Das Dasein ist jenes Seiende, das die Seinsfrage stellt, das deshalb in seinem Sein durchsichtig gemacht werden muß, wenn diese Frage ausgearbeitet werden soll» (pp. 48 ). L’esserci perviene alla trasparenza del suo rapporto con l’essere quando pone la domanda, quando ha una visione riflessa del domandare come ricerca, scavo nel rapporto già aperto con l’essere ma finora inesplorato dal domandare metafisico. ↩︎

  13. Per involuzione qui si intende tutt’altro che una regressione concettuale, piuttosto una regressione nella vicenda fenomenica della storia dell’essere, nel senso di una risalita verso il prius d’essere che anticipa ogni conoscere ed esperire dell’uomo e di conseguenza dell’esserci. ↩︎

  14. Boelen, tra l’altro, in un intervento che cerca di ricostruire una linea di coerenza tra le due fenomenologie esprime il carattere peculiare dell’emancipazione heideggeriana nel rifiuto del soggettivismo trascendentale di Husserl: «Altough from the very beginning Heidegger had accepted the leitmotiv of Husserl’s phenomenology «Zu den sachen selbst» he took the liberty of interpreting and developing phenomenology in his own way, which resulted in a total rejection of the transcendental subjectivism of Husserl» (B. Boelen, Martin Heidegger as a phenomenologist, in Phenomenological Perspectives, Nijhoff, The Hague 1975 p. 94) ↩︎

  15. In un articolo illuminante sull’intrinseca caratteristica fenomenologica dell’analitica, Esposito individua la questione dell’essere nell’apertura originaria della Seinsfrage heideggeriana ad una risposta, alla possibilità di un riempimento dell’intenzionale attitudine dell’esserci all’essere, nella quale quest’ultimo non viene pensato come fondamento ma come la possibilità stessa del domandare; alla luce di ciò lo studioso parla di una possibile «fenomenologicità» dell’Heidegger interprete delle Logische Untersuchungen. È in questi termini che per noi assume un senso parlare di fenomenologicità delle figure di pensiero che il secondo Heidegger ascrive, seppur in via sovra-interpretativa, ai presocratici. (Cfr. C. Esposito, Heidegger fenomenologo in La recezione italiana di Heidegger, Cedam, Padova 1989 pp. 414-416). ↩︎

  16. Su tutti e due i versanti semantici cui il termine rinvia: come ciò che è fatto proprio e come ciò che è adatto, intonato a qualcosa. ↩︎

  17. Sull’ appartenenza della Wendung ad una stessa via di pensiero si è espresso lo stesso Heidegger nel succitatoVorwort all’opera di Richardson (cfr. pp. XVII-XXI); qui riportiamo un passo della traduzione di Mazzarella che nel suo articolo La Seinsfrage come Kehre e come Denkweg di carattere introduttivo a Tempo ed Essere approfondisce in maniera decisiva la questione: «Il pensiero della Kehre è una Wendung (svolta) nel mio pensiero — in altri termini che la cosa del pensiero (die Sache des Denkens) è la stessa (Dasselbe), ma il Denkweg , il cammino del pensiero, non è identico nei suoi momenti, perché esperisce, ed esplica, una non-identità, un movimento, all’interno della Sache stessa del pensiero, anche se ognuno di essi è essenzialmente connesso agli altri (il che, per altro, vuol dire che solo nella sua interezza il Denkweg è adeguato alla Sache des Denkens)» (E. Mazzarella, Tempo ed Essere, Guida Editori, Napoli 1980 p. 8). ↩︎

  18. Cfr. W. Richardson, Through Phenomenology, p. XIII ↩︎

  19. M. Heidegger, GA 21, Logik: Die Frage nach der Wahrheit, Klostermann, Frankfurt am Main 1995 (d’ora in avanti L.) ↩︎

  20. E. Husserl - M. Heidegger, Fenomenologia p. 67 ↩︎

  21. Sull’argomento si è espresso Bernet: «Privilegiando l’intentum, Heidegger doveva avere altri motivi e altri scopi, poiché la sua nuova determinazione della «soggettività del soggetto» non ne esclude per nulla il carattere egologico. Ciò che guida la sua scelta è evidentemente il progetto di un’ontologia fenomenologica. La descrizione fenomenologica dell’intentum offre l’occasione per una prima serie di domande sul significato ontologico dell’intenzionalità. […] Anche se la differenza tra i due significati principali dell’intentum, cioè tra l’“ente in se stesso” e l’ente preso nel “come del suo essere-diretto-intenzionalmente», risale a Husserl, è fin troppo chiaro che Heidegger le conferisce un senso del tutto nuovo. In Husserl il rapporto tra ”l’oggetto puro e semplice che è intenzionato“ e «l’oggetto in quanto intenzionato» riguarda la corrispondenza tra la realtà della cosa empirica e il suo dato in quanto fenomeno noematico. Questa corrispondenza costituisce l’oggetto di una interrogazione epistemologica […] Non si tratta altro che di una fenomenologia della costituzione trascendentale della realtà oggettiva. In Heidegger questo stesso rapporto fra i due significati dell’intentum è oggetto di un’interrogazione ontologica» (R. Bernet, Trascendenza e intenzionalità, «Aut-Aut» 223-224 p. 148-149). Seguendo un altro percorso teorico e partendo dal diverso modo di richiamare ai concetti greci da parte di Husserl ed Heidegger, Murray espone la critica heideggeriana al concetto husserliano di noesi che verrà sostituito da quello di noein di diretta derivazione parmenidea: «Husserl uses the term noesis to designate the essence of the intentional process and, in strict correlation, the term noemata to designate the intentional objekts. These jointly name the absolute Husserl’s claim, contending that the concept of noesis has severe problems as to its generic employment. These arise from the fact that the term is oriented toward a model of cognition and cognitive intending, with its narrow focus on mind in its theorizing activity […] ”Where Husserl makes phenomenology into a kind of Berkeleyan idealism (esse est percipi), the later Heidegger’s interpretations of noein in Parmenides’ fragments 3 and 8 (34-36) show a thinking thought in terms of primacy of Being, with noein rendered as consigned to and taking heed of Being (einai). Thus we note three steps in Heidegger’s response: (1) a statement clarifying the modifications of the classical Greek noesis as this is found in Husserl, (2) an assertion of a more basic, non-Greek existential understanding and (3) a retrieval of some pre-classical indications» (M. Murray, Husserl and Heidegger: constructing and deconstructing Greek philosophy in The review of Methaphysics, vol.41 n°3 1988 pp.501-518: pp. 509-511. Citando quest’ultimo passo si è voluto accennare ad una possibile continuità teorica tra l’interpretazione husserliana del dato noematico ereditata in parte inizialmente da Heidegger e la serie di slittamenti di significato e di reinterpretazioni cui quest’ultimo sottoporrà tale concetto, emancipandolo sempre di più dall’atto conoscitivo, dunque da una visione eidetico—trascendentale, per portarlo sul piano della svelatezza manifestativa, dell’aletheia (si veda a riguardo ivi. pp. 514-516). ↩︎

  22. Cogliendo l’aspetto strettamente veritativo dell’ente nella pre-comprensione data dall’utilizzo, Sini scrive:«Per poter scoprire l’ente, per renderlo accessibile nella sua utilizzabilità, nel suo valere per, per averlo di fronte alethes io ho bisogno di due condizioni: la prima è che debbo comprenderlo nel suo senso, ma per comprenderlo nel suo senso io devo averlo già compreso; io debbo essere già nel modo del ‘per scrivere’, per rendermi conto che questo oggetto potrebbe servire per tracciare segni […]; la seconda condizione è che io sono mosso per scrivere, mi muovo perché voglio scrivere e allora ecco che da questo futuro […] io torno indietro e dico: questo è gesso, questo è utile per.[…]. Quindi si ha una pre-comprensione che anticipa, si ha un futuro da compiere che rimbalza all’interno e che rende luminoso il presente, cioè significativo». (C. Sini, Il problema della verità in Heidegger «Segni e comprensione» n° 9 p. 13). ↩︎

  23. Cfr. G. Figal, Martin Heidegger, Fenomenologia della libertà, Il melangolo, Genova, 2007: «In tal senso bisogna tenere presente che la proposizione intrattiene un rapporto del tutto peculiare con la verità, che in quanto verità della proposizione è necessariamente posto nell’alternativa: “la proposizione è il discorso, che non è vero in quanto tale, che non è falso in quanto tale, ma che può essere vero o falso” (L. 135). In generale non si tratta di stabilire che una proposizione nella fattispecie possa essere vera, ma solo del fatto che ogni proposizione come tale può anche essere falsa. Quindi ci si inganna quando ci si attiene alle proposizioni in relazione a ciò che è autenticamente verità: “Verità da un lato e essere vero o essere falso dall’altro costituiscono dei fenomeni del tutto diversi” (L. 129)» (p. 53). ↩︎

  24. L. p. 126 ↩︎

  25. L. p. 133 ↩︎

  26. Ibid. ↩︎

  27. Hübner individua nell’apertura dell’ente il piano ontologico e pone un’ inconciliabilità tra il medesimo ed il piano del logos: «Damit wird deutlich, daß die prädikative Aussageform nach Heidegger Auffassung nicht die ursprüngliche ontologische Struktur ergibt sich vielmehr aus der ‘Seinsart’ des in Frage stehenden Seienden und diese ist abhängig vom jeweiligen Verhalten des Daseins zu ihm. Deshalb kann die ontologische Struktur nicht einfach an der Struktur des Aussagesatzes abgelesen werden, sondern ist — ebenso wie der Struktur der Aussage selbst — ausgehend von der Struktur des Verhaltens zu interpretieren» (Hübner, Existenzund Sprache, Duncker Humbolt, Berlin 2001, p. 56). Questa irriducibilità, la quale relega il piano ontologico ad un avvenimento di significato che si dispiega nella pratica procurante (cioè nell’essere disvelante dell’esserci) e che il logos può riportare solo secondariamente ad uno scoprimento (enunciando ciò che dell’ente è contemplabile all’interno di un fronte aperto dall’esserci), verrà riducendosi negli anni successivi a Essere e Tempo nell’evento dell’imporsi (Walten) del mondo e nella capacità del logos di restituire la manifestatività che l’ente ottiene da questa imposizione. Alla base di questo passaggio vi è ovviamente una risemantizzazione di concetti quali ente e mondo ed uno spostamento dell’Entdeckung dalla fatticità dell’esserci all’evento dell’essere. ↩︎

  28. Riportiamo di seguito due interpretazioni illuminanti sull’argomento che sono rivolte a collocare il problema in un contesto più ampio. Scrimieri delinea il movimento del pervenire dell’ente sul campo del presente, da una presenza antecedente il momento enunciativo e Sini vuole cogliere in questo movimento un’inversione del rapporto enunciato-verità e sembra voler ascrivere all’individuazione di quel piano più fondo — quello dell’aletheia — la vera caratura fenomenologica del pensiero heideggeriano: «Il logos fa vedere il discusso presentandolo; esso è stato già caratterizzato da Heidegger come l’argomento (Worüber) dell’enunciato, nella sua delimitazione (Wovon). L’argomento del discorso viene fissato nell’esecuzione dell’esposizione (Sehenlassen) che lo delimita; più precisamente: esso è già presente e da esso l’enunciato stesso viene elevato come presente, (per esempio l’essere nero del tavolo)» (G. Scrimieri, Fenomenologia ed ermeneutica tra Edmund husserl e Martin Heidegger, Levante, Bari 1983, p. 164); «Qual è questa esperienza più profonda della verità? Tutti lo sappiamo, è la verità come originaria manifestatività dell’ente, come originario darsi per qualcosa, come non esser latente del mondo, aletheia che niente ha a che fare con la versione latino-metafisica della veritas. Quindi non adaequatio della enunciazione con la cosa, ma originario balzar davanti, diciamo così, stagliarsi lì di fronte della nerezza della stufa. Questo è tutto il problema di Heidegger da qui per tutta la sua vita» (C. Sini, Il problema, p. 9). ↩︎

  29. Particolarmente significative a riguardo sono le parole di Chiereghin: «Sia pure interrotto dall’essenziale intermezzo sull’in-quanto ermeneutico e apofantico, credo risulti evidente il disegno interpretativo che guida Heidegger. Mentre prima dell’intermezzo egli ha esaminato i luoghi in cui Aristotele delinea la struttura originariamente sintetico-diairetica dell’asserzione, la quale condiziona il suo poter essere vera o falsa, ora egli ha evidenziato i luoghi in cui tale struttura passa ad appartenere agli enti e il rapporto che si istituisce tra questi e verità e falsità: Synthesis è quindi non soltanto la struttura del logos , ma anche del ‘ciò su cui’ in quanto tale, nella misura in cui questo è e dev’essere in generale ente nel senso di vero» (F. Chiereghin, Essere e verità, Verifiche, Padova 1984 p. 81). ↩︎

  30. L. p. 165 ↩︎

  31. L. p. 181. «In seiner Erläuterung dieser Stelle weist Heidegger darauf hin, daß im Zusammenhang mit dem Wesen “das Hinblicken selbst das reine Entdecken ist, so daß es nicht nur keiner Bestimmung bedarf, sondern nicht bedürfen kann”; daß hier “nach dem eigentlichen Sein gefragt wird”; daß “wir nun erst die Basis für die Entscheidung der Frage” nach der Wahrheit haben, und daß “das Entdecken, das hier möglich ist, ein schlichtes Haben des Seienden besagt”. Diesem Denken (noein) ohne Bestimmungen stellt Heidegger das Denken durch Bestimmungen (dianoein), d.h. in Sätzen, gegenüber, als deren linguistische Gegenstücke jeweils das ‘Sagen’ (phanai) und das dialektische Diskutieren (dialegesthai) gelten». E. Berti, Heideggers Auseinandersetzung mit dem Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis in E. Richter, Die Frage nach der Wahrheit, Klostermann, Frankfurt am Main 1997 p.92 ↩︎

  32. Ci sembra qui interessante riportare l’opinione di Chiereghin che dopo essersi concentrato sul fronte d’incontro tra ente ed esserci situandolo “in quel lato del darsi del fenomeno della verità che la tradizione ha sempre indicato come verità dell’intuizione” (p. 93), si esprime nei seguenti termini sulla conoscenza delle cose semplici: «In definitiva un toccare che dev’essere interpretato sulla scorta del noein e viceversa, costituiscono il filo conduttore per accedere alle strutture semplici, né divisibili né sintetizzabili proprie dell’essere degli enti. In questo modo la verità dell’essere nel suo senso primario consiste nel pensare questi esseri semplici: il modo dell’assumere è la struttura stessa di ciò che è assunto, così che la risposta alla domanda circa l’essere della verità è la risposta alla domanda sulla verità dell’essere, l’essere viene determinato mediante il pensare, posti entrambi come identici» (Chiereghin, Essere… p. 100). Ci sembra che in queste righe l’autore individui molto bene quello che sarà l’itinerario di pensiero nella transizione di Heidegger attraverso i temi della cosiddetta svolta. Nell’analisi del rapporto pensiero-essere dell’ente Chiereghin evidenzia il precostitutivo delimitarsi dell’uno nell’altro attraverso un diretto possesso da parte del pensiero della cosa da pensare che costituisce la struttura stessa di ciò che assume (il pensiero) e di ciò che è assunto (l’essere). Grazie a questa traspropriazione di verità ed essere nel corrispondere del pensiero la vera domanda ora mira alla verità dell’essere non più all’essere della verità. Quello che va sottolineato, affondando ancora più indietro le radici nella storia del concetto di verità, è la connessione strutturale tra l’intuizione e la svelatezza, come fenomeni che risiedono nella donazione della cosa stessa. Quella che è una semplice notazione da parte dell’autore può assumere un peso molto più specifico se ci si proietta nella linearità dello sviluppo del concetto di verità nel periodo dei corsi di Marburgo, problema che sembra essere la vera costante del pensiero heideggerriano anche dopo Essere e Tempo↩︎

  33. L. p. 182 ↩︎

  34. Il termine non ha una valenza sostanziale, ma vuole indicare quel piano apriorico della presenza che sorregge ogni presentificazione dell’ente. ↩︎

  35. L. p.189 ↩︎

  36. Il passaggio è lucidamente esposto da Volpi che, parlando dell’interpretazione heideggeriana del concetto di verità in Aristotele, scrive: «La determinazione dell’esserci come svelare (psychè hos aletheuein) ha a sua volta il proprio fondamento nella determinazione dell’ente stesso come verità nel senso dell’essere-scoperto (on hos alethes). In effetti l’atteggiamento scoprente dell’esserci è fondato sul fatto che l’ente stesso può essere scoperto e svelato, cioè sul fatto che esso ha il carattere della manifestatività e in quanto tale è accessibile all’esserci. Ovvero: solo se la verità nel senso dell’essere-scoperto è un carattere dell’ente stesso e se quest’ultimo è dunque accessibile all’esserci, l’esserci può rapportarsi all’ente nell’atteggiamento dello scoprimento» (F. Volpi, Heidegger p. 52). Richiamiamo anche l’attenzione sull’esposizione riassuntiva del rimando continuo ai concetti base della filosofia aristotelica svolta dall’autore a p. 13. All’interno della sveltezza dell’ente l’esserci può cogliere quei caratteri manifestabili che il logos apofantico può manifestare. ↩︎

  37. L. p. 191 ↩︎

  38. Ivi p. 192 ↩︎

  39. Ivi p. 194 ↩︎

  40. Di una duplice caratterizzazione del logos nel ritorno heideggeriano ai Greci parla Mikulìc. L’autore, in una pagina molto densa di suggestioni, che tematizza il rapporto tra la fenomenologia e lo studio del concetto di verità in chiave greca (Unverborgenheit), lungo le diverse declinazioni dai corsi del periodo marburghense fino ad Essere e Tempo, scrive: «Was ihn dann zum Rückgriff auf die Arsitotelische aletheia motiviert, sei Husserl Unterscheidung zwischen sinnlicher und kategorialer Anschauung, die Heidegger nun bei Aristoteles in der Rede vom ‘Logos’ als synthethischer logiche Satzstruktur und dem ‘Logos’ als isoliertem Begriff, dessen Inhalt nicht synthethisch konstituert ist, wiedererkennen will. Dem einen logos kommt Heidegger zufolge die ebenfalls synthethisch strukturierte Erkenntnis (dianoia) zu, und zwar so, daß der Logos der Rede dann ‘wahr’ oder ‘falsch’ werde, wenn die Synthesisstruktur der Erkenntnis richtig oder unrichtig nachvollzogen worden sei (orthotes). Dem zweiten Logos gehöre dagegen ein Wissen (noein), das dem einfachen Berühren (thigein) oder dem Wahrnehmen nahe kommt. In diesen einfachen Formen soll laut Heidegger die Grundlage des eigentlichen Wissens erkannt werden, das lediglich ‘entdeckend’ oder ‘verdeckend’ sei (alethes)» (B. Mikulìc, Sein, Physis, Aletheia, Königshausen-Neumann, Würzburg 1987 p. 59). ↩︎

  41. M. Heidegger, Einleitung zu:»Was ist Metaphysik?«in Wegmarken pp. 371-372 ↩︎

  42. M. Heidegger, Saggi e Discorsi, trad. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976 p. 172 [p. 243]. ↩︎

  43. Si noti il risuonare nel termine latino defero di opzioni traduttive quali l’accordare, il concedere, il conferire nel senso dell’affidare qualcosa a qualcun’altro. ↩︎

  44. M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961 (d’ora in avanti N.) ↩︎

  45. Una delle trattazioni più articolate del concetto di physis appare nell’ Einführung in die Metaphysik. Qui riportiamo due passi decisivi che descrivono la concezione originaria che i Greci ebbero di essa: «Was sagt nun das Wort physis? Es sagt das von sich Aufgehende (z.B. das Aufgehen einer Rose) das sich eröffnende Entfalten, das in solcher Entfaltung in die Erscheinung-Treten und in ihr sich Halten und Verbleiben, kurz das aufgehend-verweilende Walten […] In diesem aufgehend verweilende Walten liegen»Werden« sowhol wie»Sein« im verengten Sinne des starren Verharrens, beschlossen. physis ist das Ent-stehen, aus dem Verborgenen sich heraus- und dieses so erst in den Stand bringen» (M. Heidegger, GA 40, Einführung in die Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main 1983 pp. 16-17). physis è ciò che sorge da sé, il dispiegarsi aprentesi, che in tale dispiegarsi entra nell’apparenza ed in essa si mantiene e persiste. Dunque, come Heidegger riassume, la physis è sorgente persistente imporsi nel quale sono riassunti i termini di essere e divenire. Un altro aspetto importante da sottolineare è quello del venir fuori, dell’Entstehen come portarsi fuori dalla latenza, disponendo in posizione ciò che dapprima si cela. ↩︎

  46. N. pp. 216-217 ↩︎

  47. Cfr. N. p. 458 punti 1-4 ↩︎

  48. Ibid. punto 5 ↩︎

  49. Fortemente esplicativa al riguardo è una nota apposta da Heidegger all’edizione del ’29 di Vom Wesen des Grundes : «qui l’essenza della verità è concepita come ‘biforcata’ dalla prospettiva della differenza quale contrassegno stabile, anziché oltrepassare la ‘differenza’ a partire dal dispiegarsi dell’essenza della verità dell’essere (Seyn) o pensare la differenza come l’essere (Seyn) stesso e, in esso, come l’ente dell’essere (das Seyende des Seyn) e non più come essere dell’ente (Sein von Seiendem)» (M. Heidegger, Dell’essenza p. 90). In un articolo che intende individuare nella storia dell’essere un’autocritica heideggeriana nella quale viene decostruito il concetto di ontologische Differenz, Ciccarelli scrive: «Um meine Interpretation deutlicher zu machen und gewissermaßen an der Sache selbst zu bestätigen, möchte ich eine ‘mitdenkende’ Ueberlegung, vollziehen. Ich möchte nämlich über die zwei verschiedenen Bedeutungen nachdenken, wonach der Genitiv im Ausdruck»Einheit der Unterschiedenen« verstanden werden kann. Dadurch ziele ich letzlich darauf, phänomenologisch verständlich zu machen, dass Heidegger Destruktion der ontologischen Differenz und demnach die Kehre selbst als Versuch zu verstehen ist, den objektiven Sinndes Genitivs»Sein des Seienden« in den subjektiven Sinn desselben umzukehren» (P. Ciccarelli, Heideggers Destruktion der ontologischen Differenz in H. Huni, Denkspuren, Königshausen und Neumann, Würzburg 2008 pp. 175-176). Ciccarelli vede nella variazione tra genitivo oggettivo e genitivo soggettivo il nucleo della Kehre; questo implica, certo, una visione continua della filosofia heideggeriana ma nella misura in cui il secondo momento rappresenta una distruzione del primo, dunque un ripensamento ed una sostituzione di un termine della differenza con l’altro. Noi invece partiamo da una visione continua e coerente della storia dell’essere come identità strutturale nella quale il vedere fenomenologico si muove scandendo di volta in volta le tappe della vicenda di ente ed essere nel traspropriarsi l’uno nell’altro, all’interno della duplice valenza del genitivo. ↩︎

  50. Cfr. N. pp. 460-461 ↩︎

  51. N. p. 460 ↩︎

  52. Heidegger usa il termine co-agito giocando sulla semantica del verbo ago, il condurre, l’avvicinare, ma anche il mostrarsi. Co-agire dunque del legein con lo zusammenstehen del condurre ciò che si mostra. ↩︎

  53. Ibid. Si noti come in maniera puramente casuale qui si venga a mostrare un carattere della procedura fenomenologica evidente nella trattazione del rapporto logos-alsche prende forma nella Logik. Infatti l’unità si presenta, nel momento in cui viene determinato lo stare insieme in quanto stare insieme. Si può dire che valutando lo stare insieme nella sua essenza, venga a presenza l’uno come correlato oggettuale dello stare assieme. Questa potrebbe essere una piccola conferma di come il metodo fenomenologico non abbandoni mai Heidegger nel suo modo di fare filosofia. ↩︎

  54. Cfr. N. 461, la traduzione è ripresa completamente da Volpi (p. 913). ↩︎

  55. Cfr. N. p. 462 ↩︎

  56. Ibid. ↩︎

  57. Cfr. N. p. 463 ↩︎

  58. Ibid. Ovvio qui il riferimento a Cartesio. ↩︎

  59. Ibid. ↩︎

  60. Ibid. ↩︎

  61. Nella trattazione e nel tentativo di esplicare le diverse questioni anche di carattere semantico ci siamo riferiti alla traduzione di Aronadio, molto spesso accettandone le scelte traduttive con qualche variazione, altre volte riportandone interi passi (segnalati in nota) ed alla sua preziosa introduzione, presenti entrambi in F.Aronadio, Un colloquio di Heidegger con Eraclito, Bibliopolis, Napoli 2004. Tuttavia non si è dimenticata la traduzione di G. Vattimo presente in M. Heidegger, Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 2007. Per collocare il discorso heideggeriano in un contesto di studi filologici, richiamiamo qui alla recentissima raccolta di articoli coordinata da L. Perilli, Logos, WBG, Darmstadt 2013. ↩︎

  62. Raccolti in M. Heidegger, GA 55, Heraklit, Klostermann, Frankfurt am Main 1994. ↩︎

  63. Aronadio traduce il termine Sage con ‘Messaggio’, Vattimo con ‘Dire originario’. Heidegger quando parla del Sage lo accosta alla saga, la vicenda del detto e del dire in quanto phasis, il far apparire. Noi qui preferiamo tradurre il termine semplicemente con «parola», dando peso al senso pregnante del dire in quanto «espressione» del pensiero come «espresso» dell’essere (ausgesprochenes). ↩︎

  64. Cfr. Aronadio, Un colloquio, p. 59 ↩︎

  65. M. Heidegger, Vörtrage und Aufsätze, Neske, Stuttgart 1997 p. 199 (d’ora in avanti: VuA). ↩︎

  66. Ibid. ↩︎

  67. C’è da dire che la trattazione heideggeriana oscilla tra una compresenza dei due significati del logos, il dire ed il raccogliere, ed una derivazione dell’uno dall’altro, del dire dal raccogliere. ↩︎

  68. VuA, p. 200 ↩︎

  69. Ibid. ↩︎

  70. Ibid. ↩︎

  71. La Zarader dà un’altra interpretazione del passo che qui merita di essere richiamata: «Si sta in agguato di fronte all’invisibile, come si è all’ascolto del silenzio. Ciò non significa far la posta — preparandosi ad una cattura o ad un attacco — ma proprio al contrario, mantenersi in un atteggiamento di accoglienza, di accettazione, di tensione di tutto l’essere verso quel che forse verrà» (Zarader, Le parole, p. 219). Questa spiegazione, se ci si richiama all’ Horchen, l’essere all’ascolto, come fa l’autrice è assolutamente legittima. Noi qui ci riferiamo alla suggestione del termine tedesco e lo riconduciamo teoreticamente all’ anliegen, il curarsi delle cose. ↩︎

  72. VuA, p. 200. ↩︎

  73. Si veda trad. Vattimo p. 142. ↩︎

  74. Ivi, p. 201. ↩︎

  75. Qui usiamo il termine «compostezza» per richiamare lo stare insieme «composto» dell’ente nell’apertura di mondo, dove compostezza significa anche l’atteggiamento di contegno nei confronti di chi «provoca» il mondo. ↩︎

  76. VuA, p. 203. ↩︎

  77. Si veda trad. Vattimo p. 144 ↩︎

  78. Si veda trad. Aronadio p. 65 ↩︎

  79. Qui preferiamo tradurre Unverborgenheit con l’opzione «non nascondimento» adottata da Aronadio (p.65), piuttosto che secondo la più classica «svelatezza». ↩︎

  80. «Dem Legen als legein liegt einzig daran, dem Von-sich-her-beisammen-vor-liegen als Vorliegendes in der Hut zu lassen, in die es nieder-gelegt bleibt. Welches ist diese Hut? Das bei-sammen-vor-Liegende ist in die Unverborgenheit ein-, in sie weg, in sie hin-gelegt, in sie hinter-legt, d.h. in sie geborgen. Dem legein liegt bei seinem gesammelt-vor-liegen-Lassen an dieser Geborgenheit des Vorliegenden im Unverborgenen» (VuA, p. 203) ↩︎

  81. La Zarader parla del serbare come del senso fondamentale del Logos, che sostiene tutti gli altri (cfr. M. Zarader, Le parole dell’origine, trad. a cura di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 2139: «Risulta così che la messa al riparo lungi dall’essere soltanto l’ultimo atto o la conclusione della raccolta, la attraversa e la sostiene da parte a parte, la guida fin dall’inizio ed in tal modo ne costituisce l’essenza».) ↩︎

  82. VuA p. 204 ↩︎

  83. Ivi, p. 205 ↩︎

  84. Si veda J.F. Courtine, The Destructionof Logic in D.C.Jacobs, The Presocratics after Heidegger, State University of New York Press, Albany 1999, pp. 28-29. ↩︎

  85. «Denn als sammelndes vor-liegen-Lassen empfängt das Sagen seine Wesenart aus der Unverborgenheit des beisammen-vor-Liegenden. Die Entbergungaber des des Verborgenen in das Unverborgene ist das Anwesen selbst des Anwesenden. Wir nennen es das Sein des Seienden» (VuA, p. 205). ↩︎

  86. Un passaggio importante di questo diventare più pensante da parte del pensiero è costituito dall’interpretazione del fr. 8 del poema di Parmenide, nel quale la scoperta della reciproca rispondenza di pensiero ed essere viene descritta come un ritorno all’evento «traspropriante» in cui l’essere si appropria del pensiero richiamando il pensare dei mortali sulla via del dispiego (Zwiefalt). ↩︎

  87. VuA. p. 206 ↩︎

  88. Si veda trad. Aronadio pp. 70-71 ↩︎

  89. Cfr. Galimberti, Linguaggio e Civiltà, Mursia, Milano 1977, p. 80: «Il linguaggio è nato quando l’uomo s’è messo in cammino verso l’essere. Con la parola, l’uomo che sta nel raccoglimento dell’essere (logos) raccoglie a sua volta (legein) l’ordine con cui l’essere espone gli enti. Siccome la parola è vera quando il raccogliere (legein) da essa operato riproduce l’insieme raccolto dell’essere (logos), il dire (legein) dell’uomo presuppone l’udire (akouein) quell’annuncio raccolto in cui l’essere si esprime». ↩︎

  90. Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi, p. 188: «Il mondo è fuoco perdurante, perdurante sorgere secondo il senso più pieno di physis. Se si parla qui di un eterno bruciare del mondo non ci si dovrà immaginare che ci sia anzitutto un mondo per sé che inoltre sia preda a un continuo incendio che imperversa in esso. Invece il mondeggiare del mondo (das Welten der Welt) to pur […] Il fuoco pensoso è il raccoglimento pre-sentante ed es-ponente. to pur è O Logos». ↩︎

  91. «Die Sterblichen hören den Donner des Himmels, das Rauschen des Waldes, das Fließen des Brunnens […] den Lärm der Stadt nur und nur so weit, als sie dem allen schon in irgendeiner Weise zugehören und nicht zugehören» (VuA, p. 206). ↩︎

  92. Cfr. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Klett-Cotta, Stuttgart 2007: «Das walten des Wortes blitz auf als die Bedingnis des Dinges zum Ding. […] Das älteste Wort für das so gedachte Walten des Wortes, für das Sagen, heißt Logos: die Sage, die zeigend Seiendes in sein es ist erscheinen läßt» (p. 237) ↩︎

  93. U. Galimberti, Linguaggio, p. 80: «L’uomo ascolta tutte le cose perché appartiene a quel tutto raccolto (logos) in cui le cose dimorano. Non è quindi l’uomo a possedere il linguaggio ma è la physis che come logos possiede l’uomo e gli mutua il linguaggio». ↩︎

  94. «Das Sprechen des Zugesprochenen ist legein, beisammen-vor-liegen-Lassen. Dem Sprechen gehören — dies ist nichts anderes als: jeweils das, was ein vor-liegen-Lassen beisammen vorlegt, beisammen liegen lassen in seinem Gesamt. Solches Liegenlassen legt das Vorliegende als ein Vorliegendes. Es legt dieses als es selbst. Es legt Eines und das Selbe in Eins. Es legt Eines als das Selbe. Solches legein legt ein und dasselbe, das homon. Solches legein ist das homologhein. Eines als Selbes, ein Vorliegendes im Selben seines Vorliegens gesammelt vorliegenlassen». (VuA p. 206). ↩︎

  95. «Im legein als dem homologhein west das eigentliche Hören. Dieses ist somit ein legein, das vorliegen läßt, was schon beisammen-vor-liegt uns zwar liegt aus einem Legen, das alles von sich her beisammen-vor-Liegende in seinem Liegen angeht. Dieses ausgezeichnete Legen ist das legein, als welches der Logos sich ereignet.» (VuA p. 207). ↩︎

  96. Nel senso di esporsi. ↩︎

  97. VuA, p. 208 ↩︎

  98. Nel senso di Logos dell’essere. ↩︎

  99. VuA, p. 209 ↩︎

  100. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, p. 194: «La filosofia dei Greci perviene a dominare l’Occidente non in virtù del suo originario principio, ma della sua fine principiale che raggiunge, in maniera grandiosa e definitiva, la sua compiuta formulazione in Hegel. La storia, quando è autentica, non perviene alla sua fine cessando e finendo, com’è quelladegli animali; la storia non giunge alla sua fine che in guisa storica». Sull’argomento si veda Zarader, Le parole, p. 203. ↩︎

  101. J. F. Courtine, The Destruction, p. 35: «But what is the Sache, when it is no longer anything but a question of thinking? The response at first will seem necessarly «poor» and disappointing. What calls for thought is the «before-being-thought»: the Zudenkendes. Thought is only truly itself, to the depth of its essence, when it responds to what is bestowedor destined to it, worthy of a history conceived, henceforth, as the unity of a «sending» (Geschick)». ↩︎

  102. VuA, p. 209 ↩︎

  103. Ibid. ↩︎

  104. Si veda trad. Aronadio p. 77. Il termine geschicklichè tradotto da Aronadio con «adatto» e con «docilità all’invio del destino», dando maggior risalto all’atteggiamento accogliente dei mortali, a ciò che il Logos ha già disposto. ↩︎

  105. VuA, p. 210 ↩︎

  106. VuA, p. 212 ↩︎

  107. Qui non si vuole paragonare il fenomeno all’evento, appiattendo le implicazioni che tali formulazioni hanno nella filosofia heideggeriana; si vuole solo indicare quella chiave di lettura, che rimane sempre presente nell’argomentazione heideggeriana, di reperire qualcosa aprendone un anticipatorio campo di comprensione. ↩︎

  108. Si veda trad. Aronadio p. 81. ↩︎

  109. VuA, p. 212 ↩︎

  110. «Was dieses Wort (panta) nennt, sagt uns Heraklit unmittelbar und eindeutig am Beginn des Spruches B 7: Ei panta ta onta… “Wenn alles (nämlich) das Anwesende…”Die lesende Lege hat als der Logos Alles, das Anwesende, in die Unverborgenheit niedergelegt. Das Legen ist ein Bergen. Es birgt alles Anwesende in sein Anwesen, aus dem es eigens als das jeweilige Anwesende durch das sterbliche legein ein- und hervor-geholt werden kann» (Ibid.). ↩︎

  111. Nel senso pregnante del Vorherig, del venire prima facendosi incontro. ↩︎

  112. Siamo pervenuti ad una conclusione che si mostra all’apparenza come «originale» e per un certo verso lo è, nella misura in cui cerca di dare alla lettura del saggio Logos una connotazione che sia fenomenologica sotto più rispetti, fino a pervenire alla mera constatazione che persino gli elementi che reggono il «senso» del detto di Eraclito - il Logos e l’hen-panta - vanno a comporre quella che può essere definita, seppur con qualche azzardo, una «figura» fenomenologica originaria. Un simile risultato è d’altronde legittimato da alcune interpretazioni tra di loro abbastanza concordi. Held (Cfr. K. Held, Heidegger e il principio della fenomenologia, «Aut-Aut» 223-224, pp. 88-110) e Sini (si veda supra nota 25) danno un peso preponderante alla ricerca sulla manifestatività dell’ente - non solo nel primo Heidegger, ma in tutto il suo percorso di pensiero —: il primo individuando sulla scorta di Fink, il mondo come vera Sache del pensiero e il secondo riportando la questione sul piano del «balzare davanti dell’ente». Si pensi, inoltre, all’unica Weg proposta da Gadamer ed alla testimonianza di von Herrmann, che sostiene che la visione fenomenologica sia stata in qualche modo interiorizzata dal secondo Heidegger (cfr. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, trad. a cura di R. Cristin, Marietti, Milano 1987; R. Cristin, Sul metodo fenomenologico, introduzione a F.W. von Hermann, Il concetto fondamentale di fenomenologia, il melangolo, Genova 1997). Oltre a questi interpreti, in qualche modo vicini allo stesso Heidegger, si sono mossi nella stessa direzione anche altri studiosi, che hanno trattato nello specifico il saggio sul Fr. 50 di Eraclito. Galimberti pone l’accento sull’importanza della manifestazione nel giacere (keisthai) delle cose nell’esposizione: «Il logos è dunque quel raccogliere che lascia le cose stese davanti insieme: “beisammen-vorliegen-lassen” dove il lassen non è un lasciare indifferente, ma è cura (anliegen) che le cose siano lasciate come l’essere le ha esposte. Il loro giacere (keisthai) nell’esposizione è la loro presenza (parousia) che custodisce la loro verità (aletheia). Il logos è dunque quella raccolta originaria in cui la physis dispiega le cose, esponendole a quella manifestazione (phainesthai) o presenza che le accoglie» (Galimberti, Linguaggio, p. 79). La Zarader invece si esprime sull’originarietà della dimensione del Logos rispetto al legein, in una costruzione teorica continuamente rivolta a creare linee evolutive (si veda al riguardo il capitolo sull’aletheia cfr. pp. 60-95): «Logos è appunto la riunificazione originaria che conferisce origine e mantiene nell’origine, in quanto è l’essenza dell’essere stesso» (cfr. Zarader, Le Parole, p.225). L’autore che tuttavia sembra porsi più a fondo la questione della presenza di problematiche fondamentali del primo Heidegger nella lettura del saggio su Eraclito è Aronadio. Costantemente rivolto a collocare la lettura del frammento sul piano del «concreto», l’autore scrive per quanto riguarda l’homon: «Se si pone mente al fatto che questo ascoltare autentico è lo homologhein, si chiarisce qui l’ulteriore valenza che Heidegger riscontra in quest’ultimo verbo, dove lo homon non indica solo la corrispondenza fra l’udito e il detto, ma anche e primariamente l’identità propria di quel reale che è mostrato nel dire e cui si appartiene nell’udire: homologhein è allora un ‘dire lo stesso’, nel senso di mostrare la realtà nella sua unità e identità» (cfr. p. 25). Aronadio grazie al richiamo a concetti come quello dell’Austrag, la diaferenza (come traduce Vattimo), riconduce il Logos alla sua spinta estraente nella quale vengono a differire nel loro immediato scostarsi l’essere e l’ente, l’hen e i panta. È nel pensiero rammemorante, secondo l’autore, che si può ritornare nei pressi di quel distinguersi di essere ed ente nel loro simultaneo sorgere, e che si può profilare un pensiero oltre i Greci: «l’Andenken esprime l’esigenza di superare il pensiero rappresentativo, inteso come quella reduplicazione del reale nel concetto, per la quale l’ente diventa oggetto di un soggetto, per la quale l’uomo è tale in quanto portatore di una Weltanschauung, di una visione del mondo. Un pensiero che non sia rappresentazione, ma torni ad essere un percepire» (Aronadio, Un colloquio, p. 45). In queste ultime parole ritroviamo tutta la matrice fenomenologica del pensiero heideggeriano. La trattazione richiederebbe un maggior spazio, accontentiamoci in questo luogo di aver riportato per cenni alcuni approcci critici che hanno guidato in parte le nostre conclusioni. ↩︎