Recensione a Franco Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua

Franco Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari, 2003.

La monografia di Lo Piparo dedicata alla concezione aristotelica del linguaggio si pone come operazione culturale il cui livello di salienza teoretica si gioca sul mantenimento dell’ equilibrio tra l’innovatività degli spunti critici e la fedeltà al quadro aristotelico di riferimento. Proprio questa giusta proporzione consente all’Autore di evitare il rischio di produrre pericolose quanto ibride alchimie concettuali ed esegetiche tra il pensiero aristotelico e quello contemporaneo. Questo è infatti un testo innanzitutto aristotelico. E lo è ad un doppio livello: non solo dal punto di vista contenutistico, per il tema che tratta, ma anche per l’impalcatura strutturale fondamentalmente dialettica che lo innerva. Il primo capitolo (intitolato “Animale linguistico”) offre la cornice teorica di supporto alle istanze filosofiche che l’Autore andrà poi gradatamente illustrando: viene dipanata in poche, ma fittissime pagine quella che Lo Piparo definisce la “tesi forte ed originale” di Aristotele. Il linguaggio è attività naturale specie specifica dell’animale uomo; attività pervasiva che riorganizza le altre attività bio-cognitive (percezione, immaginazione, memoria, desiderio) conferendo loro quella specificità umana che le contraddistingue. Tale prospettiva viene sostenuta ed avvalorata da un’analisi trasversale del Corpus aristotelico; in questa carrellata occupano un posto centrale il concetto di eudaimonia, (il perfetto compimento delle azioni e delle funzioni specifiche dell’essere umano), nonché una serie di principi e concetti ad esso strutturalmente correlati (la natura linguistica del desiderio, l’istituzionalità della dimensione linguistica ai fini della comunanza socio-politica, il complesso meccanismo della deliberazione, lo scambio linguistico come fattore che regola e permette la gestione morale e politica di valori quali giusto/ingiusto, vero/falso ecc.). Talchè, riassumendo (pp. 5-6):

Nel vivente umano ogni agire è, direttamente o indirettamente, intriso di linguisticità. “La specie-specificità dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio” (Etica Nicomachea 1098 a 7-8) — è l’idea-guida che dà un senso unitario e coerente alle numerose pagine linguistiche rilevabili nel Corpus aristotelico.

Con il secondo ed il terzo capitolo (rispettivamente: “I paradossi dell’architettura lineare” e “Una nozione non simbolica di simbolo”) prende corpo l’esame di quelli che potremmo definire, in termini aristotelici, gli endoxa, cioè le tesi critiche più accreditate riguardanti la concezione aristotelica del linguaggio. A fronte di un’eikasia critica pluristratificata ma tendenzialmente uniforme, Lo Piparo intende offrire alla comunità scientifica un’ottica critica radicalmente alternativa. Il richiamo alla matrice aristotelica si registra anche nello stile che segna l’attivazione di tale procedura dialettica che sembrerebbe attivata con lo stesso spirito che Weil nel suo Aristotelica riconobbe allo Stagirita nell’atto di accostarsi alle opinioni dei filosofi che lo precedevano. Le posizioni teoriche pregresse non devono cioè essere illustrate per mostrarne unicamente la natura inflazionata, ma semplicemente perché la ricerca non può che iniziare così, ossia perché ogni scienza discorsiva ed ogni insegnamento nascono inevitabilmente da conoscenze preesistenti (dalla Metafisica alla Retorica tutte le più importanti opere aristoteliche si edificano su tale principio gnoseo-epistemologico). In quest’ottica vanno lette le note esplicative cui Lo Piparo ricorre per spiegare in quali punti e per quali motivi si discosta dalle traduzioni vigenti. Traduzioni peraltro ampiamente riportate e commentate. Ebbene, passaggio obbligato di questo serrato percorso d’indagine è l’analisi del brano d’apertura (16a, pp. 3-8) del Perì Ermeneias, compendio emblematico dell’idea che Aristotele ebbe delle dinamiche di costruzione strutturale del linguaggio. Proprio a partire dalla rivisitazione filologica e concettuale di questo celebre brano aristotelico prende vita la costruzione dei temi centrali del testo di Lo Piparo, la sua rivisitazione dei principali assunti aristotelici. L’Autore passa in rassegna le traduzioni più note degli interpreti più autorevoli del pensiero aristotelico, tra le quali spiccano quelle di Boezio, De Mauro, Pagliaro, Colli, Ackrill. A titolo esemplificativo riporteremo la più recente, quella di Zanatta contenuta nel suo commento al libro di Aristotele (Della interpretazione, BUR, Milano 1992):

I suoni che sono nella voce (tà en tê fonê) sono simboli (súmbola) delle affezioni che sono nell’anima (en tê psychê pathemáton), e i segni scritti (tà grafómena) lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni (semeîa), come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini (omoiómata) sono le cose (prágmata), già identiche.

Questa traduzione lascia trasparire una concezione del logos aristotelico chiaramente omogenea alle altre versioni critiche: tale visione presuppone, e promuove al contempo, un raccordo lineare tra gli elementi costitutivi del linguaggio così come sembrerebbe concepito da Aristotele. Celebre l’immagine geometrica con cui Eco ha inteso sottolineare e riassumere i caratteri definitori di tale impostazione: si tratta del cosiddetto “triangolo semiotico”, i cui lati rappresentano elementi simmetricamente relazionati.

Nel famoso passaggio 16a di De Interpretatione, Aristotele delinea un triangolo semiotico implicito ma evidente, in cui le parole sono su un lato legate ai concetti (o alle passioni dell’anima) e sull’altro alle cose. Aristotele dice che le parole sono “simboli” delle passioni, dove per simbolo intende un artificio convenzionale ed arbitrario. Come vedremo in seguito, è vero però che egli sostiene anche che le parole possono essere considerate come sintomi (semeia) delle passioni, ma lo dice nel senso che ogni emissione verbale può innanzitutto essere sintomo del fatto che l’emittente ha qualcosa in mente. Le passioni dell’anima sono invece sembianze o icone delle cose. Ma per la teoria aristotelica le cose si conoscono attraverso le passioni dell’anima, senza che vi sia una connessione diretta tra simboli e cose. Per indicare questa relazione simbolica Aristotele non impiega la parola semainein (che potrebbe quasi essere tradotta con significare), ma in molte altre circostanze usa questo verbo per indicare la relazione tra parole e concetti. (U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997, p. 352).

In sostanza i fatti del mondo reale, esterno, sarebbero collegati all’anima in virtù delle sue affezioni, ovvero delle impressioni e delle modificazioni psichicamente subite dall’uomo per effetto delle azioni esercitate sull’anima stessa dalla realtà. Tali affezioni sarebbero pure copie, immagini fedelmente riproduttive delle cose concretamente esistenti. Inoltre esse sarebbero a loro volta legate alle cose presenti nella voce da un rapporto segno-simbolico, così come i segni grafici sono tali in relazione agli elementi fonico-vocali. Inoltre Aristotele avrebbe conferito una dimensione semantica agli elementi fonici e grafici ed al nome che risulta dalla loro composizione, traendola dalla natura convenzionale (katà sunthéke, 16a, pp. 26-27) che li contraddistinguerebbe. A questa lettura canonica del testo aristotelico Lo Piparo muove una serie di rilievi: giungiamo così al momento confutatorio del processo dialettico-argomentativo avviato dallo Studioso. Come l’ossatura dialettica dell’argomentare aristotelico conosce infatti la sua tappa fondamentale nella confutazione delle teorie pregresse attraverso lo snodo delle aporie cui danno luogo le conseguenze derivanti dall’accettazione delle teorie stesse (è appena il caso di ricordare la trattazione riservata nella Metafisica alle teorie platoniche), così Lo Piparo evidenzia i paradossi insolubili generati dall’impostazione critica tradizionale. Uno su tutti: se i nomi si riferiscono alle realtà esterne attraverso una relazione ontologica e semiotico-ermeneutica unidirezionale come possono essi esplicare le proprie potenzialità semantiche allorquando “indicano” fatti che non si danno nella realtà concretamente sussistente (si pensi ai nomi riferentisi a enti fantastici, quale ad esempio l’ircocervo, oppure agli enunciati che esprimono eventi futuri, non ancora realmente accaduti e che potrebbero non accadere mai)? Per ovviare a tali difficoltà l’Autore ricorre ad una risorsa metodologica tipicamente aristotelica: l’analisi semantica che regola e permette qualsiasi passaggio dialettico. Secondo Lo Piparo occorre ripensare il senso ed il significato dei termini-chiave del brano aristotelico, ricorrendo alla valorizzazione di un patrimonio concettuale e terminologico al quale, sotto questo profilo, si è sempre ingiustamente attinto poco. Ci riferiamo alle opere scientifiche, biologiche, zoologiche dello Stagirita (Historia animalium, De partibus animalium, Problemata ecc.). Da questo punto di vista si spalancano agli occhi di qualsiasi esegeta orizzonti semantici ricchissimi, inesplorati e dalle forti potenzialità esplicative: essi coinvolgono termini come pathémata (da Lo Piparo tradotto con “operazioni logico-cognitive specie-specifiche dell’anima umana”), súmbolon (ad avviso dell’Autore esso costituirebbe il termine tecnico che Aristotele impiega per indicare la genesi complementare e contemporanea dell’articolazione vocale e delle operazioni logico-cognitive), omoiómata (che non equivale a “pure copie riproduttive”, ma designa un rapporto di similarità proporzionale tra realtà reciprocamente indipendenti) ed il katà sunthéke (da sun-tithemi, che non significa soltanto “porre in accordo” con altri uomini qualcosa in vista di un fine, cioè sponda semantica più affine al termine “convenzione”, ma anche “connettere le cose per creare qualcosa di nuovo”, ovvero “composizione, combinazione, sintesi”). Una rivisitazione semantica così “intima” non può non produrre, come sua naturale conseguenza, una rivisitazione esegetica della traduzione del brano aristotelico altrettanto drastica. Essa, nella versione di Lo Piparo, suona così (p. 187):

Le articolazioni della voce umana e le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono tra loro differenti e complementari così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce. Come le unità minime con cui ed in cui la scrittura si articola non sono le stesse per tutti gli uomini, non lo sono nemmeno le unità minime con cui e in cui la voce linguistica si articola. E invece sono le stesse per tutti gli uomini le operazioni logico-cognitive di cui unità vocali e grafiche sono i naturali segni fisiognomici e sono anche gli stessi per tutti gli uomini i fatti con cui le operazioni logico cognitive dell’anima umana sono in relazione di similarità.

La concezione del logos aristotelico che ne viene fuori transita attraverso la demolizione degli assunti dell’architettura lineare ed unidirezionale del linguaggio (il concetto di “simbolo” e quello di omoiómata, nella versione rivisitata da Lo Piparo, sono tra quelli che rimettono in discussione l’idea di un linguaggio la cui filiazione va ascritta ad un rapporto causale con la realtà, l’idea cioè di un mondo reale che è principio e causa del pathos, a sua volta principio e causa di phonaì e grámmata) per giungere all’immagine di una léxis rappresentabile come un cerchio in moto uniforme, che si articola sul triplice piano di pathemata, phonaì e grámmata, e che trova il suo centro nei prágmata (che non vanno certamente intesi semplicisticamente come puri fatti). Tale traduzione, e l’impalcatura concettuale che ne scaturisce, fanno chiaramente comprendere quanto lungo e articolato possa essere il tragitto epistemologico e tematico tracciato da Lo Piparo. In esso trovano spazio e rivestono una funzione coessenziale altri concetti istituzionali della speculazione aristotelica: causa, telos, natura, techne, premesse sillogistiche e via dicendo. Ma, s’è detto, a Lo Piparo non interessa restituire ai concetti che animano i testi aristotelici il loro significato genuino ed originario ai fini di una ricostruzione puramente filologica e storica del pensiero aristotelico. La portata rivoluzionaria del suo lavoro ermeneutico infatti è espressa dal sottotitolo del testo, una sorta di titolo aggiunto per l’importanza che lo caratterizza: Cosa fa di una lingua una lingua. L’assetto interpretativo disegnato da Lo Piparo incide infatti in modo strutturale sugli aspetti ed i temi più significativi dei settori maggiormente rilevanti della filosofia contemporanea (filosofia della matematica, topologia linguistica, logica simbolica, etica, linguistica). In questa direzione teoretica l’Autore opera con accorgimenti che mostrano di far tesoro delle lezioni di Lloyd ed Ackrill. Per un verso infatti Lo Piparo evita attentamente il rischio di esagerare nell’ascrivere eccessiva modernità al pensiero aristotelico; come Lloyd raccomanda caldamente di fare nell’introduzione alla monografia da lui dedicata ad Aristotele, Lo Piparo valuta sempre l’assunto concettuale aristotelico nel contesto ben delineato di più spiccata pertinenza, ovvero alla luce di controversie e problemi che interessarono direttamente lo Stagirita. Per altro verso non relega però la figura aristotelica ad un’asfittica iconizzazione antiquaria. Non manca infatti di confrontarla con idee filosofiche contemporanee secondo la prospettiva critica suggerita da Ackrill (nel suo Aristotele, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 21-22): quando l’interesse nutrito verso un autore non permane su un piano puramente storiografico è del tutto legittimo dialogare con lui ricorrendo a nozioni moderne. Ciò vale tanto più per Aristotele, data la sua “invidiabile capacità” nel porre problemi e suggerire soluzioni che approfondiscano le discussioni filosofiche al di là di qualsiasi limite temporale. In tal senso il testo di Lo Piparo si pone come uno stimolo alla riflessione filosofica che espone da sé i motivi per i quali gli abbiamo conferito ripetutamente quella carica innovativa, in termini esegetici, che gli è così peculiare. Spetterà certamente alla comunità scientifica decretare il peso e l’entità di tale paradigma elaborato nell’ambito degli studi aristotelici (e non solo di essi). Sarebbe già comunque un successo per la popolosa società di esegeti aristotelici ed aristotelisti se la pubblicazione di tale testo dovesse alimentare un dibattito pieno e variegato sul sistema filosofico dello Stagirita. Dibattito che langue ormai dagli anni ’60, dal momentaneo, acuto fervore provocato dal risveglio degli interessi critici connessi alla filosofia pratica aristotelica.