Alterità e attenzione. Sul rapporto tra riconoscimento e giustizia in Simone Weil

1. Introduzione

L’obiettivo del presente lavoro è di analizzare il rapporto tra riconoscimento e giustizia in Simone Weil partendo anzi tutto dalla sua ontologia di fondo per rivelarne poi i nessi teoretico-gnoseologici fondamentali e, quindi, anche gli inevitabili riscontri in campo politico-sociale e giuridico. Con ciò non si ha la pretesa di esaurire sotto ogni sfaccettatura le tematiche toccate. Già l’impostazione stessa del lavoro sottintende una precisa scelta personale; alcuni aspetti del pensiero weiliano sono stati affrontati e sviluppati, altri no o, comunque, non nel medesimo modo. L’obiettivo è quello di tentare una ricostruzione del pensiero della filosofa francese alla luce del rapporto tra riconoscimento e giustizia, cercando di rendere conto dei principali nuclei concettuali sui quali esso si fonda, senza tuttavia volerne né poterne esaurire tutta la complessità: obiettivo che, d’altronde, in questa sede sarebbe pressoché impossibile da raggiungere, oltre che infruttuoso.

Un esame più complessivo e puntuale della riflessione complessiva di Simone Weil comporterebbe un cammino più lungo, inevitabile quando si ha a che fare con una pensatrice il cui pensiero è carico di contraddizioni, asistematico e pur tuttavia organico, nel quale è impossibile operare indagini settoriali senza averne prima considerato l’insieme più ampio, pena lo scadere in facili e fuorvianti banalizzazioni. Operazione, questa, resa peraltro necessaria dalla specifica considerazione che la filosofa francese ha dell’attività dello scrittore. Infatti, come ha giustamente riconosciuto Roland Barthes, si ha qui «una scrittura la cui funzione non è più soltanto quella di comunicare o esprimere, ma anche di imporre un al di là del linguaggio che è al tempo stesso la storia e la posizione che vi si assume».1 Uno stile, dunque, intrinsecamente connesso ai contenuti sviluppati, in virtù di quella “posizione” assunta dalla filosofa francese rispetto al reale e che rivela, in definitiva, quella che vedremo essere la sua stessa proposta ontologica ed epistemologica fondamentale. Giancarlo Gaeta sintetizza così la questione:

Scrivere per frammenti corrisponde allora per Simone Weil non solo a una necessità contingente, ma inerente alla forma del suo pensiero filosofico; occorre che gli oggetti della riflessione si dispongano su piani molteplici (letture molteplici) non coordinati gerarchicamente, lasciando spazio libero alla contraddittorietà dell’esistente (accordo — opposizione), finché emerga da sé (dal centro vuoto) il rapporto, l’equilibrio, che è tensione inesauribile. Il mondo ‘visto reale’, nella sua necessità e contraddittorietà, si riflette così nel testo di frammento in frammento […] e ciascun frammento è un piccolo, cristallino mondo a sé, tessera netta in un mosaico infinito, e che tuttavia bisogna poter cogliere nell’insieme.2

Questo lavoro si colloca quindi tra necessaria focalizzazione tematica e opportuna ricostruzione panoramica dell’impianto più generale del pensiero weiliano. Un doppio movimento, questo, grazie al quale ci si propone di portare alla luce l’intima filigrana che attraversa e tiene insieme quella complessa trama che è la produzione della filosofa francese.

2. Il primo contatto con il mondo. Percezione e immaginazione

Tutta la riflessione weiliana si colloca in una precisa cornice ontologica, un’architettura dell’universo nella quale si rispecchia la costituzione stessa dell’essere umano nella sua complessa articolazione e compresenza di elementi materiali e spirituali. Compito dell’uomo è di coordinare le proprie facoltà in modo da trovare l’accordo tra sé e il mondo e stabilire così un’armonia dettata dal rispetto di quei legami che strutturano tutto il Creato. Punto di riferimento in virtù del quale si misura questa gerarchia ontologica è Dio, collocatosi alla massima distanza attraverso il suo doppio movimento di creazione e de-creazione. Pur non potendo trovare qui spazio per una più esauriente disamina della concezione weiliana del divino, risulta quantomeno necessario offrirne un rapido accenno affinché possano risultare più chiare le nostre future considerazioni. Vi è a proposito un passo in particolare nel quale credo si trovi efficacemente riassunta la posizione della Weil sull’argomento.

La Creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritrarsi, un atto di rinuncia. Dio insieme a tutte le creature è meno di Dio da solo. Egli ha accettato questa diminuzione. Ha svuotato di sé una parte dell’essere. […] Dio ha permesso che esistessero cose altre da Lui e di valore infinitamente minore. Attraverso l’atto creatore Egli ha negato se stesso, così come il Cristo ha prescritto a noi di negare noi stessi. Dio si è negato in nostro favore per dare a noi la possibilità di negarci a nostra volta per Lui. Questa risposta, quest’eco, che dipende da noi rifiutare, è l’unica giustificazione possibile alla follia d’amore dell’atto creatore.3

L’Universo si trova così teso tra due poli costituiti, da un lato, da Dio, ovvero dal Bene, e dall’altro dalla Necessità, il regno della materia governato da leggi meccaniche. Quest’ultimo, pur essendo il luogo dal quale Dio si è ritirato, non risulta tuttavia indipendente rispetto al volere divino, essendo anzi il punto di partenza dal quale è possibile, per l’uomo, iniziare il suo percorso di ricongiungimento col Bene.4 L’assenza di Dio non è perciò totale; non vi è qui alcuna separazione radicale dal sapore gnostico.5

L’iniziale e il primo fondamentale rapporto tra la realtà esterna e l’uomo è mediato dalla percezione: è il «mondo che mi fa impressione solo per intermediario dell’immaginazione».6 Il passaggio dalle reazioni meccaniche e indistinte proprie della percezione a un movimento ordinato di orientamento nel reale attraverso una loro riorganizzazione è ciò che avviene mediante il ricorso a due facoltà: il lavoro e la lettura. Potremmo dire che, schematicamente, il primo risponde alla dimensione fisica dell’uomo, mentre la seconda a quella più propriamente intellettuale. Ma un tale movimento deve innanzitutto e sempre mirare a far procedere entrambe di pari passo.7 E se ciò risulta possibile è perché in definitiva «vi è tutta una geometria elementare già nella percezione».8 Il reale non va dunque negato, bensì organizzato nuovamente affinché si instauri il corretto rapporto tra questo e le facoltà dell’Io. Illusorio è allora non tanto il reale in quanto tale, bensì il risultato di un rapporto squilibrato, di un misconoscimento della sua dimensione autentica da parte dell’uomo.9

L’immaginazione — che costituisce il primo prodotto dell’attività umana, in quanto correlata alla percezione — si colloca così nell’ambigua posizione di contatto col mondo, e al contempo funge da perno che permette, attraverso il lavoro e la lettura, di sottrarci all’asfissiante corpo a corpo con la realtà: «l’immaginazione, stoffa delle illusioni dei sensi, è anche stoffa delle percezioni ordinarie».10 Essa coglie il mondo che fa presa su di me così come la mia presa sul mondo. Perciò è nell’azione efficace e nel lavoro che risiede la possibilità di «effettuare correzioni di messa a fuoco sempre più precise sullo “schermo” dell’immaginazione».11 Questo livello del reale non è dunque qualcosa di falso, purché però l’immaginazione sia considerata in quanto tale, in quanto immaginazione.12 Costituisce cioè il regno dell’illimitato, dell’essere concepito fuori dai rapporti, unilaterale, scevro di quella completezza offerta dalla capacità più ampia di cogliere la plurivocità prospettica: «l’immaginazione colma il vuoto […] esclude la terza dimensione […] esclude i rapporti multipli».13 Essa compensa «l’impossibilità di pensare il vuoto».14 generando pericolosi meccanismi riempitivi che impediscono di avere una corretta visione del reale. Dove il vuoto, come in seguito vedremo, avrà una accezione positiva, in quanto significherà apertura alla possibilità di vedere l’essere dal punto di vista della spogliazione, pervenendo al non-punto di vista proprio della giustizia. In definitiva, l’immaginazione è l’escamotage dell’Io che, incapace di sopportare una simile assenza — e, di pari, la sofferenza che ciò essa comporta — si rifugia in una costruzione fittizia della realtà, appianando e risolvendo, però mistificando, gli squilibri e le contraddizioni del reale. Ma questi nodi del reale possono essere visti adeguatamente — e quindi non unilateralmente appiattiti — solo attraverso un movimento capace di coordinare i piani, di non fermarsi al livello immediato nel quale le contraddizioni appaiono meramente sovrapposte e, perciò, contraffatte. La natura di questi ostacoli è di essere tali solo in virtù della correlazione di due piani diversi, mentre se visti sul medesimo piano producono solo errori: «ogni errore di livello produce due opinioni false che sono contrarie ed equivalenti»15 Il passaggio da un livello all’altro è invece rappresentato precisamente dalla loro esatta correlazione, capace cioè di sopportare la contraddittorietà dei termini senza annullarli.16

A questo primo livello della condizione umana vediamo subito come il rapporto Io-mondo sia essenzialmente interconnesso a quello Io-Altro; l’ostacolo costituito dalla presenza ingombrante del proprio Io è ciò che impedisce quel processo di visione trasparente che è la corretta lettura. «Per avvicinarmi a una vera interpretazione della realtà è quindi preferibile rendere equivalente la mia prospettiva a quella degli altri, scartando ciò che dipende da me e raccogliendo un comune denominatore».17

Il movimento di distacco da sé si congiunge quindi a quello che porta a recepire un panorama più vasto di prospettive nel tentativo di giungere a un punto comune, neutro e impersonale che possa abbracciarle tutte non essendo vincolato a nessuna particolarità individuale. Ma già l’inizio di questo percorso incontra un problema:

Si legge, ma si è anche letti dagli altri. Interferenze di queste letture. Forzare qualcuno a leggere se stesso come è letto da altri (schiavitù). Forzare gli altri a leggerci come ci leggiamo (conquista).18

Come l’immaginazione, così anche la nozione di lettura appare ambigua: è sì strumento emancipativo dell’uomo, ma fintantoché viene utilizzata ai fini di ricostruire la trama del reale, il suo intimo ordine inaccessibile all’immediatezza sensoriale; se invece diventa un modo per imporre la propria interpretazione della realtà sugli altri scade allora a mezzo di dominazione e di vessazione. Il fatto stesso che l’uomo sia calato in uno spazio sociale e costretto a interagire con altri individui come lui, altrettanto desiderosi di essere riconosciuti e di essere visti dagli altri, conduce facilmente ad un conflitto fra diverse visioni della realtà. È il paradosso del riconoscimento o, meglio, la zona d’ombra che lo contraddistingue: poter riconoscere implica infatti il rischio che il riconoscimento fallisca, che si tramuti in mis-conoscimento. Il processo di purificazione della lettura dalle scorie illusorie dell’immaginazione passa così attraverso un processo di parallela presa di coscienza di sé e del mondo, unico presupposto affinché possa darsi una corretta visione del reale. Come avremo modo di vedere, tutto ciò implicherà una strutturale rivisitazione del concetto stesso di identità da parte dell’individuo, una messa in discussione dell’immediata — e presunta — certezza con la quale gli si presenta la sua soggettività e l’oggettività del mondo. La lettura attenta, capace di garantire un equilibrio tra i vari e possibili punti di vista, risulta così l’unica modalità attraverso la quale è possibile vivere in modo fecondo sul piano conoscitivo il conflitto con l’Altro.

La lettura — se non si ha una certa qualità d’attenzione — obbedisce alla gravità. Si leggono opinioni suggerite dalla gravità. Con una più elevata qualità d’attenzione, si legge la stessa gravità, e vari sistemi possibili di equilibrio…Un equilibrio impossibile, che simbolo mirabile!19

Il piano più propriamente gnoseologico della lettura mostra così, in definitiva, i suoi riflessi in ambito politico-sociale, facendo intuire la complessa trama nella quale sono legate assieme l’antropologia filosofica weiliana e le sue considerazioni sulla giustizia, trama che rappresenta il punto di arrivo di questo lavoro e che dovrà ancora rimanere sullo sfondo e attendere il passaggio attraverso le nozioni cruciali di lettura e non-lettura e, in particolare, di attenzione.

3. Ostacolo e lettura

La capacità di acquisire una presa sul reale da parte dell’uomo passa dunque attraverso il concetto di lettura, che è innanzitutto capacità di ricostruzione della fitta trama di rapporti della quale è tessuto il mondo. Questa capacità di stabilire relazioni veritiere è ciò che permette alla percezione di superare il blocco delle illusioni. Se la teoria percettiva dell’immaginazione ha echi cartesiani la lettura, come strumento per passare alla corretta percezione, rimanda invece alla geometria delle passioni di Spinoza. Come per il filosofo olandese l’immaginazione deve essere vinta, ma non possono esserlo le passioni che hanno favorito la lettura immaginativa. Si tratterà quindi di riorganizzarle, piuttosto che tentare di eliminarle o eluderle, così da misurarsi con l’esperienza ordinaria attraverso il tirocinio del lavoro?20. Attraverso lo sviluppo di questo rapporto viene peraltro a definirsi la stessa natura dell’Io: «posso (agire), dunque sono».21. Rielaborando la celebre massima cartesiana, la Weil giunge a porre la centralità del tema dell’azione — su se stessi, sulle proprie passioni, e di conseguenza sul mondo — in quanto discrimine e punto di snodo essenziale tra la dimensione passivo-meccanica e la dimensione attiva dell’uomo. Vi è quindi un duplice modo di essere fuori da sé nel rapporto col reale: da una parte la dipendenza totale nei confronti delle cose, la follia dell’immaginazione pura; dall’altra il distacco che permette di esercitare una presa sul mondo, in definitiva il corretto modo di esercitare la percezione che segna il passaggio dal patire all’agire.22

Fin dalle prime considerazioni è emersa la dimensione antagonista del mondo, ovvero la sua capacità di esercitare pressione su ogni sfaccettatura della nostra persona. Su questo iniziale corpo a corpo ci siamo soffermati parlando della percezione e dell’immaginazione. La dimensione legata all’ostacolo e alla sofferenza era finora restata sullo sfondo, ma è ora necessario precisarla meglio dal momento che la corporeità rappresenta un elemento centrale nella riflessione weiliana, specialmente al livello di queste considerazioni. Il mondo non è una distesa libera e illimitata sulla quale l’Io può arbitrariamente esercitare il suo potere; esso oppone resistenza, essendo anzitutto materia che necessita di essere mediata, e questa mediazione avviene tramite il lavoro, che è un processo che riguarda direttamente tutto l’essere umano.23 L’ostacolo acquista tutta la sua specifica ambivalenza proprio nell’essere tanto elemento che si oppone all’agire umano, quanto fattore che proprio a quell’agire permette di esistere e di essere tale. E non si tratta qui di una questione di fatica, di un lavoro che deve sconfiggere l’ostacolo, bensì di un compito, di una sfida a trovare quegli intermediari che siano atti al superamento dell’ostacolo. Il confronto non deve cioè porsi al livello della negazione (del reale, della necessità, dell’Altro) ma dell’integrazione attraverso la ricostruzione dei rapporti, delle mediazioni.

L’oggetto non si definisce più per un rapporto tra movimenti, che ci impedisce di realizzare immediatamente ciò che vogliamo. [Bensì] attraverso l’assenza di tutti i rapporti magici. Attraverso una resistenza. Non la resistenza che ci impone una fatica (è quello ancora un rapporto con la nostra anima, un rapporto magico[…]), ma attraverso la resistenza che ci costringe a trovare, tra il progetto e l’opera, una serie di intermediari che non si possono saltare, combinati […] secondo necessità.24

Questo tipo di lavoro permette così di superare l’ingenuo antagonismo di soggetto e oggetto nella forma della conformità di quello a questo attraverso la ricostruzione degli intermediari — primo stadio che porta all’obbedienza. Dunque, ciò che veramente è ostacolata, in quanto impedita, è unicamente la progressione illimitata dell’Io, poiché il lavoro costringe a porre attenzione al limite, ovvero a operare un arresto e non una compensazione.25 Parendo imperat. La formula baconiana si adatta perfettamente a questo frangente della riflessione weiliana; la duplicità insita nel concetto di ostacolo viene risolta dal ricorso alla figura della leva, lo strumento per mezzo del quale io posso trasformare l’ostacolo in un principio di lavoro, chiave per il passaggio da un livello inferiore a uno superiore.26 La regola di questo trascendimento è racchiusa nel celebre passo di Luca: «chiunque s’innalzerà sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato».27 Ed è precisamente il corpo a svolgere qui un ruolo fondamentale in quanto interfaccia tra l’anima e il mondo; l’apprendistato è così costituito dall’acquisire la capacità di lettura di tutte le sensazioni, dolori e fatiche subiti. In quanto tali non possono essere eliminati né la loro natura può essere diversa da quella che è. A mutare può però essere il nostro modo di interagire con essi, di leggerli, di farli nostri.28

Attraverso l’azione viene delineandosi non solo il ruolo fondamentale del corpo, ma anche della volontà intesa come capacità di dare un corretto indirizzo alle azioni nel mondo. Inizialmente la Weil distingue due tipologie di volontà: una legata allo sforzo individuale e una come forma pura, scevra dai rapporti con l’Io.29 Il primo tipo è quello al quale naturalmente si indirizza l’anima, poiché è preferibile qualsiasi sforzo.30 al sentimento di privazione e di vuoto, quel vuoto che significa la spoliazione degli attributi personalistici che determinano la rilevanza e il peso dell’individuo all’interno della società e che caratterizza la seconda tipologia di volontà. Ciò che abbiamo visto valere per la percezione, così vale anche per la volizione: suo compito non è porsi alla guida dell’anima poiché, essendo questa influenzata dalle sensazioni, è da se stessa incapace di acquisire un equilibrio, di dare ordine all’agire umano. La volontà deve invece essere usata proprio a partire dalla sua capacità (di per sé neutra) di veicolare l’impuro delle sensazioni, soltanto in senso inverso: ovvero come mezzo per sradicare le basse sensazioni ricacciandole indietro attraverso una pratica di esercizio del distacco. La Weil qui non si limita a riecheggiare un certo spinozismo in relazione al governo delle passioni, ma mostra di aver assimilato la lezione delle Upanisad nelle quali «il raggiungimento del sattva, vale a dire l’essenzialità, l’equilibrio — al di là dei tre guna che sono i tre princìpi delle passioni — [è ottenuto] attraverso l’esercizio che “usura la volonta”»31 La volontà si configura così come una modalità di addestramento di noi stessi, ottenuta attraverso il capovolgimento di segno della sua immediata e naturale tendenza all’infinito, a volere il volere. Come giustamente nota Gloria Zanardo

tale azione metodica, vero e proprio addestramento del corpo e insieme della mente, argina e disciplina la tendenza a desiderare senza porsi mete precise o tempi finiti […]. L’esercizio della volontà è un forte correttivo […], e in questo senso abitua ad accettare le condizioni di realtà nelle quali il nostro agire si trova inscritto32

Il percorso che Simone Weil sta qui tracciando si inscrive sempre più nel segno della perdita del punto di vista (personale) e dell’adesione obbediente (impersonale) alla necessità. Così la volontà da un lato rimane confinata al ruolo di correttore delle passioni individuali, mentre all’interno dello spazio vuoto lasciato dal suo parziale superamento cominciano a germogliare i primi semi di quella che sarà l’attenzione.33. Ed è proprio l’assimilazione dei testi della spiritualità indiana alla luce della riflessione sul lavoro in fabbrica a favorire il passaggio a questa nuova concezione della volontà. Dal momento che «l’idea di un soggetto che realizza nell’azione volontaria la propria libertà le si rivela […] sempre più illusoria»,34 la necessità appare alla Weil non più unicamente come quel limite costituito dalla resistenza opposta dal mondo all’agire umano, ma anche come ciò che il limite stesso della volontà disciplina e, per certi aspetti, forma. La volontà deve dunque essere addomesticata mediante il ricorso a una serie di regole dalle quali sole (e solo da queste) può derivare il consenso, ovvero l’accettazione dell’obbligo in quanto bene.35 Unicamente qualcosa di impersonale come l’attenzione può sopravvivere all’adesione al bene, poiché «è legata al desiderio. Non alla volontà […] (più precisamente al consenso; essa è consenso. Per questo è legata al bene)».36

4. Verso un superamento della nozione di lettura. La non-lettura

Abbiamo avviato queste riflessioni partendo dal nesso tra riconoscimento e costruzione del sé. La lettura ci è inizialmente parsa come la corretta modalità di interazione col reale di contro all’immediatezza dell’immaginazione. Ma lo stesso percorso che ci ha condotti alla nozione di lettura ce ne ha poi allontanati: la ricerca di un punto neutro nel quale non si fosse ancorati al mondo mediante le illusorie categorie personalistiche ci ha portato a una terra di nessuno nella quale risulta ora difficile rintracciare i contorni della soggettività e, di pari, i limiti e le possibilità di quel riconoscimento che andiamo cercando. Occorrerà dunque approfondire e sondare questo spazio dell’impersonale che ci si profila davanti, contemporaneamente sondando il nucleo più complesso all’interno del pensiero weiliano, ma anche il più fecondo per le ripercussioni in ambito politico-giuridico.

Ripartendo dunque dalla nozione di lettura, vediamo come il suo sviluppo conduca al suo stesso superamento:

il ne s’agit plus […] de suspendre un régime de lecture afin de pouvoir le remplacer, il importe de comprendre l’incompréhensible, à savoir qu’il y a un texte qui se soustrait par nature à toute lecture. L’optique — divine et non plus humaine — qui nie l’idée de lecture finit par remettre en question celle de non-lecture. […] la véritable non-lecture n’est envisageable qu’au point de vue de Dieu qui supprime en l’accomplissant.37

Si tratta del passaggio dal campo dell’intelligenza a quello della fede. Vi è infatti una verità relativa a ogni facoltà umana:38 lo abbiamo visto per quanto riguarda la percezione, ma ciò vale anche per la ragione:

l’uso della ragione rende le cose trasparenti allo spirito. Ma il trasparente non si vede. Si vede l’opaco attraverso il trasparente, l’opaco che era nascosto […]. La ragione non deve esercitare la sua funzione dimostrativa se non per giungere a scontrarsi con i veri misteri, con i veri indimostrabili, che sono il reale. […] L’occhio non può vedere gli oggetti non illuminati. Non si può amare niente se non in Dio, o meglio con la mediazione dell’amore divino.39

Alla fluidità del corpo deve quindi seguire la fluidità dello spirito, ovvero la capacità di riconoscere il ruolo e l’ambito dell’intelligenza in quanto sforzo a vuoto:40 è «qualcosa che scompare nell’atto di esercitarsi. Posso compiere uno sforzo per giungere alla verità, ma quando esse sono presenti, esse sono, e io non c’entro affatto».41 Il processo di progressiva autotrasparenza al quale deve andare incontro la volontà investe così anche la ragione. Non si tratta qui di una falsa mistica dagli esiti blandamente irrazionalistici, ma dell’appellarsi all’esigenza di uno sguardo nuovo capace di rendere conto della strutturazione ontologica del reale. In questo movimento un ruolo cruciale viene giocato dalla capacità dell’Io — nella sua interazione di materia e spirito — di farsi fluido, di acconsentire al reale adeguando le proprie facoltà ai rispettivi e pertinenti campi di azione. È così che attraverso il riconoscimento dell’ordine del reale emerge per l’uomo il preciso compito di costruire una «architettura dell’anima»;42. Possiamo perciò distinguere tre stadi di lettura: un primo consistente nel leggere la necessità dietro la sensazione; un secondo che permette di leggere l’ordine dietro la necessità; un terzo e ultimo — appunto la non-lettura — che consente di leggere ciò che non è immediatamente visibile dietro l’ordine. Il primo stadio corrisponde all’immagine del «bastone da cieco» attraverso il quale l’anima entra in contatto con le cose, con i segni come paletti provvisori capaci di rimandare ad altro da sé, evitando così lo scadimento ipostatico operato dall’immaginazione, sempre volta a cristallizzare i segni. Il processo di maturazione di una coscienza della propria prospettiva, del proprio collocamento nel mondo e dei rapporti che con questo essa può intrattenere è perciò propedeutico all’abbandono di quella stessa prospettiva dopo averne rivelato la sua inconsistente pretesa a esistere. Ma con questo non siamo ancora nella non-lettura: vi è infatti prima l’operazione intellettuale del riconoscimento dei contraddittori e della loro ricostruzione attraverso l’analogia, in modo da concepire quei rapporti attraverso i quali risalire fino al punto in cui non rimane che orientare correttamente lo sguardo.

Le correlazioni di contrari sono come una scala. Ciascuna ci eleva a un piano superiore in cui abita il rapporto che unisce i contrari. Finché giungiamo a un luogo in cui dobbiamo pensare insieme i contrari, ma non possiamo accedere al piano in cui essi sono legati. […] Là, non possiamo più salire, dobbiamo fissare lo sguardo, attendere e amare. E Dio discende.43

Solo mediante il passaggio attraverso le contraddizioni si apre il varco alla prospettiva impersonale. La stessa finitezza che impedisce all’uomo di disporre liberamente del reale ne sancisce di pari l’impossibilità a risalire, mediante la sola ragione, lungo l’ordine del reale fino al suo Creatore.44

Le nostre riflessioni, avviate sul terreno della filosofia, hanno oramai assunto una peculiare torsione in senso religioso. Lo stesso vocabolario weiliano, nel corso della sua vita, muta. Tuttavia, nello sviluppo continuo di queste riflessioni, vorrei mostrare la costante compenetrazione tra categorie filosofiche e teologiche. Giacché quegli stessi esiti, sovente definiti come mistici, sono sorretti dalla stessa impalcatura filosofica che caratterizza i primi anni della produzione weiliana. L’attenzione viene così a collocarsi in un’ambigua posizione: facoltà intellettuale o dono divino?; capacità propria dell’individuo o stato estatico? Difficile rispondere in modo univoco a simili domande, dal momento che la stessa Weil non offre una trattazione sistematica dei suoi pensieri. Eppure è proprio qui, nel terreno dell’attenzione, che mi pare evidente si giochi la possibilità di quel riconoscimento che andiamo cercando. Mia convinzione è che quanto di più valido possa dirci questa filosofa possa essere guadagnato unicamente abdicando alla pretesa intellettualistica di ricondurre il suo pensiero alle usuali categorizzazioni filosofiche. Indubbiamente si tratta di un pensiero irto di contraddizioni, di usi non sempre controllati e pertinenti dei concetti e del lessico filosofico. Ma questa compresenza di elementi così distanti e talvolta tra loro stridenti credo abbia la forza e la pregnanza di illuminare zone inedite tanto del pensiero che della spiritualità umane. Ed è con questa precisazione, al contempo invito, che mi accingo a concludere questa prima parte del presente lavoro.

5. L’attenzione

È dunque nel gioco congiunto di spirito e di materia che si compie quel «miracolo misterioso»;45 che conduce alla soppressione dell’Io. L’attenzione, lungi dall’essere una semplice facoltà psicologica, è invece «uno stato ontologico che attraversa e coinvolge l’anima che è disposta ad acconsentire»46. Si assiste allora a un particolare ribaltamento dell’azione che, arrestata dal suo procedere orizzontalmente (la cattiva infinità), trova il punto in cui innestarsi per progredire verticalmente.47 Si tratta, secondo l’espressione di san Giovanni della Croce, della cosiddetta “notte oscura dell’anima”. Quel punto di arresto oltre il quale l’anima non può procedere e dal quale deve unicamente rimanere in attesa del nutrimento costituito dalla luce soprannaturale. Se essa sopravvive all’ordalia, allora rinascerà in questa nuova luce a un livello superiore. In un tale momento cruciale «si addensano tutte le fatiche a vuoto del principiante, nelle quali l’attenzione era già operante, ma i frutti ancora da venire.48 La struttura temporale dell’attenzione segue infatti il corso dell’attesa».49, essa è la «forma resa abituale dall’attenzione, [che] lungi dall’essere uno stato privo di pensiero, è lo spasmo stesso della ricettività dell’intelletto».50 Questo stato di immobilità la Weil lo vede metaforizzato nell’immagine della bilancia, poiché l’immobilità è sempre frutto di un aggiustamento dinamico, del raggiungimento, a partire da uno squilibrio, di un equilibrio a un piano più alto. Ed è qui che “l’infinitamente piccolo”, collocato in posizione di baricentro, può sancire l’armonia della disposizione dei piani; è la qualità che governa la quantità. Proprio a questi rapporti si rivolge l’attenzione. Da un lato è infatti impossibile orientare direttamente lo sguardo a Dio, dall’altro è difficile rintracciarne i segni nella natura e nella storia, ove egli è assente nella misura in cui ha abdicato al regno terrestre. La sua presenza, tuttavia, consiste proprio in questa sua peculiare assenza, nel suo essere cioè esperibile solo attraverso l’analogia. La concezione apofantica è in tal modo corretta e sostenuta dalla possibilità della mediazione simbolica. Sull’esistenza di una tale evidenza la Weil è profondamente convinta. Infatti, pur insistendo con forza nella distinzione fondamentale tra Bene e Necessità, i due termini mantengono una connessione unitaria in Dio. L’ordine di questo mondo non è difatti abbandonato al caso, Dio non è del tutto assente, ma mantiene un intimo rapporto, seppur negativo e sovente invisibile, col creato. Altrimenti risulterebbe impossibile all’uomo leggere le tracce di una presenza divina incarnata e ricongiungersi col Creatore aderendo con obbedienza al Suo ordine. Se ciò è possibile (e per la Weil lo è), è perché l’universo stesso risulta a uno sguardo attento costellato di segni che possono diventare simboli, leve per la trascendenza che permettono di “bucare il guscio” del mondo e consentire all’eterno di discendere. Si tratta, anche in questo caso, unicamente di una questione di attenzione.

Un’ispirazione divina opera infallibilmente, irresistibilmente, se non si distoglie l’attenzione da essa, se non la si rifiuta. Non si tratta di fare una scelta in suo favore, è sufficiente non rifiutare di riconoscere che essa è. […] Ogni minuto di attenzione anche imperfetta verso l’alto fa ascendere un poco […]. Si ricade solo nella misura in cui si crede di essersi elevati più di quanto non sia realmente avvenuto.51

Compito dell’attenzione è dunque riconoscere il bene presente quaggiù;52 compiuto il riconoscimento si realizzerà poi, in virtù della logica sottesa allo stesso ordinamento soprannaturale, la discesa della grazia. L’importante è che l’attenzione si mantenga pura, ovvero sguardo e mai attaccamento. La componente spirituale di un tale agire si configura così come elemento sottrattivo: «agire non è mai difficile: noi agiamo troppo e ci spandiamo senza posa in atti disordinati…La sola forza nel mondo è la purezza».53 Affinché ciò sia possibile occorre «fissare l’attenzione su ciò che è troppo rigoroso per poter esser deformato dalle mie modificazioni interiori».54 In tal modo si attinge l’equilibrio dal quale l’azione sgorga autonomamente.

L’attenzione fa assumere una condotta necessaria, in senso ontologico. Tende a fondere l’azione e la realtà, preservando, nel ‘con-senso’ di chi agisce, la libertà. Semplicemente fa aderire alla necessità, la fa sentire fino in fondo. Ci si ‘incarna’ così nel reale.55

L’attenzione è perciò capace di indicare un nuovo paradigma dell’agire,56 l’unico che possa seriamente farsi carico dello scandaloso peso della sventura, e domandare al prossimo: «qual è il tuo tormento?».57 In altre parole, è ciò che permette di vedere l’Altro, di riconoscerlo in quanto tale, sapere che esiste non in quanto appartenente a una certa categoria sociale, ma in quanto essere umano come noi. Lungi dall’essere un processo di disincarnazione — o di conquista di uno stato di apatico disinteresse verso i dolori del creato — , «il passaggio all’impersonale si delinea dunque in Weil […sulla] linea dell’incarnazione, con un’attenzione al corpo e ai beni trascendenti che oltrepassano la persona e di cui nessuno può rivendicare il possesso».58 E questo perché ciò che vi è di sacro nell’uomo non consiste nella sua persona, bensì nel suo essere umano in quanto tale: «tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e nient’altro lo è».59

Prima di passare alle riflessioni weiliane incentrate sulla dimensione politica e sociale, vorrei brevemente rintracciare le principali coordinate emerse da questa iniziale disamina dal carattere più squisitamente teoretico. Fin da subito è emerso lo stretto legame che congiunge e determina il rapporto Io-mondo con il processo di costruzione — o meglio riorganizzazione — dell’identità individuale. A questa altezza il riconoscimento — weilianamente inteso come lettura — rappresentava la modalità di interazione con un mondo caotico, fluido, capace di falsare e di deformare la percezione che ne può avere l’essere umano. Lettura è, allora, innanzitutto riconoscimento dei diversi piani secondo i quali è strutturata l’ontologia dell’universo. Un simile processo, lo abbiamo visto, conduce immediatamente a confrontarsi con la possibilità di altre letture, ovvero col fatto che il mondo non solo ci appartiene fin da subito, ma che questa appartenenza è in realtà una co-appartenenza da mediare ed equilibrare con altri Io. Il problema dell’identità è già da sempre qualcosa di sociale — aspetto finora solo accennato, ma che vedremo meglio proprio nei successivi capitoli. Risultato di questa prima presa di coscienza è, secondo la filosofa francese, la vanità e l’illusorietà del soggettivismo legato al concetto di persona; perciò si attua quella torsione, peculiarmente weiliana, che segna il passaggio dal personalismo alla prospettiva impersonale. Ed è qui che si mostra l’autentico e più profondo legame che contraddistingue il rapporto tra Io e mondo e, di pari, il cardine che tiene insieme questi due elementi: Dio. Abbandono, attesa, umiltà e decreazione risultano perciò modalità interne al medesimo movimento che, a ben vedere, strutturano un nuovo e originale modo di vedere l’essere umano. È questa che mi pare possa essere definita la proposta antropologica di Simone Weil. Occorrerà ora vedere come una tale proposta si collochi nei rispetti dell’ordinamento sociale e, nel caso, se possa essere considerata un’alternativa a quella realtà immediata contro la quale si oppone polemicamente. Il movimento del riconoscimento, assunte ormai le sue connotazioni più propriamente teoretiche, viene così ad ancorarsi e a realizzarsi all’interno delle dinamiche sociali, mostrandosi innanzitutto come portatore di una precisa rivendicazione, sostanzialmente identificata nel cruciale concetto di giustizia.

6. Regno della forza e idolatria sociale

Il fil rouge che tesse insieme l’analisi weiliana della dimensione sociale e quella della forza è l’immaginazione. La dimensione immediata dell’esistenza è infatti governata dal desiderio di autoconservazione che, nel suo essere rivolto a garantire una sempre maggiore possibilità di esistenza, si caratterizza come essenzialmente espansivo e dominatore. L’identificazione tra Io e potere implica che l’esistenza sia necessariamente violenta, che sia negazione dell’Altro. In un siffatto piano del reale, dove i rapporti di forza sono a somma zero, a ogni passo diretto verso l’affermazione del mio Io corrisponde un’equivalente sottrazione nei confronti di un altro Io.60 Non a caso Simone Weil in un passo dei suoi Quaderni descrive questo movimento espansivo come quello dei gas che, per quanto loro possibile, tendono a occupare la totalità dello spazio che gli è accordata.61 Verità eterna, quella inerente lo statuto della forza, che la filosofa francese ritiene essere il «vero soggetto» e «vero centro».62 dell’Iliade. Nel poema omerico si può così ritrovare, secondo la Weil, una vera e propria trattazione della grammatica della forza, innanzitutto caratterizzata dal suo potere cosalizzante, ovvero la capacità di ridurre gli uomini che da essa sono dominati in cose, in pezzi di materia inerte. E non si tratta, beninteso, della mera capacità di uccidere, bensì del suo carattere spettrale, pendente come spada di Damocle sull’esistenza di ogni essere umano e passibile in ogni momento di trasformarlo in nulla, facendolo trapassare dal piano dell’essere a quello del non essere. È una minaccia, incombente e ineluttabilmente presente in ogni dimensione sociale. Quel che produce è, propriamente, non una serie di morti ma di sventurati, di uomini-cose pietrificati e ridotti a supplici63. Perché chi esercita la forza è come preso da un’ebbrezza, è incapace di vedere l’altro in quanto essere umano, di riconoscerlo come vita.64 Ma l’inganno della forza sta precisamente nell’illusione di onnipotenza che essa conferisce a chi ne dispone. In realtà, «nessuno la possiede veramente» e il destino, «a forza di essere cieco, stabilisce una sorta di giustizia, cieca anch’essa, che punisce gli uomini armati con la pena del taglione», poiché «il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma entrambi lo ignorano».65 In questa nuova specie di stato di natura hobbesiano non esiste essere umano tanto debole da non poter diventare una minaccia per il potente, in grado di annientarlo. Perché la forza non è qualcosa di cui l’uomo dispone, bensì è essa stessa a disporre dell’uomo, impossessandosene e piegandolo ad essere un burattino nelle sue mani. Chi fa affidamento su di essa decide di basarsi su fondamenta instabili, in perpetuo riassestamento. «Così coloro a cui è stata concessa in sorte la forza periscono per avervi fatto troppo affidamento».66 in quanto oramai incapaci di porle un limite, di arrestarsi ed esercitare il pensiero. In questo delirante scenario l’uomo è portato a sentirsi capace — e perciò legittimato — a qualsiasi azione; finisce col perdere la percezione dell’equilibrio, dei rapporti inscritti nell’esistente che così si delinea come una neutra e indifferente riserva della quale disporre a proprio piacimento. Inevitabilmente è portato a travalicare i limiti derivanti dall’utilizzo di una risorsa limitata, e dunque a commettere ingiustizia67 Tanto i vincitori quanto i vinti si trovano uniti sotto il comune ingranaggio della violenza,68 laddove, come diceva Manzoni, «non resta che far torto o patirlo».69 La forza è caratterizzata da questa natura endemica, per la quale tende endemicamente a diffondersi e a perpetuarsi nella ciclicità infinita dovuta al suo stesso esercizio.70 La tentazione all’eccesso diventa allora irresistibile, e cancella ogni strutturazione secondo mezzi e fini.

Ed è su questo terreno che si fonda, secondo la Weil, la tirannia dell’idolatria sociale. Lo stretto rapporto della forza con la dimensione immediata dell’esistenza — quella vegetativa — fa sì che essa diventi lo strumento principale per tutelare l’individuo dallo sradicamento prodotto dalla sofferenza. Essa infatti produce compensazioni, offre vie d’uscita per eludere il conflitto con le contraddizioni. La violenza tra individui si riflette quindi in una più intima forma di violenza ai danni del singolo stesso, dal momento che il sociale si concretizza come falsa trascendenza appiattita sull’immanenza. L’idolatria sociale inchioda all’immanenza e porta alla destrutturazione di ogni rimando trascendente che possa aprire l’uomo alla molteplicità dei piani di lettura. Essa rappresenta un surrogato della realtà, nel quale l’unica grammatica concepita e ammessa è quella della forza. Idolatria è, nel lessico weiliano, il termine adottato per descrivere il prodotto di una tale operazione. Perché ciò si realizzi occorre innanzitutto che siano rimossi o occultati i segni della presenza divina dei quali è costellato il mondo. Infrangere la possibilità di rimando ad altro dai rapporti di forza, di metaxù è ciò che infatti permette di velare la trascendenza, per poterne così fornire una versione surrogata nei termini di un prodotto terrestre e umana. Da questo punto di vista l’immaginazione è primariamente operazione che “tappa i buchi”, che rimuove gli ostacoli, i vuoti per instaurare un regime apparente della pienezza, della linearità. Ma questi sono tutti elementi che finiscono per delineare uno spazio anonimo e amorfo nel quale l’individuo si illude di trovarsi in pace con se stesso, adagiandosi in un comfort fittizio che anestetizza la sua capacità di scontrarsi con le asprezze della realtà, di acquisire coscienza della necessità di trascendere la dimensione dell’immediato.71 La differenza tra questo surrogato del bene e il Bene trae forza dalla capacità del “Grosso animale”72 di fornire all’individuo una corazza contro l’orrore del male, appagando il desiderio di esistere escludendo ogni altra dimensione all’infuori della propria. In tal modo l’essere umano viene risucchiato dentro questa forma di collettività anonima, la quale tende peraltro a depotenziare sempre più l’unico ambito nel quale l’individuo si può mantenere superiore alla collettività: il pensiero. Un siffatto processo procede di pari passo a quello di astrazione consistente nella sostituzione di segni vuoti ai simboli, di ombre alla realtà. Perdendo il controllo della realtà, tutto diviene spaventosamente cieco e irrazionale, arbitrariamente opera del puro caso.

[…] la confusione mentale e la passività lasciano libero corso all’immaginazione. […La vita sociale] è sempre fatta di misteri, di qualità occulte, di miti, di idoli, di mostri; ciascuno crede che la potenza risieda misteriosamente in uno degli ambienti a cui non ha accesso, perché quasi nessuno comprende che essa non risiede da nessuna parte, cosicché ovunque il sentimento dominante è questa paura vertiginosa che produce sempre la perdita del contatto con la realtà.73

È allora inevitabile che giunga si finisca per conferire valore assoluto a segni di per se vuoti, fino ad assolutizzarli.74 La modernità viene così letta dalla Weil come epoca del massimo compimento dello squilibrio, ovvero della perdita delle relazioni; è illimitatezza nella misura in cui è dimentica del senso del limite, di ciò che pone un argine all’illimitato. Dunque, «non solo la collettività è estranea al sacro, ma fuorvia procurandone una falsa imitazione. […] è idolatria».75 Nel contesto sociale l’uomo è dunque alienato dal carattere sacro intrinseco al suo stesso essere umano, e l’etichetta della persona è precisamente il distintivo del marchio impresso su di lui dalla collettività. Si tratta di un concetto intriso di violenza, appartenente all’ambito del commercio, che va a delineare tutta una serie di rapporti sostenenti e sostenuti dalla piramide sociale, operante secondo le leggi della quantità. Ed è così che il regime della forza, fondato sul terreno dell’immaginazione, risulta essenzialmente coinvolto nella strutturazione del legame sociale, inteso weilianamente come idolatria. La problematicità di una tale fondazione consiste nella circolarità viziosa sulla quale in ultima istanza riposa: difatti, se da un lato è l’appiattimento unidimensionale cui conduce la violenza ad infrangere la strutturazione simbolica del reale — seguendo così la grammatica dell’immaginazione -, dall’altro è l’assenza di questa stessa architettura ad aprire il dispiegamento illimitato della forza.

Il compito dell’uomo deve essere quello di limitare, per quanto possibile, la capacità di fare da schermo tra lui e la realtà che, in quanto idolo, infrange l’infinita distanza che separa il Bene dalla Necessità, confondendoli. Nell’ordine prettamente mondano non è possibile compiere un’azione perfettamente pura proprio a causa di questa cattiva commistione di ambiti, commistione che resta tuttavia ineliminabile da qualsiasi ordinamento sociale e politico. Perciò l’azione soprannaturale si pone come unica forma di agire puro, in quanto proveniente da un territorio altro rispetto all’ordine sociale. Diventare capaci di vedere effettivamente la realtà e, quindi, di agire su di essa significa perciò diventare capaci di esercitare l’attenzione, in particolar modo rivolgendola verso quegli individui obliati dalla collettività: gli sventurati. La sventura, infatti, non riguarda mai unicamente la dimensione del dolore, ma è sempre accompagnata da una profonda e umiliante degradazione sociale. Per queste ragioni ammettere la sventura, concepirla, accoglierla è qualcosa di disumano in quanto presuppone l’esperienza del vuoto, l’essersi ridotto a niente, a creature decreate. Riconoscimento che passa dunque attraverso la morte dell’individuo — e delle sue connotazioni personalistico-sociali — e la rinascita nell’impersonale.

Pensare questo [la sventura] con tutta l’anima equivale a sperimentare il niente. Equivale allo stato di estrema e totale umiliazione che è anche la condizione per passare nella verità. Equivale a una morte dell’anima. Per questo lo spettacolo della nuda sventura causa all’anima lo stesso moto di ritrazione che l’approssimarsi della morte causa alla carne.76

In questa peculiare forma di folle amore per l’Altro (lo sventurato) Verità e Giustizia vengono a coincidere.77

Anche in questo frangente possiamo notare come le analisi della filosofa francese restino pienamente ancorate alla sua ontologia di fondo, poiché solamente attraverso la ricostruzione della gerarchia dei rapporti è possibile sfuggire alla cieca meccanica della gravità; il punto di equilibrio è raggiunto in virtù del riconoscimento di un baricentro posto più in alto, di quel microscopico punto vuoto che è sede del soprannaturale. Dall’interno, difatti, la forza non può essere né superata né vinta, ma se ne può solo rimanere vittime, tanto come sconfitti quanto come vincitori. Occorrerà dunque indagare più a fondo quale sia la possibilità, secondo Simile Weil di una sospensione dell’ordine della violenza.

7. Al di là della forza e dell’idolo

Quale via d’uscita, allora, da un simile scenario? Già in Non ricominciamo la guerra di Troia78 la Weil aveva mostrato come la guerra al centro del poema omerico fosse allegoria di quella violenza illimitata che, con preoccupata attenzione, vedeva dilagare ai suoi tempi. Non è Elena, infatti, a essere il vero motivo del conflitto. È tutt’al più un pretesto.

La sua persona era così evidentemente sproporzionata rispetto a quella gigantesca battaglia che agli occhi di tutti rappresentava solo il simbolo della vera posta in gioco; ma la vera posta in gioco nessuno la definiva né poteva essere definita perché non c’era.79

Il carattere irreale del conflitto è conferito dalla sua impalpabilità, dal fatto che nessuno sia in grado di definirlo, cioè di circoscriverlo e, in tal modo, renderlo oggetto del pensiero. E questo perché la guerra è, come abbiamo visto, totale, dispiegamento dell’illimitato, ebbro sogno di follia disumanizzante. Oggigiorno non esiste più una Elena cui fare appello ma, secondo la filosofa francese, «parole ornate di maiuscole». Si tratta dei nuovi assoluti, del brulichio delle nuove fedi di fanatici adepti: le ideologie, capaci di avvincere gli individui e di soggiogarli ai loro imperativi stendendo sulle vite degli uomini la grigia caligine del sogno, dell’irreale. Un tale ordine della realtà non può che impedire l’uso critico dell’intelligenza, ovvero della capacità di penetrare la realtà mediante una lettura multipla, aperta alla complessità dei rapporti che sorreggono tanto l’universo quanto la vita in comune degli uomini. Così «agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro o con le cose concrete». Il sogno si sostituisce all’aderenza alla realtà, e la logica del sogno implica la cieca e barbarica illimitatezza al di là di ogni rapporto, di ogni possibilità di lettura e di riconoscimento.80 Non si vive più per dei valori, per degli ideali, ma per vuoti simulacri, passibili di essere volta volta intercambiati e riempiti dalle parole insostanziali proprie del potere: gloria, progresso, prestigio.

Tutte le assurdità che fanno assomigliare la storia a un lungo delirio hanno la loro radice in un’assurdità essenziale, la natura del potere . La necessità che vi sia un potere è tangibile, palpabile, perché l’ordine è indispensabile all’esistenza; ma, poiché gli uomini sono del tutto o pressappoco simili, l’attribuzione del potere è arbitraria, però, affinché possa sussistere il potere, tale attribuzione non deve apparire arbitraria. Così il prestigio, ossia l’illusione, è nel cuore stesso del potere.81

Si rivela qui tutta l’antinomia che si evidenzia nella concezione weiliana del potere: da un lato è irreparabilmente colluso con l’illusione e quindi, in definitiva, con la stessa violenza; dall’altra è necessario, in quanto l’ordine che ne deriva è indispensabile per l’esistenza umana. Vediamo qui come, partendo dall’analisi della forza, ci si ricongiunga con le considerazioni precedenti: la rottura di questa «contraddizione essenziale della società umana».82 non può che venire da un miracolo in quanto azione proveniente da un ordine trascendete. Per predisporre la possibilità di un simile evento è essenziale che l’uomo innanzitutto riacquisisca coscienza del proprio posto nell’ordine delle cose, ovvero che divenga gradualmente capace di una corretta lettura del reale; poiché «l’errore non è nell’azione, è un errore di lettura»83 Non esiste un atto in sé buono o in sé cattivo dal momento che l’immaginazione è sempre capace di intervenire a offrire (illusorie) giustificazioni a qualsiasi azione. «Qual è la differenza tra il giusto e l’ingiusto, se tutti si comportano sempre (o quasi sempre) in conformità alla giustizia che essi leggono?».84 La risposta, secondo la Weil, risiede innanzitutto nello svuotamento del proprio Io ai fini di una lettura purificata dalla «vertigine della gravità», delle passioni e quindi, per quanto possibile, universale e giusta85 Le azioni possono tanto avvincere l’uomo al mondano quanto emanciparlo fungendo da leve per la trascendenza; possono aumentare o diminuire «lo spessore del velo che mi separa dall’universo e dagli altri».86 Un tale agire potrà allora configurarsi solo come agire negativo, all’insegna della decreazione. Si tratta di raggiungere quella dimensione nella quale l’uomo «imita in qualche modo la materia», si fa assenza capace di aderire unicamente all’ordine della necessità, e quindi di agire con purezza.87 È soprattutto dalla lettura della Bhagavadgītā che tutta una serie di immagini e di tematiche filtrano nel pensiero della filosofa francese.

Scelta illusoria. Quando si crede di poter scegliere, in realtà si è incoscienti, prigionieri dell’illusione, e si diventa un balocco. Si cessa di essere un balocco elevandosi al di sopra dell’illusione fino ala necessità, ma allora non c’è più scelta, un’azione è imposta dalla situazione stessa chiaramente percepita. L’unica scelta è quella di ascendere.88

Figura esemplare di questo agire è per la Weil l’eroe Arjuna,89 il quale rappresenta la sospensione dell’azione al di là dei moventi particolari, cioè la perfetta aderenza alla necessità. È capace di farsi bilancia, di arrestarsi e non frapporre il proprio sé davanti alle circostanze dell’azione, ma di ottemperare spassionatamente al proprio dharma. Una simile contemplazione è ciò che impedisce di macchiarsi, di essere dipendente dai frutti dell’agire; è il modello della non-azione. Ed è attraverso questa immagine che la responsabilità si delinea come capacità del politico di avere l’adeguato “colpo d’occhio” che gli consente di mantenere la giusta distanza nei confronti del suo oggetto. Responsabilità è innanzitutto capacità di riconoscere il proprio posto, e di mantenervisi evitando un utilizzo egoistico del potere. Viceversa, colui che è “politico del potere” opera nel vuoto e nell’assurdo, in quanto si orienta al mero e bieco inseguire le meccaniche legate al prestigio e alla gloria. Contro una lettura naïf della produzione politica weiliana, vorrei porre il senso di questo parallelo alla luce della sua visione realistica della politica. Nel linguaggio weiliano, il realismo si traduce in una certa visione tragica del potere, per la quale chiunque ne disponga non può ignorare il “fardello della necessità”, pena lo scadimento nella dimensione irreale e violenta del sogno.

Riappropriarsi di una padronanza e lucidità di pensiero oramai sempre più dimenticate significa allora tornare a essere capaci di praticare quello sforzo di chiarificazione che rappresenta l’unica possibilità per «sgonfiare le ragioni immaginarie di conflitto». È infatti

la nube di entità vuote che impedisce non solo di scorgere i dati del problema, ma addirittura di sentire che c’è un problema da risolvere e non una fatalità da subire. […] Non si tratta di immobilizzare artificialmente dei rapporti di forza per essenza dinamici […]; si tratta di discriminare immaginazione e realtà per ridurre i rischi della guerra senza rinunciare alla lotta, di cui Eraclito diceva che è la condizione della vita.90

Di una tale visione lucida stato capace, secondo la Weil, il poeta dell’Iliade. Ciò è riscontrabile nella capacità che ha avuto di mantenere fermi i confini tra realtà e immaginazione, tra Bene e Necessità; raffigurando senza menzogne né addolcimenti la cruda realtà della violenza.91 In tutto il poema omerico serpeggia un senso di inguaribile amarezza, che è poi tenerezza universale verso la condizione degli uomini governati e ridotti a oggetti senz’anima. La soffocante e fredda caligine che emerge da queste pagine è infatti costellata di rari e fugaci momenti di purezza, di vero amore e di vera amicizia. È l’irrompere della sacralità dell’umano tra le maglie dell’animalità, della cosalità. Quando la Weil parla di grazia non vuol mai intendere

une essence théologique, une puissance ou une istance souveraïne, c’est la forme sensible que revêt le comportement des hommes dont l’âme résiste à la pétrification, ou qui découverent un élément d’amour divin dans le spectacle de leur malheur commun […].92

Perciò le viene naturale associare il poema omerico al Vangelo. Entrambi, infatti, secondo la sua interpretazione, mostrano come «il sentimento della misura umana è una condizione della giustizia e dell’amore», poiché solo chi è consapevole della “volubile fortuna” e della necessità che «tengono ogni anima umana in loro potere» può veramente amare i propri simili come se stesso.93 L’operazione weiliana di rilettura originale del testo omerico — come peraltro di altri tesori della spiritualità antica — è volta alla scoperta di quelle

tracce profondamente iscritte di un sapere […] che non è archeologico se si è in grado di liberarne l’energia nascosta. […] non per contrapporre un passato remoto alla modernità, neppure per proporre un altro ambiguo Rinascimento o un qualche sincretismo religioso, ma perché la modernità ritrovi i caratteri originali della cultura occidentale […].94

La critica weiliana può perciò a buon diritto essere definita culturale, giacché il suo intento non è tanto proporre nuovi paradigmi politici, ma indicare e fornire quelle fonti di luce che possano illuminare nuovamente l’umano in quanto tale, e ricostituire una nuova armonia, un vivere sanato dagli squilibri della modernità.95 Perché ciò sia possibile occorre trascendere l’immediata dimensione storica e aprirsi a «un ordine senza forma né nome»96 che allontani ogni possibile appiattimento unidimensionale97 e che restituisca alla realtà la propria strutturazione ontologica secondo rapporti, e quindi la possibilità stessa di una lettura multipla.

Si conferma in tal modo la congiunzione, all’interno del pensiero della filosofa francese, fra amore e giustizia. La giustizia, emblematicamente rappresentata dalla bilancia “a bracci diseguali”, innanzitutto agisce mediante il riconoscimento delle altre realtà. E questo avviene attraverso l’ampliamento e il potenziamento della propria capacità di lettura fino ad inglobare e accogliere anche l’Altro per eccellenza, lo sventurato.98 Ma ciò richiede innanzitutto la corretta calibrazione della propria bilancia interiore; si tratta di quel processo di costruzione di una “architettura dell’anima” precedentemente visto. Si giunge poi al momento in cui l’Io, in questo processo, impara a «non volere cambiare il proprio peso sulla bilancia del mondo — la bilancia d’oro di Zeus».99 Allora il braccio sul quale pesano tutti i (falsi) valori dell’ordine terrestre può essere bilanciato dall’altro braccio, quello dove poggia “l’infinitamente piccolo” dell’ordine soprannaturale; allora si può avere un autentico equilibrio, ma garantito da una strutturazione su ordini diversi, quegli stessi ordini che costituiscono l’impalcatura ontologica dell’universo. Quel che è certo è che il piano della violenza non può essere superato restandovi dentro: i suoi squilibri non sono ricomponibili che dall’esterno, da una prospettiva impersonale. In quanto irreale — ovvero non appartenente ai prodotti di questo mondo — la giustizia non può combattere la forza, e neppure incontrarla. In quanto reale — ovvero proveniente dall’ordine più alto del divino — rappresenta quella linea infinita che la forza non può oltrepassare. In quanto irreale non è altro dalla forza. In quanto reale è il suo stesso limite, non una forza uguale e contraria. Nessun’altra forza può opporsi alla forza dall’esterno: se non quel limite intrinseco, e perciò invincibile, che la delimita, la frena e la contiene come barriera insuperabile. La necessità. Così la giustizia può essere definita «sovrana della forza sovrana»; è la necessità alla quale tutto è sottomesso. Ma questo è il suo mistero: essa è più forte della forza, ma la sua forze non consiste in nient’altro che nell’attesa di ciò che è necessario. Giustizia è attesa, attesa e pensiero.100

8. Conclusione. Giustizia: un radicamento possibile?

Abbiamo visto come il tema del riconoscimento-attenzione conduca inevitabilmente a prendere in considerazione tutta la struttura dei rapporti sociali e, quindi, politici. Ma qual è il soggetto che si fa portatore di giustizia? Ed è possibile fondare un ordinamento socio-politico costruito secondo un tale criterio di giustizia? Giusto per limitarci a questi due interrogativi generali, vorrei ora concludere questo mio lavoro cercando di mettere in luce le linee generali inerenti alla formulazione giuridica tratteggiata da Simone Weil.101

Com’è noto, è nel celebre testo La persona e il sacro che la critica weiliana alla concezione personalistica tocca il suo apice. L’errore viene rintracciato innanzitutto nell’aver caratterizzato l’individualità dell’uomo attraverso la sfera del proprium, attribuendogli così non solo una realtà che non è sostanziale — concerne infatti qualcosa che a ben vedere può avere, ma che può anche perdere -, ma anche una presunta perfezione che non gli è propria, dal momento che la dimensione umana è essenzialmente caratterizzata dall’imperfezione e dall’errore. La rivendicazione dei diritti, connessa al concetto di persona, finisce con l’essere una costante pretesa di maggiore potere, nella pretesa ad “aumentare” lo spessore sociale della persona.102 Non a caso, la stessa grammatica del diritto richiede, affinché possa essere garantita e tutelata, l’attivazione di un sistema di forze a suo sostegno. Inoltre «La nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo103».

Di contro vi è la dimensione della supplica, modalità di appello all’Altro nella quale si mostra la natura sacra dell’uomo, quella «che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male».104 Ed è su questo versante che Simone Weil sviluppa la propria posizione, la quale non si rivela tanto anti-istituzionale quanto critica nei confronti delle insufficienze di una «politica di rivendicazione rispetto alla sofferenza di chi non può accampare diritti perché nessuno è disposto a riconoscerglieli».105 Per quanto contrassegnato dallo stigma della forza, il vivere sociale è difatti necessario all’uomo, foss’anche per regolare e controllare quella stessa forza.106 Perciò si potrebbe parlare di un diritto al contempo insufficiente e necessario.107 Piuttosto che un abbandono o un rifiuto netto della nozione di diritto, la Weil sembra quindi indicare una sua particolare ripresa operata in virtù della riabilitazione della nozione di obbligo.108 La centralità di questa nozione — e le conseguenze che i suoi sviluppi comportano all’interno di una riflessione giuridica — trova una sua particolare tematizzazione ne La prima radice109.

La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa […] L’obbligo anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto.110

Nell’ottica weiliana, è proprio l’essenza “soprannaturale” che garantisce il carattere incondizionato della fondazione cui dà origine l’obbligo. Inoltre, la sua grammatica istituisce un rapporto con l’alterità di tipo non conflittuale (come invece opera il diritto): laddove questo tende a dividere e separare, quello porta un’apertura radicale, un’esposizione all’Altro capace di instaurare un legame. E ritroviamo qui la centralità della nozione di attenzione, intesa come corretta lettura: «imparare a leggere le situazioni è imparare a riconoscere i propri obblighi».111 Di conseguenza, vediamo come in parallelo una simile impostazione richieda la decreazione, ovvero lo svuotamento delle categorie personalistiche che ostacolano la visione e l’accoglimento dell’Altro. Un simile ritirarsi significa però lasciare spazio a quel terzo che unicamente può garantire l’armonia della mediazione Io-Altro: Dio. Il sentimento dell’obbligo è dunque lo strumento concettuale che la Weil utilizza per declinare positivamente la propria concezione metafisica del rapporto triangolare tra il Divino e gli esseri umani.

Ma perché un tale orientamento possa sortire una declinazione giuridica occorre che l’obbligo venga innanzitutto riconosciuto come tale. L’obbedienza non può difatti essere il prodotto di una costrizione o di una imposizione dall’altro. La preoccupazione che innerva non solo La prima radice ma anche i weiliani Écrits de Londres.112 è proprio quella di instaurare un legame quanto più possibile saldo tra la legittimità, il consenso e la giustizia. Il carattere eterno e immutabile della giustizia dovrebbe di per sé garantire la sua universalità, il suo riguardare tutti gli uomini in quanto facente appello a quei semi soprannaturali che vivono nei cuori di ogni essere umano. La legittimità assume invece la cifra della continuità e della connessione: «è la continuità nel tempo; la permanenza, un invariante. Essa dà come finalità alla vita sociale qualcosa che esiste e che è concepito come esistito da sempre e che sempre deve essere. Essa obbliga gli uomini, in tutti gli atti della vita sociale, a volere esattamente ciò che è»113 La fondazione della legittimità affonda le proprie radici nel consenso in quanto forma del riconoscimento della giustizia e degli obblighi che essa comporta. Porre il riconoscimento dei «bisogni dell’anima e del corpo».114 quale base per la fissazione degli obblighi, collocare la fonte della legittimità nell’adempimento degli obblighi che ciascuno ha nei confronti degli altri — e quindi definire come vero e proprio crimine qualsiasi inadempienza in questo senso, anche da parte dei detentori del potere — è la modalità attraverso la quale la Weil istituisce un principio di certezza giuridica capace di operare e di regolare l’agire politico. In questo modo si chiude il rapporto di reciproca implicazione tra legittimità, consenso e giustizia: «si celui qui gouverne a pour mobile le souci de la justice et du bien public, si le peuple a l’assurance qu’il en est ainsi et des motifs raisonable d’être assuré que cela continuera, si le chef ne désire conserver le pouvoir qu’autant que le peuple conserve cette assurance, il y a gouvernement legitime»115.

Così, ben lontano da ogni riferimento etnico o nazionalistico, il radicamento significa la possibilità di una nuova e rigenerata partecipazione attiva e naturale «all’esistenza di una collettività che conservi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro».116 Si tratta del difficile compito di creare un terreno idoneo nel quale l’individuo possa uscire da se stesso, non nella forma anonima del noi collettivo, ma in quella della decreazione e della coscienza della propria incompletezza, unico modo affinché sia possibile la presa d’atto dell’esistenza di una realtà al di fuori di lui e a lui superiore; unico modo, dunque, affinché si sviluppi una corretta capacità di lettura capace di produrre una forma di autentico consenso. Si tratta, in ultima analisi, di ritrovare e riattivare uno di quei metaxù costantemente ricercati dalla filosofa francese in quanto ponti che possano ricreare le connessioni tra l’ordine mondano e quello soprannaturale.

Si chiude così questo percorso, iniziato prendendo in considerazioni le riflessioni weiliane riguardanti la lettura e culminante in quella forma di riconoscimento che abbiamo visto essere la giustizia. Possiamo ora constatare come i diversi piani del discorso siano fin da subito interconnessi e non semplicemente giustapposti. Nulla di ciò che abbiamo trovato all’inizio è, a ben vedere, andato perduto, ma ha, anzi, costantemente attraversato le diverse declinazioni del nostro discorso. Il concetto di lettura-attenzione, weiliana declinazione del concetto di riconoscimento, si è rivelato essere elemento decisivo che caratterizza buona parte della produzione della filosofa francese. E questo non fa che confermare l’iniziale convinzione che ci ha mossi a intraprendere questo lavoro: che la proposta filosofica di Simone Weil può a buon diritto definirsi antropologica, nel senso più ampio e alto che questo termine può significare. Si tratta di un appello — e di una provocazione, nel senso etimologico della parola — indubbiamente formulato e rivolto a partire da alcune istanze storiche proprie della sua epoca, ma non per questo oggi meno attuali alla luce del costante ripresentarsi di vecchie e nuove istanze del riconoscimento che, in quanto tali, esigono non solo delle risposte ma una costante e adeguata forma di attenzione.


  1. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, tr. it. a cura di G. Bartolucci, R. Guidieri, L. Prato Caruso, R. Loy Provera, Einaudi, Torino 1982, p. 3. ↩︎

  2. G. Gaeta, I ‘Cahiers’. Storia di un’opera postuma, contenuto in S. Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982-1993 (IV vol.), p. 34. ↩︎

  3. S. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in Id., Attesa di Dio, a cura di M. C. Sala, con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 2008, pp. 106-107. ↩︎

  4. Per il momento basti questo breve accenno in merito; nel corso di questo scritto vedremo come progressivamente sarà approfondito questo tema cruciale che di fatto delinea il perimetro all’interno del quale può misurarsi la possibilità di agire umana. ↩︎

  5. Non risulta possibile né tantomeno rientra tra gli intenti di questo scritto addentrarsi nel dibattito circa la cifra gnostica presente negli scritti weiliani. Il tema, tuttora fortemente dibattuto, è stato inaugurato in Italia da Augusto Del Noce (cfr. A. Del Noce, Simone Weil interprete del mondo di oggi, introduzione a L’amore di Dio, Borla, Torino 1968, pp. 1-56) e ha recentemente trovato spazio all’interno di un libro appositamente dedicatogli (cfr. C. Schena, Simone Weil e la questione gnostica, Asterios, Trieste 2017). ↩︎

  6. S. Weil, La percezione o l’avventura di Proteo, contenuto in Primi scritti filosofici, Marietti, Genova 1999, p. 148. ↩︎

  7. Cfr. a riguardo W. Tommasi, Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1994, p. 15. ↩︎

  8. S. Weil, Lezioni di filosofia (1933-’34), tr. it. di Luisa Nocentini, Adelphi, Milano 1999, p. 45. ↩︎

  9. «È così che in ogni istante della nostra vita noi siamo afferrati come dal di fuori dai significati che noi stessi leggiamo nelle apparenze. […] Perché ciò che noi chiamiamo mondo sono dei significati che noi leggiamo; dunque qualcosa che non è reale. Ma questo ci afferra come dal di fuori; dunque è reale» (Quaderni, IV, cit., appendice II, p. 409). ↩︎

  10. La percezione o l’avventura di Proteo, cit., p. 121. ↩︎

  11. C. Calò, Simone Weil: l’attenzione. Il passaggio dalla monotonia dell’apparenza alla meraviglia dell’essere, Città Nuova, Roma 1996, p. 38. ↩︎

  12. “L’immaginazione è qualcosa di reale. In un certo senso la realtà principale. Ma in quanto immaginazione” (Quaderni, cit., I, p. 370). ↩︎

  13. Quaderni, cit., II, p. 52. ↩︎

  14. Quaderni, cit., I, p. 390. ↩︎

  15. Quaderni, cit., II, p. 42. ↩︎

  16. È cioè capace di cogliere l’infinito verticale e non, come invece fa l’immaginazione, di contraffare l’infinito dei due piani come infinito orizzontale, quantitativo. Rispettare l’ordine dei piani ontologici significa rifiutarsi di barattare una certa quantità per una differenza di qualità. ↩︎

  17. L’attenzione, cit., p. 29. ↩︎

  18. Quaderni, cit., I, p. 257. Come nota G. Fiori nel suo Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991, pp. 74-75: al primo stadio di lettura, in cui si procede contemporaneamente con più letture, si impara «l’equivalenza delle cose diverse e persino opposte» che, sul medesimo piano, esprimono le medesime necessità; che è inevitabile leggere all’esterno quello che ci portiamo dentro (attività proiettiva); che esistono delle interferenze fra leggere ed essere letti. E ciò conduce spesso all’incomprensione. Vi è sempre, nei rapporti umani, la possibilità di imporre la propria lettura (dominazione) o di lasciarsi dominare da quella altrui (schiavitù). Perciò non bisogna abusare di questo potere, ma prendersi un momento di sosta e arrivare a «leggere il dubbio in ogni apparenza»; equilibrare la mia lettura a quella degli altri; arrivare cioè alla giustizia. Questo accordo è la realtà: «dal solipsismo all’identità suprema attraverso il mondo» (Quaderni, cit., I, p. 225). ↩︎

  19. Quaderni, cit., II, p. 53. Interessante notare nuovamente come il movimento indicato dalla Weil non sia mai volto a rifiutare o rimuovere — totalmente o in parte — il reale, bensì ad accettarlo sempre in quanto tale, ad assumerlo, purché coscientemente. La gravità, difatti, resta ugualmente la medesima anche se ci rivolgiamo a essa con la migliore qualità d’attenzione. Ciò che cambia è — usando una terminologia che esamineremo meglio in seguito — il fatto che si aderisca al reale, obbedendo alle sue immutabili leggi, oppure che ad esse ci si ribelli, o le si ignori. La differenza, lo vedremo, risulterà decisiva. Cfr. a proposito S. Weil, L’amore di Dio e la sventura, in Id., Attesa di Dio, cit., pp. 182-183 : «Mai l’uomo può sottrarsi all’obbedienza a Dio. Una creatura non può non obbedire. L’unica scelta conferita all’uomo come creatura intelligente e libera è quella fra desiderare o non desiderare l’obbedienza. Nel caso non la desideri, obbedisce in perpetuo comunque, in quanto cosa sottomessa alla necessità meccanica. Se la desidera, continua a soggiacere alla necessità meccanica, ma a questa si sovrappone una nuova necessità, costituita dalle leggi proprie alle cose soprannaturali. Pertanto certe azioni gli diventano impossibili e altre invece si realizzano tramite lui, a volte quasi suo malgrado». ↩︎

  20. «Poiché nessun atto è buono o cattivo in sé, ma secondo le circostanze, in un momento qualsiasi, attraverso le apparenze sensibili, qualunque esse siano, si può sempre immaginare (leggere) una situazione rispetto alla quale (se solo esistesse) tale atto sarebbe giusto. Più tardi si legge altrimenti, ma l’atto è compiuto. Così, senza controllo sull’immaginazione, si può fare qualsiasi cosa. Come controllarla […] L’errore non è nell’azione, è un errore di lettura» (Quaderni, cit., I, pp. 246-247). ↩︎

  21. S. Weil, Scienza e percezione in Cartesio, contenuto in Sulla scienza, tr. it. di M. Cristadoro, Borla, Torino 1971, p. 46. Cfr. anche quanto detto da S. Pétrement in La vita di Simone Weil, tr. it. di Efrem Cierlini, Adelphi, Milano 1994, p. 154: «Esistere, pensare, conoscere non sono che aspetti di una sola realtà: potere […] Ciò che io sono è definito da ciò che io posso». ↩︎

  22. Cfr. Segni, idoli, simboli, cit., p. 67. ↩︎

  23. Riprendo qui la giusta osservazione che fa S. Obinu in L’ontologia weiliana tra materia e libertà, in “Segni e Comprensione”, n.11 (sett.-dic. 1990), IV, pp. 267-268 (cit. in L’attenzione, cit., p.169, nota 21): «La materia non è perciò semplicemente il costitutivo esterno ed estraneo per essenza al soggetto umano. Essa rinchiude in sé una funzione speculare che ha immenso valore nel favorire quel processo di autorivelazione a cui è chiamato ogni spirito individuale. La materia […] esercita una vera e propria funzione maieutica, attraverso la quale […] il soggetto umano conquista se stesso delimitando i contorni della propria libertà. L’esistenza materiale [… è perciò] titolare di una verità che il soggetto può e deve cogliere accostando il carattere proprio di essa, che è la cosalità inerte, ma nel contempo accogliendo la certezza del suo esserci e del suo darsi oggetti, slegato dai desideri, dalle aspirazioni, dalla occasionalità a cui vorrebbe ridurla il pensiero umano». ↩︎

  24. Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1988, p. 372. ↩︎

  25. Sul rapporto tra obbligo e ostacolo cfr. ad es. Quaderni, II, p. 256: «Ogni atto obbligatorio a cui la natura oppone un ostacolo, compiuto con un’attenzione ben diretta, logora un poco quest’ostacolo. Un numero sufficiente di atti simili esaurisce quest’ostacolo, lo fa sparire. Se prima di aver accumulato tale numero si crede, per il fatto di essere riusciti a compiere l’atto, che l’ostacolo è sparito, si resta molto stupiti di “ricadere” ». ↩︎

  26. Cfr. Quaderni, cit., I, p. 228. ↩︎

  27. Lc 18, 14. ↩︎

  28. «Non si scelgono le sensazioni, ma, in larga misura, si sceglie ciò che si sente attraverso di esse; non istantaneamente, ma mediante un apprendistato» (Quaderni, cit., IV, p. 405). La Weil ricorre qui all’immagine cartesiana del bastone attraverso il quale il cieco si orienta e tocca il mondo: «per ciascuno il bastone del cieco è nient’altro che il proprio corpo» (Sulla scienza, cit., p. 38). ↩︎

  29. Sarà quella che più avanti verrà chiamata col nome di attenzione. ↩︎

  30. Peraltro, la fatica svolta implicitamente suggerisce un premio come riconoscimento del lavoro svolto, facendo sì che l’anima trovi conferma nella fatica dei propri istinti naturali, evitando di questionare l’immediata e cattiva commistione col regime dell’immaginazione. ↩︎

  31. L’attenzione, cit., p. 48; Quaderni, cit., IV, p. 227. ↩︎

  32. G. Zanardo, Volontà e attenzione: un percorso di apprendistato, contenuto in AA.VV., Simone Weil, la provocazione della verità, Liguori, Napoli, 1990, p. 75. ↩︎

  33. Come vedremo più approfonditamente in seguito, l’attenzione si colloca precisamente come quella forma di attesa, di capacità di mantenersi vigili nel vuoto creatosi con la decreazione: «Si può definire l’attenzione uno stato di attesa […] Se si cerca non si può infatti fare a meno di cercare qualcosa, e nella rappresentazione di questo qualcosa, si finirebbe con l’immettere elementi della propria finitezza, che, scambiati per il bene, si trasformerebbero in idoli» (Ibidem, p. 87). Diviene allora chiara la differenza tra volontà, in quanto ancorata a una prospettiva ancora personalistica, rispetto all’attenzione, il cui fulcro si colloca nella dimensione dell’impersonale: «a differenza della volontà affermativa, che è uno sforzo diretto a uno scopo e che richiede, nell’equilibrio complessivo, una ricompensa per l’energia usurata nella fatica, l’attenzione è sforzo a vuoto che non consuma, ma anzi potenzia, l’energia» (Idem supra). ↩︎

  34. Ibidem, p. 78. ↩︎

  35. Cfr. a riguardo Forme dell’amore implicito, cit., pp. 150-151: «La volontà è al livello della parte naturale dell’anima. Il buon esercizio della volontà è probabilmente una condizione necessaria della salvezza, ma è una condizione debole, inferiore, molto subordinata, puramente negativa. Con uno sforzo muscolare il contadino strappa le erbacce, ma soltanto il sole e l’acqua fanno crescere il grano. La volontà non opera nell’anima alcun bene. Gli sforzi di volontà sono al loro posto solo nell’adempimento di obblighi inderogabili. In assenza di simili obblighi, bisogna seguire sia l’inclinazione naturale sia la vocazione, vale a dire ciò che Dio comanda. Gli atti che procedono dall’inclinazione non sono sforzi di volontà, è evidente. E negli atti di obbedienza a Dio si è passivi; quali che siano le pene che li accompagnano, qualunque sia il dispiegamento apparente di attività, nell’anima non si produce alcunché di analogo allo sforzo muscolare; c’è soltanto attesa, attenzione, silenzio, immobilità attraverso la sofferenza e la gioia. La crocifissione del Cristo è il modello di ogni atto di obbedienza». ↩︎

  36. Quaderni, cit., III, p. 233. ↩︎

  37. C. Vogel, La lecture comme réception et production du sens. Les enjeux de la pensée weilienne, in “Cahiers Simone Weil”, Tome XXXIII, n.2, Paris, Juin 2010, pp. 208-209. ↩︎

  38. Cfr. Quaderni, cit., IV, p. 169: «Una nuova logica basata sulla nozione di ambiti. Ciò che è vero in un ambito non lo è in un altro». ↩︎

  39. Quaderni, cit., III, pp. 351-352. ↩︎

  40. Ovvero libero dal legame connesso all’aspetto retributivo dell’azione, ancora appartenente ad un’impostazione personalistica del soggetto. ↩︎

  41. Quaderni, cit., II, p. 328. Per quanto riguarda il rapporto tra lo sforzo a vuoto e l’attenzione, nella fattispecie nell’ambito degli studi, cfr. a riguardo S. Weil, Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, , in Id., Attesa di Dio, cit., pp. 191-201, ad esempio p. 198: «I beni più preziosi non devono essere cercati, bensì attesi. Giacché l’uomo non può trovarli con le proprie forze, e se li cerca troverà al loro posto quei falsi beni di cui non saprà discernere la falsità». Cfr. anche quanto dice W. Tommasi in Studio, attenzione, preghiera. Il passaggio all’impersonale, saggio presentato al VII Congresso internazionale della rivista “Prospettiva Persona” in occasione del Centenario della nascita di Simone Weil ( 1909-2009). ↩︎

  42. Cfr. Quaderni, cit., IV, p. 104; 118. Che in un simile progetto non sia mai messa in questione la pienezza e l’integrità del reale lo si capisce anche da quanto dice in Discesa di Dio, cit., p. 183, dove la Weil sostiene come a seguito di un siffatto riordinamento «l’anima continua a essere colma delle stesse afflizioni naturalmente disordinate, piaceri e dolori, paure e desideri […] ma tutto questo avviene senza sosta ricondotto e sottomesso a un ordine assolutamente inalterabile». ↩︎

  43. Quaderni, cit., III, p. 83. ↩︎

  44. Sul fatto che il movimento, volendolo considerare come un tutto unico, non sia un prodotto meramente intellettuale ma combini intimamente tanto la ragione quanto la dimensione percettivo-corporea cfr. ad. es. La lecture, cit., pp. 211-212: «Nous nous tromperions si nous croyons qu’occuper un autre lieu, mettre en mouvement les centres d’où on saisit le monde, autrui et soi-même, soit un exercice purement cognitif qui n’engagerait que la pensée. Il s’agit d’une démarche ou plutôt d’un travail où le corps, l’âme et l’esprit s’exposent tout ensemble. […] Saisir et être saisi sont des actes distincts et, tout ensemble, inséparable, coprésents dans chaque épreuve de réalité. Médiateur de base, ces le corps de l’homme auquel il revient d’assurer, en premier lieu, le passage entre le différentes instances de lecture». ↩︎

  45. Cfr. Quaderni, cit., I, p. 273: «Lo spirito nel suo grado più alto imita in qualche modo la materia; assente dai propri pensieri e dalle proprie opere. Mistero supremo». ↩︎

  46. L’attenzione, cit., p. 75. Cfr. anche quando detto a p. 179, nota 66 nella quale viene citato l’articolo di M. Lena, Deux témoins du bon usage des études scolaires en vue de l’amour de Dieu: Simone Weil et Madeleine Daniélou, in “Cahiers Simone Weil”, Tome II, n.2 (Giugno 1979), pp. 63-64: «Si può parlare, in Simone Weil, di una specie di formalismo dell’attenzione […] la sola forma d’attenzione, quale che sia la verità particolare che essa prende per contenuto, quali che siano i suoi risultati…vale in se stessa e per se stessa…l’attenzione è un principio di discernimento e ha funzione di rivelatore ontologico». ↩︎

  47. Cfr. a riguardo E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 16 (cit. in L’attenzione, cit., p. 180, nota 70): «Quest’idea del rovesciamento di prospettiva, necessario,di colpi mi ha svegliato. Sono lucido, ora, attento, pronto. Ma nello stesso tempo quella comunicazione dal semisonno, quasi esterna, mi sembra esaurita. La ricerco volontariamente. Invano». ↩︎

  48. Acquista importanza, a questo livello, il valore terapeutico dell’attenzione, il cui esercizio permette una piccola e progressiva distruzione del male presente in noi stessi. Attenzione, decreazione e consumazione del male presente in noi vanno così di pari passo. ↩︎

  49. L’attenzione, cit., p. 85. Cfr. Quaderni, cit., III, p. 238: «Notte oscura. In ogni cosa, solo ciò che viene dal di fuori, gratuitamente, di sorpresa, come un dono della sorte, senza averlo cercato, è gioia pura […] Dunque lo sforzo realmente teso verso il bene deve fallire; è solo dopo una tensione lunga e sterile in cui si finisce col disperare, quando non ci si attende più niente, che dal di fuori, dono gratuito, meravigliosa sorpresa, viene il dono». ↩︎

  50. La metafisica religiosa, cit., p. 50. Cfr. anche Studio, attenzione, preghiera, cit., p. 201, dove la Tommasi invita a «considerare l’attenzione come il lato attivo dell’attesa» (rimandando peraltro alle considerazioni sul tema svolte da R. Esposito nel suo Le categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1988). ↩︎

  51. Quaderni, cit., II, pp. 255-256. ↩︎

  52. Come giustamente nota M. Shibata in ’Le regard est ce qui sauve’. Le mal et la beauté chez Simone Weil, in “Cahiers Simone Weil”, Tomo XVIII, n.2 (Giugno 1995): «Ce qui détruit le mal et produit le bien: 1) c’est la pensée du Bien lui-même, et non celle d’un bien imparfait; 2) c’est le désir du Bien et non l’effort de la volontée vers le Bien; 3)le bien ainsi produit est un bien imparfait, c’est-à-dire que le mal est éliminé progressivement et non immédiatement» (p. 110). Sempre nello stesso articolo viene efficacemente sintetizzato il processo dello ‘sguardo’: «a) en portant le regard sur la matière dont se compose le miroir; b) on regarde la lumière reflétée sur la surface du miroir; c) ainsi peut-on diriger indirectement le regard vers la source de la lumière» ( p. 118) ↩︎

  53. Œuvres complètes, cit., I, p. 58. ↩︎

  54. Quaderni, cit., III, p. 361. ↩︎

  55. L’attenzione, cit., p. 112. Cfr. Anche Quaderni, cit., I, p. 370: «Agire non per un oggetto, ma a causa di una necessità. Non posso fare altrimenti. Non è azione, ma una specie di passività. Azione non-agente». ↩︎

  56. Cfr., per quanto riguarda il carattere creativo dell’attenzione, ad es. Forme dell’amore implicito di Dio, cit., p. 108: «Una simile attenzione è creatrice. Ma nel momento in cui si produce è rinuncia. Per lo meno se è pura. L’uomo accetta di diminuirsi concentrandosi in un dispendio di energia che è diretto non ad accrescere il suo potere, ma solo a conferire esistenza a un altro essere, indipendente da lui». ↩︎

  57. Cfr. Riflessione sul buon uso degli studi scolastici, cit., p. 200. ↩︎

  58. Studio, attenzione, preghiera, cit., p. 206. ↩︎

  59. S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 17. ↩︎

  60. Cfr. a proposito Le categorie dell’impolitico, cit., pp. 201-203. ↩︎

  61. Rivisitazione della celebre frase di Tucidide, peraltro più volte riportata e commentata dalla Weil nei suoi Quaderni: «Noi abbiamo rispetto agli dèi la credenza, e rispetto agli uomini la conoscenza certa, che sempre, per una necessità della natura, ciascuno comanda ovunque ne ha potere» (Tucidide, Storie, Utet, Torino, 2005, V, 89 e 105). ↩︎

  62. Cfr. S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, in Id., La rivelazione greca, cit., p. 33. Il saggio L’Iliade o il poema della forza, è alle pp. 33- 64. Per un commento di questa opera weiliana sul tema della forza, cfr. anche R. Osborn, Geometries of Force in Homer’s Iliad: two readings, Humanitas, Volume XXI, Nos. 1 and 2, 2008. ↩︎

  63. «[…] l’esclavage comme “mort qui s’étire tout au long d’une vie”, ou vie pire que la mort, parce qu’elle n’est qu’une mort différée […] Son essence n’est pas seulement la violence physique, mais l’humiliation qui l’accompagne» (E. Balibar, Simone Weil et le tragique de la force. À propos de “L’Iliade ou le poème de la force” in “Cahiers Simone Weil”, Tome XXXIII, n.2, Paris, Juin 2010). ↩︎

  64. «Davanti a loro gli altri si muovono come se non ci fossero; ed essi a loro volta, nel pericolo in cui si trovano di essere ridotti a niente in un istante, imitano il nulla» (L’Iliade o il poema della forza, cit., p. 37). ↩︎

  65. Ibidem, p. 40, 42; p. 43. In tal modo la forza tradisce la sua illusorietà; la potenza è impossibile: ha bisogno, per esistere, di un oggetto al quale rivolgersi ma, proprio col suo esercitarsi, finisce per consumarlo, per distruggerlo. Perciò la potenza appartiene all’ordine dell’immaginazione: non si può possedere la violenza, perché non si dà mai potere ma solo corsa al potere, corsa che per sua natura non può che essere infinita e illimitata, e perciò esigente di tutto (Cfr. a riguardo Le categorie dell’impolitico, cit., p. 225). ↩︎

  66. L’Iliade o il poema della forza, cit., p. 43. ↩︎

  67. Cfr. a riguardo Simone Weil et le tragique de la force, cit., pp. 224-225:« Il n’y a pas de “mesure” ou de “proportionnalité” des moyens et des fins qui soit inhérente à la force, ou compatible avec son usage. Tout pouvoir est abus de pouvoir, toute contrainte est cruauté, et la “justice” inhérente à la guerre ne réside que dans la réversibilité inéluctable de ses rapports de force». ↩︎

  68. «Tale è la natura della forza. Il potere che essa possiede di trasformare gli uomini in cose è duplice, e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica in modo diverso, ma in egual misura, le anime di coloro che la subiscono e di coloro che la maneggiano» (L’Iliade o il poema della forza, cit., p. 54). ↩︎

  69. A. Manzoni, Adelchi, Garzanti, Milano 2007, atto V, scena VII. ↩︎

  70. Perciò E. Balibar parla de “la circulation de l’excès et de la présomption entre les adversaire qui les assujettit à un destin désastreux dont ils sont eux-mêmes les instruments aveugles” (Simone Weil et le tragique de la force, cit., p. 222). ↩︎

  71. In merito cfr. più approfonditamente Segni, idoli e simboli, cit., pp. 110- 118 dove la Tommasi si dilunga particolarmente sul valore delle mediazioni simboliche. ↩︎

  72. La Weil si rifà al termine platonico per designare la dimensione sociale totalitaria e idolatrica. ↩︎

  73. S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, tr. it. di F. Fortini, con uno scritto di G. Gaeta, SE, Milano 1990, p. 96. ↩︎

  74. Nel senso etimologico di ab-solutus, sciolto da ogni legame. ↩︎

  75. La persona e il sacro, cit., p. 20. ↩︎

  76. Ibidem, p. 43. Sul tema cfr. in particolare il saggio Attesa di Dio, contenuto in L’amore di Dio e la sventura, cit., pp. 171-189. ↩︎

  77. Cfr. ibidem, p. 45: «lo spirito di giustizia e di verità non è altro che quella particolare specie di attenzione che è puro amore». ↩︎

  78. S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, tr. it. di A. Marchetti in “In forma di parole”, n.s., anno II, n. 2 (1991). Cito dalla raccolta di testi weiliani curata da G. Gaeta, Simone Weil. Pagine scelte, con un saggio di G. Gaeta, Marietti, Bologna 2009 (testo alle pp. 111-130). ↩︎

  79. Ibidem, p. 112. ↩︎

  80. Sulla violenza in quanto «vuoto d’un vuoto capace di contaminare e annientare tutto lo spazio su cui si esercita» e sulla guerra come «cieca lotta tra ciechi» cfr. anche Le categorie dell’impolitico, cit., pp. 226-228. ↩︎

  81. Non ricominciamo la guerra di Troia, cit., p. 127. ↩︎

  82. Cfr. anche quanto dice in Meditazioni sullobbedienza e sulla libertà, in S.Weil, Incontri libertari, Elèuthera, Milano 2001: «da una tale situazione deriva, per ogni uomo sollecito al bene pubblico, uno strazio crudele e senza rimedio. Partecipare, anche da lontano, al gioco delle forze che muovono la storia non è assolutamente possibile senza imbrattarsi o senza condannarsi in anticipo alla disfatta. Rifugiarsi nell’indifferenza o in una torre d’avorio è ancora meno possibile senza una grande incoscienza». ↩︎

  83. Quaderni, cit., I, p. 247. ↩︎

  84. Quaderni, cit., II, p. 100. ↩︎

  85. «Leggere senza passione. Ora, quando si legge ciò che la passione suggerisce, non ce ne rendiamo mai conto […]» (Ibidem, pp. 247-248); cfr. anche Quaderni, cit., II, p. 268: “«è l’attaccamento a produrre in noi la falsa realtà (realtà surrogato) del mondo esteriore. Per giungere alla realtà reale è necessario abolire in noi la realtà surrogato». ↩︎

  86. Quaderni, cit., I, p. 268; cfr. anche Ibidem, p. 296: «l’uomo che sospende la forza di gravità sugli altri ha un sentimento di elevazione». ↩︎

  87. «Un male che non posso evitare di compiere, se non compiendone uno più grande, non sono io a compierlo, è la necessità. [Non è dato all’uomo fare il bene, solo allontanare dal male]» (Ibidem, p. 273). ↩︎

  88. Quaderni, cit., I, p. 275. Cfr. anche quanto detto alla pagina precedente: «non è che non si abbia scelta, bensì che, se ci si colloca in un dato momento, non si ha più scelta. Non si può più fare diversamente; è vano sognare di fare diversamente; ma è bene elevarsi al di sopra di ciò che si fa. Così si sceglie, per un momento successivo, qualcosa di meglio». ↩︎

  89. Sul rapporto tra la figura di Arjuna e, come suo rispettivo completamento, quella del Cristo cfr. M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 88-89. ↩︎

  90. Quaderni, cit., II, pp. 129-130. ↩︎

  91. «La fredda brutalità dei fatti di guerra non è mascherata da nulla, perché né i vincitori né i vinti sono ammirati, disprezzati, odiati» (L’Iliade o il poema della forza, cit., p. 59). Innegabile qui la lezione spinoziana del «riguardo alle cose umane, non ridere, non piangere, non indignarsi. Ma capire». ↩︎

  92. Simone Weil et le tragique de la force, cit., p. 232. ↩︎

  93. L’Iliade o il poema della forza, cit., p. 61. Così la Weil associa l’angoscia del Cristo sulla croce al grido straziante degli sventurati e dei supplicanti di Omero. Ma nota giustamente Balibar come il carattere distintivo dell’Iliade consista nel suo carattere corale, nel mettere in scena una moltitudine di voci che, solo apparentemente diverse (per genere, per grado sociale, per potere etc.), in realtà manifestano e rivelano, pur dai rispettivi frangenti, l’unica e comune (dunque universale) condizione dell’essere umano stretto dal giogo della necessità. Da questa raffigurazione si può quindi intravedere, in filigrana, il profilo muto dell’equità (cfr. Simone Weil et le tragique de la force, cit., p. 235). ↩︎

  94. G. Gaeta, Sotto l’imperio della forza: l’Iliade letta da Simone Weil, contenuto in idem, Le cose come sono: etica, politica, religione, Libri Scheiwiller, 2008, p. 103. ↩︎

  95. Cfr. a riguardo anche G. Zanardo, Volontà e attenzione: un percorso di apprendistato, contenuto in AA.VV. Simone Weil, la provocazione della verità, Liguori, Napoli, 1990, dove la dismisura è precisamente ricondotta all’infrangersi dell’equilibrio tra corpo e pensiero (in particolare pp.71-72). ↩︎

  96. Quaderni, cit., I, p. 283. ↩︎

  97. Poiché «nell’immediato e nell’individuale, tutto è ugualmente vero», mentre la realtà è costituita dall’accordo delle letture su piani molteplici (Ibidem, p. 337). ↩︎

  98. «Supplica: tentativo disperato di trasmettere allo spirito altrui la propria nozione dei valori. Compresa cosi, non ha nulla di basso. Ma quasi necessariamente inefficace. Dovere di comprendere e pesare il sistema di valori altrui, con il proprio, sulla stessa bilancia. Forgiare la bilancia» (Quaderni, cit., I, p. 199). ↩︎

  99. Ibidem, p. 253. ↩︎

  100. Cfr. a questo proposito Le categorie dell’impolitico, cit., pp. 243-244. Cfr. anche W. Tommasi, Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997, pp. 95-99, dove viene approfondito il «legame disgiuntivo» tra teologia e politica. È il ricorso alla forza, naturale e inevitabile nelle relazioni umane a far intravedere, per differenza, l’altro lato, ovvero l’amore di Dio che non fa né subisce violenza — qua la Weil riprende la terminologia platonica del Simposio dove Amore viene appunto definito come colui che non patisce né esercita violenza. ↩︎

  101. Riprendo ora alcune cautele già espresse nell’Introduzione. Il tema qui affrontato risulta essere particolarmente complesso e variamente articolato, andando difatti a toccare tanto gli scritti weiliani dedicati alla giustizia quanto quelli inerenti la sua concezione della politica — peraltro non raramente condizionati dalle attuali condizioni storiche. Non è qui possibile compiere una completa ed esaustiva ricognizione del tema. Cercherò quindi di limitarmi a quel frangente più direttamente coinvolto con il particolare taglio che ho voluto dare a questo lavoro: quello relativo al riconoscimento. Per una ricostruzione più completa del tema rimando, giusto per fare un esempio, al bel testo di T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006. ↩︎

  102. Che la critica weiliana alla logica del diritto sia essenzialmente ancorata alla sua concezione metafisica è quanto sostiene M. Vëto nel suo già citato La metafisica religiosa: « Il “non avere diritti” implica che non si conta niente: per Simone Weil questa condizione non è la conseguenza di una qualsiasi degradazione, ma l’espressione stessa della verità della nostra condizione» (p. 31). ↩︎

  103. La persona e il sacro, cit., p. 49. ↩︎

  104. Ibidem, p. 38. ↩︎

  105. W. Tommasi, “Al di là della legge”. Diritto e giustizia nell’ultima Weil, in Putino-Sorrentino (a cura di), Obbedire al tempo. L’attesa nel pensiero filosofico politico e religioso di Simone Weil, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 78. ↩︎

  106. Bisogna infatti tenere mantenere la contraddizione tra il fatto che «l’uomo è un animale sociale» e che al contempo «la società è il male» (Quaderni, cit., III, p. 157). ↩︎

  107. Riferimento al volume di M. Cascavilla, Il diritto insufficiente e necessario, Giappichelli, Torino 2003 citato in La bilancia e la croce, cit., p. 127, nota n. 14. ↩︎

  108. «Non si tratta di sopprimere i diritti dell’uomo; essi tuttavia possono servire solo a patto di ripensarne radicalmente la natura e il fondamento. Attraverso la nozione di obbligo la condizione umana pone le sue garanzie nel punto di contatto tra la realtà di questo mondo e la realtà soprannaturale, perché per mezzo di essa il riconoscimento di una realtà trascendente si traduce nel gesto di rispetto che l’uomo rivolge all’altro uomo» (La bilancia e la croce, cit., p. 150). ↩︎

  109. S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, con uno scritto di G. Gaeta, ES, Milano 1990. ↩︎

  110. Ibidem, p. 13. ↩︎

  111. Quaderni, cit., II, p. 182. Perciò, secondo la pensatrice francese, è innanzitutto fondamentale che il campo sociale venga ripulito — per quanto possibile — da ogni fonte che possa inquinare il giudizio individuale, ovvero tutte le fabbriche delle passioni collettive che impediscono la corretta lettura del reale e, quindi, l’autentico legame tra consenso e giustizia. ↩︎

  112. S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957. ↩︎

  113. Quaderni, cit., III, p. 270. ↩︎

  114. Écrits de Londres, cit., p. 81. ↩︎

  115. Ibidem, p. 66. Cfr. a riguardo Il radicamento della giustizia, capitolo conclusivo de La bilancia e la croce, cit., pp. 155- 171. ↩︎

  116. La prima radice, cit., p. 49. ↩︎