La modernità recidiva e l’attualità del pensiero di Romano Guardini

1. Il cuore del problema

Come definire l’epoca in cui viviamo? Che nome darle alla luce di quelli che potremmo individuare come suoi elementi costitutivi? E quale ritratto di uomo ne può emergere come suo protagonista? Tentando di rispondere, non è per nulla facile trovare un nome proprio che la definisca nella sua essenza positiva. Certamente non è un argomento nuovo. Se ne è già parlato molto e sono tanti gli appellativi che, da punti di vista diversi, vengono utilizzati per definire la nostra epoca. Ancora vivo è il dibattito sul postumanesimo e recentemente si è tornati a parlare di antropocene. Eppure, in una prospettiva ampia che cerchi di cogliere a tuttotondo i nostri tempi, il nome che si impone è ancora postmodernità. Anche questo concetto non è nuovo né di recente formazione. Non è, inoltre, un nome che definisce in positivo e direttamente l’epoca, ma solo a partire dall’essenza dell’epoca moderna rispetto alla quale i nostri giorni sono quelli che vengono dopo. Al di là di una semplice notazione cronologica, questo nome continua ad imporsi perché ad esso è ancora riconducibile ogni altro nome ipotizzabile. La modernità nella sua struttura di fondo è tragicamente fallita e si sono dimostrate tragiche illusioni quelle che essa al suo sorgere offriva come speranze e promesse. Per gli spiriti più lungimiranti ciò si è reso evidente per lo meno a partire dal primo conflitto mondiale e non mancarono, già negli anni precedenti, segni premonitori dell’imminente catastrofe della civiltà europea. È facile pensare ai grandi capolavori di Dostoevskij1 e al loro potente spirito profetico, nonché ad alcune pagine di Nietzsche.2 Gli importanti rivolgimenti della storia vengono sempre prima registrati e preannunciati dai grandi spiriti che ne percepiscono il dramma prima del loro verificarsi. Il genio si dimostra sempre profeta, forse per quella legge della storia per cui «è nelle zone segrete della coscienza, attraverso l’oscura dialettica degli ideali e delle passioni, che si elabora il destino del mondo, e le forze nuove che fecero crollare gli imperi sono quelle stesse che ogni uomo affronta nelle tenebre del suo cuore complice».3 Ormai un secolo ci separa da quel conflitto, un secolo, non è difficile vederlo, in cui si sono tragicamente moltiplicati i segni e le evidenze che attestano la fine dell’epoca moderna e della sua cultura. «Le grandi speranze illuministiche sono tutte crollate. Le antinomie della ragione sono esplose: niente giustifica questa cruenta storia umana che cola sangue. […] Ogni tentativo di sistemare “scientificamente”, oppure ideologicamente, la storia è fallito».4

Noi continuiamo ad essere immersi in questo fallimento. Non siamo ancora il «futuro di un’epoca disordinata, ma ormai trascorsa» e quindi non possiamo ancora farne il «quadro» come auspicava Dostoevskij.5 Certamente tanti sono stati i progressi e i miglioramenti in svariati campi. Eppure una nuova epoca e una nuova civiltà non sono ancora nate, ancora non si è affermata una nuova cultura. Il risultato è che continuiamo a vivere in una sorta di stagnazione, di impasse. Il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica hanno segnato il fallimento dei totalitarismi, definibili come l’ennesimo tentativo, apparentemente l’ultimo — si tratta infatti di un rischio e di un pericolo che non scomparirà mai dalla storia rimanendo sempre una tentazione umana — di costruire il palazzo di cristallo e la torre di babele,6 una società perfetta frutto esclusivamente della volontà e delle mani dell’uomo. Sappiamo bene quanta tragica disumanità sia costata questa storia a chi ha dovuto subirne la barbarie. Sono questi i risultati e gli effetti paradossali delle speranze umanistico-rinascimentali.7 Eppure, dalle ceneri dei totalitarismi è emersa, nel mondo occidentale, la società opulenta8 del boom economico e delle illusioni derivanti da una certa idea di ricchezza e di benessere che, in modo più subdolo e mellifluo rispetto ai tentativi fin troppo palesemente violenti dei totalitarismi, ha continuato a incamerare gli uomini nelle masse organizzate e controllate, non più di soldati ma di consumatori.

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari […] continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli […]. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. […] Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese […]. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto […] i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. […] Da ciò deriva […] una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. […] È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. […] Il fascismo […] non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione […], non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata bruttata per sempre.9

Ciò che Pasolini denunciava negli anni Settanta si è imposto come la cifra essenziale degli anni seguenti fino ai nostri giorni, con una crescita esponenziale degli strumenti a disposizione per incrementare questa dinamica. La crisi economica degli ultimi anni, con le sue conseguenze di ordine politico, ha infranto il sogno del benessere palesando il fallimento anche del capitalismo, ennesimo tentativo, soft e quindi più meschino, di costruzione della torre di babele. Ma con occhio leale possiamo vedere come la crisi economico-politica e lo stato d’animo angosciato che ne deriva siano solo l’aspetto più superficiale di una crisi in cui l’uomo di oggi sente, se attento, di essere sprofondato. È una crisi radicata nella coscienza di un uomo che ha smarrito i fondamenti della propria identità e che quindi non riuscirà a liberarsi dal senso di angoscia che lo attanaglia quand’anche venissero risolti i complicati problemi economico-sociali. All’interno della nostra civiltà ci dibattiamo ormai da anni tra una mentalità, quella moderna, figlia di un’epoca che è fallita e una mentalità e un’epoca che ancora non viene alla luce perché non decidiamo di farla nascere. Nel frattempo, ancora troppo dipendenti dal nostro passato, ci accontentiamo di parvenze e illusioni perché i sintomi della modernità tornano a manifestarsi in maniera recidiva trovando terreno fertile nella debolezza delle nostre coscienze. Basti pensare alle nuove tecnologie, ultimo miraggio di cui subiamo il fascino, che in svariati campi promettono, come già tante volte è accaduto in passato, risultati straordinari e definitivi rinnovando l’illusione di tanto scientismo positivista. Si parla molto, ma è solo un esempio tra tanti, della grande promessa, nel campo della medicina, di un allungamento considerevole della vita media.10 Il punto è che nonostante la storia abbia palesemente e ripetutamente dimostrato il fallimento della mentalità moderna, essa è ancora la mentalità dominante, per lo meno presso la maggioranza delle persone comuni. È sufficiente chiedere all’uomo medio come viene ancora inteso oggi il lavoro, come si pensa al denaro, su quali basi si instaurano i rapporti sociali e interpersonali, quale sia il concetto di dignità, quale sia l’importanza del successo, come viene intesa la salute, come si guarda alla politica, fino a capire quale significato si dà ai concetti di scienza e scientificità, ragione, esperienza, per vedere come la nostra mentalità non si allontana di molto da quella del borghese medio della seconda metà dell’ottocento. Proprio quella mentalità tragicamente naufragata lungo il XX secolo.

2. Cultura e civiltà

È necessario a questo punto operare un chiarimento circa il significato di due termini che, usati spesso come sinonimi, indicano invece due livelli differenti dell’esperienza umana: cultura e civiltà. È possibile usare il termine cultura come sinonimo di mentalità, modo di essere e di esistere, visione del mondo e della propria esistenza nel mondo. Intesa in tal modo ogni epoca ed ogni popolo ha sempre sviluppato una propria cultura. In questi termini possiamo parlare di cultura moderna intendendo la mentalità propria di un certo tipo di uomo in un’epoca determinata e confrontarla o contrapporla a tipi di cultura differenti. Tutto ciò è legittimo, ma occorre andare un po’ più in profondità per giungere ad avere un criterio che ci permetta di giudicare una cultura, qualunque essa sia. Infatti, «la sola misura con cui si possa validamente giudicare un’epoca è il sapere fino a che punto l’esistenza umana si è sviluppata nella sua pienezza, giungendo secondo le proprie particolarità, al suo vero significato».11 Non possiamo comprendere il concetto di cultura se non in rapporto alla natura. Esso infatti «trae origine dall’esperienza della collaborazione che ha luogo tra il contadino e la terra».12 Cultura infatti è un participio futuro e ci indica ciò che deve essere circondato di cure, che deve essere coltivato; «un lavoro organico, di cura e protezione di ciò che deve nascere».13 Il concetto di natura indica a sua volta, come insegna la tradizione ellenica, l’essenza di una cosa, ciò in virtù di cui una cosa è in un determinato modo e procede secondo una precisa dinamica (entelècheia). Anche il termine natura è un participio futuro. Ciò sta a significare che questa essenza, già nata, deve ancora svilupparsi nella sua pienezza; è ciò che, per ogni ente, costituisce la pienezza della sua essenza che è già ma non ancora. In termini aristotelici possiamo definirla come l’atto che deve ancora realizzare, attualizzare, tutta la sua potenzialità. Allora «l’uomo di cultura è l’uomo che consente a tutto di crescere secondo l’ordine adatto all’identità di ogni essere ed aiuta questa crescita».14 Si può parlare di collaborazione perché la cultura non si contrappone alla natura ma vive in simbiosi con essa. Nella sua essenza cultura significa rispetto dell’ordine dato — il kòsmos dei Greci — e cura perché questo ordine possa realizzarsi nella sua pienezza. Evidentemente, ogni epoca storica può esprimere nelle modalità che più sente proprie questo rispetto e sviluppare nel modo che ritiene più opportuno questa cura. Ogni epoca può promuovere una propria cultura che si distingue per la particolarità delle sue forme espressive, non certo per la sua essenza perché si potrà ritenerla davvero una cultura solo se si tratterà di una forma di rispetto e di cura: cultura naturae. Per civiltà possiamo intendere invece «tutto un complesso di istituzioni — nel senso ampio del termine — create dagli uomini per facilitare e […] rendere possibile a se stessi sia la vita individuale che quella sociale».15 È l’insieme delle forme concrete che vengono costruite dall’uomo e che tende a costituirsi come contraltare della natura.

Diventa allora fondamentale capire l’importanza del nesso tra cultura e civiltà. Una civiltà infatti sarà uno spazio umano, un alveo adeguato allo sviluppo dell’uomo, solamente se nasce da una autentica cultura cioè dalla cura per la natura e dal rispetto del suo ordine. Ogni forma di cultura, autentica o inautentica, si concretizza in una civiltà. Quest’ultima, per sua natura si realizza nell’insieme delle forme e delle strutture prodotte dall’uomo perché ogni civiltà è «una certa tecnica di strutturazione della vita»16 che nasce in relazione a quelli che vengono riconosciuti come «bisogni, i quali decidono che cosa è utile e che cosa non lo è, che cosa dà diletto e che cosa crei fastidi».17 Di conseguenza il valore di una civiltà dipende direttamente dall’autenticità o meno della cultura da cui nasce. Dalla cultura autentica, qualunque sia la forma e la modalità della sua espressione, nascerà sempre una civiltà culturale,18 una civiltà che esprime nelle strutture e nelle istituzioni prodotte un rapporto autentico tra uomo e natura. Da una cultura inautentica, cioè dal tradimento19 dell’ordine della natura, nasce inevitabilmente una civiltà che si assolutizza nelle sue strutture perdendo il legame con la natura e surclassando la cultura da cui è nata. È la civiltà a dover dipendere dalla cultura e non viceversa. C’è invece una tendenza della civiltà, quanto più è funzionale, a prendere il sopravvento sulla cultura e sul suo lavoro di riflessione sulla natura. Il valore della civiltà, allora, non risiede più nella cultura da cui nasce, ma in se stessa e nelle sue produzioni. «Dal lavoro che è cultura nasce la civiltà, dalla produzione propria della civiltà nascono tante altre cose ma non la cultura».20 L’autenticità della cultura sta o cade esclusivamente nel rispetto dell’ordine della natura. L’ordine della civiltà è invece costruito dall’uomo che può tenere conto o meno, nella sua libertà, dell’ordine naturale. In una civiltà che si assolutizza recidendo il cordone ombelicale con l’autenticità della cultura «l’uomo […] introduce dovunque il proprio ordine, come se dappertutto trovasse unicamente una realtà grezza».21 In questo modo la civiltà non prende più le mosse dall’essere dell’uomo e dalle sue espressioni più profonde ma si appiattisce su ciò che un certo tipo umano, dimentico della propria struttura ontologica e della realtà in cui vive, chiama utile, su un concetto di bisogno che, non essendo più misurato sulla natura, diventa ipertrofico. Questo tipo di civiltà che corre dietro all’utile e al dilettevole non può essere uno spazio umano in cui si alimenta l’essere dell’uomo che invece consiste nell’anelito alla verità, alla bellezza e al bene.

La civiltà nasce in relazione ai bisogni […]. La cultura invece è determinata non dal bisogno di questo o di quell’oggetto, bensì dal desiderio di ciò che i Greci chiamavano il bello e il bene. Il bonum honestum assoluto, posto al di sopra della civiltà e manifestantesi nel bello […] costituisce l’essere della creatura umana.22

La civiltà che si assolutizza dopo essere nata dal tradimento di una cultura inautentica, sfugge dalle nostre mani. L’uomo produce l’ordine della civiltà ma quando questa si assolutizza ne perde il controllo e ne diventa un ingranaggio se non proprio la vittime. L’uomo, per natura chiamato ad essere il soggetto della storia, perde il controllo – potere – della civiltà che ha creato. Non lo cede ad un soggetto nuovo o diverso perché è la stessa civiltà che da oggetto prodotto dall’uomo tende a trasformarsi in soggetto. La civiltà svela così il suo volto più minaccioso: man mano che assume dimensioni sempre più grandi cessa di essere un oggetto. Ma, insieme di forme prodotte dall’uomo e puro risultato della tecnica, non potrà che essere un soggetto anonimo e impersonale: un «soggetto tecnico».23 Rispetto ad esso possiamo solamente constatare e subire gli effetti della sua forza e del suo operare trovandoci in esso come in una sorta di labirinto. Quella della civiltà figlia della tecnica è semplicemente una soggettività formale che però, grazie alla sua forza, ha smesso di essere uno strumento umano finalizzato all’espressione della cultura e a causa dell’inautenticità che opta per l’utile, si trasforma nell’unica soggettività possibile di fronte alla quale la nostra è annichilita. Una civiltà simile non potrà che continuare a produrre e riprodurre se stessa perché vive solo nella modalità della continua produzione: produrre per produrre.24 Essa sostituisce il lavoro proprio della cultura — cercare la verità per fare il bene — con la semplice produzione di oggetti che cresce con enorme rapidità e sempre maggiore efficienza non avendo altro scopo che la produzione stessa. «Verrebbe voglia di chiamarla […] produttura, per contrasto con la cultura».25 La produzione, fattore essenziale di questa civiltà, toglie sempre più facilmente all’uomo la possibilità e la forza per il lavoro culturale e provoca stagnazione e degrado della coscienza senza della quale non è possibile nessuna novità. Questa evoluzione della potenza della civiltà a partire da una cultura inautentica dà l’impressione di essere qualcosa di autonomo che si sviluppa da se stessa. Guardini definisce demoniaca questa potenza.[^26] Ciò che dipende dalla libertà dell’essere umano e dalle sue scelte deve necessariamente rientrare nella sfera della sua responsabilità e del suo controllo. Se per la debolezza di un uomo che ne smarrisce il controllo o per il suo esplicito rifiuto ciò non avviene, la civiltà che è stata da lui prodotta non viene riassorbita dalla natura né rimane una struttura semplicemente a nostra disposizione ma «qualcosa di anonimo ne prende possesso».26 Ecco il demoniaco. Ciò che a partire dalla materia del mondo viene prodotto dall’uomo esce dalla sfera sicura dell’ordine naturale senza però ergersi a seconda natura capace di offrire la stessa sicurezza. Credere che al contrario ciò sia possibile è una forma di semplicismo e di infantilismo largamente diffusosi nell’epoca moderna a causa del suo ottimismo scientista. L’uomo moderno non si è assunto la responsabilità della potenza sprigionata dalla civiltà che via via andava producendo. Ha pensato di poter «semplicemente possedere la potenza e di usarne in piena sicurezza».27 Ciò dimostra l’inautenticità della sua posizione culturale.

La cultura indica che le realtà naturali accedono al mondo della libertà e vi acquistano una potenzialità di nuovo genere. In essa si liberano possibilità di azione completamente nuove, e proprio queste sono in pericolo e provocano catastrofi, se dall’uomo non vengono inserite nell’ordine voluto, cioè nell’ordine morale e personale.28

3. «La fine dell’epoca moderna» e «Il potere»

La domanda di partenza si chiarifica. Ciò a cui si assiste ormai da troppi anni è la crisi della civiltà europea per come si è sviluppata a partire dalla cultura moderna. Questa civiltà ha raggiunto nella nostra epoca un livello critico mentre la cultura da cui è nata è decisamente fallita dimostrando la sua essenziale inautenticità. Ci ritroviamo a vivere in una civiltà ipertrofica che soffoca anche la cultura da cui è nata. Nello stesso tempo la cultura moderna ormai disillusa rispetto alle speranze del suo sorgere è recidiva nei suoi tentativi estremi di continuare ad affermarsi. Rispetto a tutto questo colpisce molto come due testi di Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna e Il potere, scritti rispettivamente nel 1950 e nel 1951, siano ancora oggi di una attualità disarmante.

L’epoca moderna è sostanzialmente giunta al proprio termine. La catena di reazioni che essa ha provocato si prolunga ancora, poiché evidentemente le epoche storiche non si contraddistinguono così come le singole fasi di una indagine scientifica; mentre un’epoca domina, già si prepara la successiva, e quella che l’ha preceduta esercita ancora a lungo il suo influsso. […] nell’epoca che sentiamo avanzare da ogni parte e a cui non possiamo ancora dare un nome, l’età moderna giunge alle sue ultime conseguenze, sebbene ciò che di questa età moderna rappresenta l’essenza, non determini più l’autentico carattere della pagina della storia che sta per aprirsi.29

I quasi settant’anni che ci separano da queste parole hanno visto emergere tante novità non prevedibili forse negli anni cinquanta del novecento che però non hanno detto nulla di nuovo né di decisivo sulla questione di fondo. Per descrivere la nuova situazione umana e storica nata dalla dialettica tra moderno e postmoderno, Guardini ne individua i tratti distintivi nella triade Soggettività-Natura-Cultura,30 della cui deriva paghiamo ora le conseguenze. La struttura umana fondamentale è ancora, oggi come allora, la massa strettamente legata alla tecnica.

Ora, in correlazione con la tecnica, entra in gioco una diversa struttura che non ha più come sua base l’idea della personalità creatrice che edifica il proprio io, ovvero l’idea del soggetto autonomo. Ciò diviene evidente nella sua forma più radicalmente opposta: l’uomo della massa. […] una struttura umana che è legata alla tecnica e alla pianificazione. […] Essa non rappresenta il grande numero delle forme particolari non sviluppate ma potenziali, ma si colloca a priori in una diversa struttura: nella legge di normalizzazione, ordinata alla forma funzionale della macchina.31

La maggiore potenza delle risorse tecniche odierne rende tutto ciò ancora più evidente. Come non notarlo rispetto a quel fenomeno globale e globalizzante che è il web e al suo potere positivo e nel contempo omologante e massificante? Senza parlare della capacità di controllo di intere popolazioni permessa da questi strumenti. Ciò segna il tramonto definitivo dell’idea, fondamentale per la mentalità moderna, di personalità quale soggetto autonomo,32 al punto che oggi l’individuo «si inserisce spontaneamente nell’organizzazione, che è la forma della massa, ed obbedisce al programma, poiché è questo il modo secondo cui si regola l’uomo senza personalità».33. Eppure l’uomo di oggi, che vive inevitabilmente in una situazione di massificazione omologante, si sente ancora attratto dal concetto moderno di soggettività autonoma e aspira ancora a distinguersi come personalità che possa spiccare rispetto all’ambiente circostante. Viviamo dipendendo ancora dagli ultimi residui di mentalità moderna che ha perso la sua vitalità ma che resta comunque la causa della situazione attuale la quale, anche solo per i numeri e gli spazi — reali e virtuali — è caratterizzata da un tale conglobamento34 che distrugge l’umano.

A ciò si ricollega […] il carattere oggettivo del nuovo uomo. Esso significa da un lato volontà e capacità di dedicarsi, senza riguardo per i sentimenti soggettivi, ai singoli compiti che divengono sempre più grandi e pericolosi, e anche pudore di mostrare sentimenti più profondi, anzi del solo lasciarli sviluppare, in una vita che si svolge in forme sempre più pubbliche. Ma esso significa anche una crescente incapacità di sentimento; una progressiva freddezza del cuore; una indifferenza nei rapporti con gli uomini e con le cose della vita. Caratteristico è anche quel surrogato che viene sostituito in larga misura all’autentico sentimento: la sensazione; eccitazione violenta, ma superficiale, che afferra sull’istante e rapidamente svanisce e non ha né fecondità né durata.35

Ciò rende sempre più urgente e necessaria «una trasformazione strutturale nell’esperienza dell’io».36 Siamo di fronte ad un bivio, c’è una decisione da prendere: o continuiamo a lottare e dimenarci per inseguire il sogno di distinguerci come personalità eccezionali capaci di autonomia e indipendenza, spesso con risultati ridicoli, oppure accettiamo la nuova struttura della vita adattandoci ad essa. Certo, non per soccombere alla massa e scomparire passivamente in essa, ma per concentrarci sul nostro «intimo io e per salvare anzi tutto ciò che è essenziale».37 All’idea di personalità e al suo inevitabile scomparire nei meccanismi perversi della massificazione, Guardini contrappone la necessità di recuperare l’idea di persona.

Non è senza significato che il termine personalità tenda sempre più a scomparire dall’uso quotidiano e sia sostituito dal termine persona. Quest’ultimo ha un carattere quasi stoico. Non si applica ad uno sviluppo, ma dà una definizione. Non designa qualche cosa di ricco, di straordinario, ma qualche cosa di limitato e austero, che tuttavia deve essere mantenuto e sviluppato in ogni individuo umano. Indica quel carattere di unicità che non procede da disposizioni speciali o dal favore di determinate situazioni, ma dall’appello di Dio. Affermarlo o imporlo non è arbitrio o privilegio, ma fedeltà al dovere fondamentale dell’uomo. Qui l’uomo si arma contro il pericolo minaccioso che proviene e dalla massa e dalle collettività, per salvare anzitutto quel minimo, che solo ancora gli permette di conservare la sua qualità di uomo. Di qui dovrà partire la riconquista dell’esistenza attraverso l’uomo e per l’uomo, che rappresenta il compito del divenire.38

La massa può allora apparire sotto una nuova luce. Oltre gli aspetti evidentemente negativi e disumanizzanti si intravede anche un carattere positivo o per lo meno una importante possibilità consistente nello «sforzo risoluto»39 e nel rischio di superare la vecchia mentalità aprendosi alla nuova struttura umana che ci minaccia per riprendere coscienza del fatto umano fondamentale: l’essere persona.

Invece dunque di protestare contro l’avvento delle masse, in nome di una cultura fondata sulla personalità, sarebbe più giusto domandarsi in che consistono i problemi umani di questa massa. Essi consistono nel sapere se il livellamento del grande numero condurrà alla perdita della sola personalità o anche a quella della persona. La prima eventualità è accettabile, non la seconda.40

Rinunciando alla vecchia idea della personalità e affrontando il pericolo insito nella massa può riemergere con rinnovata chiarezza che cosa sia persona, e la possibilità per l’individuo di giungere ad una nuova maturità. La massa, dunque, come struttura umana fondamentale, porta in sé un grave pericolo e una enorme possibilità. Il concetto di pericolo richiede una breve riflessione perché si presenta come un elemento essenziale della situazione dell’uomo massificato ma anche come una categoria fondamentale della post-modernità, forse quella che meglio la descrive. Lo sviluppo che ha incrementato le dinamiche di massificazione portando ad una modifica nella percezione della soggettività dell’uomo moderno ha prodotto anche una profonda modifica nella percezione e concezione della natura.41

L’uomo ordinato alla tecnica […] non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio. La vede senza ipotesi, obiettivamente, come spazio e materia in cui realizzare un’opera nella quale gettarsi tutto, e non importa che cosa ne risulterà. Un’opera di carattere prometeico, in cui è in causa l’essere o il non essere.42

Non abbiamo più la percezione della natura affermatasi a partire dall’umanesimo e dalle varie forme di naturalismo rinascimentale. Non ci sentiamo più avvolti in quell’unica sostanza vivente di cui noi saremmo parte indistinta secondo le varie forme di monismo panteista che si sono susseguite lungo tutto il corso dell’epoca moderna, da Bruno a Spinoza fino ad Hegel e al suo capovolgimento in Marx. Non avvertiamo più «il mondo come un tutto in cui [sentirci] al sicuro».43La tecnica è diventata il campo e l’espressione di questo nuovo atteggiamento che possiamo definire ancora finitismo titanico44 al pari di quello già manifestatosi in età moderna, ma disincantato, disilluso, senza nessuna spinta ottimistica, senza speranza. Smarrito ormai un rapporto con la natura che potesse essere in qualche maniera positivo e garantire una forma di rispetto nei suoi confronti, ciò che rimane nelle nostre mani è una accresciuta e impressionante capacità di dominio del mondo. Sterminate possibilità di costruzione, ma anche e soprattutto di distruzione. A questo livello si palesa il pericolo che domina la civiltà postmoderna. La sua origine sta proprio nel potere sulla realtà che ci circonda, quel potere che costituisce, in fondo, «la base di ogni costruzione culturale».45 Per l’uomo moderno ogni accrescimento di potere sul reale era considerato di per sé positivo e quindi un progresso nell’utilità in vista del benessere. Ciò che però, in conseguenza di tale atteggiamento, dimenticava o forse, per una certa slealtà, non voler vedere, è che il potere è un fenomeno polivalente. Non è di per sé e automaticamente un progresso ma assume il valore dell’idea che lo regge e quindi dipende dai fini per i quali lo si utilizza. La modernità dimostra di non aver educato se stessa al retto uso del potere «mentre nel corso dei tempi moderni il potere su ciò che esiste, uomini e cose, si è accresciuto in misura immensa, la serietà della responsabilità, la chiarezza della coscienza, la forza del carattere, non si sono mantenute al livello di quell’accrescimento».46 Tale accrescimento di potenza ha prodotto una rottura della misura e dell’equilibrio nel rapporto dell’uomo con se stesso, con la natura e con la propria esperienza. Il raggio della possibilità di azione dell’uomo va ormai ben al di là del raggio della sua esperienza immediata. La dinamica per cui nel corso del secolare sviluppo gli strumenti si sono frapposti fra la mano dell’uomo e le cose, impedendo il contatto diretto, si è incrementata al punto che ormai la distanza tra la mano e la cosa è divenuta incommensurabile.

Quello che [si intendeva] con il termine natura […] comincia a retrocedere nell’inaccessibile. […] Ora la natura diviene lontana, in senso assoluto, e non consente alcun rapporto diretto. […] questa natura non si può più neppure sentire, se non con un sentimento attenuato al limite massimo; come ciò che è assolutamente estraneo, al di là della nostra esperienza e della nostra parola.47

Anzi, l’uomo opera e agisce sempre più su parti di realtà di cui non fa più esperienza diretta, con conseguenze tutt’altro che lievi.48 Per non parlare della possibilità alla portata di tutti di costruire un mondo e una esperienza virtuali in cui fare completamente a meno della realtà, creandone una parallela. Questo tipo di uomo e la natura di cui ormai non fa più esperienza vengono definiti «uomo-non-umano» e «natura-non-naturale», non intendendo con ciò un giudizio morale ma cercando solo di definire la struttura che si è prodotta storicamente con la fine dell’epoca moderna. Si tratta di una struttura umana fondamentale che afferma una esperienza dell’uomo e della natura decisamente al di là della misura normale entro cui venivano naturalmente vissuti il proprio io e le cose del mondo.49 La cultura che ne deriva viene di conseguenza definita «cultura-non-culturale», indicando in questo modo, la profonda distanza che separa la visione del mondo attuale dalla cultura moderna. Se con cultura intendiamo ciò che è stato prodotto dai secoli moderni allora oggi abbiamo a che fare con qualcosa di sostanzialmente diverso. Non viviamo più in un atteggiamento di fiducia infantile nel progresso di una ragione razionalisticamente intesa. Occorre però qui registrare la stessa contraddittoria e paradossale dinamica già rilevata circa il concetto di personalità. Sebbene la storia abbia ampiamente dimostrato quanto sia illusoria e dannosa la fede cieca nel progresso come soluzione ai tanti problemi dell’uomo e al problema umano in quanto tale, essa resta ancora un elemento presente e trainante per la maggioranza che vive, così, in un’epoca nuova ma attrezzata con strumenti obsoleti. Non occorre una particolare sensibilità per cogliere l’evidente anacronismo. Infatti, «comprendiamo […] sempre più chiaramente che l’epoca moderna si è illusa»,50 ed è evidente che l’idea moderna di autonomia su cui poggia la fede nel progresso conduce ad una posizione umana e culturale inaccettabile.

Noi non possiamo più accettarla, come si è fatto nei tempi moderni, come spazio di vita essenziale e sicuro ordinamento di vita. Per noi essa non è più assolutamente […] espressione della verità dell’esistenza. Anzi ci sentiamo in disaccordo con essa. […] perché la sua volontà fondamentale e la sua immagine ideale sono false. Perché non è più assolutamente possibile avere nell’opera dell’uomo, e nemmeno in quella della natura, quella fiducia che si aveva nell’epoca moderna.51

La cultura moderna ha smarrito l’uomo52 lasciandolo in balia del potere che organizza le masse utilizzando la tecnica. La caratteristica fondamentale della nostra nuova cultura, se tale possiamo definirla, è il rischio, il pericolo. Ad uno sguardo ancora una volta leale essa non appare come calma e rassicurante conquista ma come caratterizzata essenzialmente da una profonda e preoccupante pericolosità. Questo pericolo sempre più grande di cui possiamo prendere coscienza deriva, ad esempio, da quella sorta di «trascuratezza» o di «incoscienza» che abbiamo «nel modo di trattare ciò che esiste». E non si tratta di un pericolo di ordine semplicemente materiale ma investe l’uomo, come singolo e come comunità, nella sua struttura più profonda. «L’uomo si trova in una situazione concreta, che egli teme: vive sotto il segno della minaccia, del pericolo, è di fronte a degli ostacoli. Il problema fondamentale, che precede tutti gli altri, è sapere se sarà ancora possibile essere puramente e semplicemente umani, se sarà cioè ancora possibile vivere una vita umana».53 Ciò dipende da quella cultura che negli ultimi secoli ha generato il particolare sviluppo della tecnica.

[…] l’uomo tiene in pugno in buona parte gli effetti immediati della natura. Egli ha il potere sulle cose, ma non ha, esprimiamoci con maggiore fiducia, non ha ancora potere sul proprio potere. L’uomo è libero e può usare il suo potere a suo piacimento […]. Che cosa garantisce il retto uso? Nulla. Nulla può garantire che la libertà prenda la decisione giusta. […] un esame senza pregiudizi […] deve constatare che manca una formazione del carattere che renda effettivamente verosimile il giusto uso della potenza. Non esiste ancora un’etica dell’uso della potenza.54

Il pericolo insito per natura nella libertà umana sembra giunto ora di fronte ad un’ultima sfida55 che, con una particolare urgenza, mette in gioco non semplicemente il futuro dell’uomo ma tutto il suo destino. La nostra libertà è interpellata al punto tale che ci troviamo a vivere adesso «ai margini di un pericolo che minaccia tutta l’esistenza e continuamente cresce»56 e sembra che ciò si trasformerà nella nostra condizione perenne. Il problema centrale della nostra cultura è dunque la questione del controllo e retto uso della potenza. Senza fare sensazionalismo giocando con frasi ad effetto, dobbiamo dire che l’idea di una «catastrofe globale» non è una ipotesi lontana o irrealizzabile.57 Tutto ciò sembra assumere un carattere escatologico nel senso che siamo alla questione finale, ci avviciniamo alla fine, ovviamente in senso essenziale più che temporale: «la nostra esistenza giunge al traguardo della opzione assoluta e delle sue conseguenze: delle possibilità più alte e dei pericoli estremi».58 Ancora una volte il fantasma di Nietzsche, con la minaccia del nichilismo, fa sentire il suo peso sulle nostre coscienze, pone la vera sfida dell’età postmoderna e necessita una riposta.59

4. Radicalità della crisi e lotta per una ascesi

Individuata quindi l’essenza della post-modernità, si chiarifica il senso della crisi in atto, il suo senso profondo e non solo superficiale. Nella crisi intesa solo come condizione generatrice di timori c’è qualcosa di infantile. Riducendo il cuore della nostra situazione semplicemente all’insieme delle paure si finisce quasi per ritenere che sia una sorta di necessità storica a decidere di noi. Terminata la spinta propulsiva di una certa configurazione della nostra civiltà sorge la paura per il che cosa ne sarà di noi. Allora il residuo di mentalità moderna con cui viviamo è abbastanza forte da spingerci a cercare soluzioni che si dimostrano però provvisorie perché non fanno altro che illudersi di cercare una nuova configurazione all’interno però dello stesso schema di civiltà che tende a ripetersi. L’apparente ma temporanea efficacia di tali soluzioni trasforma allora la paura infantilistica in una gioia o addirittura euforia altrettanto infantilistiche e temporanee. Nonostante l’angoscia si continua a vivere, paradossalmente, della fede nel potere salvifico dello schema moderno di civiltà, ricercandone al massimo una riorganizzazione che allontani il pericolo che ci minaccia per l’esaurirsi delle capacità della vecchia configurazione. Questo non rende assolutamente giustizia al significato greco e originale della parola crisi. Nell’esperienza autentica della crisi l’infrangersi della fiducia in una configurazione storica di una data civiltà è solo una primo momento e non certamente l’unico. Ad esso deve accompagnarsi la comprensione di ciò che accade, per cui l’uomo che vive nella crisi non chiede solo, in preda al panico, che cosa ne sarà di lui ma anche e soprattutto che cosa ne è di lui adesso. Tale comprensione conduce al lavoro del giudizio, che può essere dato solo in base all’affermazione di un senso e di un valore dell’esistenza umana quale criterio ultimo; un lavoro che deve scendere in profondità per giungere agli strati più intimi e sorgivi dell’essere umano. Solo questo può permetterci di opporci con coscienza a ciò che sembra presentarsi con i caratteri di una catastrofe. La crisi è allora un fenomeno della coscienza perché solo nella lucidità di una coscienza vigile è possibile una crisi autentica. Non è, quindi, del tutto corretto parlare di crisi rispetto ad una civiltà. Una civiltà non va in crisi se non in riferimento al superamento delle sue strutture tecniche su cui si è fatto affidamento per un certo tempo e che adesso non risultano più efficienti. È solo la coscienza, e dunque la cultura autentica, che può andare in crisi nel momento in cui si accorge che la civiltà in cui vive non è più (o magari non lo è mai stata) uno spazio umano. Ci si accorge d’un tratto che

[…] le costruzioni nelle quali abita non sono altro che costruzioni, che esse cambiano, mentre egli è e permane. […] l’uomo va in crisi quando si desta in lui la consapevolezza della sua realtà personale, ossia la coscienza. Come se passasse da una evidenza e una evidenza diversa, dall’evidenza delle sue opinioni a quella della coscienza; il che non avviene senza fatica.60

Nella paura angosciosa data dalla situazione odierna, vissuta però con coscienza all’interno di un’autentica esperienza della crisi, emerge con chiarezza la rischiosa pericolosità della struttura esistenziale che abbiamo costruito. Ma, al di là di quanto tutto ciò possa sembrare oggi amplificato per i tanti problemi che ci attanagliano, non bisogna dimenticare che «quel pericolo sta nell’uomo, in senso assoluto, e non è esclusivamente connesso al tempo che sopraggiunge; la giusta posizione può essere solo quella di accettare la situazione che ci è data e di dominarla dall’interno».[^62] Allora la crisi è un momento strutturale dell’esistenza umana e si connette allo sviluppo e alla presa di coscienza della nostra identità. È il momento della inevitabile maturazione della coscienza, della metànoia e del nuovo inizio, sempre necessari se si vuole davvero diventare uomini. Nel concetto di crisi si controbilanciano perfettamente il pericolo e la possibilità. Ciò ci permette di evitare qualsiasi falso pessimismo e ci richiama all’esigenza di una nuova maturità.61 D’altronde è questa la più grande possibilità che ci viene dal nostro essere immersi nel flusso storico. La storia è sempre un inizio perché ricomincia con ogni nuovo uomo che viene alla luce, con ogni generazione, che dovrà decidere quale posizione prendere rispetto a ciò che gli viene offerto dalla tradizione. «La misura in cui si realizza [questo nuovo possibile inizio] è cosa propria di ogni individuo e di ogni tempo. La storia ricomincia nuovamente con ogni uomo, e ricomincia ad ogni ora, in ogni vita di uomo. Ed ha, perciò, in qualsiasi momento, la possibilità di cominciare di nuovo, da quell’inizio che qui è stato posto».62 La grande e sorprendente attualità delle parole di Romano Guardini sta nella certezza che ogni crisi, nella sua pericolosità, può trovare una soluzione positiva che, però, fa appello a tutte le migliori forze dell’uomo e innanzitutto alla libertà che, per natura, è sempre e comunque portatrice della speranza di optare per il bene.

Credo alla possibilità di una soluzione positiva. Non nel senso liberale, secondo cui tutto andrà in fine per il meglio ed ancor meno nel senso storicistico e dialettico, secondo cui ciò che avviene si muove necessariamente verso una meta migliore. Pensare così compromette anzi ogni soluzione positiva; poiché non mette in causa quello che in definitiva importa, la responsabilità dell’uomo libero. E io penso che questa libertà porta con sé la speranza di condurre la storia lungo il sentiero positivo.63

Si tratta di una responsabilità personale e di un compito da assumersi che si concretizza principalmente in un lavoro di autodifesa, di educazione e rieducazione, che deve condurci a riconquistare il carattere originale del nostro essere. È una opzione decisiva che deve assumere una forma realistica come «rapporto con ciò che sta per sopraggiungere».64 Ciò vale rispetto alla questione della natura, dell’uomo e quindi della cultura in generale. La nostra esistenza e la nostra cultura, soprattutto nella prospettiva del futuro, devono necessariamente costruirsi in rapporto e in dialogo con «l’uomo-non-umano» e la «natura-non-naturale» per non soccombere nei loro pericoli. Per descrivere questo lavoro Guardini utilizza una parola per noi dimenticata o, se usata, ricoperta da una coltre di pregiudizio ideologico: ascesi. Una parola invece che, fuori da ogni diatriba di tipo ideologico, indica semplicemente il lavoro che l’uomo da sempre e per natura dovrebbe compiere su di sé rispetto alla sua esperienza nel mondo. Una parola, inoltre, che indica l’altezza come direzione naturale del cammino umano.65

Ascesi significa che l’uomo tiene se stesso nelle proprie mani. Perciò deve riconoscere nel suo intimo il male ed affrontarlo in modo efficace […] deve educarsi a possedere in libertà i suoi beni e sacrificare le cose inferiori a quelle più alte. Deve lottare per la libertà e la sanità del suo interno […]. La strada, il traffico, il giornale, la radio, il cinema impongono compiti di autoeducazione, anzi della più elementare autodifesa, che in gran parte non sono neppure sospettati, e tantomeno chiariti ed affrontati. Dappertutto l’uomo capitola di fronte alle forze della barbarie: l’ascesi significa che egli non deve capitolare, ma combattere e al posto decisivo, cioè contro se stesso.66

Tutto ciò implica, ovviamente, una rinnovata consapevolezza della responsabilità dell’uomo, smarrita dall’uomo moderno mentre inseguiva il suo sogno di autonomia.

Nulla dà aiuto all’uomo: egli deve volgersi nuovamente alla verità […] deve attuare la metanoia che porta a salvezza. […] l’uomo è il responsabile del corso della storia e di ciò che diviene l’esistenza del mondo e dell’uomo stesso. Egli può agire bene o può errare, e per far bene deve essere nuovamente pronto a quella condotta che già Platone aveva riconosciuto come il compendio del dovere umano: la giustizia, ovvero la volontà di riconoscere l’essenza delle cose e di fare ciò che è giusto di fronte ad essa.67

La rinnovata coscienza della propria responsabilità e la decisione per la giustizia si accompagnano ad un rinnovato significato del concetto di governo. La storia non procede da se stessa ma attraverso la decisione dell’uomo che ne è il protagonista, il soggetto, e genera sempre nuovi inizi. Il mondo non va avanti automaticamente, meccanicisticamente, come tanto determinismo moderno si è sforzato di affermare e credere, ma insieme alla storia deve essere guidato e l’uomo può e deve farlo prendendo l’iniziativa. Il governare riguarda un atteggiamento umano, morale e spirituale che interessa ogni singolo individuo in ciò che fa e nel posto che occupa, e deve essere determinato dalla chiara coscienza delle proprie radici culturali e dell’immagine del mondo futuro che stiamo costruendo, dalla chiara coscienza che il mondo è affidato esclusivamente a noi, a ciascuno di noi singolarmente. Ciò si accompagna alla consapevolezza dell’immenso potere a disposizione dell’uomo nell’opera di costruzione, che deve necessariamente essere regolato dalla responsabilità. Se è vero che la storia ha la magnifica caratteristica di poter ricominciare sempre, ad ogni istante, venendo continuamente decisa da ogni nostra singola azione, noi, però, raramente ne siamo consapevoli attribuendo questo potere alle nostre scelte personali. Chi normalmente lega il piccolo gesto che sta compiendo nell’istante con l’immagine del mondo in costruzione? Quasi mai, nelle varie circostanze della vita, valutiamo il valore delle azioni che decidiamo di compiere, anche le più semplici, in base alle possibili conseguenze, magari enormi, su ciò che sarà il mondo domani. Invece è solo per questa possibilità che può nascere una nuova struttura umana, una nuova cultura che sia all’altezza dei pericoli dei nostri tempi e che renda l’uomo capace di governare le sue immense possibilità di dominio.

Da qui la speranza che sia in divenire un uomo che non soggiaccia alle forze scatenate, ma sia capace di ricondurle nell’ordine. Che sia capace non soltanto di esercitare un potere sulla natura, ma anche un potere sul proprio potere, ordinandolo al senso della vita […] impedendo che ogni cosa crolli nella violenza e nel caos.68

L’immagine di uomo capace di prendere questa decisione dando inizio ad un’epoca nuova è quella di una persona che comincia ad avere una nuova percezione del potere non più concepito come bene in sé, oggetto da conquistare a tutti i costi, al di là di ogni conseguenza, in vista del benessere, ma regolato dalla responsabilità del domino e del governo. Un soggetto che instaura un rapporto nuovo con la tecnica, non più acritico ma consapevole del suo valore e quindi lontano da un rifiuto semplicistico. Un uomo che semplicemente sa vivere nella tecnica in maniera umana e quindi decide responsabilmente circa le modalità del suo utilizzo, avendo chiara coscienza del pericolo. Questa nuova struttura umana si fonda sul recupero di alcune virtù che, rinnovate, andranno a formare l’ossatura della posizione umana nell’esistenza di fronte alla realtà.

La virtù dominante sarà anzitutto la serietà imposta dalla verità. […] questa serietà vuol sapere che cosa è realmente in gioco in mezzo a tutte le chiacchiere sul progresso e sulla penetrazione del mistero della natura; e prende su di sé la responsabilità imposta dalla nuova situazione.

La seconda virtù sarà il coraggio. […] che prende posizione di fronte al caos minacciante. […] deve affrontare il nemico universale: il caos che sale nell’opera stessa dell’uomo. […] esso avrà contro di sé i molti, l’opinione pubblica, la non-verità condensata negli slogan e nelle organizzazioni.

Dobbiamo aggiungere un terzo elemento: la libertà. Libertà interiore dalle catene della violenza in tutte le sue forme; dal potere suggestionante della propaganda […] dalla sete del potere, dalla sua ebbrezza e dal suo carattere demoniaco. Questa libertà può essere raggiunta solo attraverso una vera educazione […]. L’uomo deve imparare a divenire signore di sé superandosi […] e diverrà così anche signore della sua potenza.69

Di questa pagina fondamentale sottolineo soprattutto quella che viene indicata come la prima virtù in gioco, che dovrà essere dominante: «la serietà imposta dalla verità». La si deve intendere come una rinnovata forma di realismo, proprio quel realismo così bistrattato e rifiutato dalla filosofia moderna. Riemerge con urgenza il bisogno di sapere di nuovo quale sia il vero volto del reale, secondo un atteggiamento dominato dalla lealtà nei confronti della verità in «obbedienza alla natura delle cose».70 Perché l’uomo possa riconoscere la misura della propria responsabilità ed assumere il governo del proprio potere deve innanzitutto «riconquistare il giusto rapporto con la verità delle cose»71 e quindi riscoprire e accettare il legame che lo vincola alla verità dell’essere perché responsabilità è rispondere delle proprie scelte di fronte al tribunale della Verità. «Si può fondare una grande speranza sulla forza di questo leale indagare e riconoscere, che fa parte del nuovo realismo».;72

5. Un nuovo filosofare

Cosa c’entri quanto finora detto con l’esperienza del filosofare forse appare già chiaro. Lungo tutta la parabola dell’epoca moderna e per il suo atteggiamento inautentico, il filosofare ha subito una crisi che in realtà dura tuttora. Si tende quasi ad affermare che la post-modernità sia anche un’epoca post-filosofica, soprattutto in riferimento al filosofare per come era inteso dalla tradizione classica. Di fronte al massiccio sviluppo delle scienze e agli importanti successi della tecnica il filosofo moderno si è lasciato prendere da una sorta di complesso di inferiorità. L’enorme avanzamento della scienza ha colpito nel vivo un tipo di uomo che, pur continuando ad affermare determinati concetti, era esistenzialmente debole e non viveva più l’autenticità dell’esperienza filosofica. Il dubbio cartesiano diviene la condizione esistenziale da cui si pretende far scaturire il pensiero.

Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumazein dei Greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è. […] Proprio come da Platone e Aristotele fino all’età moderna, la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è stata l’articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio.73

A causa di questa moderna forma di dubbio e del derivante complesso di inferiorità, il filosofare è caduto vittima dello scientismo: non sapendo più essere se stesso, per potersi legittimare ha preteso di elevarsi ad un più alto livello di scientificità rimodellandosi sull’atteggiamento e sul metodo delle scienze naturali. In questo modo si è ottenuto però un grave smarrimento del suo senso profondo e in particolare della sua portata teoretica e speculativa. Il lògos, ha perduto la sua profondità e sono così caduti in discredito, quando non vengano addirittura ridicolizzati, le sue più importanti questioni e le sue più alte intuizioni. La differenza tra il lògos greco e la ragione moderna è enorme. Ne è un esempio l’immagine usata da Locke per cui la ragione è come la sonda con cui il timoniere verifica la profondità del mare: conoscendone la lunghezza può dirigere la rotta evitando i bassifondi, ma sarebbe inutile tentare di conoscere con essa la profondità del mare. La ragione ci guida, al massimo, nelle piccole questioni pratiche della vita, ma non può esserci d’alcun aiuto circa i problemi di fondo del filosofare.74 Ne deriva che post-modernità vuol dire anche post-metafisica. Riappropriarsi dell’esperienza dell’autentico filosofare rivivendolo in prima persona vuol dire ricollocarsi nel corretto rapporto tra il lavoro che è la cultura e la natura, riconquistare il sano atteggiamento di fronte alla realtà attraverso quel cammino rieducativo che porta l’uomo a riprendere coscienza dei «fatti elementari della sua esistenza».75 Un rinnovato senso della responsabilità nel pericolo si accompagnerà inevitabilmente ad una revisione dell’attuale rapporto tra l’io e le cose e dei presupposti su cui si ritiene che questo rapporto si basi. Una nuova coscienza della responsabilità si riflette necessariamente anche sull’atteggiamento filosofico dell’uomo. Si richiede con urgenza un cambiamento della visione del mondo e quindi un cambiamento di ciò che si intende per esperienza del filosofare che possa farci uscire da tutte le aberrazioni della filosofia moderna di cui portiamo ancora i segni nella mentalità. Restaurare un sano rapporto con la realtà è il compito proprio del filosofare oltre e più che delle singole scienze. Questo intento porta alle più nobili esperienze che la filosofia possa vivere perché proprio da qui si giunge al cuore della questione: imparare a guardare di nuovo con lealtà e realismo le cose.

Dobbiamo dunque anzitutto renderci conto di quello che si chiama atteggiamento contemplativo, ma rendercene conto, non solo parlarne in modo interessante. […] Dobbiamo inoltre porci nuovamente la domanda elementare circa l’essenza delle cose. […] le cose hanno una propria natura […]. Delle cose non si può fare quello che si vuole […] si possono trattare le cose solo in modo corrispondente al loro essere, altrimenti si preparano delle catastrofi.76

Per tutto ciò, le parole pronunciate da Cornelio Fabro nel 1964, perfettamente in linea con il pensiero di Guardini, rimangono ancora gravide di verità: «nessun tempo come il nostro, che ha dato fondo a tutte le illusorie e vane parvenze della temporalità, può essere più vicino alla speranza essenziale e additare alla filosofia la sua missione originaria di tornare ad essere guida a saggezza e conforto nella lotta per la fondazione della libertà».77 È il compito perenne dell’autentico filosofare, che mette inevitabilmente l’uomo di fronte alle enigmatiche evidenze ed esigenze della sua natura, quel nucleo profondo e vitale che continua ad agitarsi nell’uomo fino a quando non trova la propria vera soddisfazione.

  1. R. Guardini, La fine, cit., pp. 82-83 .

  2. R. Guardini, Il potere, cit., pp. 157-158.


  1. In Delitto e castigo, I demoni, L’adolescente e I fratelli Karamazov si rintracciano con evidenza i sintomi della modernità giunta alla sua fase terminale. Cfr. N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002. Nel 1923 Berdjaev in Nuovo Medioevo, Fazi Editore, Roma 2004, a proposito della crisi della modernità parlava di fine del rinascimento. Cfr. R. Guardini, Dostojevskij. Il mondo religioso, Morcelliana, Brescia 2000. ↩︎

  2. Cfr. F. Nietzsche, Perché io sono un destino, in Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 1991, pp. 127 ss. Come Dostoevskij, Nietzsche è uno dei principali interlocutori di Guardini che ha costantemente presente la problematica nietzscheana fin dagli anni della Juventus e dal tentativo di elaborazione di Der Mensch agli inizi degli anni trenta. È necessario confrontarsi con Nietzsche per tentare di dare una risposta convincente alle sue obiezioni in quanto il suo attacco e il nichilismo, quale esperienza esistenziale e decisione teoretica, incarnano il reale punto di arrivo della cultura moderna e la soglia obbligata verso il postmoderno. Cfr. M. Borghesi, Introduzione a R. Guardini, L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, Opera Omnia vol. III/2, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 36-47. Se però a Dostoevskij e ad altri autori Guardini è riuscito a dedicare delle grandi monografie, il suo confronto con Nietzsche è stato caratterizzato da un approccio frammentario che non ha portato alla stesura di un’opera compiuta. Cfr. S. Zucal, Introduzione a R. Guardini, Filosofia della religione. Esperienza religiosa e fede, Opera Omnia vol. II/1, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 35-36. ↩︎

  3. H. Daniel-Rops, Storia della Chiesa del Cristo, vol. IV-1, Marietti, Torino 1960, p. 109. ↩︎

  4. V. Tonini, La scienza della vita, Jouvence, Roma 1983, p. 182-183. ↩︎

  5. F.M. Dostoevskij, L’adolescente, Mondadori, Milano 2000, p. 656: «[…] questi tipi, in ogni caso, sono ancora cosa attuale, e proprio per questo non possono essere artisticamente compiuti. […] Oh, quando sarà passato il giorno d’oggi e sarà cominciato il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime perfino per rappresentare il disordine e il caos passati.». ↩︎

  6. Cfr. H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 221-311. ↩︎

  7. Cfr. N. Berdjaev, Nuovo medioevo, cit., pp. 4-7: «La modernità, che sta giungendo alla propria fine, venne concepita all’epoca del Rinascimento. Noi oggi stiamo assistendo alla fine del Rinascimento. […] qualcosa che somiglia alla fine di tutta un’epoca della storia universale. […] La fine del Rinascimento è precisamente la fine di quell’umanesimo che era la sua base spirituale. […] Da tempo il sentimento umanista dell’esistenza ha perso la sua freschezza; si trova ormai in uno stato di disfacimento, e non è più possibile viverlo con la passione di quando l’umanesimo era nella fase della sua giovanile effervescenza. […] La fede nell’uomo e nelle forze autonome che lo sostenevano è lacerata profondamente. […] L’umanesimo non ha rafforzato l’uomo, lo ha debilitato. Questa è la paradossale conclusione dell’epoca moderna. […] e che tragica differenza tra l’inizio e la fine di questa storia! […] La storia moderna è un’impresa che ha fallito, che non è riuscita a glorificare l’uomo, come lasciava sperare. Le promesse dell’umanesimo non sono state mantenute. L’uomo è terribilmente stanco […].». ↩︎

  8. J.K. Galbraith, La società opulenta, Ed. di Comunità, Milano 1963; A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 2010; F. Rodano, Cristianesimo e società opulenta, Ed. di Storia e letteratura, Roma 2002. ↩︎

  9. P.P. Pasolini, Scritti corsari, 9 dicembre 1973, Garzanti, Milano 1975. Cfr. R. Guardini, Il potere, Morcelliana, Brescia 1993, p. 175: «Non sottovalutiamo la forza storica di tali esperimenti [i regimi totalitari] tanto più che in tutta la struttura della vita odierna, nella sua razionalizzazione e meccanizzazione, nella tecnica di orientare le opinioni, e nelle possibilità pedagogiche, si ritrova uno stimolo continuo ad imitarli. Questo stimolo può operare anche se è contraddetto dalle idee ufficialmente riconosciute, perché è sovente il nemico che detta i metodi ed i metodi sono spesso più forti delle idee.». ↩︎

  10. M. Kaku, Fisica del futuro. Come la scienza cambierà il destino dell’umanità e la nostra vita entro il 2100, Codice, Torino 2012; R. Kurzweil, T. Grossman, Fantastic voyage: live long enough to live forever, Rodale, 2004. ↩︎

  11. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993, p. 29. ↩︎

  12. S. Grygiel, L’uomo visto dalla Vistola, Ed. CSEO, Bologna 1982, p. 74. ↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Ivi, p. 73-74. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. Ivi, p. 75. ↩︎

  18. Ibidem↩︎

  19. Il tradimento si realizza a causa dell’isolamento di un frammento del reale concreto elevato a essenza della realtà tutta, conseguenza del venir meno della capacità naturale dell’uomo di avere coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori e della scelta arbitraria di uno di essi come l’unico valido. ↩︎

  20. S. Grygiel, L’uomo, cit., p. 75. ↩︎

  21. Ivi, p. 74. ↩︎

  22. Ivi, p. 75. ↩︎

  23. Ivi, pp. 82-83. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Ivi, p. 88. ↩︎

  26. Ibidem↩︎

  27. Ibidem↩︎

  28. Ivi, p. 84. ↩︎

  29. R. Guardini, Il potere, cit., pp. 113-114. ↩︎

  30. Cfr. S. Zucal, cit., pp. 39-42. ↩︎

  31. R. Guardini, La fine, cit., pp. 59-60. ↩︎

  32. Cfr. Ivi, p. 43 ss. ↩︎

  33. Ivi, p. 61: «Per tale uomo non si può più parlare di personalità e di soggettività […] Egli non ha affatto la volontà di essere particolare nella sua struttura ed originale nella sua condotta, né di crearsi un ambiente che si accordi totalmente a lui. Egli anzi accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come si sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto questo sia ragionevole e giusto. […] Ancora più, questa struttura umana è portata dal proprio istinto a non distinguersi in quanto individuo, ma a rimanere anonima […].». ↩︎

  34. Ivi, p. 62. ↩︎

  35. R. Guardini, Il potere, cit., p. 155. ↩︎

  36. R. Guardini, La fine, cit., p. 62. ↩︎

  37. Ivi, p. 63. ↩︎

  38. Ibidem↩︎

  39. Ivi, p. 64. ↩︎

  40. Ivi, p. 65. ↩︎

  41. Cfr. ivi, p. 40 ss. ↩︎

  42. Ivi, pp. 57-58. ↩︎

  43. Ivi, p. 57; pp. 55-56: «[…] si delinea un mutamento nei rapporti con la natura. L’uomo non la sente più come una meravigliosa pienezza, un’armonia che tutto abbraccia, un ordine saggio, benigno e generoso, a cui egli può abbandonarsi fiducioso. Non si parla più di madre natura; la natura appare piuttosto come qualche cosa di straniero e pericoloso.». ↩︎

  44. R. Guardini, Dostoevskij, Il mondo religioso, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 211-218. ↩︎

  45. Cfr. R. Guardini, La fine, cit., p. 81. ↩︎

  46. Ibidem↩︎

  47. Ivi, pp. 70-72. ↩︎

  48. Cfr. S. Grygiel, L’uomo, cit., p. 88: «La civiltà si chiude nell’astrazione. Ogni giorno che passa facciamo misurazioni più esatte; esse però non parlano delle cose, ma della relazione tra grandezze definite che si rapportano l’una all’altra funzionalmente. Lo sviluppo della civiltà tecnica ci allontana dalla terra, sì che a volte dubitiamo della possibilità di tornare ad essa. Ci sembra che si dovrà volare così negli spazi di un cosmo vuoto. Dico vuoto perché non c’è in essi ciò che i Greci chiamavano il κόσμος. Siamo emigranti della terra.». ↩︎

  49. Cfr. Ivi, pp. 68-70: «[…] il campo di azione dell’uomo coincideva con il suo campo di esperienza. Ciò che egli abbracciava erano in sostanza le cose della natura come le poteva vedere, udire, afferrare con i sensi. […] Ma poi i rapporti si trasformano. Il campo della conoscenza, della volontà, dell’azione umana supera […] l’ambito della struttura immediata dell’uomo. Si trasformano perciò i suoi rapporti con la natura. Perdono la loro immediatezza […] l’uomo non è più capace di farne esperienza e si limita a calcolare e a controllare.». ↩︎

  50. Ivi, p. 76. ↩︎

  51. Ivi, pp. 76-77. ↩︎

  52. H. De Lubac in Il dramma, cit., p. 49 ss, parla di dissoluzione dell’uomo↩︎

  53. C. Moeller, L’uomo moderno di fronte alla salvezza, Borla, Torino 1967, p. 12. ↩︎

  54. R. Guardini, La fine, cit., pp. 87-88. ↩︎

  55. Impressiona come ciò si sia reso evidente, fin dai primi segni della crisi della modernità e prima della lunga serie di sviluppi tecnici che hanno aumentato la nostra potenza, nell’opera di Dostoevskij. Certo il grande genio russo non poteva sapere che i demoni avrebbero assunto il volto attuale della potenza tecnica ma aveva colto come la partita si sarebbe giocata, come sempre e drammaticamente, al livello della decisione della libertà. È un dramma costante nella storia dell’uomo anzi, il dramma per eccellenza che oggi diviene estremamente urgente. Cfr. N. Berdjaev, La concezione, cit., passim↩︎

  56. R. Guardini, La fine, cit., p. 88. ↩︎

  57. Cfr. R. Guardini, Il potere, cit. p. 171. ↩︎

  58. R. Guardini, La fine, cit., p. 109. ↩︎

  59. È notevole che nel progetto originario di Guardini La fine dell’epoca moderna e Il potere dovessero far parte di una trilogia il cui capitolo finale doveva essere un volumetto su Nietzsche che doveva svolgere una riflessione su potere e nichilismo. L’opera non vedrà mai la luce e di esso rimane un dattiloscritto inedito nel Nachlass. Cfr. S. Zucal, Romano Guardini e la metamorfosi del religioso tra moderno e post-moderno, Quattroventi, Urbino 1990, pp. 347-351 da cui si evince anche il particolare rapporto di congenialità e distanza tra i due pensatori. ↩︎

  60. S. Grygiel, L’uomo, cit., pp. 88-89. ↩︎

  61. Cfr. R. Guardini, La fine, cit., p. 91. ↩︎

  62. R. Guardini, Il potere, cit., pp. 143-144. ↩︎

  63. Ivi, p. 179. ↩︎

  64. R. Guardini, La fine, cit., p. 73. ↩︎

  65. Che cosa racconta Platone con il mito della caverna se non un processo di ascesi? Cfr. Repubblica, VII, 514 A ss. ↩︎

  66. R. Guardini, Il potere, cit., p. 200; 214-215. ↩︎

  67. Ivi, p. 190. ↩︎

  68. Ivi, p. 196. ↩︎

  69. R. Guardini, La fine, cit., p. 90. ↩︎

  70. R. Guardini, Il potere, cit., p. 202. ↩︎

  71. Ivi, p. 207. ↩︎

  72. Ivi, p. 203. ↩︎

  73. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2008, p. 203. ↩︎

  74. Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 30. ↩︎

  75. R. Guardini, Il potere, cit., pp. 208-210. ↩︎

  76. Ivi, pp. 211-213. ↩︎

  77. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Edivi, Roma 2013, p. 8. ↩︎