Recensione ad Andrea Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza

Andrea Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, Il Prato, Padova, 2007, 204 pp.

È di recente uscito un testo che si propone di raccogliere, oggi, la sfida metafisica che il filosofo di Elea ha lasciato duemilacinquecento anni fa al pensiero occidentale. In continuità con la prospettiva neoparmenidea di E. Severino a cui fa esplicito «riferimento come base e presupposto» del suo stesso discorso (p. 13), per Sangiacomo ritornare a Parmenide non è una semplice operazione storica o storiografica, ma significa ritornare alle origini della nostra cultura, là dove si sono compiute le scelte che hanno determinato la nostra società, il nostro modo d’essere e di pensare. L’intento, pienamente riuscito, è non solo sottolineare la forza argomentativa del discorso ontologico, ma soprattutto riscoprirne la perenne attualità ponendo il lettore di fronte all’alternativa: con Parmenide o contro Parmenide. L’Occidente ha scelto il parricidio e si è avviato sulla via che lo ha condotto al dominio tecnologico, Sangiacomo propone, invece, l’altra via, quel sentiero del Giorno, che conduce alla Rinascenza: la denuncia della civiltà di oggi e del suo nichilismo si traduce così nel tentativo di emendare innanzitutto il linguaggio per liberare il pensiero dai suoi errori.

Il libro è costituito da quattro saggi strutturalmente indipendenti ed autonomi che rimandano ad un unico disegno teoretico: sia che si tenti di chiarire il problema della phýsis nella filosofia delle origini («Sulla Natura», pp. 7-72) o le finalità del filosofare («Osservazioni sulla storia della filosofia», pp. 133-201), sia che si affronti il problema del destino umano («Essere, Dramma, Destino», pp. 73-110) o quello della parola e del suo significato («Fondamenti di ontologia della parola», pp. 111-122), ci si ritrova, comunque, a parlare dell’Essere come del fondamento. È intorno a questa verità originaria che tutto ruota: «L’Essere proclama […] che oltre a sé c’è solo niente, ovvero l’Essere stesso è la totalità del positivo che non lascia niente fuori di sé ed esaurisce nella sua parola tutto ciò che può esser pensato e detto» (p. 16). E si può ripetere con Parmenide e Severino, che l’Essere è, mentre il nulla non è.

Per chiarire queste tesi di fondo e mostrare che, per quanto complesso, il discorso ontologico non è mera formula astratta, ma, al contrario, ci riguarda molto da vicino, è forse opportuno suggerire, a chi si accosta a questo testo, una chiave di lettura. Ne «La sfida di Parmenide» emergono tre diversi ambiti tematici, strettamente correlati ma chiaramente distinguibili: una lettura storica del problema dell’Essere, la «fondazione» del discorso ontologico, l’individuazione delle nuove prospettive aperte dalla riscoperta del senso dell’Essere.

Il punto di partenza è di ordine storico: «l’elemento necessario e sufficiente per determinare qualcosa come filosofia» è «il discorrere sull’Essere. Ma l’Essere può assumere almeno tre aspetti diversi: questa cosa che è, l’insieme delle cose che sono, l’Essere in sé» (p. 136). Se Parmenide parlava dell’Essere in quanto Essere, il pensiero occidentale da Platone in poi si è rivolto all’ente e ha dimenticato il senso dell’Essere. Quando «si intende l’Essere puramente come l’essere di questo ente, ebbene allora è necessario compiere il parricidio, lasciarsi alle spalle Parmenide e strutturare un pensiero che sappia ammettere nell’Essere il divenire» (p. 154). Come già Severino, sulle tracce di Heidegger, anche Sangiacomo può allora denunciare il nichilismo occidentale come identificazione di Essere e nulla: «Per Severino la fede fondamentale in cui cresce l’Occidente è la persuasione che dell’Essere, di ciò che è ente, si possa dire che può essere un niente» (p. 161). La storia della filosofia occidentale matura in questo fraintendimento, finché Nietzsche, il profeta del nichilismo, rivela in tutta chiarezza l’esser niente dell’ente. Ma se Nietzsche rappresenta «il momento in cui massimamente il pensiero si allontana da se stesso e la filosofia tocca il fondo della sua negatività, ebbene, allora non può che seguire un ritorno» (p. 157). Se si può dire che il nichilismo è «un medio-evo, un’età di mezzo […] non pare eccessivamente forzato applicare all’epoca del nichilismo quella divisione interna che la storia umana applica anche al medioevo storico, ovvero la distinzione tra un alto nichilismo e un basso nichilismo» (p. 157): l’alto nichilismo è rappresentato dalla denuncia nietzschiana della «morte di Dio», il basso nichilismo dalla riflessione heidegeriana sull’essere dell’ente. Sangiacomo può altresì affermare, e in questo consiste l’originalità della sua interpretazione storica, che il nichilismo sta oggi tramontando in una nuova Rinascenza che inizia proprio con il filosofare di Emanuele Severino che è

testimone di una guerra, è voce di una lotta inaudita e di una fatica immensa: la fatica dell’Essere che torna a farsi vedere, sollevando il velo pesantissimo con cui venticinque secoli di dimenticanza l’hanno ricoperto. Questo filosofare porta in sé il segno più evidente della lotta che ha compiuto, porta iscritto nella sua essenza il nome della guerra: «opposizione» è la parola che chiama per nome questa essenza (p. 164).

Delineata, in questi termini, la storia della filosofia come storia del disvelamento o del nascondimento dell’Essere, si finisce col chiedersi se, superato il nichilismo, è sufficiente (posto che è comunque necessario) definire l’Essere come non-niente.

È da questa domanda che occorre ripartire oggi, ed è questa la strada che La sfida di Parmenide intende intraprendere.

Il discorso si sposta dal piano puramente storico a quello metafisico della ricerca del fondamento, quando si tenta di proseguire l’insegnamento di Severino e, sulle sue tracce, affrontare la sfida dell’Eleate. Rifacendosi a suggestioni heideggeriane (l’Essere come Logos, «raccoglimento originario»), Sangiacomo afferma che l’Essere è relazione: «l’Essere si lega all’Essere e, contemporaneamente, l’Essere è legato all’Essere» (p. 44). Due sono le conseguenze: una è che solo il non-essere, quale negazione dell’Essere, è negazione di ogni relazione e «rifiuta per definizione ogni legame» (p. 43); l’altra, strettamente correlata alla prima, è che si deve ammettere nell’Essere una molteplicità di differenze. Il parricidio, l’inclusione platonica della molteplicità nell’Essere, è così giustificato sulla base della stessa definizione dell’Essere: «dire che ‘l’Essere è’implica vedere a un tempo nell’Essere quell’elemento agente che tiene unito il molteplice, sia la molteplicità passiva delle differenze che si lasciano raccogliere dall’Uno in un tutto» (p. 46). Si può sostenere, dunque, in termini quasi spinoziani, che nessuna cosa esiste di per sé, sostanziata come un sinolo, ma tutte esistono soltanto in relazione con le altre: «le differenze non sono un insieme di realtà di per sé sostanziali o ontologicamente individuali, quanto piuttosto un complesso olistico in cui ciascuna trova il suo esserci esclusivamente nel suo essere differente da tutte le altre» (p. 45). Dire che l’Essere è, equivale a dire che oltre all’Essere non c’è nulla: tutto ciò che è, è nell’Essere, quindi l’Essere, la totalità del positivo, è Assoluto, legato solo a se stesso. Questa assolutezza «impone […] che l’Essere stesso sia limitato solo da niente e che questo stesso limite sia un limite nullo, sicché l’Essere non può che risultare un che di il-limitato cioè di infinito» (p. 49). Proprio perché in-finito, l’Essere risulta aperto, mai tutto dato, diveniente: «l’essenza dell’infinito è proprio nella tensione al compimento e nel travalicare i limiti angusti che vorrebbero confinarlo nell’istante finito del dato, di ciò che sta e che è stato: L’Essere non sta, l’Essere di-viene, nel senso che non è mai giunto tutto, è questo eterno continuare a darsi» (p. 175). L’Essere è un orizzonte perennemente aperto, eterna fioritura che non cessa mai di sbocciare.

La conseguenza è che l’Essere è divenire: dato che l’Essere non ammette nulla fuori di sé, il divenire non può essere negazione dell’Essere, ma la sua stessa manifestazione: «poiché nessun infinito può essere in qualche modo dato e compiuto, […] il divenire è la dimensione dell’infinità dell’Essere […] o, ancora, l’eterno differenziarsi delle differenze» (p. 50).

Per non pensare contraddittoriamente il divenire come passaggio dall’Essere al nulla, occorre emendare anche il concetto di tempo: l’Essere è movimento infinito e l’i-stante finito non è che un’astrazione: «Nascita e morte non sono i confini della nostra esistenza, ma la dimostrazione ontologica che noi già da sempre siamo di più di qualcosa che nasce e muore e che il nostro essere è più di questo essere finito che si vuole comprimere tra queste due barriere» (p. 180). Il «questo» è l’isolamento dell’ente in un attimo immobile e, visto che l’Essere è relazione, tale isolamento coincide con la sua nientificazione: essere è sempre relazionarsi ad altro, tanto più l’ente «è assolutizzato nella sua finitudine, più è assimilato a un niente» (p. 174).

Tenendo presenti queste tesi, è ora possibile riproporre il quesito che l’analisi storica del discorso ontologico ci aveva suggerito: per definire l’Essere, è sufficiente negare il nulla? O, in altri termini, è possibile riformulare l’opposizione originaria «L’Essere non è non-essere», nei termini di un’affermazione, e non solo di una negazione che dice il positivo solo negativamente, quale negazione del negativo?

Sangiacomo risponde a questo interrogativo quando afferma che «Il destino è la prima parola che compiutamente parla la lingua del Giorno» (p. 168). La sua lettura del divenire (l’Essere come movimento, apertura originaria, svolgimento mai compiuto) e della temporalità (il tempo non è un insieme di istanti isolati in cui imprigionare l’Essere), lo porta ad affermare che Tutto è eterno e, perciò, necessario. Richiamandosi a Severino, può dire che l’Essere è il destino della necessità. Ciò va inteso «sia nel senso che ogni cosa è destinata all’essere, sia nel senso che restare nell’Essere è il destino di tutto ciò che è» (p. 168).

Quel che consegue da tali affermazioni rappresenta per l’uomo d’oggi un corollario pesante da accettare: ammettendo che l’Essere non può non essere, si deve riconoscere che tutto è già scritto (vedi «Il dramma della Libertà» pp. 88-96). Ben consapevole delle conclusioni a cui porta la sua analisi del problema dell’Essere, Sangiacomo intende sottolineare le conseguenze esistenziali a cui conduce la ricoperta verità dell’Essere, anzi vede proprio in questo risvolto etico l’attualità del discorso ontologico. È dai fondamenti o, meglio, è dal fondamento originario dell’Essere e del pensare, che occorre partire, perché solo ritornando alle origini, ritornando a Parmenide, potremo superare quella dimenticanza del senso dell’Essere che costituisce l’errore supremo dell’Occidente e guardare davvero l’alba di quel domani che Nietzsche, ancora accecato dalle nebbie del nichilismo, poteva solo presentire. Oggi, dopo aver attraversato e superato il nichilismo, si aprono nuove prospettive: vinta la «Volontà di potenza» che ci voleva padroni dell’Essere e affermava perciò la possibilità di annullare o creare l’ente, come per Edipo (vedi «La tragedia e il suo Eroe», pp. 97-110), la nostra unica possibile scelta è di essere fedeli a noi stessi e alla nostra natura, testimoniando ciò che è — la Verità — dalla nostra, seppur limitata, prospettiva. Ed oggi «questo duro monito stoico al sequere naturam, è questo davvero una sfida, forse l’unica che dovremmo seriamente affrontare e superare» (p. 110).

Nel momento in cui ci ammonisce, ricordandoci che tutto è eterno e necessario, Sangiacomo ci mostra l’alba di domani, rinvenendo nel Destino dell’Essere, la speranza di una nuova prospettiva che non cancella la nostra civiltà — eterna come tutto ciò che è -, ma la pone in una nuova luce, emendandola da ogni tentazione nichilista attraverso il ripensamento del senso stesso di parole come: divenire, tempo, eternità, infinito, natura, nascita, morte, libertà, destino, storia, parola, tecnica, filosofia. Parole per il cui chiarimento rimandiamo alla lettura diretta del testo. Basti qui ricordare che alla filosofia è affidato il compito di mostrare il tramonto del nichilismo in una nuova epoca di Rinascenza, rinascenza che sia, in un certo senso, un «nuovo Rinascimento» e che, come l’età rinascimentale, rappresenti «la coscienza di essere qualcosa di nuovo, di essere anzi qualcosa in cui uno splendore antico risorge nella luce di una riscoperta humanitas» (p. 160).