Bilancio di un’«eresia». Riduzione fenomenologica, Ego trascendentale e Dasein tra Husserl e Heidegger

1. Husserl e Heidegger: rottura o apertura per la fenomenologia?

In una lettera del dicembre 1929 in risposta a Roman Ingarden,1 Husserl scriveva a proposito di Essere e tempo: «Il minuzioso saggio di Heidegger? Sono arrivato alla conclusione che non saprei in nessun modo includere quest’opera nel quadro della mia fenomenologia e che sono pertanto obbligato a rinnegarlo interamente e assolutamente, tanto per ciò che concerne il metodo quanto per ciò che riguarda essenzialmente la cosa stessa».2 D’altra parte, già qualche mese prima, nelle Meditazioni cartesiane,3 Husserl mostrava una certa inquietudine nei confronti della possibilità di inquadrare «l’esplicitazione ontologica nell’insieme della fenomenologia costitutiva fondamentale». Infatti nel §59, diretto principalmente contro Essere e tempo, egli rimarca il diritto relativo di un’analisi del «mondo ambiente» (Umwelt) e di una «esplicazione sistematica delle strutture d’essenza dell’esserci umano»,4 ma sempre all’interno della sua fenomenologia, ossia nel quadro di una ferma subordinazione dell’analisi del «mondo ambiente» e del Dasein alla problematica fenomenologica generale della costituzione. In altri termini, secondo Husserl è certo possibile partire dalla nostra Umwelt, quella della vita umana, per esplorarne l’a priori, per farne cioè un punto di avvio per un’interpretazione delle strutture ontologiche del Dasein umano, ma tale sistema non diverrà filosoficamente intelligibile se non dopo l’apertura della problematica essenziale della costituzione. Da ciò si deduce che, in generale, «un procedimento che poggia sull’intuizione eidetica» non può essere legittimamente qualificato come fenomenologico in senso stretto, e non gli può essere attribuito alcun diritto se non nella misura in cui possa essere incluso nel contesto della costituzione. Come sottolinea Ingarden, è soltanto nel corso dell’estate del 1929 che Husserl ha studiato attentamente Essere e tempo, pubblicato due anni prima nell’VIII volume del Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung.5 Tuttavia le divergenze tra i due filosofi, soprattutto a riguardo del modo in cui il metodo fenomenologico doveva essere inteso, risalgono già al periodo precedente la pubblicazione di Essere e tempo. Da questo momento in poi appare ciò che diverrà in seguito un Leitmotiv nel giudizio di Husserl nei confronti di Heidegger: quest’ultimo, agli occhi di Husserl, non ha compreso il senso autentico del metodo fenomenologico, ossia la natura e la portata essenziale della riduzione fenomenologica trascendentale. Sempre indirizzandosi a Ingarden nell’autunno del 1927, ossia nel momento di più stretta collaborazione con Heidegger in occasione della redazione della voce Fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica, Husserl nota: «Il nuovo articolo per l’Enciclopedia Britannica mi è costato moltissimo, in particolare perché ho dovuto ancora una volta ripensare a fondo il mio percorso e il suo principio, accorgendomi del fatto che Heidegger — devo ora ammetterlo — non ha compreso questo percorso e conseguentemente ha frainteso tutto il senso del metodo della riduzione fenomenologica».6 Proprio nel tentativo di favorire questa collaborazione Heidegger si sforza, nella celebre lettera a Husserl del 22 ottobre 1927,7 di ridefinire l’impresa di Essere e tempo in stile husserliano, cioè nei termini della concettualità della fenomenologia trascendentale: «Nelle pagine seguenti, scrive Heidegger, cercherò ancora una volta di fissare i punti essenziali. Ciò mi offre anche l’opportunità di caratterizzare la tendenza fondamentale di Essere e tempo all’interno del problema trascendentale».8

Fraintendere il significato autentico della riduzione significa, agli occhi di Husserl, pervertire radicalmente il senso dell’apertura fenomenologica, mancare cioè la sua natura essenzialmente metodologica e scientifica; ma soprattutto, significa ostacolare l’accesso alla possibilità di tracciare una netta separazione tra scienza rigorosa e speculazione, ossia tra filosofia e Weltanschauung, cioè ancora tra filosofia e antropologia. Com’è noto, Phänomenologie und Anthropologie9 è il titolo della conferenza che Husserl presenta a Berlino nel giugno 1931, e nella quale Heidegger vede un segno della rottura definitiva col maestro. Tuttavia, a ben vedere la conferenza del 1931 richiama essenzialmente la tematica del Nachwort zu meinen Ideen:10 «Il mio disegno, annuncia Husserl, è di chiarire i malintesi che hanno generalmente offuscato il senso vero della mia fenomenologia trascendentale».11 Dissipare questi malintesi è dunque per Husserl un’occasione per difendersi dalle molteplici critiche mossegli da varie correnti teoriche e di rifiutare, scrive lo stesso Husserl,

le obiezioni che, in ultima analisi, si fondano tutte sul fatto che la mia fenomenologia viene ricondotta ad un livello il cui superamento costituisce interamente il proprio significato; in altri termini, sul fatto che non si è compreso ciò che c’è di radicalmente nuovo nella riduzione fenomenologica e che allo stesso modo non si è compreso che ci si eleva dalla soggettività mondana (ad esempio l’uomo) alla soggettività trascendentale; si resta dunque prigionieri di un’antropologia, sia essa empirica o a priori, antropologia che, secondo la mia teoria, permane ancora al di qua del terreno specificamente filosofico, e considerarla come filosofia significa ricadere nell’antropologismo trascendentale o piuttosto nello psicologismo trascendentale.12

È senza dubbio doveroso e necessario sottolineare il prodigioso accecamento del vecchio Husserl nei confronti di colui che pochi anni dopo avrebbe incarnato «la fenomenologia come tale».13 Tuttavia, per rendere giustizia alla complessità intrinseca al rapporto tra i due filosofi, occorre rileggere attentamente anche il Beilage XIII de La crisi delle scienze europee:14 non c’è dubbio che attraverso le obiezioni di Husserl a Heidegger si profili un’autentica questione metodologica, degna di essere affrontata come tale. Infatti, l’obiezione di Husserl è formulata innanzitutto sul piano del metodo, e come tale va considerata in quanto Essere e tempo si riallaccia espressamente al carattere metodologico della fenomenologia, o meglio alla sua natura di pre-concetto (Vorbegriff). D’altra parte, durante un seminario del 1962 tutto incentrato sui suoi rapporti con la fenomenologia, Heidegger nota: «In realtà, senza l’atteggiamento fondamentale della fenomenologia, la questione dell’essere non sarebbe stata possibile».15 Ferma restando la ripetuta ammissione di fedeltà all’atteggiamento fondamentale della fenomenologia da parte di Heidegger, il peso dell’obiezione husserliana deriva in primo luogo dal fatto che, per quanto la fenomenologia si definisca di principio come metodo, la riduzione le appartiene essenzialmente. È opportuno qui tenere in primo piano l’auto-interpretazione di Husserl, che vede nella riduzione fenomenologica il termine necessario dell’apertura inaugurata nel 1900 con le Ricerche Logiche.16 Come egli stesso ricorda nella Krisis, il primo varco apertosi per la fenomenologia ha preso avvio dalla meraviglia dinanzi alla correlazione, o meglio dinanzi all’a priori correlazionale tra l’apparire e ciò che appare in quanto tale. Scrive Husserl nella Krisis:

La prima scoperta di questo a priori universale della correlazione tra l’oggetto dell’esperienza e i modi di datiti (durante l’elaborazione delle mie Ricerche Logiche, pressappoco nel 1898) mi scosse tanto profondamente, che dall’ora in poi, il lavoro di tutta la mia vita fu dominato dal compito di elaborarlo sistematicamente. Le ulteriori considerazioni contenute in questo testo chiariranno come l’inserimento della soggettività umana nella problematica della correlazione porti necessariamente a un radicale mutamento di senso di questa stessa problematica, e come esiga la riduzione fenomenologica alla soggettività trascendentale.17

Se si attribuisce a questo passo il peso che gli spetta, diviene difficile attenersi semplicemente allo schema evolutivo che Heidegger utilizza a proposito del percorso teorico husserliano, secondo lui caratterizzato da una netta cesura tra le Ricerche logiche e le opere successive.18 Heidegger, ripercorrendo le difficoltà che la Seinsfrage ha storicamente incontrato nella sua costruzione, afferma: «Husserl stesso, che nelle Ricerche logiche — soprattutto nella sesta — si approssimò moltissimo alla questione dell’essere propriamente detta, non riuscì a distaccarsi dall’atmosfera filosofica della sua epoca. Cedette all’influenza di Natorp e virò verso la fenomenologia trascendentale che raggiunse il suo culmine nelle Ideen».19 Tuttavia, se non ci si limita alla ricostruzione del percorso husserliano operata da Heidegger, ma si sottolinea il lento e profondo emergere del motivo della riduzione, riflettendo su tutto ciò che lega intimamente alle Ideen il problema del metodo della fenomenologia, la questione della presenza, del senso e della natura della riduzione trascendentale deve essere posta soprattutto a riguardo della prima grande tappa del percorso teorico heideggeriano, cioè Essere e tempo. In sostanza, il problema fondamentale è: perché il §7, che riconosce nella fenomenologia il metodo della ricerca e determina il pre-concetto della fenomenologia come metodo, passa interamente sotto silenzio la problematica husserliana della riduzione?

Senza dunque dover prendere posizione a riguardo della pertinenza del rimprovero di incomprensione che Husserl muove a Heidegger, la questione da affrontare riguarda la reale situazione della riduzione fenomenologica all’interno di un’impresa che, per esplicita ammissione dello stesso Heidegger, si definisce come fenomenologica e, ancora più radicalmente, si presenta come appropriazione e inveramento della fenomenologia. Che cosa diventano l’epoché, la riduzione, la costituzione nella versione heideggeriana della fenomenologia? La domanda acquista tutto il suo peso se si tiene presente che Heidegger non ha mai rinunciato a includere la propria ricerca nel quadro generale della fenomenologia: insomma, la riduzione e la costituzione rappresentano delle colonne portanti della fenomenologia o non fanno che tradurre la posizione filosofica di Husserl, strettamente dipendente — così come la sua idea di scientificità — dalla tradizione cartesiana? In altri termini, che cosa ne è della fenomenologia in Essere e tempo? È possibile e legittimo cercare di rintracciare delle figure della riduzione nell’opera del 1927? O forse la teoria della riduzione caratterizza soltanto una prima tappa della fenomenologia, cioè quella husserliana? E in questo caso, cosa diventerebbe una fenomenologia senza riduzione? Bisogna senza dubbio precisare che una simile questione assume pienamente il suo valore solo se la riduzione viene assunta in un senso il più ampio e generale possibile, evitando di farne un mero momento tecnico orientato verso la soggettività assoluta. Certamente quando viene introdotta per la prima volta nel 1907 nelle lezioni raccolte in seguito ne L’idea della fenomenologia,20 la riduzione sembra rispondere ad un motivo molto noto: essa costituisce il requisito indispensabile se la filosofia vuole adeguarsi all’ideale di scientificità che guida Husserl in quegli anni. Come Heidegger sottolinea fortemente nella conferenza su La fine della filosofia e il compito del pensiero,21 è innanzitutto la determinazione moderna della scientificità, nel senso di un procedimento saldamente assicurato ad ogni passaggio e volto ad una fondazione ultima e assoluta — caratteri che si ritrovano nel concetto husserliano di Sache —, ad essere in gioco nella fenomenologia. Nelle cinque lezioni del 1907, Husserl dichiara: «Fenomenologia: ciò significa una scienza, un insieme coerente di discipline scientifiche; fenomenologia designa però al tempo stesso, e soprattutto, un metodo e un atteggiamento di pensiero: l’atteggiamento di pensiero, il metodo, specificamente filosofici».22 In questo passo emerge la concezione husserliana della relazione classicamente metafisica del metodo come insieme di procedure al servizio della scienza: la fenomenologia è metodologicamente al servizio della scienza, è Vorwissenschaft, propedeutica alla scienza. «C’è bisogno, nota Husserl poco oltre, di una scienza dell’ente in senso assoluto. Questa scienza che noi chiamiamo metafisica nasce da una critica della conoscenza naturale propria delle scienze particolari, critica che si fonda sull’intelligenza […] dell’essenza della conoscenza e del suo oggetto». Così la fenomenologia si pone in primo luogo come Erkenntniskritik, e con ciò stesso, sebbene in un senso nuovo e inedito, come filosofia prima. Husserl mantiene ancora la subordinazione classica del metodo alla scienza, e offre una prima interpretazione limitata della riduzione, strumento fondamentale per la critica della conoscenza:

La fenomenologia procede spiegando attraverso una visione, determinandone e distinguendone il senso. Procedere attraverso la visione e l’ideazione nel quadro della più stretta riduzione fenomenologica appartiene esclusivamente alla riduzione fenomenologica, costituisce il metodo proprio della filosofia, in quanto discende direttamente dalla critica della conoscenza ed è inscindibile da qualunque critica della ragione.23

Tuttavia un sottile slittamento di significato interviene nelle lezioni del 1907, non permettendo più di mantenere semplicemente questa configurazione classica. Infatti, per adempiere la propria missione, la fenomenologia deve innanzitutto «attenersi al proprio compito», cioè chiarire l’essenza della conoscenza e dei suoi oggetti facendo astrazione dalle applicazioni propriamente metafisiche della critica della conoscenza: e per fare ciò, in un certo senso la fenomenologia si autonomizza e inaugura un concetto del tutto originale del metodo. Lo stesso slittamento — o forse sarebbe più corretto dire «allargamento» — si trova nell’introduzione alle Ideen24 del 1913, in cui la fenomenologia è ancora una volta descritta secondo l’idea della filosofia che Husserl annuncia di trattare nel terzo libro (è noto tuttavia che il terzo tomo delle Ideen, pubblicato postumo nel 1952, non corrisponde per nulla al progetto iniziale).

Un terzo e ultimo libro, nota Husserl nell’introduzione, sarà dedicato all’idea della filosofia. Verrà suscitata l’evidenza che la vera filosofia, la cui idea è di realizzare l’idea di una conoscenza assoluta, affonda le proprie radici nella fenomenologia pura; e questo in un senso talmente stretto che questa filosofia, la prima delle filosofie, così rigorosamente fondata e sistematicamente esposta, costituisce il presupposto costante di ogni metafisica e di ogni altra filosofia che possa presentarsi come scienza. La situazione cui Husserl allude qui è molto complessa: la vera filosofia, ancora di là da venire, deve fondarsi, nella misura in cui essa è destinata a realizzare l’ideale di una scienza assoluta, sulla fenomenologia pura. Essa si impone come istanza originaria in quanto deve precedere ogni metafisica e proprio in ciò esplica la sua funzione di filosofia prima.25 In una conferenza del 1924 in occasione del bicentenario della nascita di Kant, Husserl sarà ancora più esplicito:

Lo sviluppo decisivo che la fenomenologia ha assunto nel corso della sua evoluzione per cui, da un metodo completamente nuovo da applicare alle analisi sull’origine […] si è trasformata in una scienza del tutto nuova e, nel senso più rigoroso del termine, autonoma — la fenomenologia pura o trascendentale —, ha mostrato una parentela essenziale e indiscutibile tra questa fenomenologia e la filosofia trascendentale di Kant. […] Se la fenomenologia si presenta allo stesso tempo come propedeutica e come scienza universale del metodo di una filosofia fenomenologica, ciò significa già non soltanto che una filosofia in generale, in virtù del suo intero sistema, non è possibile che come filosofia trascendentale universale, ma anche che, in ultima istanza, essa non saprebbe assumere la forma di una scienza rigorosa se non a condizione di essere fondata sulla fenomenologia e sul metodo specificamente fenomenologico.26

L’autonomizzazione della fenomenologia, l’affermazione sempre più netta del proprio primato va di pari passo con l’insistenza di Husserl sul motivo della riduzione che, proprio in virtù della costituzione della fenomenologia come scienza autonoma, sembra perdere progressivamente la propria centralità metodologica. In definitiva, è proprio attraverso la riduzione che la fenomenologia si rivela essenzialmente come metodo, in un senso probabilmente nuovo e inedito, contrariamente a ciò che Heidegger sostiene nella conferenza del 1962 sopra citata. Nei suoi corsi del 1923-’24, pubblicati poi da Boehm col titolo di Filosofia prima,27 Husserl afferma che la riduzione è «il più radicale di tutti i metodi». Ma è proprio in ragione di questa radicalità che è impossibile fornirne una determinazione meramente metodologica e per così dire «intra-filosofica»: la riduzione coincide in ultima analisi con l’ingresso nella filosofia come tale. Fare della riduzione l’archi-metodo di tutti i metodi filosofici non significa soltanto che — come sosterrà Fink — essa costituisce «il metodo fondamentale della fenomenologia di E. Husserl»,28 ma che si tratta del «salto» a partire dal quale si apre lo spazio della fenomenologia come tale. Nota ancora Fink: «Non c’è fenomenologia che non passi attraverso la riduzione. Tutto ciò che si può designare come fenomenologia e che rinuncia alla riduzione è nel suo principio una filosofia mondana, cioè dogmatica».29

2. La situazione della riduzione in Essere e tempo

Si è scelto di muovere da questi semplici richiami teorico-biografici non per drammatizzare inutilmente la problematica del rapporto tra Husserl e Heidegger, ma soltanto per sottolineare le molteplici difficoltà cui chi si accosti al problema generale dello statuto della fenomenologia deve far necessariamente fronte. In sintesi, la questione si pone in questi termini: o si tende — senza dubbio legittimamente — a rimarcare il tratto fenomenologico fondamentale alla base del pensiero di Heidegger, assumendone tuttavia la critica alla dipendenza metafisica di Husserl dalla tradizione cartesiana, oppure si accentua lo scarto del pensiero heideggeriano rispetto alla fenomenologia husserliana, non riuscendo però a chiarire la ragione per cui Heidegger si richiami ostinatamente, fino agli ultimi testi,30 all’impostazione fenomenologica. Tenendo presente questo duplice aspetto della questione, ritorniamo alla nostra domanda iniziale: cosa ne è della riduzione e della costituzione nella versione heideggeriana della fenomenologia? E ancora: cosa diverrebbe una fenomenologia senza riduzione, dato che questo sembra essere proprio, almeno ad un primo sguardo, il caso di Heidegger? A queste due domande sono state fornite molte risposte o tentativi di soluzione, suddivisibili in due tipologie principali.31 a) La prima tipologia di argomentazioni muove da una semplice constatazione: «In Essere e tempo non vi è assolutamente alcuna riduzione».32 Ma qual è la ragione e la portata di questa assenza? Una prima soluzione potrebbe far leva sul fatto che in realtà Heidegger rimane decisamente al di qua del progetto husserliano, misconoscendo completamente il senso della riduzione e rimanendo pertanto all’interno di una sfera meramente antropologica. Questa è, com’è noto, la posizione dello stesso Husserl, e la si può trovare reiterata presso alcuni critici.33 Si potrebbe ugualmente sostenere che in Essere e tempo non c’è riduzione per la semplice ragione che l’analitica esistenziale del Dasein esclude immediatamente ogni epochè. Va tuttavia precisato, seguendo l’osservazione di Landgrebe, che Heidegger si impegna in una direzione diametralmente opposta a quella del maestro, in quanto per lui si tratta di elaborare — d’altronde conformemente all’indicazione contenuta nel §27 delle Ideen — il natürlicher Weltbegriff che Husserl dichiara di voler analizzare in seguito. In questo caso l’analitica esistenziale viene interpretata retrospettivamente in funzione del progetto husserliano di spiegazione della Lebenswelt e del mondo dell’esperienza pura, anteriore ad ogni oggettivazione e dunque ad ogni riduzione.34 È dunque questa problematica della elaborazione del «concetto naturale del mondo» che, ereditata come uno dei più importanti impulsi provenienti da Husserl, spiega contemporaneamente l’assenza necessaria di qualunque riduzione in Essere e tempo. b) La seconda tipologia di tesi sostiene che, in realtà, l’analitica del Dasein presuppone la tematica husserliana della riduzione. È stato senz’altro Merleau-Ponty a mettere in luce per primo questa implicazione essenziale. «Lungi dall’essere, come spesso si è creduto, la formula di una filosofia idealista, la riduzione fenomenologica è propria di una filosofia esistenziale: l’In-der-Welt-sein di Heidegger appare soltanto sullo sfondo della riduzione fenomenologica».35 Pertanto, in questa prospettiva, la riduzione, ben lungi dall’essere superflua o incompatibile col percorso che Heidegger tenta in Essere e tempo, ne costituirebbe il preambolo irrinunciabile e il presupposto ultimo. Il fatto che Heidegger non riprenda tematicamente la riduzione non costituisce un passo indietro in rapporto alla questione fenomenologico-trascendentale di Husserl, ma la sua più autentica radicalizzazione.36 Se l’epochè non è più «fisicamente» presente in Essere e tempo, è perché quest’ultima non ha senso se non in relazione all’intenzionalità nel suo duplice carattere di posizione e oggettivazione: una volta sospeso ogni giudizio d’esistenza, si scopre una sfera di datità più originaria rispetto al mondo degli oggetti, una sfera in cui la Vorhandenheit costituisce l’Io fattuale e originario prima di ogni riduzione.

Se quello appena delineato è lo schema classico delle tipologie di spiegazioni fornite dai critici heideggeriani a proposito del problema della riduzione fenomenologica in Essere e tempo, crediamo sia possibile riproporre la questione in termini nuovi, tenendo soprattutto presenti i testi dei corsi tenuti da Heidegger a Marburgo e Friburgo negli anni Venti, per così dire «a ridosso» dell’uscita dell’opera del ’27. Gettiamo un primo sguardo al corso marburghese del 1925 intitolato Prolegomeni alla storia del concetto di tempo,37 il cui interesse — nella nostra prospettiva — riguarda in primo luogo il fatto che in questo testo Heidegger intende includere la Seinsfrage nel quadro della fenomenologia husserliana. Nell’ampia parte introduttiva, Heidegger si sofferma sulla questione del «senso e del compito della ricerca fenomenologica», proponendone una critica immanente e al tempo stesso una radicalizzazione. Egli riafferma decisamente che le tre scoperte fondamentali della fenomenologia sono l’intenzionalità, l’intuizione categoriale e l’elucidazione del senso originario dell’a priori. La problematica dell’epochè e della riduzione è ricollegata da Heidegger all’analisi della determinazione husserliana del campo (Feld) proprio della ricerca fenomenologica, ossia la regione della soggettività pura e dei suoi correlati, insomma la regione dell’Io puro. Come liberare — si domanda Heidegger — la regione della coscienza come sfera dell’immanenza pura? C’è bisogno di una modificazione dell’atteggiamento naturale, di una messa tra parentesi della tesi del mondo naturale, materiale o, in generale, trascendente la coscienza stessa. L’epochè viene così presentata da Heidegger:

Questa messa fra parentesi dell’ente non apporta nulla all’ente stesso, non significa accettare che l’ente non sia, ma il senso di questo rovesciamento dello sguardo è di rendere presente proprio il carattere d’essere dell’ente. Questa esclusione fenomenologica della tesi trascendente ha unicamente la funzione di rendere presente l’ente quanto al proprio essere. L’espressione esclusione è perciò sempre ambigua, nella misura in cui si pensa che escludendo la tesi dell’esserci e proprio tramite questa esclusione la considerazione fenomenologica non abbia più niente a che fare con l’ente. È vero il contrario: proprio in modo estremo e unico si tratta ora di determinare l’essere dell’ente.38

Muovendo da questa determinazione generale dell’epochè come ciò che si apre alla fenomenalità dei fenomeni, Heidegger assume la riduzione trascendentale come riconduzione agli atti di coscienza, al “flusso del vissuto” come ad una sfera di “assoluta posizione”. La riduzione è dunque riconduzione e universalizzazione, ma non solo: essa assume anche — e qui l’interpretazione di Heidegger diviene sempre più critica nei confronti di Husserl — la portata dell’astrazione.

Ciò da cui nella riduzione si prescinde è la realtà della coscienza data nell’atteggiamento naturale, quella inerente all’uomo-di-fatto. […] Quindi la riduzione, dato il suo senso metodico, in quanto «prescindere da», è fondamentalmente incapace di determinare positivamente l’essere della coscienza. In base alla riduzione, viene liquidato proprio il terreno sul quale soltanto potrebbe essere posto il problema dell’essere dell’intenzionale […] .39

In altri termini, secondo Heidegger la determinazione husserliana della riduzione non è in grado di adempiere al proprio compito di comprensione specifica della coscienza. I tratti caratteristici della coscienza pura come regione fenomenologicamente differenziata — cioè l’essere immanente, l’essere assoluto nel senso di assolutamente dato e di essere costituente — non sono secondo Heidegger «determinazioni ontologiche originarie» e pertanto non permettono di conoscere davvero l’essere della coscienza. Scrive ancora Heidegger: «La questione primaria per Husserl non riguarda affatto il carattere d’essere della coscienza, ma lo guida la seguente riflessione: come può in generale la coscienza diventare oggetto possibile di una scienza assoluta?»40 Ma a ben vedere, obietta Heidegger, questa idea che la coscienza debba essere la regione specifica di una scienza assoluta non è certamente concepita da Husserl come un novum, ma costituisce l’idea guida che la filosofia moderna ha seguito dopo Descartes. Dunque, in ultima analisi, l’elaborazione e la messa in evidenza della coscienza pura in quanto campo tematico della fenomenologia non sono conquistati fenomenologicamente nel ritorno alle cose stesse, ma riallacciandosi all’idea tradizionale della filosofia moderna. Se si riflette attentamente su questa parte introduttiva del corso di Heidegger del 1925, la critica della riduzione diviene il principale punto di applicazione di una riflessione più ampia e fondamentale, rivolta all’oblio (Versäumnis) della questione decisiva dell’essere e del modo d’essere dell’intenzionale. «Se l’intenzionale — nota Heidegger — dev’essere interrogato circa il suo modo d’essere, bisogna che l’ente che è intenzionale sia dato originariamente, ossia sia esperito nel suo modo d’essere».41 Ora, la riduzione non è in grado di conquistare questo Seinsverhältnis, questo rapporto ontologico con l’ente intenzionale, e conseguentemente non può condurre da sola la Seinsfrage. Ma quali sono precisamente le ragioni determinanti alla base di questa rovinosa mancanza, intrinsecamente connessa alla riduzione fenomenologica? Secondo Heidegger la riduzione, come si è visto, fa astrazione dalla realtà della coscienza nel suo atteggiamento naturale; tuttavia, questa formulazione si rivela tanto insufficiente quanto il senso e la portata di questa «realtà» non sono stati sottoposti ad una critica rigorosa. In definitiva, dire della riduzione che è un’astrazione, significa per Heidegger indicare che essa mette necessariamente da parte ciò che fa di ogni vissuto un vissuto singolo e individuale: la riduzione fa astrazione dalla jeweilige Vereinzelung dei vissuti, non considerando gli atti come questo o quell’atto, ma assumendoli soltanto nella loro essenza, nel loro Was.42 In altri termini, nella riduzione viene liberato e messo in evidenza è il tenore essenziale (Wasgehalt) degli atti soggiacenti ai vissuti, senza alcuna indagine sulla possibilità o la pertinenza dell’opposizione tra Was e Dass. Ciò che Heidegger ha di mira in questo caso è senza dubbio la concezione husserliana dell’ideazione in quanto possibilità di «prescindere dalla singolarizzazione reale», che «vive nella credenza che il che-cosa di ogni ente vada determinato a prescindere dalla sua esistenza».43 L’obiezione di Heidegger suona così: «supponendo che vi sia un ente il cui quid sia precisamente di essere e nient’altro che essere, una tale considerazione ideativa non costituirebbe, trattandosi di un ente del genere, il più fondamentale fraintendimento?» Proprio per questa ragione, Heidegger oppone alla riduzione un modo di indagine che sia capace di considerare l’intenzionale nel suo essere, nel suo modo determinato di essere, nella sua individualizzazione e singolarizzazione, cioè nella sua fatticità. Ciò implica innanzitutto la possibilità di comprendere l’essere della coscienza nella sua determinatezza ogni volta singolare, al di fuori della correlazione classica tra essentia ed existentia, e secondariamente la messa in causa della naturalità dell’atteggiamento naturale: ecco pronto il terreno per l’analitica del Dasein. La critica che Heidegger muove alla riduzione nei Prolegomeni sembra dunque radicale e definitiva; in Essere e tempo essa viene considerata come acquisita, ed ecco perché Heidegger non vi ritorna tematicamente: l’analitica del Dasein rende immediatamente inutile e caduca la riduzione, anzi percorre un sentiero opposto. Tuttavia, per quanto radicale sia la critica alla riduzione come astrazione dalla singolarità dell’esistenza, ciò non significa che essa — nel suo significato più ampio, cioè come possibilità d’accesso alla fenomenalità del mondo — rimanga totalmente estranea al percorso di Essere e tempo.

Ma non procediamo troppo velocemente. Prima di affrontare direttamente la questione dell’eventuale presenza e forma della riduzione nella Seinsfrage, potrebbe risultare utile analizzare il corso tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1927, dunque subito dopo l’uscita della prima parte di Essere e tempo. Questo corso, intitolato I problemi fondamentali della fenomenologia,44 occupa un posto di tutto rilievo nella struttura stessa dell’opera del 1927, in quanto destinato a svolgere la funzione della terza sezione di Essere e tempo, mai pubblicata — «trattenuta», dice enigmaticamente Heidegger nella Lettera sull’umanismo45 a Jean Beaufret. Conformemente al piano annunciato, il corso doveva articolarsi in tre parti, l’ultima delle quali avente per oggetto «il modo di trattamento scientifico di questi problemi [per l’appunto, i problemi fondamentali della fenomenologia] e l’idea di fenomenologia».46 Questa terza e ultima parte manca completamente, così come mancano gli ultimi tre capitoli della seconda parte; tuttavia, alla fine del primo capitolo della seconda parte, dunque alla fine delle lezioni così come sono state redatte e pronunciate, Heidegger torna sul problema della «differenza ontologica» e sul «metodo fenomenologico dell’ontologia».47 Com’è noto, in questo corso del 1927 viene per la prima volta nominata esplicitamente la differenza ontologica, anche se molti critici — in primo luogo Jean Beaufret, principale fautore della ripresa degli studi heideggeriani francesi nel secondo dopoguerra — sostengono che quest’ultima sia sotterraneamente presente in tutto il percorso seguito in Essere e tempo. Ora, è proprio a proposito della differenza ontologica che Heidegger mette in gioco la riduzione in modo totalmente indipendente da Husserl, cioè come riconduzione dell’ente all’essere. Scrive Heidegger:

L’essere deve venire afferrato e posto a tema. Essere è sempre essere di un ente e perciò diviene accessibile solo prendendo le mosse da un ente. Certo, lo sguardo fenomenologica nel suo afferrare deve rivolgersi anche all’ente, ma in modo che, così facendo, l’essere di questo ente venga a risaltare e possa essere tematizzato. Il coglimento dell’essere, vale a dire l’indagine ontologica, si dirige certo dapprima e necessariamente sempre verso un ente, ma da questo ente essa viene poi distolta e ricondotta in modo determinato al suo essere. Quella componente fondamentale del metodo fenomenologico che consiste nel ricondurre lo sguardo indagante dall’ente, colto in maniera ingenua, all’essere noi la chiamiamo riduzione fenomenologica.48

La riduzione, nel senso di re-ducere (Zurückführen), è sempre intesa da Heidegger come ciò che riconduce lo sguardo, lo rinvia a qualcos’altro, ma allo stesso tempo è determinata come ciò che apre e inaugura la questione della differenza tra l’ente e l’essere in generale (non soltanto l’essere dell’ente). In questo senso, ogni metafisica è sempre fondata sulla riduzione, così com’è fondata — sebbene a sua insaputa — sulla differenza ontologica. Heidegger rinviene l’espressione differenza ontologica già in Husserl, connotandola tuttavia in modo radicalmente diverso. Senza dubbio la riduzione husserliana è anch’essa, per così dire, «differenziante», in quanto separa, ad esempio, realtà e coscienza, trascendenza e immanenza, essere relativo e assoluto. Può addirittura scavare un vero e proprio abisso tra i termini che separa, eppure, nota Heidegger, non si interroga mai sull’essere come tale, rimanendo cioè al di qua della differenza ontologica tra ente ed essere. Nella conferenza del 1927 intitolata Fenomenologia e teologia,49 Heidegger oppone allo stesso modo, e ratificando il sottile ma inesorabile distacco da Husserl, le «scienze ontiche» che sono sempre positive in quanto presuppongono un positum, un ente che è già sempre svelato prima dello svelamento della scienza, e la «scienza ontologica» o filosofia, che «ha bisogno fondamentalmente di un capovolgimento dello sguardo rivolto all’ente, e precisamente dall’ente all’essere, in modo tale che lo sguardo è rivolto ancora all’ente, ma con un atteggiamento modificato».50 Questa svolta, questo spostamento comporta una differenza assoluta tra la scienza ontologica e le scienze positive, quali che siano le loro differenze relative. Ma è ancora una volta nel corso dell’autunno 1927 che Heidegger sottolinea esplicitamente l’opposizione tra la propria determinazione della riduzione e quella di Husserl:

Per Husserl, la riduzione fenomenologica, elaborata esplicitamente per la prima volta nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913, è quel metodo che permette di ricondurre lo sguardo fenomenologico dell’atteggiamento naturale, proprio dell’uomo che vive nel mondo delle cose e delle persone, alla vita trascendentale della coscienza e ai suoi vissuti noetico-noematici, nei quali gli oggetti si costituiscono come correlati della coscienza.51

In aperto contrasto con questa determinazione della regione-coscienza che forma, a titolo di residuo della riduzione, il campo proprio della fenomenologia, Heidegger definisce in questi termini la propria concezione della riduzione in quanto direttamente implicata nella Seinsfrage: «Per noi, la riduzione fenomenologica consiste nel ricondurre lo sguardo fenomenologico dal coglimento dell’ente, quale che sia la sua determinazione, alla comprensione dell’essere di questo ente».52 La riduzione opera ancora, come per Husserl, dall’ente come si dà nell’atteggiamento naturale all’essere nel senso della coscienza costituente nella sua sfera di posizione assoluta, ma l’essere non è più compreso da Heidegger come essere-assoluto della coscienza. La riduzione conduce direttamente dall’ente, quale che sia la sua determinazione, all’essere schlechthin: o meglio, la riduzione non riconduce dall’ente all’essere come da un punto all’altro, da una regione all’altra, ma libera l’ente e l’essere nei loro rimandi reciproci, secondo la dinamica — costantemente duplice — di svelamento-velamento costitutiva dell’essere. In ogni caso, la riduzione è ciò attraverso cui c’è (es Gibt) il fenomeno, nella versione husserliana riportando all’unità del vissuto tutto ciò che appare, in quella heideggeriana rinviano l’ente non alla vita anonima della coscienza e dei suoi atti, ma all’essere e alla sua verità.

Tuttavia, in realtà la situazione è più complessa. Infatti, Heidegger non contrappone semplicemente alla riduzione trascendentale husserliana, incentrata sulla riconduzione riflessiva alla sfera immanente della coscienza pura, la riduzione ontologica, che rinvia dall’ente all’essere in generale. Heidegger non parla soltanto di riduzione dell’ente all’essere, ma alla comprensione dell’essere: in altri termini, la riduzione — almeno nel corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia e in Essere e tempo — mantiene un carattere trascendentale. La radicalizzazione heideggeriana della riduzione, lungi dal nascondere la problematica trascendentale, l’accentua nella misura in cui tende ad articolare il più strettamente possibile l’essere, la comprensione dell’essere e il Dasein. Ciò significa che, nel 1927, la riduzione è ancora espressamente destinata a ricondurre all’Io puro, alla coscienza trascendentale. Bisogna tuttavia aggiungere una considerazione fondamentale di Heidegger:

La riduzione fenomenologica, il ricondurre lo sguardo dall’ente all’essere, non è però l’unica e neppure la più importante componente fondamentale del metodo fenomenologico. Infatti, il riportare lo sguardo dall’ente all’essere necessita nel contempo che ci si porti positivamente sull’essere stesso. Distogliere semplicemente lo sguardo significa assumere un atteggiamento metodico meramente negativo, che non soltanto richiede di essere completato in maniera positiva, ma ha bisogno di venir esplicitamente condotto, cioè guidato, all’essere.53

In questo modo la riduzione, che sembrava inizialmente fare negativamente astrazione dall’ente determinato, svelandolo, è in realtà completamente subordinata ad un’in-duzione che coinvolge e indirizza lo sguardo fenomenologico verso l’essere. Tuttavia questo direzionamento non definisce soltanto una relazione di subordinazione, non assegna un ruolo meramente ancillare alla tappa negativa che deve principalmente aprire la via verso l’essere, poiché la Seinsfrage è in primo luogo e necessariamente questione dell’accesso all’essere. «L’essere non è accessibile come l’ente, non lo troviamo lì, facilmente, ma […] esso dev’essere sempre portato allo sguardo in un libero progetto. Il progetto dell’ente dato, un progetto alla luce del suo essere e delle sue strutture ontologiche noi lo chiamiamo costruzione fenomenologica».54 Ma c’è di più. Ne i Problemi fondamentali della fenomenologia, la costruzione dev’essere intesa anche in relazione al terzo elemento fondamentale del metodo fenomenologico, la distruzione. In quanto destrutturazione della tradizione, la distruzione va senz’altro intesa a sua volta come una ripresa trasformatrice della Voraussetzungslosigkeit husserliana: essa appartiene in ogni caso al progetto unitario di riduzione e costruzione. Scrive Heidegger: «All’interpretazione concettuale dell’essere e delle sue strutture, vale a dire alla costruzione riducente dell’essere, appartiene necessariamente una distruzione, cioè una de-costruzione critica di quei concetti che ci sono stati tramandati e che debbono anzitutto essere necessariamente impiegati, allo scopo di risalire alle fonti da cui sono scaturiti».55 Si comprende così facilmente che, attraverso l’opposizione sottolineata da Heidegger tra riduzione egologica e riduzione ontologica, il motivo trascendentale non smette mai di fungere da filo conduttore nel corso del 1927. La riduzione non è che un primo passo in un percorso d’insieme che si muove in direzione dell’essere, ma quest’ultimo non si scopre a sua volta che nel movimento metafisico fondamentale del «ritorno al soggetto».56 Ecco la ragione per cui I problemi fondamentali della fenomenologia situano positivamente l’analitica del Dasein nella tradizione del «ritorno al soggetto»; riferendosi a Kant, Heidegger afferma risolutamente: «La direzione del cammino che egli prende, attraverso il suo ritorno al soggetto, è la sola possibile e legittima».57 Certo, questo percorso orientato sul soggetto in senso lato non deve essere inteso restrittivamente sul modello della fondazione cartesiana incentrata sull’ego cogito, cioè non va assunto in modo meramente soggettivistico: «Ripetiamo — scrive Heidegger — che il fatto di mettere l’accento sul soggetto, com’è usuale in filosofia a partire da Descartes, implica un autentico slancio del domandare filosofico che non fa altro che rinforzare ciò che già l’antichità cercava», anche se — prosegue — «non è sufficiente partire dal soggetto», serve innanzitutto interrogarsi su «come l’essere del soggetto possa essere determinato come punto di partenza della problematica filosofica».58 Chiarire nel suo principio la necessità del ritorno alla coscienza, determinando in modo radicale ed esplicito il cammino e le procedure di questo ritorno: ecco come Heidegger definisce il compito della fenomenologia nel suo abbozzo della voce fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica. Ciò significa concretamente articolare strettamente riduzione fenomenologica e riduzione ontologica, radicalizzare il concetto di soggetto in quello di Dasein e manifestare correlativamente che la riduzione all’essere, attraverso la riduzione alla comprensione dell’essere, è anche riduzione al Dasein. Da ciò deriva un doppio compito per la fenomenologia: «il compito di distinguere ontologicamente un ente avente un modo d’essere specifico rispetto a tutti gli altri […] e allo stesso tempo il compito di evidenziare l’essere dell’ente, al cui essere appartiene la comprensione dell’essere, e alla cui interpretazione si ricollega tutta la problematica ontologica in generale».59

3. Riduzione e angoscia

In Essere e tempo, la struttura formale della Seinsfrage è interamente determinata da questa necessaria articolazione della riduzione ontologica e fenomenologica trascendentale. L’incedere del domandare heideggeriano si mostra innanzitutto — e conformemente al primato ontico-ontologico del Dasein — come analitica esistenziale e ontologia fondamentale: il Dasein è ontologico, e solo in quanto vi è una possibilità ontica della comprensione allora «vi è» l’essere. Scrive Heidegger: «L’essere è soltanto nella comprensione di quell’ente al cui essere appartiene qualcosa come la comprensione dell’essere. […] Fin dall’antichità, la problematica ontologica ha collegato, quando non li ha identificati, essere e verità. Ciò documenta la connessione necessaria di essere e comprensione».60 Il ritorno al Dasein, o meglio, il ritorno alla comprensione dell’essere al suo interno, a ciò che in esso è immediatamente ontologico, rende possibile la riduzione all’essere, la costruzione della Seinsfrage nel senso dei Problemi fondamentali della fenomenologia. Tuttavia, indipendentemente da questa ripresa del movimento di ritorno al soggetto trascendentale, così come l’abbiamo esaminata nel corso dell’inverno 1927, ci si può interrogare più precisamente sulla situazione o sullo statuto della riduzione fenomenologico-trascendentale in Essere e tempo. Infatti, se l’analitica del Dasein presuppone senza dubbio una critica radicale della fenomenologia trascendentale nella sua determinazione husserliana, essa ne è allo stesso tempo anche una radicalizzazione. Ma cosa significa in questo caso radicalizzare? Scavare per cogliere le cose alla loro radice non significa solo approfondire o superare secondo un movimento che oltrepassa un certo punto ma secondo una stessa direzione, e nemmeno stravolgere, ma ripetere o «ricominciare più originariamente (ursprünglicher wiederanfangen)».61 Come afferma acutamente Courtine,62 ciò che in Essere e tempo costituisce la ripresa della problematica husserliana dell’epochè e della riduzione fenomenologico-trascendentale è l’analisi del fenomeno dell’angoscia. I paragrafi di Essere e tempo dedicati all’analisi dell’angoscia sono stati commentati così tante volte — e così spesso in modo fuorviante — che si esita a tornare su queste pagine fondamentali nella struttura di quest’opera. L’interpretazione dell’analisi dell’angoscia ha infatti contribuito soprattutto a rinforzare il pregiudizio che caratterizza la prima ricezione dell’opera di Heidegger, all’insegna dell’«esistenzialismo». Ma ciò che stupisce ancora di più è il silenzio quasi generale che segna la seconda fase della ricezione heideggeriana: anche in questo caso, ciò che viene passato sotto silenzio è la questione decisiva della situazione «sistematica» dell’analisi dell’angoscia, la questione della sua funzione particolare all’interno dell’analitica del Dasein e rispetto alla questione generale del senso dell’essere. Proprio da questa funzione metodologica dell’analisi dell’angoscia bisogna partire se si vuole chiarire la sua dimensione propriamente fenomenologica come ripetizione rigorosa dell’epochè husserliana.

Che il tema dell’angoscia in Essere e tempo abbia potuto essere trattato isolatamente da alcuni commentatori è tanto più sorprendente quanto più Heidegger stesso espone chiaramente i requisiti metodologici determinati che dirigono tutta l’analisi. La descrizione dell’angoscia emerge infatti all’interno di un quadro ben più generale, quello dell’unità o dell’uni-totalità originaria della struttura totale del Dasein (§39). Come cogliere nuovamente ab origine la struttura del Dasein come essere-nel-mondo così come è stato messo in evidenza nei primi capitoli di Essere e tempo? L’essere-nel-mondo è una struttura originaria costantemente presente nella sua interezza. Come comprenderla nella sua totalità? Qual è l’unità che sottende questo svelamento originariamente strutturato? Scrive Heidegger: «Se vogliamo determinare ontologicamente la totalità unitaria delle strutture dell’Esserci, dobbiamo innanzitutto domandarci: il fenomeno dell’angoscia (e ciò che in esso viene aperto) è in grado di esibire la totalità dell’Esserci in modo così fenomenicamente cooriginario da fornire la prospettiva richiesta dalla determinazione della totalità unitaria?»63 Così Heidegger apre il §41, dedicato alla determinazione dell’essere del Dasein come Cura. La domanda richiama le ultime righe del paragrafo precedente, dedicato all’analisi dell’angoscia: «Entro quali limiti questa interpretazione esistenziale dell’angoscia ha raggiunto il terreno fenomenico richiesto dalla risposta al problema conduttore circa l’essere unitario dell’insieme delle strutture dell’Esserci?»64 Il fenomeno dell’angoscia è ciò attraverso cui il Dasein si dà nell’unità delle sue determinazioni strutturali, dunque ciò che si offre allo sguardo che cerca la totalità originaria del Dasein: esso costituisce pertanto il punto di avvio a partire dal quale l’interrogazione sull’essere del Dasein può continuare a progredire. In questo modo, l’analisi dell’angoscia si vede assegnare una duplice funzione: in primo luogo ricondurre all’unità ciò che è stato prima esplicitato nella sua diversità fenomenica, e infine, manifestando la fatticità costitutiva dell’esistenzialità del Dasein, liberare il senso ontologico ed esistenziale della cura come unità delle strutture ontologiche del Dasein stesso. Soffermiamoci un istante sul primo punto: l’esplicitazione, se vuole restare fedele alla diversità e alla molteplicità degli aspetti di ciò che essa mette in evidenza, rischia costantemente di «disorientare», «sviare la visione fenomenica unitaria dell’insieme come tale».65 La domanda che dirige sotterraneamente l’analisi dell’angoscia è quindi la seguente: come fissare lo sguardo fenomenologico sull’unità della totalità strutturale del Dasein che sta per essere messa in evidenza?

Com’è da determinarsi — domanda Heidegger — sul piano ontologico-esistenziale la totalità unitaria dell’insieme delle strutture che abbiamo visto manifestarsi? […] Sarà possibile cogliere nella sua totalità unitaria l’insieme delle strutture della quotidianità dell’Esserci? L’essere dell’Esserci si lascerà illuminare in modo così originario da poter scorgere in esso la cooriginarietà essenziale delle sue strutture e le relative possibilità di modificazione esistenziale? C’è una via per accedere fenomenicamente a questo essere, partendo dalla presente impostazione dell’analitica esistenziale?66

Ebbene, il metodo qui ricercato, il percorso in questione, non è certo quello della riduzione in senso husserliano, ma precisamente quello dell’analisi del fenomeno dell’angoscia. I requisiti metodologici dell’analisi del fenomeno in oggetto sono così perfettamente determinati: «l’essere dell’Esserci, che raccoglie ontologicamente in sè la totalità delle strutture, deve poter esser colto in uno sguardo d’insieme su questa totalità che veda in esso un fenomeno originariamente uno, già presente nella totalità delle strutture, in modo da fondare ontologicamente ogni momento di tali strutture nella sua stessa possibilità strutturale».67 Qual è questo fenomeno unitario? Come arrivare fino ad esso? Tutte domande che mettono in evidenza un problema fondamentale, che in ultima analisi è quello dell’accesso al Dasein, o meglio all’essere del Dasein. Qual è la via d’accesso ontico-ontologica che il Dasein esige da se stesso come la sola possibile? La risposta heideggeriana è nota: si tratta dell’angoscia, o meglio del sentimento fondamentale della situazione che costituisce «la più ampia e più originale fra le possibilità di apertura dell’Esserci stesso».68 Prima di soffermarci sul contenuto di questa risposta, è importante sottolineare qui la distanza critica che separa questa domanda sul modo d’accesso che il Dasein esige da se stesso dalla problematica husserliana della datità o auto-datità (Selbstgebung). L’analitica esistenziale del Dasein si svela sin dall’inizio contro la pretesa evidenza dell’Io e del suo esser-dato a se stesso. L’evidenza dell’Io e del suo essere immediatamente dato a se stesso deve essere sottoposta, nel quadro dell’analitica esistenziale, ad una critica radicale, anche se — come Heidegger concede a Husserl — questa evidenza può aprire la via ad una problematica fenomenologica autonoma che, in quanto «fenomenologia formale della coscienza», assumerà un significato fondamentale e generale. Se si vuol mantenere «il primato di un metodo di mostrazione dei fenomeni, fondato sul modo d’essere dell’ente in questione», bisogna opporsi al prestigio delle teorie «evidenti» e fare in modo che l’interpretazione fenomenologica «rimanga preservata da ogni deviazione», cioè mantenere aperta la possibilità che sia proprio l’Esserci, attraverso il suo modo d’essere quotidiano, a costituire «il fondamento del fatto che l’Esserci, innanzitutto e perlopiù, non è se stesso».69 Lasciando aperta — come fa Heidegger — la domanda sulla radice delle deviazioni che caratterizzano l’interpretazione «evidente» della costituzione ontologica del Dasein, non è più possibile compiere semplicemente la riduzione egologica senza chiedersi se questa operazione di riduzione all’Io autoevidente non abbia un carattere deduttivo, fondato precisamente sul modo d’essere quotidiano del Dasein:

Nel quadro dell’analitica esistenziale dell’Esserci effettivo — scrive Heidegger — sorge il problema se la suddetta datità dell’io riveli l’Esserci nella sua quotidianità, ammesso che, in generale, lo riveli. È veramente evidente a priori che l’accesso all’Esserci debba essere una riflessione puramente percettiva sull’io degli atti? E se questo «darsi a se stesso» dell’Esserci costituisse uno sviamento dell’analitica esistenziale radicato nello stesso essere dell’Esserci?70

Bisogna allora riprendere ex novo tutta la problematica dell’accesso all’essere del Dasein e trovare una via che, tenuto conto della distruzione del concetto ontologico del soggetto come auto-evidente, permetta di ricondurre il Dasein sino a se stesso, di comprenderlo nella sua ipseità più profonda, al di là della seduzione della presenza a sé dell’Io attraverso cui il Dasein quotidianamente si dissimula a se stesso. È chiaro che questa via si discosta molto dalla riduzione fenomenologica husserliana, ma è altrettanto vero che il percorso qui tentato — quello, per l’appunto, dell’analisi del fenomeno dell’angoscia — non potrà che svilupparsi parallelamente a quello della riduzione.

L’analisi del fenomeno dell’angoscia, nella misura in cui risponde all’esigenza metodologica di un accesso al Dasein che sia adeguato al Dasein stesso e che non cada nella «trappola» che esso stesso si tende mediante la «sua autointerpretazione abituale»,71 si ricollega direttamente alla domanda centrale del §25 di Essere e tempo: «Il punto di partenza della domanda esistenziale: chi è il Dasein?» L’analisi del fenomeno dell’angoscia è volta a determinare concretamente questa domanda esplicitando tematicamente la problematica dell’accesso all’essere del Dasein. Scrive Heidegger: «Della struttura ontologica dell’Esserci fa parte la comprensione dell’essere. Essendo, l’Esserci è aperto a se stesso nel suo essere. Situazione emotiva (Befindlichkeit) e comprensione (Verstehen) costituiscono il modo d’essere di questa apertura (Erschlossenheit)».72 Ci si può allora chiedere legittimamente se ci sia nel Dasein una tonalità affettiva comprensiva della gettatezza, entro cui e attraverso cui il Dasein si riveli a se stesso. La gettatezza qui in questione, come verstehende Befindlichkeit, è l’angoscia in quanto Grundstimmung, tonalità affettiva di fondo. Secondo Heidegger, l’angoscia rivela il Dasein a se stesso e nello stesso tempo svela il mondo come tale: è chiaro che, con questa determinazione del fenomeno dell’angoscia in quanto apertura del Dasein a se stesso e alla mondanità del mondo, Heidegger intende opporsi decisamente alla riduzione egologica di Husserl, che ai suoi occhi appare come un ritorno ad un «Io a-mondano» (weltloses Ich). Sottolineando l’identità di ciò per cui l’angoscia si svela — cioè per il Dasein stesso nel suo autentico poter-essere-al-mondo, e non per un modo d’essere e una possibilità determinati dal Dasein — e di ciò nei cui confronti l’angoscia emerge prepotentemente — e cioè la possibilità stessa dell’ente disponibile in generale, in altri termini il mondo stesso in quanto tale, e non l’ente intramondano determinato — Heidegger pensa di sfuggire all’astrazione della riduzione husserliana il cui residuo è l’Io puro. Da questo punto in poi l’analisi heideggeriana dell’angoscia può assumere alcuni tratti essenziali della riduzione egologica husserliana e opporvene altri radicalmente o sottilmente differenti. È così che nell’angoscia l’ente intramondano sparisce: «la totalità di appagatività costituita dagli utilizzabili e dalle semplici-presenze scoperti nel mondo, perde ogni importanza. Sprofonda in se stessa».73 Prosegue Heidegger: «Nell’angoscia l’utilizzabile intramondano e l’ente intramondano in generale sprofondano. Il mondo non può più offrire nulla, e lo stesso il con-Esserci degli altri».74 Ciò significa che il fenomeno dell’angoscia implica senza dubbio qualcosa come una «messa tra parentesi del mondo» nel senso della totalità dell’ente intramondano. Nell’indifferenza dell’ente intramondano che non è più rilevante si rivela il nulla, il niente del mondo. Ciò che l’angoscia rivela non è alcun ente intramondano, ma il nulla; tuttavia, questo nulla dell’ente disponibile non è un nulla totale, ma si fonda su qualcosa di più originario, sul mondo, laddove secondo Heidegger il mondo in quanto tale non è assolutamente concepibile come un ente, e tantomeno come la totalità dell’ente o l’insieme degli enti intramondani.

Il fenomeno dell’angoscia, in quanto annulla in qualche modo il mondo, manifestando così la possibilità del mondo come tale, conduce il Dasein a se stesso, lo «pone faccia a faccia con se stesso».75 È solo attraverso l’angoscia che il Dasein diventa accessibile a se stesso in una forma per così dire semplificata, nel senso che, scrive ancora Heidegger, «in ciò che essa [l’angoscia] rivela deve mostrarsi in modo elementare l’insieme unitario delle strutture dell’essere che andiamo cercando».76 Ma come si rivela questa semplificazione, la possibilità di chiarire l’unità elementare della totalità delle strutture del Dasein? L’angoscia semplifica in quanto isola. L’angoscia isola il Dasein strappandolo a ciò che Husserl chiamava Weltkindschaft, lo stato naturale proprio del bambino nei confronti del mondo, o la Weltvertrautheit, la familiarità mondana di colui che è immerso nel mondo. Nell’angoscia la familiarità quotidiana svanisce, tutto diventa estraneo (unheimlich); sebbene non riveli propriamente nulla, l’angoscia non è uno stato d’animo, ma un fenomeno. Ciò perché secondo Heidegger — e ancora una volta in opposizione a Husserl — il Dasein non può essere posto dinanzi a se stesso se non nell’orizzonte originario della Befindlichkeit e della Stimmung: in particolare, quest’ultima è il modo originario del Dasein, secondo cui esso si rivela a se stesso anteriormente alla conoscenza e al volere e in un modo completamente ulteriore rispetto a ciò che è accessibile a questi ultimi. Alla Stimmung è riconosciuto una sorta di primato ontologico in quanto essa rivela il Dasein nella sua finitezza, conduce il Dasein dinanzi al dass del suo Esser-ci. È precisamente — giova ricordarlo qui — il fatto di mancare questo dass, ossia la fatticità del Dasein, a condannare la riduzione egologica husserliana secondo la critica alla fenomenologia trascendentale che Heidegger conduce nei Prolegomeni. Questo passaggio da un orizzonte all’altro — dalla dimensione puramente trascendentale a quella ontologico-esistenziale — è di importanza decisiva per le sorti della riduzione in Essere e tempo. Non è l’analisi del solo vissuto intenzionale a condurre all’Io ridotto, non è nella sfera dell’intuizione che può svolgersi il percorso regressivo trascendentale: la Stimmung è costitutiva dell’intenzionalità stessa, dunque «la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo così possibile un dirigersi verso [gli enti intramondani]».77 Va notato che questa priorità assoluta della Stimmung è ciò che permette di determinare l’angoscia come «ciò che si impadronisce di noi»,78 senza più doversi preoccupare della problematica husserliana della motivazione della riduzione intesa come esercizio della nostra «intera libertà».79 Ma soffermiamoci ancora un istante sul sentimento di estraneità che si annuncia nel fenomeno dell’angoscia. In essa, l’essere-nel-mondo del Dasein si declina nella modalità esistenziale della spaesatezza, del non-essere-presso-di-sé (das Un-zuhause). In tal modo il Dasein si trova per cosi dire staccato dall’ente intramondano e dalla stessa Vorhandenheit: «l’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola. Questo isolamento va a riprendere l’Esserci dalla sua deiezione e gli rivela l’autenticità come possibilità del suo essere. Nell’angoscia le possibilità fondamentali dell’Esserci, che è sempre mio, si rivelano in se stesse, senza l’intrusione dell’ente intramondano a cui l’Esserci si aggrappa innanzitutto e perlopiù».80 L’angoscia consegna il Dasein a se stesso dinanzi alle sue possibilità più proprie, che in definitiva sono ricomprese nell’alternativa fondamentale tra autenticità e inautenticità. Così, ciò di cui l’angoscia libera il Dasein non è, come nel caso della riduzione trascendentale, l’atteggiamento naturale, ma la deiezione, l’assorbimento nel si pubblico e la preoccupazione per l’ente intramondano: per ricondurre il Dasein dinanzi a se stesso, l’angoscia deve opporsi precisamente alla «fuga dal suo poter-essere autentico» — dunque anche dalla morte — cioè da quella fuga che caratterizza la deiezione come dissimulazione e coprimento dell’autenticità dell’esistenza. In ultima analisi, riconducendo il Dasein a se stesso, l’angoscia riduttiva gli rivela il suo poter-essere più proprio, o meglio il suo «essere-libero per il suo poter-essere più proprio».

Ricapitoliamo. Alla luce del breve percorso finora tentato, sembra legittimo contestualizzare l’impresa teorica heideggeriana entro il quadro della fenomenologia. Nonostante tutte le differenze a cui si è finora soltanto accennato, ci sembra impossibile sostenere perentoriamente che la riduzione fenomenologica, vero fondamento del metodo fenomenologico, sia assente in Essere e tempo. Senza dubbio, l’opera del 1927 non presuppone tanto la riduzione — come suggeriva Merleau-Ponty — come suo preambolo necessario e indiscusso, ma si snoda a partire dalla critica al metodo husserliano che Heidegger compie già nel 1925, nei Prolegomeni e nei Problemi fondamentali della fenomenologia. Tuttavia queste critiche, in quanto critiche immanenti, non mirano a rigettare tout court il grande passo avanti costituito dalla riduzione, come del resto testimoniano i corsi del 1927 successivi a Essere e tempo, in cui Heidegger riadotta il termine «riduzione» sottolineando la reciproca appartenenza tra riduzione ontologica e trascendentale. Come si è visto, il percorso teorico di Essere e tempo si fonda sull’idea di una radicalizzazione della riduzione fenomenologico-trascendentale di Husserl. Tuttavia, radicalizzare significa per Heidegger mettere in luce tutte le limitazioni della riduzione e come esse ineriscano alla natura stessa della riduzione husserliana o al suo modo d’esposizione,81 sottolineando le mancanze essenziali che essa condivide con la tradizione metafisica: la dissociazione dell’Io fattuale dall’Io puro, la predeterminazione del senso dell’essere come essere-presente e come Vorhandenheit, e soprattutto l’oblio di ogni interrogazione sul modo d’essere proprio dell’intenzionale. Tuttavia, pur dovendo tenere conto di queste critiche heideggeriane alla riduzione husserliana, bisogna riconoscere che esse non ne minano radicalmente il valore, in quanto solo la fedeltà di Heidegger al principio della riduzione può giustificare il mantenimento del termine «fenomenologia» da un capo all’altro della sua opera. Ma nonostante Heidegger non modifichi sostanzialmente la formula iniziale della fenomenologia — zu den Sachen selbst —, la riduzione subisce in Essere e tempo una serie di trasformazioni: così come si mostra nel fenomeno dell’angoscia, essa conduce il Dasein dinanzi a se stesso, rivela la sua ipseità, la sua estraneità, il suo essere libero per il suo poter-essere più proprio, sottraendolo alla Verfallenheit e aprendolo al suo essere-nel-mondo. Ciò significa che, riconducendo il Dasein a se stesso, l’angoscia lo apre allo stesso tempo al mondo come tale. Forse esagerando appena, si potrebbe affermare che, nella sua funzione metodologica, l’angoscia riduttiva non è assolutamente differente dalla riduzione trascendentale husserliana, la differenza va ricercata semmai nella dimensione completamente nuova entro cui la riduzione dell’angoscia avviene: non più quella riflessiva, dell’intuizione e dell’astrazione, ma quella della Stimmung, della tonalità affettiva come essere originariamente aperto al mondo e della Befindlichkeit come sentimento della fatticità dell’esistenza e della sua costante gettatezza e deiezione.

Infine, è necessario indicare almeno sommariamente un ultimo tratto — probabilmente il più importante — che contraddistingue la riduzione messa in opera dall’angoscia in relazione alla riduzione trascendentale husserliana. Infatti la riduzione che compie l’angoscia insorge per così dire da se stessa: die Angst überfällt, scrive Heidegger. L’angoscia si impadronisce di noi, è Grundstimmung, tonalità affettiva di fondo, a partire da cui si danno le varie Stimmungen, le differenti modalità dell’accordo o disaccordo nei confronti del mondo.82 In questo senso, l’angoscia si distingue radicalmente da ogni altra procedura metodologica di riduzione: infatti essa non è volta, come la riduzione husserliana, a mettere in evidenza nella sua irriducibilità la regione-coscienza, rimarcandone la Ur-scheidung e chiarendo fenomenologicamente la separazione della sfera dell’immanenza pura dalla realtà trascendente, ma è piuttosto il sorgere della differenza ontologica (Ontologische Unterschied). Quando, nel 1949, in occasione della redazione della prefazione alla terza edizione de L’essenza del fondamento, Heidegger tornerà sulla sua lezione inaugurale del 1929 in omaggio a Husserl, scriverà: «Il trattato Dell’essenza del fondamento fu composto nel 1928 contemporaneamente alla prolusione Che cos’è metafisica? Questa riflette sul niente, quello nomina la differenza ontologica».83 Benché quest’affermazione sia senz’altro esatta, ci si può domandare se la differenza ontologica, senza essere espressamente formulata come tale, non si annunci già chiaramente non soltanto nell’analisi dell’angoscia contenuta in Che cos’è metafisica? , ma anche nelle pagine di Essere e tempo ad essa dedicate. L’angoscia riduttrice non segna il vero «abisso di senso» che separa la coscienza dalla realtà, ma rivela più originariamente il Dasein stesso come esser-ci, cioè come il luogo stesso della differenza ontologica. La riduzione operata dall’angoscia svela «l’evento di fondo del nostro esser-ci».

4. Fenomenologia e ontologia

Il breve percorso finora seguito permette di assumere, almeno operativamente, la tesi — peraltro avvallata da molti autorevoli critici heideggeriani, fra cui Jean Beaufret e il già citato Jean-François Courtine, ma come si vedrà in seguito anche da Jean-Luc Marion — secondo cui il pensiero di Heidegger, benché muova delle precise critiche ai fondamenti del metodo fenomenologico husserliano e se ne distacchi significativamente, sia legittimamente leggibile entro il quadro teorico della fenomenologia. Come si è avuto modo di sottolineare, la pubblicazione dei corsi svolti a ridosso dell’uscita di Essere e tempo — e cioè dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo e de I problemi fondamentali della fenomenologia — forniscono tutti i termini necessari per sostenere che, lungo tutto il corso della sua riflessione, Heidegger ha sempre inteso porsi come un fenomenologo e ha sempre considerato la fenomenologia come il presupposto irrinunciabile della Seinsfrage. Ciò ovviamente non fa che complicare le cose, e impone di approfondire il rapporto Husserl-Heidegger a proposito del metodo e dei fondamenti della fenomenologia. Una volta introdotti, attraverso la questione della riduzione, nel nucleo problematico delle vicende della fenomenologia nel passaggio da Husserl a Heidegger, i poli attorno ai quali il nostro percorso dovrà procedere sono costituiti dai concetti di fenomeno e differenza ontologica, tutti inscrivibili nella questione più generale del rapporto tra fenomenologia e ontologia nelle varianti che i due filosofi tedeschi fanno assumere a tale relazione. Tentiamo, ancora in forma preliminare, una breve ricognizione sulla nozione di fenomeno, cercando di aprire una via per la sua considerazione fenomenologico-ontologica.

In sostanziale accordo, Husserl e Heidegger caratterizzano il fenomeno come ciò che si mostra da sé. In altri termini, non vi è nulla dietro i fenomeni, non è necessario oltrepassarli per coglierli in se stessi, ma essi si offrono da se stessi e in se stessi.84 Tuttavia, anche se il fenomeno si dà e dà la cosa in se stessa, può succedere che non si mostri affatto, cioè può accadere che ciò che dovrebbe svelarsi rimanga celato, nascosto. Scrive Heidegger: «Si tratterà, evidentemente di qualcosa che innanzitutto e per lo più non si manifesta, di qualcosa che resta nascosto (Verdeckt) rispetto a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, e nel contempo di qualcosa che appartiene, in liena essenziale, a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, in modo da esprimerne il senso e il fondamento».85 Ciò che di diritto , bisogna tuttavia che si dia: occorre che i fenomeni si diano, cioè che ciò che dà si dia. Ma perché è necessario che ciò che dà si dia? Precisamente perché innanzitutto e perlopiù ciò che dovrebbe darsi non si dà, il fenomeno rimane nascosto, occultato. Si domanderà quale sia — sul piano della fenomenalità — il fondamento di un tale occultamento originario del fenomeno; tuttavia, su questo punto Essere e tempo non è del tutto esauriente, in quanto la tendenza al ricoprimento del fenomeno è attribuita da Heidegger interamente al Dasein e alla sua costituzione ontologica, di cui la Verfallenheit è tratto essenziale. È dunque il modo d’essere del Dasein che rende ragione del fatto che ciò che si dà è in realtà già sempre ricoperto, in modo tale che il «mostrare», il «far vedere», assumeranno sempre la forma della distruzione, o meglio, della decostruzione.86 Dobbiamo pertanto completare la prima determinazione formale del fenomeno e della sua fenomenalità — secondo cui, come si è visto, il fenomeno è ciò che si manifesta da se stesso e in se stesso — con quest’altra tesi decisiva: l’essere-coperto, la dissimulazione non costituisce semplicemente il contrario del fenomeno, il suo termine contraddittorio, ma piuttosto il contro-concetto del fenomeno (Gegenbegriff zu Phänomen), e in questo senso il suo termine complementare, ciò che vi combacia specularmente. Ma se ciò che può essere fenomeno è innanzitutto e perlopiù nascosto e ricoperto, tale ricoprimento (Verdeckung) può assumere forme differenti, dalla dissimulazione all’oblio: se la possibilità del ricoprimento appartiene essenzialmente alla struttura stessa della fenomenalità, è perché «i fenomeni perdono il contatto col loro terreno originario» e, così espropriati, i concetti fenomenologici «finiscono per divenire tesi nebulose».87 Il fenomeno è dunque naturalmente esposto all’occultamento costitutivo della trasmissione e della tradizione; la minaccia pende sempre su tutti i fenomeni in quanto tali:

Il coprimento, sia esso nascondimento, ricoprimento o travestimento, ha una duplice possibilità. Ci sono coprimenti casuali e coprimenti necessari; questi ultimi si radicano nel modo di essere di ciò che è scoperto. Ogni concetto fenomenologico e ogni principio originariamente scoperti, per il fatto di essere comunicati sotto forma di enunciati, sono esposti alla possibilità della degenerazione. (Entartung) .88

Tuttavia, se è possibile e legittimo distinguere tra ricoprimento fortuito e ricoprimento necessario, bisogna ammettere senza esitazioni che il ricoprimento che minaccia costantemente il fenomeno nell’originarietà del suo mostrarsi è necessario, in quanto nessun fenomeno può mostrarsi una volta per tutte. Esso deve dunque mostrarsi ogni volta a partire dalla sorgente donante, la Sache selbst che si mostra: il ricoprimento diviene ineluttabile, come una fragilità essenziale del fenomeno legata al suo inesorabile occultarsi. Ciò significa che l’originarietà del fenomeno è già sempre un qualche cosa da riconquistare e da salvare dalla degenerazione quasi necessaria in quanto connessa al Verfallen, tratto ontologico costitutivo del Dasein. Da un punto di vista strettamente fenomenologico, poiché il fenomeno non è mai dato e assicurato nella sua fenomenalità, quest’ultima deve sempre essere conquistata lottando contro le varie forme di ricoprimento: ciò fa luce sul carattere metodico proprio della fenomenologia, implicito nel fatto che le cose non sono innanzitutto e per lo più date in se stesse ad una semplice intuizione, ad un «puro vedere», ma devono essere liberate al termine di un percorso che mira precisamente a dis-fare le dissimulazioni e gli occultamenti. Alla luce di queste considerazioni, il motto fenomenologico Zu den Sachen selbst esplica tutta la sua portata programmatica e di consapevole impegno nel mettersi «in cammino verso i fenomeni».

Come spesso accade, tuttavia, la situazione è più complessa. Infatti, assumendo tale definizione heideggeriana del fenomeno, ci si deve interrogare sulla ragione per cui, in Essere e tempo, Heidegger introduca un pre-concetto, o un concetto provvisorio della fenomenologia intesa come ontologia universale. Ma allora, in cosa consisterebbe un concetto definitivo di fenomenologia? Va notato innanzitutto che né nei Prolegomeni, la cui parte introduttiva costituisce la discussione più ampia che Heidegger abbia mai compiuto con la fenomenologia husserliana, né nei Problemi fondamentali della fenomenologia si trova la distinzione tra preconcetto e idea della fenomenologia. Perché questa distinzione compare soltanto in Essere e tempo? Una prima risposta si trova al §69: l’esposizione completa dell’idea di fenomenologia non potrà aver luogo se non dopo aver chiarito il problema generale dell’essere e della verità, e aver infine elaborato il concetto esistenziale di scienza — non va dimenticato che la fenomenologia è definita da Heidegger come metodo dell’ontologia, cioè della filosofia scientifica.89 Si chiarisce così la ragione per cui la determinazione compiuta della fenomenologia non può essere esposta che alla fine, sotto la forma di «idea», cioè solo quando il senso dell’essere e la verità saranno stati esposti compiutamente. Se è vero che la fenomenologia è l’unico metodo in grado di soddisfare le esigenze della Seinsfrage, allora il suo concetto provvisorio non può e non deve cedere il posto all’idea compiuta fino a quando la fenomenalità del fenomeno non sia stata liberata e resa fenomenologicamente visibile. Si può altresì spiegare, in maniera molto — forse troppo — generale, l’annuncio della necessità della ripresa del concetto provvisorio da parte dell’idea compiuta, sottolineando tutto ciò che in Essere e tempo è propedeutico, preparatorio o precursore. Per esempio, al §5 (L’analisi ontologica dell’Esserci come liberazione dell’orizzonte per un’interpretazione del senso dell’essere in generale), Heidegger indica che, posto che un’analitica del Dasein costituisca il primo requisito nella questione dell’essere, e se dunque l’analitica così concepita è «interamente orientata sul compito principale dell’elaborazione della questione dell’essere», questa analitica è a sua volta «non solo incompleta, ma innanzitutto provvisoria (vorläufig). Essa inizia soltanto a liberare l’essere di un dato ente, senza interpretarne il senso. È la liberazione dell’orizzonte per un’interpretazione più originaria dell’essere che essa è volta a preparare».90 Una volta compiuta una tale interpretazione o, in altri termini, una volta liberato un tale orizzonte, allora «l’analitica preparatoria dell’Esserci esigerà di essere ripetuta su una base ontologica più elevata e autentica».91

Tuttavia, si tratta di una prospettiva ancora troppo generale e insufficiente. Se tentiamo di riesporre, a titolo di idea direttrice, il concetto provvisorio della fenomenologia come concetto di metodo, non è perché la fenomenologia caratterizzi innanzitutto il primo gesto, il punto d’avvio che, passando attraverso l’analitica del Dasein, mira a conquistare un accesso all’essere in generale. Al contrario, vorremmo rischiare l’ipotesi seguente: il metodo fenomenologico è richiesto dalla questione dell’essere proprio in quanto consiste innanzitutto nel mettere in luce la comprensione dell’essere come carattere costitutivo, ancorché pre-ontologico, dell’Esserci. In altri termini, proprio perché la Seinsfrage non può essere concretamente costruita se non a partire e attraverso l’analitica del Dasein — a titolo di ontologia fondamentale —, il metodo fenomenologico s’impone da sé come unico in grado di sottrarre all’oblio la questione dell’essere. Questa ipotesi poggia sul passaggio dei Prolegomeni in cui Heidegger non esita a determinare l’analisi di quel particolare ente privilegiato in ogni domanda ontologica — anzi, che costituisce esso stesso il domandare — come «fenomenologia del Dasein». Se il primato ontologico del Dasein si svela allo sguardo fenomenologico e se il metodo fenomenologico si impone come l’unico possibile per la costruzione della domanda sul senso dell’essere, è in primo luogo perché esso corrisponde all’esigenza di accedere all’essere dell’Esserci e perché realizza il modo di manifestazione richiesto da quest’ultimo. Come si dà questo particolare ente — il più prossimo ma allo stesso tempo il più lontano — che è il Dasein? Come dev’essere messo in luce in vista della fenomenalità dell’essere? Si tratta di difficoltà specifiche contro cui si scontra ogni tentativo di chiarificazione dell’essere dell’Esserci, e in particolare della sua tendenza fondamentale alla deiezione. Si potrebbe giungere a sostenere che l’ontologia non è fenomenologica se non in quanto fenomenologia o «metafisica dell’Esserci»92: è perciò il primato ontico-ontologico del Dasein, la necessità del passaggio attraverso l’analitica esistenziale, ad imporre l’adozione del metodo fenomenologico nella costruzione della domanda sul senso dell’essere. Quest’ipotesi solleva immediatamente una serie di obiezioni che vanno tenute presenti, tutte imperniate sul seguente nucleo tematico. Nei paragrafi «metodologici» di Essere e tempo, Heidegger determina il fenomeno proprio della fenomenologia come fenomeno d’essere, definendo il proprio progetto ontologico fondamentale «ontologia universale e fenomenologica»93 e concependo quindi la fenomenologia come scienza dell’essere; soprattutto, egli non introduce formalmente il metodo fenomenologico se non per chiarire quale debba essere la Sache dell’ontologia stessa, cioè l’interpretazione del senso dell’essere: l’essere è dunque, in un certo senso, la «cosa stessa» della fenomenologia, ma precisamente nella misura in cui esso è — ancora più originariamente — Sache des Denkens, «cosa del pensiero». Tuttavia, pur riconoscendo il valore di queste obiezioni, riteniamo che l’ipotesi sulla predeterminazione della fenomenologia in Essere e tempo come fenomenologia del Dasein possieda un notevole valore euristico: infatti, essa mette in evidenza — il punto è molto noto, ma di importanza capitale — il legame inestricabile e la coappartenenza intima tra la questione del senso dell’essere e quella dell’essere del Dasein, rimarcando solidamente l’unità tra essere e comprensione dell’essere. Ammesso che l’essere si dia, si dà come comprensione dell’essere: indipendentemente da tale comprensione, esso non è nulla.94 Certo, ciò che è caduto nell’oblio è la questione dell’essere, ed è quest’ultima a dover essere elaborata attraverso un complesso dispositivo teorico. Cionondimeno, nella prospettiva di Essere e tempo — se non del suo progetto, almeno della sua parte compiuta —, lo svelamento fenomenologico che emerge ha innanzitutto per oggetto il Dasein, la sua precomprensione e il suo modo d’essere quotidiano: proprio perché innanzitutto e perlopiù il Dasein non è dato, è necessario aprire un accesso al suo essere e al senso di questo essere. Uno dei tratti fondamentali dell’Esserci è la sua contemporanea vicinanza e lontananza da se stesso: come scrive Heidegger, «onticamente vicinissimo a se stesso», il Dasein è «ontologicamente lontanissimo».95 In altri termini, la datità del Dasein, lungi dall’essere immediatamente evidente, deve essere conquistata metodicamente attraverso un percorso il più cauto possibile: l’analitica esistenziale assume perciò un carattere metodico sia in riferimento alla struttura formale della Seinsfrage, sia al modo di presentazione di questo ente particolare. Parafrasando lo stesso Heidegger, il modo d’essere del Dasein richiede un’interpretazione ontologica volta a pervenire all’originarietà della mostrazione fenomenale, facendo emergere con forza — è lo stesso Heidegger ad ammettere che l’analitica esistenziale possegga un carattere di violenza — l’essere di questo ente contro la sua costitutiva tendenza al nascondimento.

Rivolgiamoci, a conclusione del nostro percorso — che è innanzitutto un invito a pensare ancora questo nodo irrisolto interno alla fenomenologia, nella prospettiva di una sempre più profonda autocomprensione futura — al problema del rapporto tra fenomenologia e ontologia, essenziale per mettere a fuoco la portata della “rottura nella continuità” tra Husserl e Heidegger. Scrive Heidegger nei Problemi fondamentali della fenomenologia: «La fenomenologia costituisce il modo d’accesso a ciò che deve divenire il tema dell’ontologia».96 In altri termini, e secondo una formula ben nota, Heidegger considera la fenomenologia come «metodo dell’ontologia». Ma che cos’è l’ontologia — intesa come domanda sul senso dell’essere — indipendentemente dal problema dell’accesso, della tematizzazione e del cammino verso il suo tema costitutivo? O ancora: è legittimo chiedersi cosa sia l’ontologia indipendentemente dal proprio ancoraggio ad una fenomenologia del Dasein? La fenomenologia, come si è detto, è il metodo dell’ontologia. Tuttavia, questo non significa che la fenomenologia permanga in una posizione di subordinazione, quasi strumentale, nei confronti dell’ontologia come disciplina costituita; al contrario, significa che «la ricerca fenomenologica è il progetto che cerca il metodo che è l’ontologia»97: l’ontologia fenomenologica è essenzialmente metodo, messa in cammino, cioè esperienza di pensiero. Mein Weg in die Phänomenologie — queste parole non rinviano soltanto al titolo dell’omaggio che Heidegger rende nel 1963 all’editore Niemeyer: esse offrono la formula di ciò che muove sin dalle origini tutto il percorso teorico heideggeriano, costituendone la cosa stessa. Perciò, il saggio così intitolato — ripreso poi nel 1969 in Zur Sache des Denkens — non mira semplicemente a descrivere una tappa di ciò che a posteriori risulta essere il cammino di pensiero di Heidegger; in altri termini, quest’ultimo non si limita a ricordarci di «esser passato attraverso la fenomenologia» e di avervi soggiornato per cercarvi ciò che avrebbe dovuto divenire il nucleo del proprio pensiero. Al contrario, il cammino nella fenomenologia non solo non si limita a segnare una tappa da superare in seguito, destinata a togliersi per cedere il passo ad un’altra dimensione del pensiero, ma indica piuttosto la possibilità principale di una tale dimensione, cioè l’essere in cammino entro quel luogo. Il Weg nella fenomenologia — il cammino che affonda in essa, anche col rischio di perdersi, come in una foresta, il cammino che cerca costantemente una via d’accesso al cuore della fenomenologia, là dove essa assume la nuova luce come autentica esperienza del pensiero — caratterizza propriamente tutto il percorso di Heidegger, posto che esso venga inteso — nella lotta costante per la fenomenologia, per le sue capacità e le sue possibilità di confronto — nella sua portata di ridefinizione dell’esperienza del pensiero come Be-wegung, Er-fahrung, cioè come metodo. Fare esperienza della fenomenologia, sperimentarla a fondo fino a ciò che ne costituisce il punto d’avvio ultimo, ecco l’intendimento di fondo del pensiero heideggeriano: come Heidegger stesso precisa in una lettera a Jean Beaufret, il titolo del saggio del 1963 indica «il modo in cui il mio cammino si è aperto aprendo la fenomenologia».98 E infatti un tale percorso non può che procedere entro l’apertura della fenomenologia, posto tuttavia che questa sia aperta a se stessa, cioè libera per ciò che le è proprio: in questo senso, si può dire che Heidegger si appropri della fenomenologia in un pensiero che diventa sempre più necessario considerare nella sua dimensione specificamente fenomenologica.

Al termine di questo breve percorso, è legittimo affermare che, in qualunque modo si declini il rapporto tra Husserl e Heidegger, non si può concepire l’impresa filosofica inaugurata da Essere e tempo come un abbandono del terreno99 della fenomenologia o come un tentativo esplicito di «secessione» o di ri-orientamento radicale. L’ontologia fenomenologica di Essere e tempo, non più della fenomenologia ermeneutica volta a prepararla in quanto analitica del Dasein, non costituisce una nuova tendenza della fenomenologia: il suo compito, piuttosto, è di «pensare più originariamente che cosa sia la fenomenologia»,100 ossia misurare la sua importanza e il suo significato, anche se — al limite estremo — fosse necessario rinunciare al titolo stesso di «fenomenologia» ed esporre tutto il progetto al rischio dell’anonimato. «La fenomenologia — scrive Heidegger a conclusione del suo omaggio a Niemeyer — non è affatto una corrente filosofica. Essa è la possibilità del pensiero — possibilità che si trasforma nei tempi, perchè solo così può rimanere una possibilità — di corrispondere all’appello di ciò che è da-pensare».101 La fenomenologia è la possibilità del pensiero proprio in quanto essa chiarisce il suo carattere originario di «essere in cammino», riconducendolo così alla propria Sache, ciò che dà da pensare e che chiama al pensiero. Il cammino non è mai pre-tracciato, e tantomeno anticipabile, ma si annuncia al pensiero solo strada facendo (unterwegs), poiché — come recita l’esergo di Wegmarken - «il cammino si mostra e si ritira». Il cammino, l’essere in cammino, il mettersi in cammino: ecco la cosa stessa della fenomenologia. Solo in questo senso la fenomenologia è metodo, e non certo nella sua determinazione metafisica di procedura. Come ritrovare la via verso l’«essenza del cammino»? — domandava Heidegger in una delle ultime riflessioni. Di certo non confondendo il cammino e il metodo inteso nella sua accezione metafisica; ma, forse, anche seguendo il percorso della fenomenologia, cioè il sottile ma decisivo spostamento grazie a cui il metodo fenomenologico husserliano s’incammina102 e può sperimentare il Wegcharakter des Denkens, il cammino del pensiero.


  1. Le analisi qui tentate sono profondamente debitrici nei confronti dell’illuminante saggio di Jean-François Courtine, Heidegger et la phénoménologie, Parigi, Vrin 1990, e in particolare del capitolo intitolato Réduction phénoménologique-transcendentale et différence ontico-ontologique, rielaborazione di una relazione presentata in occasione di un convegno svoltosi presso l’Università di Poitiers nel 1982. ↩︎

  2. E.Husserl, Briefe an Ingarden, L’Aia, Nijhoff 1969, p. 56 [trad. nostra]. ↩︎

  3. E.Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, Milano, Bompiani 1997 (tit. orig. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, L’Aia, Nijhoff 1950). ↩︎

  4. Ivi, p. 155. ↩︎

  5. E.Husserl (a cura di), Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Halle, M.Niemeyer 1930 e segg. ↩︎

  6. E.Husserl, Lettere a Ingarden, cit., p. 43 [trad. nostra]. ↩︎

  7. Questa lettera si trova in R.Cristin, Fenomenologia, storia di un dissidio, Milano, Unicopoli 1986. ↩︎

  8. E.Husserl, Husserliana, Gesammelte Werke (Hua), IX, L’Aia, M.Nijhoff , p. 600 [trad. nostra]. ↩︎

  9. Il testo di questa conferenza di Husserl è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista americana Philosophy and Phenomenology Research, II, 1941, p. 1-14, poi ripubblicato in Hua, XXVII, cit. ↩︎

  10. Pubblicato nel volume IX del Jahrbuch, cit. ↩︎

  11. E.Husserl, Hua, V, cit., p. 138 [trad. nostra]. ↩︎

  12. Ivi, p. 140 [tra. nostra]. ↩︎

  13. Come ricorda D.Cairns, Husserl avrebbe potuto rivolgersi a Heidegger in questi termini: «La fenomenologia siamo io e Lei!» (D.Cairns, Conversation with Husserl and Fink, L’Aia, Nijhoff 1976, p. 9). ↩︎

  14. E.Husserl, La crisi delle scienze europee, Milano, Il Saggiatore 1961 (tit. orig. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, L’Aia, Nijhoff 1959; il testo è stato pubblicato per la prima volta in Hua, VI, cit.); il Beilage XIII si trova alle pagg. 456-468 della trad. it. ↩︎

  15. M.Heidegger, Tempo ed essere, Milano, Longanesi 2007 (ultima ed.) (tit. orig. Zur Sache des Denkens, Tubinga, M.Niemeyer 1969). ↩︎

  16. E.Husserl, Ricerche Logiche, Milano, Il Saggiatore 1968 (tit. orig. Logische Untersuchungen, Tubinga, M.Niemeyer 1913, seconda ed.). ↩︎

  17. E.Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 292, nota 13. ↩︎

  18. Secondo Heidegger, il segno di questa rottura tra le Ricerche logiche e le opere successive è rinvenibile nel saggio del 1911 La filosofia come scienza rigorosa, Roma-Bari, Laterza 2001 (tit. orig. Philosophie als strenge Wissenschaft, pubblicato per la prima volta nel 1911 sulla rivista internazionale Logos↩︎

  19. M.Heidegger, Questions IV, Parigi, Gallimard 1976, p. 79 [trad. nostra]. ↩︎

  20. E.Husserl, L’idea della fenomenologia, Roma-Bari, Laterza 1992 (tit. orig. Die idee der phänomenologie, in Hua, II, cit.). ↩︎

  21. M.Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, cit., pp. 73-94. ↩︎

  22. E.Husserl, L’idea della fenomenologia, cit, p. 49. ↩︎

  23. E.Husserl, Hua, II, cit., p. 58 [trad. nostra]. ↩︎

  24. E.Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi 1965, ultima ed. 2002 (tit. orig. Ideen zu einer reinen phänomenologie, in Hua, V, cit.). ↩︎

  25. Lo stesso Husserl nota a margine di questa pagina della copia personale delle Ideen: “Phänomenologie als Erste Philosophie” (Hua, V, cit., p. 479). ↩︎

  26. E.Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, Milano, Il Saggiatore 1990, pp. 230-231 (tit. orig. Kant und die Idee der Transzendentalphilosophie, in Hua, VII, cit.). ↩︎

  27. R.Boehm, Philosophie première, L’Aia, Nijhoff 1968 (gli stessi corsi del 1923-’24 sono stati pubblicati, col titolo di Erste philosophie, anche in Hua, VII-VIII, cit.). ↩︎

  28. E.Fink, Studien zur Phänomenologie, L’Aia, Nijhoff 1966, pp. 105-106 [trad. nostra]. ↩︎

  29. Ivi, p. 105 [trad. nostra]. ↩︎

  30. Cfr. soprattutto Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, in Tempo ed essere, cit. e l’ultimo Seminario di Zähringen, Francoforte sul Meno, Klostermann 1977. ↩︎

  31. Questa schematizzazione è stata ben illustrata da J.L.Marion in Réduction et donation, cit. ↩︎

  32. Cfr. in particolare W.Biemel, «Husserls Encyclopaedia-Britannica-Artikel», in Tijdschrift voor Philosophie, 12, 1950, pp. 246-280, ripreso nel volume collettivo Husserl, Darmstadt, Kluwer 1973. ↩︎

  33. È il caso, ad esempio, di H.Dreyfus e J.Haugeland, «Husserl and Heidegger: Philosophy’s Last Stand», in Heidegger and Modern Philosophy, Londra 1978, e soprattutto di R.Schacht, «Husserlian and heideggerian Phenomenology», in Philosophical Studies, 23, 1972, pp. 293-314. ↩︎

  34. Scrive Landgrebe a tal proposito: «Prima di compiere la riduzione e di portare avanti, a partire da questo presupposto, le analisi costitutive della coscienza, bisogna evidenziare i fili conduttori mettendo in luce il mondo così come si apre in un’esperienza originaria.» (L.Landgrebe, Phänomenologie und Metaphysik, Amburgo, M. von Schroder 1949). ↩︎

  35. M.Merleau-Ponty, Prefazione alla Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani 2003 (tit. orig. Phénoménologie de la pércéption, Parigi, Gallimard 1945). ↩︎

  36. Questo è la tesi, ad esempio, di E.Tugendhat, Der Warheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, Berlino, De Gruyter 1970, p. 263. ↩︎

  37. M.Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova, Il Melangolo 1999 (tit. orig. Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Francoforte sul Meno, Klostermann 1975). ↩︎

  38. Ivi, p. 124. ↩︎

  39. Ivi, p. 136. ↩︎

  40. Ivi, p. 134. ↩︎

  41. Ivi, p. 138. ↩︎

  42. Scrive Heidegger a tale proposito: «Essa [la riduzione] prescinde dal fatto che gli atti siano i miei o quelli di un altro uomo individuale e li considera solo secondo il loro che-cosa. Il che-cosa, cioè la struttura degli atti, essa lo prende bensì in considerazione, ma non per questo viene tematizzato il modo d’essere, l’essere-atto come tale». (Ivi, p. 137). ↩︎

  43. Ivi, p. 138. ↩︎

  44. M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, Genova, Il Melangolo 1988 (tit. orig. Die Grundprobleme der Phänomenologie, Francoforte sul Meno, Klosterman 1975). ↩︎

  45. M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Milano, Adelphi 1994 (terza ed.), pp. 267-315 (tit. orig. Briefe über den humanismus, in Wegmarken, Francoforte sul Meno, Klosterman 1976). ↩︎

  46. Questa terza parte risulta ancora suddivisa in quattro capitoli: 1) Il fondamento ontico dell’ontologia e l’analitica del Dasein in quanto ontologia fondamentale; 2) L’apriorità dell’essere: possibilità e struttura della conoscenza a priori; 3) Gli elementi fondamentali del metodo fenomenologico: riduzione, costruzione, distruzione; 4) L’ontologia fenomenologica e il concetto di filosofia. ↩︎

  47. Cfr. M.Heidegger, Iproblemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 22, sezione C. ↩︎

  48. M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 19. ↩︎

  49. M.Heidegger, Fenomenologia e teologia, in Segnavia, cit., pp. 3-34 (tit. orig. Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, cit.). ↩︎

  50. Ivi, p. 6. ↩︎

  51. M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 19. Il filo conduttore della caratterizzazione heideggeriana della riduzione è senza dubbio l’analisi della riduzione trascendentale che Husserl espone al §53 delle Ideen: «L’essere da noi ricercato non è altro se non ciò che per motivi essenziali può venir indicato come “puri Erlebnisse”, pura coscienza con i suoi puri correlati e d’altra parte il suo puro io […]. La coscienza in se stessa ha un suo essere proprio, che non viene toccato nella sua assoluta essenza dalla neutralizzazione fenomenologica. Essa rimane quindi come residuo fenomenologico, come una caratteristica regione dell’essere, che può effettivamente diventare il campo di una nuova scienza, della fenomenologia». (E.Husserl, Idee per una fenomenologia pura, cit., pp. 117-118). ↩︎

  52. Ibidem. ↩︎

  53. Ivi, p. 20. ↩︎

  54. Ibidem. Il concetto di costruzione viene in questo caso a sostituire quello husserliano di costituzione; senza dubbio, sia per Husserl sia per lo Heidegger di Essere e tempo, il termine costruzione si intende sempre in un’accezione spregiativa, in quanto la fenomenologia, conformemente alla propria massima di ritorno alle cose stesse, combatte contro ogni costruzione o «rivestimento di idee» che mascherano l’originarietà del dato. Heidegger abbandonerà quest’espressione subito dopo il libro su Kant e il problema della metafisica, (M.Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Milano, Silva 1962; tit. orig. Kant und das Problem der Metaphysik, prima ed. Francoforte sul Meno, Klosterman 1951, poi ripubblicato in Gesamtausgabe, XVIII, Francoforte sul Meno, Klosterman 1991) che ne dà ancora una determinazione positiva legata al carattere progettuale della comprensione. Ciò che ricollega direttamente la costruzione così intesa alla riduzione è il motivo della «conduzione» (Führung) che gode dei vantaggi dello slancio e della direzione provenienti dalla riduzione. ↩︎

  55. Ivi, p. 21. ↩︎

  56. Ivi, pp. 103-104. ↩︎

  57. Ivi, p. 103. ↩︎

  58. Ivi, p. 220. ↩︎

  59. Ivi, pp. 219-220. ↩︎

  60. M.Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi 1976, p. 230-231 (tit. orig. Sein und Zeit, Tubinga, M.Niemeyer 1927; solitamente si fa riferimento alla decima ed., uscita per lo stesso editore nel 1963). Allo stesso proposito, cfr. anche l’inizio del § 43, p. 249 della trad. it. ↩︎

  61. M.Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia 1968, p. 30 (tit. orig. Einfuhrung in die Metaphysik, prime ed. Tubinga, M.Niemeyer 1958, poi ripubblicato in Gesamtausgabe, X, cit.). ↩︎

  62. J.F.Courtine, Réduction et différence, cit., p. 234. ↩︎

  63. M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 239. ↩︎

  64. Ibidem. ↩︎

  65. Ivi, p. 227. ↩︎

  66. Ivi, pp. 227-228. ↩︎

  67. Ivi, p. 228. ↩︎

  68. Ivi, p. 229. ↩︎

  69. Ivi, p. 150. ↩︎

  70. Ibidem. ↩︎

  71. Ibidem. ↩︎

  72. Ivi, pp. 228-229. ↩︎

  73. Ivi, p. 234. ↩︎

  74. Ivi, p. 235. ↩︎

  75. Ivi, p. 232. ↩︎

  76. Ivi, p. 229. ↩︎

  77. Ivi, p. 175. ↩︎

  78. Com’è noto, il tema del sorgere improvviso dell’angoscia è svolto da Heidegger soprattutto nel § 40 di Essere e tempo↩︎

  79. E.Husserl, Idee per una fenomenologia pura, cit., p. 55. ↩︎

  80. M.Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 238-239. ↩︎

  81. Sulle ambiguità espositive delle Ideen, alle quali Heidegger fa esplicitamente riferimento nei Prolegomeni, si vedano anche le illuminanti note di P.Ricœur alla traduzione francese (Idées directrices pour une phénoménologie, Parigi, Gallimard 1998). ↩︎

  82. Heidegger dirà nella sua lezione inaugurale del 1929 che «l’angoscia è il divenire di fondo del nostro Dasein come esser-ci». (M.Heidegger, Sull’essenza del fondamento, in Segnavia, Milano, Adelphi 1987, pp. 79-131; tit. orig. Wom Wesen der Grund, in Wegmarken, Francoforte sul Meno, Klostermann 1967). ↩︎

  83. Ivi, p. 79. ↩︎

  84. Heidegger trae senza dubbio da Husserl la distinzione tra fenomeno (Phänomen) e apparizione (Erscheinung): il primo caratterizza il modo principale di presentazione o incontro di qualcosa che si mostra in quanto tale, nella sua verità, mentre la seconda rinvia sempre a qualcos’altro, ad una realtà secondaria che, pur annunciandosi, non si mostra mai in se stessa. Una tale distinzione - Heidegger lo sottolinea apertamente nel §7 di Essere e tempo - si svela in modo puramente formale, e tende a liberare il concetto puro di fenomeno lasciando ancora completamente indeterminata la questione riguardante ciò che può esser definito propriamente come fenomeno. Si tratterà di un ente o di un modo d’essere? ↩︎

  85. M.Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 55-56. ↩︎

  86. Riteniamo opportuno segnalare fin d’ora un punto problematico fondamentale, che si svolgerà in seguito, riguardante il rapporto tra la Destruktion heideggeriana e la decostruzione che Derrida propone come unico pensiero autenticamente post-metafisico. ↩︎

  87. M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 57. ↩︎

  88. Ibidem. ↩︎

  89. Giova precisare che quest’idea della fenomenologia come filosofia «scientifica» non deve far perdere di vista l’opposizione principale tra la fenomenologia e le scienze positive, cioè di tutte le ricerche che si occupano sempre di enti o di regioni particolari dell’essere. Nella conferenza su Fenomenologia e teologia pronunciata a Tubinga nel 1929, Heidegger evidenza, utilizzando una terminologia vicina a quella di Husserl, questa radicale differenza tra scienze ontiche e ricerca fenomenologica - cioè, nella sua prospettiva, ontologica - il cui oggetto è la fenomenalità del fenomeno. ↩︎

  90. M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., §17b. ↩︎

  91. Ibidem. ↩︎

  92. Quest’espressione è utilizzata da Heidegger in Kant e il problema della metafisica, cit. ↩︎

  93. M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 59. ↩︎

  94. Va sottolineato che anche nell’ultima fase del suo pensiero, orientato sulla necessità di pensare l’essere senza l’ente, cioè di chiarire l’Es dell’Es gibt, Heidegger non rinnega in nessun modo il nodo fondamentale tra essere e comprensione dell’essere (Sein-Seinverständnis). ↩︎

  95. M.Heidegger, Essere e tempo, p. 33. ↩︎

  96. M.Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit, p. 21. ↩︎

  97. Ivi, p. 25. ↩︎

  98. La trad. it. di questa lettera a J.Beaufret si trova in M.Heidegger, Seminari di Zollikon: protocolli seminariali-colloqui-lettere, Napoli, Guida 2000. ↩︎

  99. Nell’ambito del dibattito francese sui rapporti tra Heidegger e la fenomenologia, è di particolare interesse la distinzione, operata da G.Granel in Le sens du temps et de la perception chez E. Husserl, Parigi, Gallimard 1968, tra terrain e sol: il primo indica genericamente il contesto, la base su cui sorge un progetto, mentre il secondo indica la radice, il punto di partenza imprescindibile sul quale costruire un percorso teorico. ↩︎

  100. Cfr. anche il Colloquio con un Giapponese contenuto in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia 1973 (tit. orig. Unterwegs zur Sprache, Pfullingen, Neske 1959). ↩︎

  101. M.Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 105. ↩︎

  102. D’altra parte, è Husserl stesso a ricordare come la riduzione fenomenologica assuma la forma di un cammino della riduzione↩︎