L’errore di Sileno. Nota critica a Silvano Zucal, Filosofia della nascita

Silvano Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana editrice, Brescia 2017, pp. 544.

Secondo il famoso frammento di Anassimandro la nascita è di per sé un’ingiustizia ontologica che potrà essere espiata solo con la morte. Quella sporgenza illegittima, che per emergere deve farsi spazio a spese di un altro essere, dovrà pagare il fio della sua «arroganza» con la morte. «Venire al mondo» è l’espressione con cui si indica l’evento della nascita, ma si rifletta sul significato di questa espressione e si coglierà immediatamente una difficoltà logico-semantica. Chi viene al mondo esiste o non esiste prima di venire al mondo? Se esiste prima di venire al mondo, allora non viene al mondo dal nulla e non commette ingiustizia; semplicemente qualcuno che già esisteva muta il proprio stato o luogo. Il venire al mondo presuppone che non si sappia chi viene, ma che non si possa dubitare, a rigor di logica, che se non pre-esistesse qualcuno, allora nessuno verrebbe al mondo.

Per risolvere le difficoltà dell’espressione «venire al mondo» si dovrebbe aggiungere che essa presuppone la preesistenza di qualcuno che viene al mondo e al tempo stesso nega che egli sia di questo mondo: essa sottintende che chi viene al mondo viene da un altro mondo. Se nascita e morte sono soltanto un cambiamento di luogo, allora il «venire al mondo» è opposto e simmetrico ad «andare all’altro mondo». Qui la decisione spetta, per così dire, al linguaggio, che non sopporta di essere flagellato dalle contraddizioni dei mortali. Se qualcuno è venuto al mondo, allora non si potrà dire che prima non esisteva, perché in tal caso non avrebbe potuto venirci, in questo mondo. Comunque la mettiamo e qualunque sia l’espressione con cui indichiamo l’evento della nascita, non possiamo permetterci di violare la logica del pensiero e delle cose stesse. Non nasce un feto, ma un soggetto, così come muore un uomo, non un cadavere. Se usassimo una terminologia tecnica per descrivere la formazione del feto a partire dall’ovulo fecondato e pretendessimo di sostenere che la fecondazione e il concepimento sono l’inizio assoluto della vita, prima della quale non c’è niente, dovremmo osservare che siamo già in presenza di un individuo, di un soggetto che si sta formando e che la nascita in tutte le varie fasi riguarda qualcuno che preme, spinge, si protende, si fa spazio, vuole crescere e alla fine deciderà di opporsi, se sarà necessario, al fine di essere libero di decidere e agire secondo la propria volontà: in tutte queste tappe c’è sempre già un soggetto che si muove e si fa sentire. L’embrione è solo una fase cui ne seguiranno molte altre. Se dicessimo che prima dell’embrione ci sono solo l’ovulo e lo spermatozoo, che non sono il soggetto che nascerà, perciò l’embrione viene dal nulla, commetteremmo un errore anche sul piano biologico. Per quanto misteriosa sia la provenienza del nascituro, si deve ammettere che non ha senso logico sostenere, in base a una presunta evidenza empirica, che prima dell’embrione non c’è nulla. Chi sia realmente l’embrione è una domanda alla quale non possiamo rispondere indicando a che cosa corrisponde sul piano biologico. Questo ammasso di cellule sorto dalla fecondazione di un ovulo da parte di uno spermatozoo si manifesterà come una persona matura, con caratteristiche apparenti del tutto diverse rispetto a questo organismo primigenio. La nascita perciò non è la fuoriuscita di una cosa da un pertugio in cui per qualche tempo dopo la sua produzione è rimasta in attesa prima di essere evacuata. Il concetto di nascita trascende la fenomenicità della formazione di un ammasso di cellule teleguidato dal corredo genetico.

Essere al mondo significa trovarsi situati, in viaggio tra la nascita e la morte. Ogni momento della nostra vita è unico, come unico è il viaggio con partenza da un luogo indistinto, che non permette di ricordare le eventuali stazioni precedenti. Non ricordiamo le circostanze della nostra nascita, né tantomeno la fase del concepimento intrauterino, anche se la nostra psiche ne porta tracce indelebili, che rappresentano un sapere inconscio di cose che sappiamo, ma non sappiamo di sapere. Se allarghiamo il concetto di nascita fino a comprendere anche la fecondazione e il concepimento, allora acquista un senso estenderlo anche allo sviluppo post-uterino di quell’unità psicofisica che si chiama persona. Così nella sua accezione più ampia la nascita si confonde con la vita stessa, ma colta nella prospettiva della ripetizione. A differenza della morte, la cui esperienza è irripetibile e di cui è impossibile un sapere empirico, la nascita, almeno virtualmente e simbolicamente, si ripete lungo il corso della propria esistenza non solo in occasione di prove difficili ? allorché il loro superamento ci concede di dire a noi stessi che siamo rinati, che abbiamo cominciato una nuova vita: Incipit vita nova ? ma anche ad ogni risveglio mattutino, con cui cominciamo la nostra giornata pieni di fiducia e determinazione. Così il paradigma ermeneutico con cui pensiamo la nostra vita e insieme la viviamo, è la nascita. La morte si può solo pensare e temere, non vivere. La nascita all’opposto è impensabile, ma si può e si deve vivere ogni giorno come ri-nascita. Viviamo la nostra nascita rinascendo ogni volta, mentre viviamo la morte degli altri nell’afflizione del lutto per la loro scomparsa. Noi siamo nascituri sempre, perché la nascita è una migrazione e la migrazione una rinascita. Come la nascita, la migrazione è un dato ontologico costitutivo della vita sulla terra e l’autoctonia è un artificio, un’invenzione escogitata in opposizione al movimento della vita stessa. Infatti la nascita, il venire al mondo, è l’archetipo della migrazione. «A sua volta il migrante, lasciando la terra che l’ha visto nascere e alla quale sente di essere irreversibilmente legato, decide di uscire da un «ventre» divenuto ormai troppo limitato e soffocante, per affrontare il viaggio del suo nuovo parto».1

Una tradizione filosofica che viene da molto lontano ha concepito la filosofia come preparazione alla morte. Dal Fedone a Essere e tempo la questione decisiva affrontata dalla filosofia è stata per lo più quello della morte. Così, se l’uomo è stato sempre distinto dall’animale aggiungendo l’aggettivo razionale, la mortalità, pur essendo un tratto che lo accomuna a tutti gli enti della natura organica e inorganica, viventi e non viventi, è stata associata alla nozione di homo e ripetutamente evocata persino nei manuali di logica, come premessa maggiore degli esempi di sillogismo più citati.2 Non era ora di superare questa esclusiva attenzione alla mortalità, smetterla di chiamare l’uomo mortale e considerarlo invece natale? Il volume di Silvano Zucal, Filosofia della nascita, con la sua ampia, approfondita e impegnativa trattazione, prende in esame una nutrita serie di filosofi che hanno fatto del tema della nascita l’evento decisivo dell’essere umano, quello che, lasciato in ombra o frainteso, persino vilipeso per troppo tempo, si presentava come territorio in gran parte inesplorato. Il lavoro pionieristico di Zucal consiste nell’esame critico dei pensatori che si sono dedicati in modo non episodico al tema della nascita, a partire da Martin Buber, che coglie nella nascita, irriducibile a evento biologico, una caratteristica decisiva, per cui lo sviluppo dell’Io nel bambino si svolge nella dimensione dell’intersoggettività relazionale, come se esistesse un Tu innato incarnato dalla madre. La nascita è un incontrare gli altri e il mondo delle cose. Ma si nasce da una donna e ogni filosofia della nascita non potrà non essere filosofia della maternità.

L’identità dell’essere umano può essere colta solo da una riflessione centrata sulla nascita, più che sulla morte. L’evento della nascita, coinvolgendo tre persone, smentisce la concezione di un individuo autarchico e generato da se stesso, autosufficiente e immune da contaminazioni. Un essere così disgiunto e a se stante non solo non sarebbe unico e irripetibile, ma non potrebbe neppure esistere, dal momento che la singolarità delle persone dipende dall’intreccio relazionale in cui si collocano e si rinnovano costantemente. «Come pensare ancora cartesianamente l’Io come principio e fondamento di se stesso ? scrive Claudio Tarditi citato da Zucal ? allorché la sua esistenza è inaugurata da un evento di cui non può appropriarsi e che apre l’avventura della sua vita attraverso un «sovrappiù» di senso di cui esso non è in alcun modo l’origine? » (p. 25). Il bambino instaura una relazione con il Tu già nel ventre materno, dunque la sua identità relazionale è costitutiva. L’Io potrà pensare a se stesso mediante un nome che riceve da altri, a dimostrazione del fatto che l’etero-relazione è il fondamento dell’auto-relazione. L’uomo deve alla nascita il rinnovamento del mondo, ma la nascita è un evento che assegna all’uomo un destino di dipendenza relazionale, che non è in contrasto con l’aspirazione alla libertà responsabile: un individuo separato e recluso in se stesso, autogenerato e autosufficiente non potrebbe sentirsi responsabile verso nessuno, perciò il suo libero arbitrio non sarebbe praticabile.

Una donna può usare il verbo «concepire» in due accezioni corrispondenti al senso proprio del contenere e promuovere nel proprio seno la formazione di un nuovo essere umano e nel senso derivato di generare una personale concezione della vita e del mondo. L’uomo può concepire solo nella seconda accezione. E dato che tutti gli esseri umani, indipendentemente dal sesso, possono avere una gravidanza teoretica, sono capaci di concepimento spirituale, l’attitudine della donna a concepire e generare nuovi esemplari di esseri umani si colloca a un primo livello, poiché rappresenta la condizione del concepimento in senso derivato da parte di nuovi esseri umani. L’uomo che pensa è stato rappresentato come una madre. Con Nietzsche Zarathustra avverte di avere le doglie e di essere in procinto di partorire se stesso trasmutato nell’oltre-uomo, dovendo essere insieme il bambino e la madre, il partorito e la partoriente (p. 31).

La nascita è un enigma insondabile, un mistero da cui tutto il resto dipende, come ci esorta a riflettere Hölderlin. «La nascita, commenta Zucal, è allora come l’attacco di una melodia (momento davvero cruciale) che ne determina poi la forma in tutto il successivo sviluppo» (p. 36). Eppure si può anche maledire la nascita. Nietzsche nella Nascita della tragedia ricorda che secondo un’antica leggenda il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno; quando l’ebbe raggiunto, Mida gli chiese quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Messo alle strette, Sileno rispose: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è — morire presto» (p. 42). La vita umana è talmente misera, precaria, fragile che sarebbe bene non essere mai nati. L’amara ritorsione contro l’esser nati non risuona solo nella cultura greca, ma anche nell’Antico Testamento (Geremia, Giona, Deutero-Isaia, Giobbe, Qoèlet). Ma il meglio per l’uomo non è neppure morire al più presto una volta nato: come avverte Severino in Oltre il linguaggio, il meglio sarebbe per l’uomo ignorare il meglio: la verità è così terribile che la cosa più vantaggiosa per l’uomo è ignorarla. L’uomo però vuole sapere e di fatto sa bene, o crede di sapere, come stanno le cose. A questo punto, non potendo far sì di non esser nato, per l’uomo il meglio è morire al più presto. Morire al più presto? Come? «Il meglio effettivamente realizzabile è morire presto, tornare al più presto nel niente», scrive Severino citato da Zucal (p. 46). Se la sentenza di Sileno non è e non vuole essere un’esortazione al suicidio, due sono le conseguenze pratiche di questo sapere. La prima è il distacco ascetico dal mondo, che deriva dalla consapevolezza del carattere effimero e transitorio della vita e di ogni esperienza che vi è inclusa. La seconda è il coraggio di continuare a vivere, con cui si affronta la vita cercando di non farsi travolgere dalle avversità di ogni genere, al fine di perseguire la realizzazione di un progetto personale che conferisca un senso a un’esistenza che è radicalmente priva di senso. Pensiamoci bene: se siamo davvero convinti che sarebbe meglio non esser nati, non esserci, continuare a vivere non richiede un’illusione che non sa di essere tale, cioè la virtù del coraggio, la fiducia che la vita abbia un significato anche se di per sé non ce l’ha? Ma questa non è una contraddizione esistenziale che al solo rifletterci viene il capogiro? Ecco perché, in fondo, la vera sapienza è la non sapienza, il vero sapere è il non sapere. Se il meglio sarebbe non essere nati o morire al più presto, non può riguardare il soggetto A, perché, come scrive Umberto Curi citato da Zucal, «o A non si sarebbe neppure costituito, ovvero esso potrebbe godere del meglio soltanto dissolvendosi, e quindi non essendo più. L’alternativa prospettata è dunque fra un meglio che preliminarmente annulla A e un meglio che cancella A dopo che esso si è costituito» (p. 47).

Penso che una soluzione possibile di questa aporia potrebbe darsi individuando nella risposta del Sileno un errore logico. La domanda di re Mida non riguarda la vita in quanto tale, ma ciò che accade in essa e in particolare ciò che dipende dalle scelte e dalle azioni degli uomini. Mida chiede un criterio per discriminare il bene dal male, il vizio dalla virtù, l’utile dall’inutile. La sua domanda riguarda gli elementi dell’insieme, non l’insieme in quanto tale. Sileno dunque commette un errore logico: come se alla domanda su quale sia l’automobile migliore si rispondesse che la cosa migliore è non avere l’automobile e, se la si possiede, disfarsene. Se la conoscenza sensibile degli oggetti della nostra esperienza presuppone lo spazio e il tempo, che in Kant sono le forme a priori dell’intuizione sensibile, non avrebbe alcun senso chiedere come sarebbe possibile conoscere questi stessi oggetti facendo a meno delle forme a priori dello spazio e del tempo. La condanna morale del suicidio esula dalla moralità, poiché togliersi la vita significa eliminare la condizione che rende possibile sia l’agire umano, sia la sua valutazione sul piano morale. Così sostenere che sarebbe meglio per l’uomo non essere nato o non esserci sposta l’indagine su ciò che, essendo una precondizione della domanda e della risposta, non può essere oggetto né della prima né della seconda. Infatti ciò che è meglio per l’uomo lo è innanzitutto in senso morale e specifico, interno alla vita stessa. (Una considerazione simile si potrebbe avanzare a proposito del diritto di voto dei cittadini secondo le moderne costituzioni. Se il voto è un diritto e un dovere, è impossibile sottrarsi senza meritare il biasimo. L’astensionismo dovrebbe essere condannato come patologia della democrazia e non approvato, come talvolta accade, come un sintomo della sua buona salute. L’elettore è chiamato a scegliere il partito migliore che più lo rappresenta (quesito interno), non a decidere se sia meglio votare o non votare (quesito esterno). L’astensionismo è dunque un esempio ulteriore del medesimo errore logico. Se l’esistenza stessa delle istituzioni da cui dipende la vita di tutti ha la sua genesi e legittimazione nel voto dei cittadini, chi non va alle urne non esercita alcun diritto, ma commette lo stesso sproposito del suicida che si toglie la vita per protestare contro la vita stessa, mentre sarebbe più sensato cercare di cambiare la vita, propria e degli altri, rimanendoci. Al pari del suicida che con il suo gesto cessa di esistere, chi non esercita il diritto di voto cessa di fatto di essere cittadino. Se l’esistenza stessa delle istituzioni da cui dipende la vita di tutti ha la sua genesi e legittimazione nel voto dei cittadini, chi non va alle urne non esercita alcun diritto, perciò di fatto cessa di essere un cittadino. Se il riconoscimento dei tanto cari e irrinunciabili diritti civili fosse strettamente subordinato all’esercizio effettivo del diritto di voto, si potrebbe ragionevolmente prevedere un afflusso alle urne del 100%).

Il criterio con cui caratterizziamo singolarmente oggetti o individui non può essere lo stesso che applichiamo nella descrizione dell’insieme di cui essi fanno parte. La semantica ci soccorre in questa distinzione, ricordandoci che i termini hanno un significato collettivo oppure distributivo. Ad esempio «mortale» designa i singoli esseri umani, non l’umanità. Viceversa «numeroso» qualifica un insieme e non ciascuno dei suoi membri. Bertrand Russell distingue tra gli insiemi che non sono membri di stessi (la maggior parte) e gli insiemi che lo sono (ad esempio l’insieme dei concetti è un concetto), ma gli insiemi di secondo tipo sono rarissimi e non mettono in discussione la necessità logica e semantica, intrinseca al linguaggio stesso, di distinguere tra diversi livelli logici (elementi, insieme, insieme di insiemi, ecc.). Tale distinzione non sarebbe giustificata se per ciascun livello non valessero proprietà esclusive. Tornando alla rivelazione di Sileno, si può osservare che la sua disattenzione consiste nel riferire il significato di «meglio» contenuto nella domanda di re Mida non alla valutazione di una condotta nell’ambito di ciò che si rende disponibile all’essere umano nell’arco della sua vita, ma a ciò che può accadere a un essere umano. «Meglio» non è riferito da Sileno a un atteggiamento mentale attivo, ma a una disposizione passiva, che rimane in attesa di subire qualcosa di negativo o di godere di qualcosa di positivo. Il meglio è inteso da Sileno nel senso di miglior accadimento. A questo punto, dalla constatazione del carattere effimero e doloroso dell’intera vita, si passa a immaginare che anche la vita nella sua interezza, al pari di una particolare sventura, debba essere considerata in se stessa un male; ma in questo modo, come abbiamo osservato, si attribuisce indebitamente alla totalità dell’esistenza una caratteristica che riguarda singoli episodi interni alla vita stessa. Non solo episodi come una sconfitta militare o la morte di una persona cara o il rimanere vittima di un errore giudiziario, sono una sventura, ma lo è la stessa vita, la quale però non può essere afferrata nella sua totalità da un soggetto che vi è compreso. Il soggetto che vive è interno alla sua vita, perciò non è in grado di guardarla dall’esterno. Insomma Sileno fraintende la domanda di re Mida. Re Mida chiede che cosa sia meglio nella vita, non della vita. La risposta di Sileno, come ho cercato di chiarire, è una violazione della logica.

Eppure la sentenza silenica è stata ripresa da autori di prim’ordine, come Leopardi, Schopenhauer, Kierkegaard, i quali evidentemente hanno inteso come legittimo lo slittamento semantico dal senso distributivo a quello collettivo dell’espressione silenica riguardante «ciò che è meglio per l’uomo». Ha senso porre domande su ciò che non è disponibile come la vita nella sua totalità, perciò indecidibile e in ultima analisi estraneo a qualsiasi valutazione specifica? La valutazione di ciò che è meglio per l’uomo deve aprire la strada alla decisione e alla scelta. La risposta di Sileno apre la strada al male di vivere o al suicidio, ma nessun filosofo di quelli citati difende apertamente il suicidio, anzi lo condanna per qualche meditata ragione. E dunque? Come si può dar ragione a Sileno o anche solo prendere sul serio la sua sentenza senza altra possibilità di agire che non sia la soppressione della precondizione essenziale di ogni scelta e decisione — la vita stessa?

La condanna dell’esistenza nella sua totalità non si basa realmente sull’esperienza, sia perché la totalità dalla nascita alla morte è inafferrabile dal soggetto stesso, sia perché le esperienze interne all’esistenza sono sempre sia positive che negative e talvolta persino positive proprio in virtù degli aspetti o momenti negativi. Se la vita in sé non ha senso, se l’infelicità è congenita agli esseri viventi, allora il sapere non libera dal dolore, ma può solo confermare il non senso della nascita. Maledire la nascita che è radice di quel male assoluto che si riconosce nella stessa esistenza, in qualsiasi esistenza, è la conseguenza di una pretesa teoretica deviata, che si risolve nella laudatio della morte. In fondo, chi si sente impotente dinanzi alla malvagità e ingiustizia del mondo, può sempre consolarsi ricordandosi che tutto deve finire, che la vita umana è insignificante e assurda. La sventura è breve e sopportabile. Finirà presto. L’errore di Sileno ha fatto numerose vittime. La sua sentenza presuppone che il non essere nati o il morire al più presto sia un rimedio assoluto e definitivo al male radicale in cui consiste la vita stessa, solo perché prima della nascita e dopo la morte Sileno crede che ci sia il nulla; in realtà non è dato sapere che cosa ci sia o chi preesista e continui a esistere dopo la morte. La corrispondenza tra la sentenza silenica e alcuni passaggi del Qoèlet è stata riconosciuta da Curi, il quale sottolinea l’assenza di ogni consolazione dinanzi all’insignificanza di tutte le cose. Perciò «si può capire perché i non nati siano meno sventurati dei morti e questi, a loro volta, siano fortunati rispetto ai viventi» (p. 110). Colpisce come si possa usare l’espressione «coloro che non sono mai nati» come se avesse un significato denotativo. In realtà non è dato sapere chi siano né quanti siano coloro che non sono mai nati. È forse possibile contarli? Come si vede l’aporia della sentenza silenica non smette di partorire sempre nuove assurdità. Il solo senso accettabile dell’espressione è ottativo, ma allora coloro che non sono mai nati coincidono con i nati, di cui si immagina o auspica la soppressione per il loro bene?

Nei Vangeli la nascita non è maledetta, ma benedetta. Qui addirittura è un Dio che nasce, perciò si rivela. Dio non può nascere nel senso in cui può essere intesa la nascita di un essere umano. Dio è già da sempre. La nascita di Dio può essere soltanto una rivelazione e la sua morte un ritrarsi, un nascondimento, in attesa di ritornare trionfante alla fine dei tempi. E se la nascita riguarda Dio stesso, non potrà essere oggetto di maledizione. La nascita di un nuovo essere umano diviene un evento di perfetta letizia, se l’archetipo di riferimento è la nascita del Cristo. Ma per la Gnosi l’incarnazione di Dio è impensabile. Il mondo in cui precipitano gli esseri umani come se fossero gettati in un luogo estraneo alla loro intima, originaria natura, secondo gli Gnostici non può sopportare alcuna commistione con il divino. Gli gnostici condannano la nascita, il corpo, il mondo, come pure il creatore di questo mondo, il Demiurgo, che è anche responsabile del male che esso contiene, al di sopra del quale si colloca il vero Dio, ignoto e assolutamente trascendente. Molte correnti gnostiche affondano le loro radici nella filosofia platonica. Il rigetto del corpo è tutt’uno con la ripugnanza per la nascita in generale, che avviene nella sporcizia di sostanze e liquami disgustosi. Marcione dà voce al suo odio per la nascita umana e cristologica. Ma contro Marcione, che avrebbe voluto una discesa immediata di Gesù sulla terra, senza passare attraverso l’ignominia immonda di un corpo umano, insorge Tertulliano nel De carne Christi e nell’Adversus Marcionem. I marcioniti insegnavano che la generazione, la procreazione, il far nascere sono dei mali, perciò praticavano la continenza assoluta in odio al demiurgo creatore del mondo materiale. Agostino combatterà energicamente il manicheismo, erede della gnosi, al quale per qualche tempo aveva aderito egli stesso. I catari condanneranno la nascita come evento diabolico. Per i catari il diavolo è lo stesso Demiurgo. Il problema di conciliare il ribrezzo dei catari per la carne con il fatto ineludibile della nascita del Verbo divino da un corpo di donna, li obbligava ad adottare la tesi docetista, per cui «il corpo di Cristo non può che essere un corpo apparente e la sua nascita non ha mai i tratti di un’autentica nascita umana» (p. 136). Ma l’intreccio di libidine, sporcizia e carnalità nell’unione sessuale tra un uomo e una donna non poteva essere accettata tanto facilmente nella tradizione teologica: esemplare sotto questo aspetto è la posizione di Gregorio Magno, secondo il quale «l’unico essere non concepito da seme impuro è il Cristo nato da una vergine che non ha conosciuto l’incontro sessuale con i piaceri della carne, ne è stata misteriosamente messa al riparo» (p. 143). Facile sarebbe a questo punto l’obiezione che o si dà incarnazione o non si dà: se si dà, essa dovrà essere completa, sicché Dio si farà uomo fino in fondo e integralmente non solo nel modo del concepimento, della procreazione e della nascita, ma anche sul piano della corporeità del Cristo. Perché venire al mondo per via sessuale dovrebbe essere la sola impurità? E se togliamo tutte le altre, che cosa rimane della cosiddetta umanità del Cristo? Tralascio le puntuali trattazioni di Zucal riguardanti Oddone di Cluny, Pier Damiani, Gotescalco di Limburg, Anselmo d’Aosta, i Vittorini, tutti accomunati dal disprezzo del corpo, dell’incontro carnale, della nascita, giudicata come evento negativo, in linea con il De contemptu mundi di Lotario di Segni, divenuto poi papa col nome di Innocenzo III. L’opera, scrive Zucal, è «un vero e proprio capolavoro nel genere letterario del disprezzo del mondo e della delegittimazione della nascita come evento positivo» (p. 155). Anche qui è ripresa la sentenza di Sileno per cui sarebbe meglio non essere nati, o morire prima di nascere, a causa della miseria morale e materiale della procreazione. Quale differenza esiste rispetto al catarismo, che pure Lotario ha odiato e perseguitato strenuamente?

La maledizione della nascita viene da lontano: essa vaneggia di non esserci, escogita forme sottili e indirette di autoannientamento, come appunto l’ascesi assoluta o il rifiuto di procreare. La sentenza di Sileno trova sempre nuovi adepti, nuove applicazioni e versioni nella storia del pensiero intorno alla nascita. Può avvalersi anche del disgusto per la vita sessuale e la procreazione, con argomenti che il fondatore della psicoanalisi avrebbe ricondotto alla nevrosi e alla repressione sessuale: «Tutti i nevrotici, scrive Freud in Disagio della civiltà, si scandalizzano del fatto che “inter urinas et faeces nascimur”» (p. 169). Nell’opera di Emil Cioran la sentenza silenica diventa un’ossessione pluriforme. Il culmine della felicità e della libertà per il filosofo rumeno è dato dal non essere nati o dall’essere nato morto. Cioran sogna a occhi aperti di non esser nato. La nascita è una catastrofe senza rimedio che non sia il perfetto oblio. Se l’esistenza è priva di senso, lo è a maggior ragione la nascita, che ci introduce al nulla della vita: «Noi non corriamo verso la morte, scrive Cioran in L’inconveniente di essere nati, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante» (p. 172). La risposta autentica a una nascita che non abbiamo scelto, secondo Cioran, è il suicidio o, per meglio dire, l’idea del suicidio, la rivincita la cui esecuzione va rinviata continuamente. L’idea del suicidio è la possibilità di lasciare questo mondo quando si vuole: «La mia teoria sul suicidio, sostiene Cioran in un’intervista, è che non bisognerebbe uccidersi, ma che bisognerebbe fare uso di quest’idea per sopportare la vita» (p. 174). L’idea del suicidio per Cioran è l’idea senza la quale egli si sarebbe ucciso; e comunque «non vale la pena uccidersi, scrive con sarcasmo Cioran, dato che ci si uccide sempre troppo tardi» (p. 175). Non esiste responsabilità individuale, che avrebbe senso solo se fossimo stati consultati prima di nascere, e invece la nascita ci è stata imposta — un sopruso e una sventura cosmogonica, dato che da quell’evento derivano il non senso e l’infelicità dei viventi. La nascita è la prima e vera sconfitta e la morte è la sola vittoria. Se si capisce questo, secondo Cioran, «l’esistenza, finalmente tollerabile, apparirà come l’indomani di una capitolazione, come il sollievo e il riposo del vinto» (p. 178). Prevedibile l’esito «gnostico» della riflessione di Cioran e le sue simpatie per Marcione e i fanatici della purezza, sui quali tuttavia il filosofo rumeno esprime la riserva che essi fossero dei perversi della purezza. Commenta Zucal: «Il fatto che sostenessero con tanta veemenza la dottrina che il male era increato mostrava in loro — almeno in segreto — una sorta d’auspicio affinché il male sussistesse per sempre. Solo in tal modo le loro «virtù combattive» di puri assoluti potevano affermarsi» (p. 187). La nascita è in ogni caso per Cioran un evento tragico e assurdo, talmente malefico che deve accadere con l’assistenza del diavolo, di Satana, identificato dai Catari con il Dio malvagio o Demiurgo. Si procrea con il piacere, che però Cioran considera una grande trappola per nascondere la tragica irreversibile mestizia della generazione e della nascita. Il piacere è solo un simulacro della gioia. La gioia non è l’attesa del piacere, ma il sentimento di poterne fare a meno. Di qui la necessità di un’etica della disciplina e della rinuncia al desiderio, in un processo di auto-annichilimento, fino a concepire in tutta onestà l’idea che si poteva anche non essere venuti al mondo — l’idea del carattere accidentale, contingente della nostra nascita. Ma questa idea è difficile da accettare, scrive Cioran, perché «ognuno, di fatto, si ritiene necessario e si crede indispensabile, una sorta di «dio» in terra» (p. 197). È da tale presunzione che scaturisce il desiderio di procreare, di mettere al mondo, anche nell’ultimo dei malriusciti, attratto dall’idea di essere un Demiurgo! Cioran loda Epicuro, il quale non respinge il vivere, né giudica il non vivere un male (Lettere a Meneceo), ma poi si dichiara deluso perché il filosofo del Giardino schernisce Teognide di Megara per aver sostenuto che è meglio non essere nati e, una volta nati, morire al più presto. La morte è compimento di quel nulla che è la vita. In ogni caso un uomo sincero con se stesso deve ammettere di essere stato ingannato, preso in giro, perché nell’esistere non c’è niente di serio, ma solo un raggiro in partenza. Il nostro Io è un fantoccio patetico al quale è ridicolo abbarbicarsi. Bisogna smascherarlo e coltivare la morte come affermazione della vita, la via di salvezza dalla cattività disgustosa della vita. Solo con la morte l’abuso dell’essere nati viene appianato, estinto, perché la vita è una fatica inutile, un’angustia ininterrotta, una deviazione dolorosa.

Günther Anders si muove nella stessa direzione di Cioran. Anders vede nel feto un mero essere-insieme, la sua esistenza non è ancora delineata in un «Io» che si rapporta a «se stesso». La nascita rompe questo essere-insieme; il nuovo nato è costretto a profilarsi come singolo, come Io. La nascita è un trauma violento. Richiamandosi al trauma della nascita di Freud, Anders suggerisce che il processo di individuazione sia una specie di condanna a un dolore perpetuo e insuperabile: quella di essere individuo. Termina con la nascita la tranquillità dell’essere-insieme. «Questa, commenta Zucal, è la vera «catastrofe» della nascita, la condizione di improvvisa esposizione e di conseguente genesi dell’Io che ingenera vergogna proprio per l’avvenuta esposizione e per l’abbandono dello stato originario rassicurante dell’»essere-insieme» protettivo anche se non libero» (p. 214). La vergogna di essere un individuo, perciò singolare, coincide con il sentimento di sconvenienza, non conformità, non appartenenza e disubbidienza. Forse il conformismo o gregarismo, si può intendere come un surrogato dell’essere-insieme che è stato perduto, un simulacro rassicurante capace di evocare e in qualche misura ripristinare la condizione originaria che, in quanto tale, è perduta per sempre? La nascita in senso proprio riguarda solo gli esseri umani, giacché gli animali non possono e non devono differenziarsi acquistando la dimensione di un Io autonomo. Solo l’uomo è costretto a vivere come un’eccezione. L’uomo nasce e vive come nomade, la cui aspirazione alla libertà illimitata è patologica, perché sintomo del suo sradicamento, della sua esclusione da un’autentica appartenenza. Secondo Anders infatti l’uomo è essenzialmente non appartenente al mondo in cui viene alla luce. L’uomo è «senza mondo», del tutto indeterminato e strutturalmente disadattato, poiché manca di una dotazione biologica capace di rispondere adeguatamente alle esigenze ambientali. La conseguenza dello sradicamento si articola in due figure: l’uomo nichilista e l’uomo storico. Il primo fallisce nell’autoidentificazione e si percepisce irrimediabilmente contingente, apolide, estraneo a se stesso e al mondo; il secondo cerca di correggere la propria contingenza collocandosi nelle istituzioni e nella storia, facendosi riconoscere attraverso ruoli, nella famiglia e nella società, che ne sanciscano l’appartenenza e il radicamento. L’uomo che nasce sempre prematuro non ha fondamento in se stesso, non può auto-istituirsi, ma può costituirsi come Io solo attraverso l’Altro. L’uomo non può porsi da sé; prematuro e sempre in divenire, si esperisce come contingente, provvisorio, ingiustificato, non autodeterminato, come un Io che non ha scelto di essere. L’uomo non è responsabile della propria nascita e tuttavia deve identificarvisi. La sua libertà è un’impostura: «Essere liberi, scrive Anders, significa essere estranei; non essere legati a niente di preciso, non essere tagliati per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in un’attitudine tale per cui il «qualunque» possa anche essere incontrato tra altri «qualunque». Nel «qualunque», che posso trovare grazie alla mia libertà, incontro anche il mio proprio Io, il quale, pur essendo del mondo, è estraneo a se stesso. Incontrato come contingente, l’Io è per così dire vittima della sua libertà» (p. 220). La contingenza dell’uomo ha due aspetti: la non costituzione di sé dell’Io e la sua esistenza in quanto tale.

Anders condivide con Hannah Arendt il tema del «venire al mondo». Si sposarono nel 1929, ma il matrimonio durò poco: si separarono nel 1936. Sul tema della nascita la differenza delle loro concezioni è profonda: se per Anders nascere è un trauma che condiziona la libertà umana (un equivoco e un’impostura, a suo avviso), per Arendt la nascita è un miracolo che dischiude la libertà autentica. La visione di Anders è radicalmente pessimistica. La differenza tra l’uomo e l’animale è a tutto vantaggio del secondo, che può posizionarsi in modo armonico con il mondo. L’uomo, all’opposto, scaraventato nell’abisso della contingenza, è intriso di artificialità e destinato alla vergogna. «La vergogna, commenta Zucal, è, soprattutto, «vergogna dell’origine» perché il marchio d’infamia che ogni uomo si troverà sempre addosso è quello di scoprirsi non autonomo nella propria genesi, non deliberato da sé e non posto da sé: di fatto abbandonato irrimediabilmente a se stesso» (p. 223). Tutti gli sforzi in cui l’uomo si consuma mirano al superamento di tale condizione originaria, ma risultano inutili e velleitari, così che l’uomo è condannato a un’autonomia illusoria e a ripetere l’esperienza di una fuga da se stesso. La radicale contingenza e infondatezza del suo essere, che lo espone alla vergogna, è una condizione insuperabile. Esiliato nel mondo, l’uomo riceve alla nascita un nome che non ha scelto. Questa estraneità rispetto al mondo e a se stesso fa sì che l’uomo sia sempre fuori luogo e fuori tempo, sradicato e mancante. La tecnologia odierna, secondo Anders, aggrava l’estraneazione dell’uomo rispetto a sé e al mondo. Dinanzi a macchine sempre più intelligenti e dinamiche l’uomo non può che provare un disagio crescente. La tecnologia estende e approfondisce l’artificialità della condizione umana. Il progresso nel campo dell’inseminazione artificiale, la clonazione, il transito da un sesso all’altro, la manipolazione genetica, sono possibilità alle quali gli esseri umani si adeguano sempre più nell’illusione di affermare una libertà che invece si riduce di fatto fino a scomparire. Infine, la condizione per cui l’uomo è derivato da un altro essente, non ha posto se stesso, è insuperabile, nonostante gli sforzi dei filosofi di negare la macchia della dipendenza, dell’esser nato. Fichte è esemplare in questo senso: l’Io che pone se stesso è la traduzione speculativa dell’illusoria presunzione dell’uomo di non essere nato, di non volere essere diventato.

L’autofondazione è un mito col quale l’uomo pretende di ergersi a demiurgo di se stesso. Volersi appropriare della propria nascita fino al punto di riuscire a porre se stesso è una sfida destinata al fallimento, sia di fatto che di diritto. L’esperimento di pensiero con cui l’uomo si colloca «fuori di se stesso», per così dire, se preso sul serio, si riduce essenzialmente a un errore logico simile all’equivoco silenico. L’uomo, come ogni essere vivente, è condizionato nella sua evoluzione dalla nascita alla morte. La sua libertà consiste innanzitutto nel riconoscimento delle condizioni che limitano, ma anche rendono possibile, il suo esercizio. L’equivoco di Anders consiste nel fatto che da una parte riconosce come insuperabile la dipendenza dell’uomo e il concorso dell’alterità nella sua costituzione, dall’altra rappresenta la condizione umana come negativa rispetto all’esistenza animale. La drammatizzazione del ruolo della macchina e della dipendenza crescente dell’uomo dalla tecnologia è la conseguenza del rifiuto di considerare come naturale la dipendenza e l’essere condizionato dell’uomo, come se tale condizione gli fosse stata inflitta per un errore fatale o una colpa originaria.

Peter Sloterdijk è il pensatore vivente che più di ogni altro ha affrontato il tema della nascita, con l’intento di superare l’heideggeriano «primato del morire». Sloterdijk distingue tra venire-al-mondo e venire-al-linguaggio. Il primo precede il secondo e tra i due esiste uno iato, uno scarto, talché il vero inizio natale non è rappresentabile. Chi è venuto al mondo non potrà mai riferire la propria nascita come effettivamente l’ha sperimentata nella fase prenatale e immediatamente natale. Il nostro inizio ci rimane inaccessibile. Sloterdijk chiarisce questa situazione con una metafora teatrale: siamo come quegli spettatori che arrivano a teatro a spettacolo iniziato, riescono lo stesso a prendere posto, ma dopo aver perso irrimediabilmente l’inizio dello spettacolo. La nascita è l’ingresso nel teatro della vita, quando l’opera è già iniziata. «L’inizio che può essere detto non coincide con il vero e proprio inizio natale» (p. 239). Siamo ciechi rispetto al nostro vero inizio natale, le prime pagine della nostra vita sono illeggibili, e tuttavia Sloterdijk confida nella possibilità di esplorare questo primo inizio, che ci appartiene per quanto oscuro e impenetrabile esso sia. È possibile sondare il feto quando ancora è immerso nell’utero? Sloterdijk evoca l’antica tradizione cinese secondo la quale «la nidificazione del bambino nell’utero costituisce la vera nascita dell’uomo; il periodo intrauterino, conseguentemente, è considerato quale parte della vita umana; i neonati sono considerati bambini di un anno» (p. 241). Anche Sloterdijk, al pari di Cioran, mette in conto la fragilità perigliosa del nascere, la conseguente tragica inadeguatezza esistenziale dell’essere umano. Il bambino, uscendo dall’utero, perde la beatitudine e serenità della vita intrauterina e sperimenta brutalmente l’estraneità di un mondo ostile. Nascere significa essere consegnati alla libertà e alla contingenza. L’esperienza di essere inglobato nella microsfera uterina è fondamentale secondo Sloterdijk. L’uomo nella vita intrauterina si struttura come abitatore dell’interno, secondo una spazialità originaria che cercherà di ripetere sempre in tutti i modi, una volta uscito dall’utero, per tutta la vita. «Il pensatore tedesco, avverte Zucal, arriverà addirittura a sostenere che tutta la storia della tecnica umana non è nient’altro che storia di «uterotecnica» ovvero di un tentativo mai domo e, nel contempo, sempre incompiuto di riproporre al di fuori dell’utero le stesse condizioni sperimentate a livello intrauterino» (p. 247). Nella microsfera uterina il soggetto sperimenta un’originaria unione diadica bipolare con la placenta. I rapporti umani non possono essere lineari, ma sempre circolari, cosicché nessuno può mai chiamarsi fuori dall’ambiente, umano e non umano, che lo circonda. Il rapporto Io-Tu, feto-placenta della vita intrauterina è il paradigma di ogni rapporto della vita extra-uterina: «Ogni rapporto interumano, commenta Zucal, ogni incontro tra persone, è il tentativo di ri-creare, ora con successi ora con fallimenti, quella realtà di «bolla originaria», di sfera primordiale» (p. 248).

La circolarità del rapporto Io-Tu si presenta come irriducibile e insuperabile. Riconoscendo la dipendenza come originaria e costitutiva dell’essere umano, Sloterdijk evita l’errore silenico di concepire la possibilità di un isolamento del soggetto dalle relazioni con il mondo e di afferrare dall’esterno la totalità delle condizioni della vita umana con l’ingannevole esperimento di pensiero che pretende di risalire a un presunto stato originario del soggetto, poi caduto e soffocato nella rete di condizionamenti in linea di principio evitabili. L’esodo della creatura umana fuori dell’utero porta con sé il ricordo inconscio della vita intrauterina, così che, scrive Sloterdijk, «i popoli, gli imperi, le Chiese e soprattutto gli Stati-nazione moderni sono, segnatamente, rilevanti tentativi della politica dello spazio di ricostruire, attraverso l’immaginazione e l’istituzione, uteri fantastici per masse infantili» (p. 249). Ma il fatto che la vita extrauterina sia un prolungamento della vita intrauterina non ha come corollario la condanna della nascita e del venire al mondo, come se portassero il marchio infamante di un errore o colpa ancestrale. La comunione madre-bambino nella vita intrauterina è il punto di partenza dell’esistenza che Sloterdijk indaga sottolineando la circolarità e la reciprocità dei due attraverso il cordone ombelicale. La comunione con la madre è anche sonora e il cordone ombelicale acustico sarebbe il precedente fondamentale, il germe originario e paradigma intrascendibile di ogni comunicazione futura. Sloterdijk vede un rapporto significativo tra nascita e musica. La musica mira a ripetere quelle condizioni originarie che sono andate perdute con la venuta al mondo. Gran parte della musica odierna secondo Sloterdijk è solo rumore, che equivale a un assordante silenzio. Il filosofo tedesco rivolge un appello ai musicisti, giacché «vero musicista sarà soltanto chi sarà in grado di scoprire e di ritornare a quel mondo interiore primigenio a cui tutti siamo legati e da cui siamo stati improvvisamente e brutalmente esiliati» (p. 269).

La ricerca di Sloterdijk mette in discussione la tradizione teologica, laddove la coppia Dio-uomo viene interpretata come metafora della nascita: in relazione alla coabitazione respiratoria, scrive Solterdijk, «il fatto di essere «a sua immagine» non è che un’espressione per designare un rapporto di reciprocità pneumatica. L’intima facoltà di comunicare nell’ambito di una dualità primaria: ecco il contrassegno di Dio» (p. 270). La «primitiva comunione di respiro» appare così un esempio di circolarità perfetta. Anche l’aria è un medium, perciò non oggettivabile. Il medium è essenziale nelle relazioni intime originarie, sia esso il liquido amniotico, il suono o l’aria. La vita intrauterina appare a Sloterdijk un archetipo e un destino, la condizione insuperabile della vita umana: «L’immersione originaria nel medium fluido del grembo materno, scrive Sloterdijk, e i brandelli comunicativi appartenenti alla fase orale psicoacustica perseguiteranno il soggetto in tutta la sua storia, che non sarà altro che il tentativo di creare media perfetti per una comunicazione illimitata, assoluta, per l’impossibile ripetizione dello stadio primordiale» (p. 272). La società odierna, ossessionata dalla comunicazione totale e dalla connessione permanente, diventa comprensibile non appena la si consideri come sforzo, destinato al fallimento, di ricostituire la perfezione circolare del rapporto Io-Tu intrauterino, in cui la comunicazione è immediata, originaria, fondante. Una volta uscito dall’utero materno, il soggetto sperimenta l’impossibilità di ripetere l’esperienza intrauterina. «La venuta al mondo, commenta Zucal, rappresenta per l’uomo la perdita dell’accompagnatore placentare originario, ma essa è al contempo la storia di tutti i tentativi dell’uomo di ricreare la perduta “bi-unità”» (p. 283). Il demone socratico, così come l’angelo custode, assomiglia molto all’accompagnatore originario: la perdita dell’accompagnatore placentare risulta insopportabile, perciò la vita extrauterina sarà caratterizzata dalle costituzione di doppi, in sostituzione della placenta irrimediabilmente perduta. Sloterdijk sottolinea il declino e la rimozione della placenta nella storia. Sintomo inequivocabile del misconoscimento del ruolo fondamentale della placenta nella formazione dell’individuo, la placenta è divenuta materiale di scarto, poi recuperata solo come serbatoio potenziale delle cellule staminali. La riscoperta della placenta sarebbe tuttavia la conseguenza della solitudine e dell’individualismo in cui l’uomo è segregato, dopo che è stato separato dal suo accompagnatore primordiale. Ma in tal modo, lamenta Sloterdijk, «il Secondo più intimo diviene il nulla assoluto, il rigettato, il ripugnante per eccellenza» (p. 285). La solitudine dell’uomo contemporaneo sarebbe allora la pena che l’uomo deve scontare per aver gettato nei rifiuti la placenta, l’accompagnatore originario, l’alter ego primitivo.

Hannah Arendt inaugura una nuova concezione della natalità. Arendt stabilisce un rapporto strettissimo tra l’agire storico-politico e la natalità: «Il cominciamento inerente alla nascita, scrive Arendt, può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire» (p. 315). La riflessione sulla nascita acquista così un significato politico, dal momento che ogni agire nel senso di «porre un inizio» non fa che ripetere l’inizialità della nascita. La vita e la morte sono intrecciati: cominciamo a morire appena venuti al mondo. L’uomo si trova nella vita senza sapere esattamente perché. Deve dunque inventarsi da sé riaffermando la dimensione dell’inizio in un mondo già dato e di per sé destinato all’estinzione. «E proprio e soltanto in quanto è un inizio, commenta Zucal, l’uomo può dare liberamente inizio a cose inedite, nuove, inaspettate, assolutamente imprevedibili» (p. 320). Se la nascita è un inizio che apre alla libertà, la morte chiude gli esseri umani nella prospettiva della ripetizione e della negazione della libertà. Il totalitarismo si alimenta del culto della morte, inventando metodi sempre nuovi di far morire, di estinguere, uccidere. Lo scopo del totalitarismo è il controllo degli esseri umani, dunque anche delle nascite, e la stabilizzazione dell’umanità mediante la divisione in razze, che permette di individuare i nemici contro i quali scatenare il terrore. Il razzismo è la negazione dell’umanità e la sua affermazione porta alla fine della stessa civiltà nella barbarie depravata di un’infinita segregazione dei diversi, che terminerebbe solo con l’ultimo sopravvissuto che ha sterminato l’ultimo diverso da lui stesso. Il corso inesorabile della natura e della storia può essere contrastato solo da un nuovo inizio. Per questo i regimi totalitari cercano di neutralizzare le differenze e la libera comunicazione tra gli esseri umani, per azzerare ogni forma di pluralità che rende gli individui unici alla nascita. La standardizzazione dei regimi totalitari mira infatti ad abolire le libertà fondamentali degli esseri umani, come quella di espressione e manifestazione del pensiero, di movimento all’interno del territorio nazionale e verso l’estero. Il regime preferirebbe che gli uomini fossero riproducibili in serie o clonati, per evitare ogni imprevisto. «Dal punto di vista totalitario, scrive Arendt, il fatto che gli uomini nascano può essere considerato soltanto una noiosa interferenza con forze superiori» (p. 326). Infatti che cos’è la libertà se non la capacità di cominciare? La sola uguaglianza accettabile tra esseri umani naturalmente diseguali è la parità come garanzia del riconoscimento di eguali diritti. La libertà è il solo modo per introdurre il nuovo. E l’uomo è stato creato perché fosse un inizio, iniziatore attivo e portatore di libertà. È fatto a immagine e somiglianza di Dio: come Dio l’uomo è capace di creare il nuovo, con l’uomo la libertà fa il suo ingresso nel mondo. La potenza originaria dell’inizio nella nascita, che ha in sé il fondamento della libertà, libera l’uomo dal giogo della necessità. L’uomo può fare e disfare, sottraendosi all’ineluttabilità dei processi naturali, e può decidere di volta in volta la direzione degli eventi. La libertà è possibilità, un poter fare; il destino è la conseguenza di ciò che è stato fatto partendo da un atto di libertà. «Al di là della nascita come evento biologico, commenta Zucal, e quindi inserito come evento naturale nel ciclo biologico di vita e morte, c’è la «seconda nascita dell’azione» che decolla dalla «prima nascita» biologica e introduce come «inizio» «una novità inaspettata che si attua costantemente nella molteplicità di nuovi inizi che sono le azioni». In tal modo il flusso ininterrotto del tempo che sembra inghiottire ogni cosa per condurre solo alla morte è interrotto, la sua logica inesorabile è spezzata» (p. 359).

Michel Henry, Jean-Luc Marion e Emmanuel Levinas affrontano il tema della nascita in una prospettiva fenomenologica. Già Merleau-Ponty aveva negato la possibilità di pensare la propria nascita, dato che ci si situa da sempre in un inizio che precede. Pensare la propria nascita è impossibile, perché si è sempre in ritardo rispetto a un evento di cui è impossibile un’esperienza diretta. Per Henry il nascere non può ridursi al venire al mondo o al venire all’essere, poiché riguarda una dimensione assolutamente originaria e non oggettivabile. Bisogna quindi decostruire tutti gli approcci alla nascita che mirano a rendere visibile, a oggettivare ogni manifestazione di quella Vita che è irriducibile a qualsiasi ontologia. Nascere è «venire alla vita» e «venire in una carne». «Per Levinas, spiega Zucal, la nascita, il dare la vita a un altro è, da un lato un atto auto-espropriativo, dall’altro però, è un atto di autoriconoscimento: «Il figlio non è me; e però io sono mio figlio». La filialità è una relazione paradossale, «dove altri è radicalmente altro e dove tuttavia, egli è, in qualche modo, me». Occorre dunque leggere l’evento della nascita in primis dalla parte del padre e poi, in secondo luogo, dalla parte del figlio e del fratello» (p. 401). Il processo di filiazione è sempre duplice: l’altro che viene è già nel generante; nella paternità-filiazione il figlio è l’Altro che irrompe determinando una discontinuità radicale rispetto al Medesimo, ma al tempo stesso, nella maternità-filiazione il figlio altro rivela il medesimo. La filiazione è in ogni caso paradossale: il padre non ha suo figlio, ma è suo figlio; inoltre egli è e non è suo figlio. Levinas, commenta Zucal, ha posto premesse importanti per sviluppare il tema della nascita. Il suo apporto è notevole, se si considera lo sforzo di concepire la filiazione come rottura della corazza isolazionistica del Medesimo per lasciar emergere l’Altro; tuttavia, Zucal condivide il problema segnalato da Adriana Cavarero, per cui in Levinas «la nascita, nella sua concretezza carnale e con il riferimento decisivo al femminile e al materno, evapora quasi e rimane per lo più sullo sfondo» (p. 430).

Si deve a María Zambrano il rovesciamento esplicito del paradigma dominante «essere-per-la-morte» in «essere-per-la-nascita». L’uomo è allora essenzialmente un essere natale. Con la nascita l’uomo non riceve solo la vita, ma anche il dovere di assumerla come paradigma di continue rinascite. La vita umana infatti è un’azione e non un semplice passare. L’evento della nascita ha secondo Zambrano un significato misterioso e decisivo. La nascita infatti non appartiene solo al passato: «La nascita è colta non solo come dimensione retrospettiva, commenta Zucal, — un che di lontano, di passato, di chiuso e concluso — ma anche, e in modo decisivo, come dimensione prospettica, come un futuro che sempre ci convoca a una gestazione e a un parto di noi stessi» (p. 435). La nascita incompleta dell’essere umano lo condanna a essere necessariamente libero e irrevocabilmente impegnato a superare se stesso. In opposizione a Heidegger, Zambrano denuncia la deriva solipsistica della categoria dominante in Essere e tempo, che fa dell’uomo esclusivamente un mortale destinato al nulla; inoltre Zambrano accusa Heidegger di aver rimosso il materno, ma se vogliamo questa lacuna si spiega perfettamente in base alla connotazione dell’uomo come essenzialmente mortale. La condizione umana è faticosa e dolorosa: l’uomo può essere tentato di dis-nascere o di ri-nascere, di annientarsi o di rigenerarsi. L’essere-per-la-morte e l’angoscia che lo accompagna possono indurre la tentazione della dis-nascita. L’essere-per-la-nascita spinge a vivere la vita come rinascita, ogni giorno che passa. «La profonda accettazione della condizione umana, chiosa Zucal, implicherà innanzitutto fare propria senza resistenze la fatica che il vivere comporta, cioè e appunto il dover continuare a nascere, la necessità individuale di rinascere incessantemente: «L’individuo, infatti, per essere tale, ha bisogno di rinascere, di essere di nuovo generato» (p. 448). Passato e futuro sono così dialetticamente congiunti. Ogni rinascita ripete la prima nascita, in un processo che, per quanto ci è dato sapere, si conclude con la morte, che possiamo intendere non come annientamento, bensì come ultima nascita o rinascita in una dimensione ignota. Zambrano sottolinea l’incompiutezza di ogni nuovo nato, un essere nato a malapena, un essere che deve ancora nascere attraverso ripetute rinascite. La vita umana si potrà definire allora come «essere-per-la-nascita» e insieme «essere-per-la-rinascita». L’esilio, di cui Zambrano fece lungamente esperienza, è lo sradicamento che si impone come rinascita. Se venendo al mondo la prima volta con la nascita si abbandona un luogo comodo e rassicurante per entrare in uno spazio estraneo, privo di orientamento, insicuro, incomprensibile, lo stesso accade con l’esilio. L’esilio illumina retroattivamente l’evento della prima nascita «come quella di un essere che, seppur venuto al mondo, non è ancora nato del tutto ma è comunque portatore di una promessa» (p. 465). L’esilio aiuta a decifrare se stessi mediante il ritorno all’origine, a una condizione simile allo stato prenatale e neonatale. La vita espone al rischio di interpretare se stessi in base alla categoria del protagonista o della proprietà. Ogni piccola morte (rinuncia, lutto, distacco, dimissione, trasferimento, licenziamento, congedo, ecc.) è il punto di partenza della ricostituzione della persona secondo lo stigma imprescindibile della creaturalità/dipendenza. E ogni rinascita è la conseguenza di una morte, «di uno sprofondare dell’Io nel suo fallimento agli occhi del mondo» (p. 469). Non essendo mai compiutamente nato, ogni essere umano aspira a una completezza che tuttavia non riuscirà mai a possedere completamente. Il destino dell’uomo è secondo Zambrano quello di un permanente nomadismo esistenziale. «Si tratta, spiega Zucal, di un processo incessante, faticoso e sofferto di auto-trascendimento che conduce fuori dall’asfissia insopportabile di essere soltanto se stessi, ripiegati sul proprio Sé autarchico se non autistico, per farsi invece rivelazione della vera nascita che implica sempre apertura al Tu, all’altro» (p. 497). L’uomo cerca la placenta da cui un giorno è uscito per essere di nuovo generato. Alla fine, se non esiste un progetto già delineato, un fine prefissato, per Zambrano il vivere è un ricominciare sempre da capo; in tal modo l’uomo non deve temere, ma anzi desiderare il fallimento, la sventura, l’esilio nelle sue varie forme, perché il suo destino — il significato della sua vita — è rinascere dopo ogni annullamento: dopo la morte, giunge la resurrezione. Il destino dell’uomo non è la morte ma, una volta nato, trasformando la rinascita in un compito, quello di diventare ciò che si è compiendosi all’infinito.

Le varie filosofie della nascita, scrive Zucal avviandosi alla conclusione del suo imponente sondaggio, convergono nella persuasione che la nascita non è solo un evento relegato al passato, ma qualcosa che condiziona il futuro fino al punto che l’intera nostra vita, obbligata a continue rinascite, è governata dall’archetipo della nascita. Come Sloterdijk, anche Romano Guardini trova già nella vita intrauterina una fase costituiva dell’intera esistenza dell’uomo. Guardini osserva che la vita nel grembo materno è già vera vita, anche se le esperienze di questa fase rimangono allo stato inconscio. Anzi l’esperienza intrauterina con cui la nostra vita ha inizio è la precondizione, l’architrave che in seguito dovrà sostenerci sempre, a partire dalla crisi traumatica del «venire al mondo». Il nuovo nato ha bisogno della madre e della sua ermeneutica per orientarsi e radicarsi nel mondo in cui è stato espulso. Il bambino ha bisogno di sentirsi sicuro come quando era nel seno materno; solo l’attenzione e l’amore dei genitori possono rassicurarlo mediante il riconoscimento e l’ascolto. Se alcuni filosofi del Novecento rielaborano il detto silenico «meglio sarebbe non esser nati e, una volta nati, morire al più presto», come Cioran o Anders, e finiscono sostanzialmente col considerare la nascita una maledizione dell’esistenza, Guardini invece indica come punto essenziale l’autoaccettazione: io sono d’accordo di esistere. Ma questo accordo o sintonia con la propria esistenza, scontato quando la vita scorre senza intoppi, va in crisi «nelle ore drammatiche della sventura, dell’insuccesso, della noia, della malinconia patologica» (p. 519). La crisi apre una frattura, uno iato tra me e me stesso: allora è naturale, scrive Guardini, che io contempli la possibilità della mia esistenza, il fatto di non aver deciso io di essere collocato nell’essere. La propria nascita è percepita allora come un’imposizione, una violenza, un arbitrio; abbiamo ricevuto l’esistenza che non abbiamo chiesto, dai genitori, dagli antenati, da Dio stesso se vogliamo saltare tutte le mediazioni intermedie. Ora, secondo Guardini, l’accettazione autentica e indiscutibile della propria nascita dipende da quanta fiducia in Dio si ha. Se ci si abbandona nell’intimo con totale fiducia al Dio vivente, l’accettazione della nascita, del nostro esserci, è completa. L’antidoto, se così possiamo dire, all’errore logico di Sileno, è per Guardini la fiducia in Dio, da cui discende la benedizione di ciò che si è e si ha. Come già María Zambrano, anche Guardini estende il significato della nascita all’intera vita. La nascita è un evento così significativo, che riguarda l’intera esistenza e non solo il suo inizio. In senso cristiano la rinascita è la fuoriuscita dal peccato, è la redenzione dai peccati, ma è anche la purificazione dai peccati che macchiano l’anima. La rinascita autentica presuppone che si rigettino tutti gli errori commessi e si cominci da capo. Nella rinascita, scrive Guardini, «l’Esserci dell’uomo viene scosso fin nelle radici e in certo qual modo riportato a prima della nascita; esso esperisce un declino, una morte che prelude a un innalzamento come Esserci nuovo» (p. 523). Come il sacrificio di Cristo è salvifico perché promette la resurrezione, così la rinascita dell’uomo nuovo dopo la morte dell’uomo vecchio nel peccato e nell’errore apre le porte a una nuova vita. Volgendo il proprio sguardo all’indietro, l’uomo nuovo che ha abbandonato il vizio e il peccato attraverso il pentimento, vede che la sua nascita è da Dio. E in tal modo si coglie come essere eterno. Uno sguardo puramente orizzontale sulla nascita non può fare a meno della sua relazione con la morte. Ma uno sguardo verticale connette la nascita alla rinascita e l’ingresso nel mondo del nuovo nato a un’epifania del divino, che richiede il rapporto fiduciale con Dio e l’assunzione di una responsabilità per il genitore consapevole. Non abbiamo detto che il nuovo nato, al di là della lunga catena di mediazioni, nasce da Dio?


  1. C. Tugnoli, «La diaspora come destino dell’“homo migrans”», in Id., Diaspora, edizioni del Faro, Trento 2016. ↩︎

  2. Tutti gli uomini sono mortali; i Greci sono uomini; i Greci sono mortali. ↩︎