Recensione a Wolfgang Palaver (curatore), Violenza e religione. Causa o effetto?

Wolfgang Palaver (curatore), Violenza e religione. Causa o effetto? , Raffaello Cortina editore, Milano 2011.

Il tema del rapporto tra violenza e religione è innegabilmente attuale. L’antropologia filosofica che Girard ha elaborato e affinato nel corso di una lunga ricerca trova in queste pagine una sintesi lucidissima. L’importanza della religione secondo Girard consiste nella sua funzione di contenimento della violenza, che nasce inevitabilmente nella vita associata. A suo avviso le religioni non si possono interpretare, nel senso del positivismo, come tentativi per spiegare i fenomeni dell’universo. L’interpretazione del significato della religione come tentativo ingenuo e fallimentare di scoprire i misteri dell’universo è del tutto fuorviante, perché ignora la vera questione: la violenza che le prime comunità si trovarono ad affrontare e che, se non fosse stata arginata, avrebbe potuto risolversi nell’autodistruzione. La violenza intraspecifica esiste anche nel mondo animale, ma quasi sempre il confronto violento si conclude con la desistenza del più debole, che si ritira dal combattimento e viene risparmiato dal vincitore, in tal modo riconosciuto come dominante. Gli esseri umani invece non si rassegnano ad accettare rapporti di dominanza e sviluppano una competizione illimitata quando entra in gioco il desiderio il quale, essendo del tutto diverso dagli istinti che gli esseri umani condividono con gli animali, ha bisogno di un modello; imitatore e modello diventano presto rivali, in un rapporto nel quale i loro desideri si alimentano reciprocamente. La rivalità mimetica, sconosciuta agli animali, nei rapporti tra gli umani può aumentare d’intensità fino a sfociare nel delitto, oltre a propagarsi indefinitamente. Il carattere mimetico del desiderio apre la strada a una competizione rivalitaria e a un’escalation che può accelerare irreversibilmente verso una situazione in cui gli individui hanno perduto la loro autonomia e sono letteralmente agiti dalla violenza. Le comunità arcaiche hanno escogitato un metodo, per così dire, utile e necessario per arginare una violenza potenzialmente illimitata e letale per l’intera società. Come la violenza che per imitazione si propaga in tutte le direzioni, generando quella situazione di crisi che possiamo chiamare del “tutti contro tutti”, così l’individuazione di una vittima espiatoria, ritenuta unanimemente colpevole della crisi, avviene per via mimetica, dal momento in cui un mediatore dell’odio comincia ad essere imitato e progressivamente ciascuno dirige il proprio odio sul nemico pubblico che diventa il nemico di tutti. Si instaura così il “tutti contro uno”. Quindi mimeticamente gli uomini si dividono e mimeticamente si uniscono a spese di uno solo. «Gli uomini che poco prima non riuscivano a smettere di lottare perché condividevano lo stesso desiderio, ora condividono avversari e odio. Paradossalmente, dove manca l’amore, il solo sentimento che può mettere d’accordo gli uomini è il suo contrario, l’odio reciproco» (p. 14).

I miti rappresentano il processo di vittimizzazione in forma spesso mascherata, come se il linciaggio originario fosse qualcosa che va tenuto nascosto. La vittima è comunque presentata come colpevole dal mito, mentre i linciatori sono innocenti: la vittima demonizzata e uccisa si trasforma in divinità agli occhi dei persecutori, che le attribuiscono il merito di aver portato la pace e l’armonia. Girard prende posizione contro la tesi diffusa nel XX secolo per cui i miti sono pure invenzioni, frutto dell’immaginazione, testi poetici o ludici. Tutt’altro: per spiegare gli elementi ricorrenti che troviamo nei miti di tutte le culture del mondo è necessario abbandonare come risibile questa tesi e procedere nell’analisi allo scopo di individuare gli aspetti che confermano un’interpretazione dei miti come «eco della violenza della folla, la stessa folla che poi li narra» (p. 12). Girard enumera quattro circostanze a sostegno della propria tesi:

  1. In molti miti la vittima è rappresentata nelle sembianze di un mostro terribile, che viene ucciso, assicurando così la salvezza alla massa. L’eroe che uccide il mostro altri non è che un sicario che agisce per mandato della folla unanimemente convinta della necessità di uccidere un uomo che è indicato quale causa di terrore, violenza e morte.

  2. Molti delitti attribuiti alla vittima sono stereotipi ricorrenti (stupro, infanticidio, zoofilia, parricidio, incesto). La genericità strumentale di queste accuse, il loro carattere di mero pretesto, risulta del tutto evidente nelle accuse di maleficio, di malocchio e di uccidere con lo sguardo.

  3. Altro tratto comune è una condizione fisica particolare di molte vittime, come avere un occhio solo, la gobba, essere zoppo. La folla sceglie la sua vittima più facile da individuare, localizzare e catturare, proprio come gli animali si concentrano sulla preda più deforme, più debole o in difficoltà.

  4. Spesso l’eroe mitico, la vittima predestinata a una fine tragica, è straniero; e questo è comprensibile in rapporto a comunità isolate dove un forestiero può suscitare apprensione per il semplice fatto che il suo modo di parlare e la sua gestualità sono diversi dalle consuetudini del posto.

La vittima è oggetto di una riprovazione e di una condanna tanto inappellabile quanto priva di motivazioni. La stessa unanimità della condanna è percepita come prova della sua colpevolezza. Nel mito la folla ha sempre ragione e la lapidazione della vittima colpevole è approvata come atto di giustizia suprema. In un secondo momento, la pace guadagnata con il linciaggio della vittima, consacra l’assassinio come rifondazione della comunità, elargizione di nuova vita e forza all’intera comunità. Il potere magico della vittima di portare ordine con la sua uccisione, la consacra quale divinità. Il miracolo della rappacificazione realizzata con l’uccisione della vittima dovette impressionare le prime comunità, le quali trasferirono al dio sorto dalla divinizzazione della vittima uccisa il potere di stabilire i divieti necessari al contenimento e prevenzione della violenza. I divieti hanno sempre avuto la funzione di tenere separati i soggetti maggiormente esposti alla competizione e al contagio mimetico, suscettibili di dar luogo a un esito violento. Per consolidare l’efficacia delle precauzioni prese, fu escogitato il sacrificio rituale. Il sacrificio di vittime che periodicamente si celebrava aveva come obiettivo quello di prevenire conflitti mimetici. La simulazione della crisi in numerose comunità primitive, soprattutto in Africa, doveva preparare il terreno al sacrificio. L’esatta ripetizione della sequenza del linciaggio originario ha naturalmente un carattere mimetico. La comunità, ricordandosi che la precedente crisi era stata risolta con l’uccisione della vittima, ripete diligentemente la sequenza di operazioni prevista dall’archetipo, compresa la finale uccisione di una vittima, per lo più animale, in sostituzione di quella umana. La crisi simulata svolge la funzione di innesco del meccanismo della vittima che, nel suo svolgimento archetipico, ha risolto pienamente la crisi. Il risultato dell’analisi di Girard è che «le religioni arcaiche non costituiscono affatto la causa della violenza, bensì sono (o piuttosto erano) in primo luogo una conseguenza di questa violenza e in secondo luogo la protezione primaria contro di essa» (p. 16). Come si è visto, le religioni arcaiche sono delle combinazioni di divieti e sacrifici. L’ambivalenza della divinità nata dalla divinizzazione della vittima uccisa è una conseguenza dell’ambivalenza della vittima, insieme causa della crisi e responsabile del suo superamento. Per questo la divinità è rappresentata come causa di sciagure punitive, oltre che come fonte di salvezza. Gli uomini attribuivano alla divinità una rabbia che invece era solo la loro aggressività, una violenza che invece era la loro propria violenza. Il meccanismo della vittima era così collaudato che alla divinità si poteva chiedere di placare la sua ira, foriera di mali per la comunità, immolando altre vittime sacrificali in suo onore.

Il rovesciamento dello schema mitico inizia con la Bibbia ebraica e culmina nei vangeli. Per la prima volta l’impianto mitico viene messo in crisi. Se nei miti le vittime sono rappresentate come realmente responsabili della crisi e come colpevoli, e le stesse credono di aver commesso i crimini loro attribuiti, mentre i persecutori sono giusti e hanno ragione, nelle scritture ebraiche e cristiane, all’opposto, la folla è messa sotto accusa per aver perseguitato e linciato vittime innocenti. Nei testi profetici della Bibbia la prospettiva della folla è contestata. Lo stesso Giobbe è ingiustamente scaraventato nella sventura e l’intera comunità agisce contro di lui. I fratelli di Giuseppe si comportano nei confronti di Giuseppe come una folla accecata dall’odio. Molti profeti sono perseguitati e uccisi dalla folla. Se il mito denuncia i crimini della vittima uccisa, le scritture ebraiche denunciano i crimini della folla. I vangeli presentano una sequenza narrativa identica a quella dei miti. Iniziano con la crisi dello stato ebraico sottoposto alla dominazione romana, crisi che culminerà con il dramma di una singola vittima, Gesù, ucciso e successivamente divinizzato dai suoi seguaci. La differenza tuttavia consiste nel fatto che i vangeli sostengono un punto di vista opposto a quello dei miti: la vittima è innocente e i persecutori sono colpevoli della massima ingiustizia. I sostenitori dell’innocenza della vittima sono minoritari, ma il loro numero è destinato a crescere enormemente per la ragione che essi sostengono la verità, non un punto di vista qualsiasi, contro la folla che impone l’asservimento alla menzogna. L’illusione delle comunità arcaica era di assumere il fattore numerico come garanzia di verità, di scambiare l’unanimità come prova di aver identificato i veri criminali. Se la folla non vede che la vittima è innocente, a unirla contro la vittima può essere solo il contagio mimetico, dal quale la folla del mito è travolta, mentre alcuni seguaci del Cristo resistono alla forza di attrazione del mimetismo. Resistere alla forza del mimetismo non è facile, tanto è vero che Pietro rinnega per ben tre volte Gesù, evidentemente sedotto dalla folla ostile. Pietro vacilla e sta per cedere alla folla, ma alla fine si riprende la sua autonomia razionale. Pilato, al contrario, è inizialmente e intimamente convinto dell’innocenza di Gesù e vorrebbe salvarlo, ma poi cede al contagio della folla e ordina la condanna alla crocifissione, per non mettersi in urto con i capi. Il vangelo si colloca così su di un piano diametralmente opposto al mito, ma è proprio questa opposizione che non comprendono quanti considerano i testi biblici equivalenti al mito, solo per il fatto che condividono formalmente molti aspetti, tranne il carattere decisivo. Essi non si rendono conto della novità inaudita dei vangeli, che rivelano l’innocenza della vittima e difendono la verità, contro il mito che falsifica la realtà e contrabbanda la menzogna. Il mito copre l’inganno dei persecutori, che presentano la vittima colpevole per il semplice fatto che essi sono tutti d’accordo nel ritenerla tale; il vangelo all’opposto denuncia lo scandalo della sofferenza inflitta alla vittima senza motivo e quindi ingiustamente. Del resto, è proprio della logica vittimaria la risposta alla violenza con altra violenza. Alla vittima è addossata l’intera responsabilità della crisi e quindi viene uccisa per rimuovere la causa della dissoluzione. Il sacrificio della vittima riconosciuta come innocente assume un significato totalmente diverso rispetto al linciaggio di una vittima riconosciuta come colpevole. Una vittima che accetta di essere messa a morte, nonostante la sua innocenza e manifestando la sua innocenza, è un cavallo di Troia spinto all’interno del recinto del sacrificio arcaico, che ne uscirà irreparabilmente disarticolato e messo fuori gioco. Se la vittima innocente sfuggisse al sacrificio in virtù della sua innocenza, non farebbe che assecondare la stessa logica della ritorsione su cui si fonda il mito arcaico, quella per cui alla violenza si risponde con altra violenza e la violenza caccia la violenza incarnata nella vittima espellendola. Appartiene al mito arcaico l’idea che non si possa far qualcosa per niente, solo per amore, come invece insegnano i vangeli. Gesù dunque, proprio perché innocente, doveva essere messo a morte, affinché la crocifissione rigettasse nei fatti la logica della vendetta e della reciprocità ancora dominante nel mito. Girard sostiene con forza l’idea che la Bibbia ebraica e i vangeli siano la contestazione sempre più rigorosa e coerente dell’universo mitico di persecuzione ai danni di una vittima innocente. Il sacrificio della croce diventa il paradigma della riconciliazione tra gli esseri umani i quali, scartata la via menzognera e violenta della persecuzione vittimaria, hanno nel perdono il solo mezzo a disposizione per evitare o prevenire lo scatenarsi della violenza mimetica. Il perdono condona il torto, rinuncia al risarcimento dei danni subiti, blocca il riflesso condizionato della vendetta: preferisce la condizione permanente di vittima di un’ingiustizia, al pari di Gesù crocifisso, pur di non obbedire alla logica della ritorsione. Nel sacrificio della vittima innocente, come del resto nel perdono, la vittima rinuncia a rispondere colpo su colpo, nella consapevolezza che quello sarebbe il modo migliore per perpetuare tanto l’ingiustizia quanto la violenza. Nel sacrificio della Passione come nel perdono la vittima rinuncia a farsi valere per amore, senza alcun vantaggio o profitto che non sia il bene dell’altro. Anziché accettare la condanna come misura proporzionata alla gravità dei crimini di cui si sente colpevole la vittima del mito, la vittima evangelica, sapendosi innocente, non mette in relazione la condanna a morte con alcuna colpa e tratta la propria morte o l’affronto subito come una prova di lealtà dinanzi alla verità. Ribellarsi all’uccisione solo perché si è innocenti, oppure restituire il danno subito non sono approvati come giusti atteggiamenti dall’evangelo. Se nel mito giustizia e ingiustizia si fondano sull’odio per la vittima che tutti giudicano responsabile di crimini efferati, nel vangelo giustizia e ingiustizia si misurano in base all’amore per i persecutori (Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno! ). La prospettiva è dunque rovesciata. Il criterio del mito è l’odio per la causa dei mali, quello dei vangeli è l’amore per coloro che commettono ingiustizia. Il vangelo rinuncia alla ritorsione e fonda la pace degli uomini sull’intesa reciproca e sulla capacità di perdonare i torti subiti.

Il saggio Violenza e religione si conclude osservando che la consapevolezza del carattere arbitrario della colpevolizzazione, l’insostenibilità del capro espiatorio, è sempre più diffusa nel mondo, sia negli individui che nelle istituzioni. Tuttavia la cura e la preoccupazione per le vittime nella nostra società diventa di fatto oggetto di una nuova specie di rivalità mimetica. L’interesse per le vittime si è sviluppato particolarmente nel XX secolo, al culmine di un processo che è stato inaugurato dai vangeli e che, ancora prima, ha le sue lontane radici nella bibbia ebraica; si potrebbe insinuare che questo trionfo della preoccupazione per le vittime nel secolo appena concluso, sia stato possibile anche per la riapparizione di forme di neopaganesimo sulla scena europea, espressione della volontà politica di instaurare il meccanismo precristiano di soluzione del problema della violenza mediante l’opportuna individuazione di capri espiatori. Lo scardinamento del sistema vittimario ad opera del vangelo ha giocato allora un ruolo essenziale, in quanto i vangeli, rivelando la menzogna del capro espiatorio, ne rendono impossibile la consapevole e prolungata individuazione. La Passione ha agito nei secoli come vaccino contro ogni forma di riaffermazione del sistema mitico di persecuzione vittimaria, così che ogni forma di vittimizzazione è presto individuata come un fenomeno esecrabile di capro espiatorio. L’operazione che consiste nell’espulsione della violenza con la violenza ha perduto ogni efficacia in virtù dei vangeli. Nessuno può avvalersi del capro espiatorio quale schema di azione individuale, politica o ideologica o forma preventiva di razionalizzazione degli eventi: la vittima espulsa non ritorna nella forma sacralizzata di un dio. Dopo la rivelazione dell’innocenza della vittima, è bloccata in partenza la sua divinizzazione quale conseguenza del linciaggio fondatore. Questo non toglie che possano instaurarsi rapporti di rivalità mimetica, come sostiene Girard, proprio nell’atto stesso di prendersi cura delle vittime e di rinfacciarsi reciprocamente gli scheletri nell’armadio.

La nuova situazione appare paradossale. Da una parte la preoccupazione per le vittime fa sì che il nostro mondo sia meno violento che nel passato; dall’altra si assiste a uno spaventoso aumento della violenza. Basti pensare che il XX secolo ha assistito alle guerre più micidiali della storia umana, ai campi di sterminio, ai genocidi e ha sperimentato la forza distruttiva spaventosa, apocalittica, delle armi nucleari. Il futuro è denso di minacce terribili, se guardiamo alla diffusione del terrorismo nel mondo e alla facilità con cui un gruppo terroristico ben organizzato potrebbe impadronirsi delle armi nucleari, chimiche o biologiche provocando distruzioni su vastissima scala. La violenza, tuttavia, reale o potenziale, non è prodotta dalla religione. È facile accorgersi che gli attentati terroristici hanno la caratteristica di distruzione deliberata di innocenti sui quali si proietta l’ombra indistinta di una colpa generica, come l’essere occidentali, cristiani e quindi colpevoli dei peggiori crimini. I terroristi apparentemente rinverdiscono il paradigma vittimario, solo che la colpevolizzazione non convince, non genera alcuna unanimità, e lascia affiorare il disgusto per una tecnica di falsificazione che la bibbia ebraica e i vangeli hanno già messo al bando da molti secoli. La religione arcaica nasce come tecnica di contenimento della violenza. I vangeli, assumendo la difesa delle vittime innocenti e facendo di questa innocenza la verità sulla vittime, insegnano la via migliore per ottenere il risultato del superamento della vendetta e della ritorsione: riconciliazione e perdono. Ora, non tutti gli uomini sulla terra seguono l’insegnamento evangelico. Girard lamenta tuttavia che l’indebolimento o attenuazione della violenza sacrificale comporta come conseguenza l’inefficacia sul piano della capacità di pacificazione del meccanismo vittimario. Il sacrificio arcaico non funziona più. La pace di cui gli uomini hanno goduto si fondava sulla violenza sacrificale, quindi l’eliminazione della violenza sacrificale rappresenta «un progresso ambiguo e ambivalente nella lotta contro la violenza, che può includere tratti regressivi nel momento in cui gli esseri umani, che nel passato venivano frenati da questa violenza, diventano più violenti» (p. 24). Il progresso verso l’affermazione della verità, l’innocenza della vittima, può rivelarsi regressivo, perché mette fuori uso l’arma del sacrificio vittimario; ma è evidente che un ragionamento siffatto si colloca sulla scia della logica sacrificale della cui forma compiuta Girard sembra provare nostalgia, in contraddizione con il senso fondamentale della sua analisi. Se il contenimento sacrificale della violenza non può essere totalmente eliminato dalle istituzioni (basti pensare alla polizia o all’esercito), non è possibile rammaricarsi per l’indebolimento dell’efficacia purificatrice del sacrificio vittimario in seguito alla rivelazione, se non schierandosi ideologicamente con il paganesimo. L’esercizio strumentale della violenza legale da parte delle istituzioni è un residuo ineliminabile dell’organizzazione arcaica, che deve poter coesistere con il progressivo affermarsi della cultura opposta ispirata ai vangeli. Ma il compito di Girard era appunto questo: dimostrare che la violenza non è l’effetto, ma la causa della religione, alla quale va riconosciuta non la funzione di soddisfare la curiosità degli uomini sulla natura dell’universo, bensì quella di contenere la violenza che ha origine dalla reciprocità mimetica, alla base dei rapporti umani. «La violenza che vorremmo attribuire alla religione, conclude Girard, è in realtà la nostra violenza e dobbiamo affrontarla direttamente. Trasformare le religioni in capri espiatori della nostra violenza può, alla fine, avere solo l’effetto opposto» (p. 25).

Nella seconda conversazione con Palaver Girard riprende il tema dell’opposizione tra il mito e la bibbia ebraica. La violenza di cui si parla nella bibbia ebraica ha un significato completamente diverso rispetto alla violenza narrata dal mito greco. L’unicità della rivelazione biblico-cristiana consiste nel fatto che nella bibbia ebraica ha inizio un processo di rivolta della vittima contro la violenza ingiusta alla quale è sottoposta. L’aspetto decisivo di questa differenza consiste nella rottura dell’unanimità presente nel mito, per la quale anche la vittima è schierata con i linciatori contro se stessa — la vittima condivide pienamente la colpevolizzazione di cui è oggetto. Raymund Schwager ricorda che su 150 salmi, cento riportano l’assedio del protagonista da parte dei nemici. Il narratore, vittima di una violenza ingiusta, per la prima volta protesta a gran voce contro il linciaggio che sta subendo. Nei Salmi non parla la folla dei linciatori, ma la vittima, per denunciare l’ingiustizia della sua condanna. Nei miti parla solo la folla e la violenza di cui la vittima è oggetto, è quasi completamente nascosta in varie forme di travisamento, mascheramento e rimozione. Il risultato dell’elaborazione mitica della violenza contro la vittima è un’apparenza apollinea del mito greco classico. Nei Salmi l’innocenza della vittima è dichiarata apertis verbis. Nei vangeli, in continuità con i Salmi, si afferma il punto di vista della vittima. A differenza dei Salmi, nei vangeli Gesù accetta la morte perché gli uomini comprendano quello che stanno facendo. Anche Giuseppe diventa più volte capro espiatorio, ma non si vendica sui fratelli. La verità si fa strada lentamente nella bibbia ebraica, e giunge a espressione completa solo nei vangeli. Nei vangeli è condannata la violenza ai danni di tutte le vittime. La sola alternativa al Regno di Dio, alla pace promessa da Gesù, è una violenza diffusa e generalizzata, che ci porterà alla distruzione. Gesù sceglie la sola alternativa che toglie la violenza. In un certo senso è obbligato a farlo, perché, in quanto figlio di Dio, non può schierarsi dalla parte dei persecutori, ma può solo agire e parlare in difesa della vittima, lasciandosi linciare lui stesso, pur di non opporsi alla violenza. Affinché la verità dell’innocenza della vittima trionfi, Gesù deve essere immolato in un sacrificio abissalmente diverso dal tipico sacrificio arcaico, celebrato dai persecutori ai danni di una vittima consenziente e convinta della propria colpevolezza. Nella nuova prospettiva inaugurata dalla bibbia ebraica, l’uccisione di una vittima innocente suscita la protesta della vittima e di coloro che hanno a cuore la verità. La verità non è qualcosa che ci si limita a denunciare, a ribadire, a proclamare. La verità dell’innocenza della vittima esige un prender parte al processo vittimario senza cedere alla tentazione di schierarsi con i persecutori per aver salva la vita. La verità è questione di vita o di morte. In questo mondo dove, nonostante la nuova consapevolezza inaugurata dalla bibbia ebraica e portata a compimento dai vangeli, gli uomini continuano a dividersi in vittime e persecutori, gli amanti della verità non hanno scelta: devono essere disposti a pagare di persona il prezzo della loro visione; devono accettare di subire la violenza in quanto vittime innocenti; devono soccombere affinché trionfi la verità che difendono. Il Regno di Dio si realizza nel momento in cui tutti, mimeticamente, rinunciano ad assumere il ruolo di persecutori, contribuendo a formare un mondo senza linciatori e senza vittime. Il vero cristiano, come il vero amante della verità, deve accettare i pericoli che derivano dall’abbandono del sistema sacrificale, che ha protetto l’umanità dalla violenza dalla notte dei tempi.

La fase intermedia tra l’epoca arcaica del mito e l’avvento del Regno di Dio è esposta a una violenza supplementare nella misura in cui non agisce più la protezione sacrificale contro la violenza. Riprendendo Nietzsche, Palaver propone di interpretare lo scatenarsi del terrorismo globale come la conseguenza del risentimento, dovuto all’impossibilità dello scatenarsi della vendetta: il terrorismo si deve al risentimento che, a sua volta, è la conseguenza del cristianesimo e della sua rimozione della violenza vendicatrice. Ma Girard non concorda con l’intervistatore, sostenendo che la vendetta e la vendetta repressa, il risentimento, non sono invenzioni del cristianesimo. Perciò sarebbe azzardato sostenere, come fa Palaver, che il terrorismo globale è influenzato dalla rivelazione biblica dal momento che nelle società pagane la violenza è risolta direttamente con il sistema sacrificale, e non è convertita in risentimento. Secondo Girard, «il terrorismo è lo scatenarsi di una violenza lungamente repressa non dal cristianesimo, ma dalla superiore violenza di poteri che sono cristiani solo di nome» (p. 66). Il terrorista è disposto a morire purché la sua morte provochi l’eccidio del maggior numero di persone. L’atto terroristico è pura vendetta distruttrice, espressione di una guerra al di fuori di ogni regola e schema. Non si può comprendere né come linciaggio originario, né come sacrificio, giacché nell’intenzione dei terroristi il gesto terroristico non è la pacificazione e risoluzione della violenza, ma al contrario la sua proliferazione infernale. Il terrorismo non si lascia facilmente imbrigliare negli schemi dell’antropologia vittimaria, possiamo solo interpretarlo come sintomo di una crisi generale di conflittualità rivalitaria, sempre sul punto di precipitare in una vertiginosa escalation planetaria e che tuttavia attende ancora uno sbocco. Una crisi generalizzata come quella di cui è indice il terrore globale può risolversi in un “tutti contro uno” e in un linciaggio risolutore come avviene nel mondo arcaico? O in alternativa, i protagonisti del terrorismo potrebbero mai cedere alla rivelazione evangelica e rinunciare alla violenza?