L’identità introvabile. Nota critica a Francesco Remotti, L’ossessione identitaria

Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010.

1.

Si parla spesso e volentieri di identità; il termine sembra possedere un significato univoco, implicitamente condiviso e di tutta evidenza. E, soprattutto, sembra rinviare a qualcosa di solido, indiscutibile, mentre invece, come dimostra Remotti,1 quella parola spesso abusata promette qualcosa che in realtà non c’è. L’identità rinvia a una sostanza, illude di poter afferrare qualcosa di reale, pretende di circoscrivere una certa essenza nella sua purezza, quando invece essa non è che una finzione. Al massimo si potrà dire che l’identità è un mito utile; un mito da prendere con circospezione, con la coscienza, appunto, che si tratta di un mito. Chi rivendica un’identità intesa come essenza immutabile avanza una richiesta di riconoscimento identitario che mostra una stretta parentela con il razzismo. I sostenitori di un identitarismo radicale finiscono col concepire una dicotomia secca tra noi e loro, tra me e l’altro, tra le persone perbene e i criminali (almeno potenziali) che minacciano di alterare l’identità di quanti si pongono come soggetti di riferimento.

Il problema di una difesa dell’identità che non possa confondersi con l’identitarismo razzista riguarda tutti i gruppi e tutte le culture: esso presenta un aspetto logico-filosofico, antropologico, morale e politico. Remotti si spinge a sostenere che l’identità non è più irrinunciabile, che si può farne a meno; che non si tratta di mantenerla entro limiti accettabili attraverso un’analisi critica che la liberi dagli aspetti di isolamento e ossessione razzista, ma che si deve invece proprio liquidarla completamente. Al posto dell’identità si deve mettere il “noi”. Se l’identità implica un’opposizione tra identità e alterità, il “noi” contrassegna invece un rapporto intrinseco e di coinvolgimento con gli altri. L’identità rinvia a una compattezza e purezza interna che non ha alcun riscontro nella realtà; il “noi” invece corrisponde al bisogno dell’alterità, come nell’esogamia. L’identità allude a una completezza che comporta chiusura ed esclusione dell’altro, vissuto come minaccia permanente e mortifera. Il “noi” rispecchia invece la necessità e la realtà della complementarietà, dell’inclusione, della comunicazione, della convivenza, dell’essere con, anziché dell’essere contro. L’idea che l’identità debba temere minacce dall’esterno deriva dall’ignoranza di un fatto incontestabile: qualsiasi identità ha una matrice allotria, si costruisce mediante apporti dall’esterno, contributi spesso imprevedibili, rimescolamenti, influenze dirette e indirette, secondo una fenomenologia dell’“impuro” e dell’ibridazione che non può abbracciare l’intera casistica storicamente accertata. L’identità non è semplice, non è immutabile, non è sostanziale, ma solo relazionale. Risulta del tutto impropria, quindi, la benevolenza untuosa con cui si cerca di acquietare certo malumore irrazionale più che razzista, ricordando che gli immigrati “ci arricchiscono, che la diversità è una ricchezza”. No, evitando il travisamento di un approccio diplomatico, è meglio riconoscere che le cosiddette “contaminazioni” e “alterazioni” sono una necessità vitale, quindi non tanto un fattore di miglioramento dell’identità preesistente, quanto invece una condizione necessaria della costituzione di questa stessa identità.

All’identità va riconosciuto il ruolo di principio guida, di idea regolativa, che governa e guida gli sforzi che le comunità e gli individui compiono per unificare e stabilizzare, rispettivamente, la società e la coscienza. Coerenza, continuità e stabilità sono ciò cui aspirano gli individui e le società quando cercano di promuovere la propria identità, che acquista così un senso non regressivo ed essenzialistico, bensì progressivo e relazionale, non esclusivo e astorico, ma inclusivo e storico. Alterità e alterazione sono concetti che contraddicono l’individualismo asociale e antisociale tipico del razzismo. Si può dire che abbiamo bisogno degli altri per mangiare, per respirare, per scaldarci, per realizzarci come individui nella vita privata e pubblica: dunque gli altri non rappresentano una minaccia, ma sono una necessità vitale. Abbiamo bisogno degli altri, paradossalmente, anche per contrapporci ad essi, per affermare meglio la nostra esistenza negando la loro. Del resto l’alterità può essere negata — quando lo sforzo di autoaffermazione diventa autocentrato e solipsistico — ma non annullata. L’annullamento dell’alterità è inconcepibile.2 Remotti propone uno schema con due estremi, I (dentità) e A (lterità). Verso l’estremo I si collocano i valori della coerenza, continuità e stabilità; verso l’estremo A invece quelli dell’apertura, della trasformazione, del mutamento, della creatività. Gli esseri umani oscillano quindi tra questi due estremi, accentuando il ruolo dei valori A o I a seconda delle situazioni in cui si trovano. L’equilibrio non è dato una volta per tutte, ma, appunto, si tratta di un’oscillazione e di un continuo aggiustamento. Le culture che praticano esclusivamente i valori I e si limitano a una chiusura ermetica all’alterazione e al cambiamento, vanno incontro a morte sicura per putrefazione o asfissia. Dunque celebrare la purezza dell’identità (culturale, razziale, individuale) rappresenta un assurdo logico e una follia pragmatica. Nel momento in cui una cultura si chiude in se stessa per difendersi meglio dai presunti attacchi provenienti dall’esterno, allo scopo di garantirsi la sopravvivenza, decreta allora la propria implosione per esaurimento: l’autosufficienza identitaria diventa un suicidio.

Ogni società mette in atto delle strategie di difesa e mantenimento della propria identità, l’antropologo lo sa bene. In quest’ottica, cioè dal punto di vista di una comunità strutturata e organizzata in istituzioni, funzioni, gerarchie, ecc., il rapporto con l’alterità, comunque esso si instauri, è concepito come aggiuntivo e non essenziale. Ma questa “autarchia epistemologica e ideologica”, come la chiama Remotti, è il punto di vista soggettivo, che presuppone la preesistenza dell’identità al commercio con l’altro, quando invece, oggettivamente, il rapporto con l’alterità è doppiamente indispensabile: per la società, che non potrebbe costituire la propria identità se non mediante l’alterità; e per la descrizione/spiegazione dei processi osservati dall’antropologo. Nella costituzione dell’identità l’antropologia assegna un ruolo decisivo alle scelte. La scelta è intesa come deviazione, accompagnata dalla consapevolezza che l’identità raggiunta sarebbe potuta anche essere diversa, che le inerisce quindi un certo grado di particolarità e arbitrarietà. Nessuna identità, sia essa individuale o collettiva, è necessaria e irrevocabile, proprio perché essa si costituisce mediante scelte che scartano altre possibilità.

2.

Remotti enfatizza il ruolo della scelta nella costituzione dell’identità, quando invece essa potrebbe avere un ruolo solo marginale, dal momento che nel suo sviluppo storico spesso l’identità si costituisce mediante influenze e atti di forza che poco hanno a che vedere con la scelta consapevole. Possiamo invece riconoscere che nella storia delle culture la costituzione delle identità non si è mai completata ed è avvenuta per lo più in modo fortuito, per effetto di circostanze contingenti e spesso in modo inconsapevole. La conquista militare e l’espansione geopolitica di una determinata nazione hanno ben poco di consapevole e razionale: sono un dato di fatto, risultato di un rapporto di forza che poteva essere diverso e il cui esito non è deciso solo da una qualche scelta. A seguito di circostanze particolari e contingenti, la cultura che influenza è anche influenzata (Graecia capta ferum victorem cepit).

Nella costituzione dell’identità non si assiste all’assemblaggio consapevole, da parte di un soggetto individuale o collettivo, di elementi eterocliti tratti da altre culture: questa immagine edulcorata e astratta della formazione dell’identità lascia fuori ogni riferimento alla vita vera delle nazioni e delle culture, alla guerra, alle prove di forza, alla brutalità dell’oppressione e dell’esclusione. Rimane vero tuttavia che l’identità è in costante evoluzione e mutamento, senza che si possa rintracciare un’essenza originaria che persiste e si modifica nel tempo. La nostalgia delle origini non sembra giustificata: in origine infatti, in senso stretto, non c’era niente e quel che c’era non si colloca in una relazione necessaria con il presente, se è vero che in ogni epoca o fase della storia la direzione che il cammino prende ne esclude altre. E tutte le direzioni possibili sono compatibili con lo stadio raggiunto dall’identità in un certo momento. L’identità perde quindi ogni forma di necessità logica e storica. È vero che, come osserva Remotti evocando la nozione di “disagio culturale” teorizzata da Freud e da Dewey, ogni cultura porta con sé un disagio, e che questo autorizza a pensare che «il senso della possibilità e della precarietà sia presente, in modo più o meno intimo e segreto, in ogni società e in ogni forma di identità».3 Tuttavia tale carattere di incertezza oggettiva, di fluida indeterminazione, rinvia a una sorta di incompiutezza del processo di costituzione dell’identità, che va compresa non come dato di fatto, ma in quanto esigenza. Nel momento in cui i soggetti acquistano coscienza di sé, isolano l’interno dall’esterno, il sé dall’altro da sé, illudendosi così di afferrare una propria essenza distinta. Ma si tratta, appunto, di un’illusione, che retrospettivamente fraintende l’altro da sé come sé. Di fatto, la prosecuzione dell’esistenza è storicamente possibile solo mediante l’alterazione, la contaminazione dell’identico: proprio come nell’esogamia, gli individui per riprodursi hanno bisogno degli altri, devono uscire da se stessi. L’identità come esigenza auto-organizzativa è un principio guida di orientamento nella storia di ogni vivente, individuale e collettivo, che tuttavia può degenerare nel processo di mummificazione che ha luogo quando la normale evoluzione è bloccata da un’auto-riflessione deformante, concentrata su presunti elementi che farebbero parte ab origine della propria essenziale identità.

L’ossessione per l’identità è dunque una distorsione, che si presenta quando la riflessione sul passato comincia a prevalere in misura patologica, assorbendo tutta l’attenzione che, per necessità vitale, i viventi devono rivolgere al presente e al futuro. La volontà di affermare una presunta identità, riflessa e immaginaria, si fa strada quando l’evoluzione si è interrotta per una patologia del pensiero che ostacola i normali processi di alterazione necessari all’esistenza in quanto tale. Senza gli altri, nessun noi, senza alterità, nessuna identità. Pensare un’identità senza alterità significa assumere una chimera, proporre un nonsenso, evocare un circolo quadrato. Perciò la vera minaccia non è l’intrusione di qualcosa dall’esterno che stravolgerebbe un’identità stabile, bensì l’assenza di quell’introito di alterità che assicura la vita integrandosi con una realtà preesistente in costante crisi di astinenza.

Identità in fieri, in un processo sempre incompiuto: in qualsiasi momento della loro storia i viventi presentano una configurazione che nasconde il processo che li ha costituiti, cancellando tutto ciò che è stato scartato, riproposto in forme nuove, tutte le incertezze e le variazioni casuali che sono alle spalle di una certa sezione istantanea di un processo continuo. Lo stesso accade quando consideriamo un’opera d’arte nella sua perfezione estetica: il giudizio di sommo capolavoro presuppone che essa sia scaturita, attraverso il pensiero e l’azione dell’artista, da un mondo delle idee in cui da sempre attendeva di essere riportata alla luce e proposta alla visione dei mortali. Ma questo presupposto appare dissonante con la cruda realtà delle modificazioni, dei ripensamenti e rifacimenti che in corso d’opera si sono susseguiti, generando alla fine, in molti casi, un capolavoro inatteso. Se vista in relazione alla storia della sua apparizione, l’opera perde l’aura di un’essenza remota, i contorni di una perfezione immutabile si dissolvono per fare posto a una riflessione che pone l’opera stessa come risultato, prodotto finale di un processo per molti aspetti arbitrario e aleatorio. Così, quando consideriamo l’identità, siamo fuori strada se prendiamo in esame una certa sezione istantanea e la astraiamo, isolandola dal processo di formazione e quindi occultando la non-identità di cui essa si nutre.

L’ordine in cui ogni pretesa identità cerca di fissarsi è sempre precario, modificabile e revocabile. Organicità e coerenza rimangono dei conati mai completamente riusciti, in lotta con l’eterogeneità e la casualità. A questo punto è la nozione stessa di identità, nella forma in cui è stata codificata nella storia del pensiero, ad avere bisogno di una rifondazione. Nella prospettiva ontologica di impostazione aristotelica l’identità è del tutto separata dalla non-identità ed esprime un’esigenza difensiva e protettiva: in quest’ottica, che ha nella kantiana formulazione del principio di identità la sua versione logica, «dire identità significa infatti sostenere che la sostanza di cui si parla non contiene entro di sé nulla di diverso da sé: per garantire l’inalterabilità, la cosiddetta legge dell’identità esclude dalla sostanza qualsiasi elemento esterno, un indizio anche minimo di alterità».4 Il lontano paradigma di questa definizione è il logos di Parmenide: l’Essere uno, identico, inalterabile, pieno, totale, continuo, omogeneo, senza tempo, imperituro, senza scopo, indivisibile, senza remissione, senza inizio, isotropico, simmetrico, limitato da ogni parte, ecc. Seguendo la via opposta di Eraclito, quel logos eracliteo per cui ogni cosa si rovescia senza sosta nel suo opposto, Hegel contesta la validità di questa legge dell’identità e la respinge come fittizia sia in senso logico che ontologico. Tra identità e non identità Hegel pone non la separazione esclusiva, ma l’implicazione reciproca, la compenetrazione e la coesistenza dialettica. In Hegel il processo storico disegna temporaneamente profili precari sempre sul punto di dissolversi e mutarsi in altro, così che A e non-A si intersecano e si compenetrano per formare altre entità. Questo molteplice in costante mutamento che esclude ogni forma di sostanza chiusa in se stessa, è soggetto a un’alterazione nel tempo che non avviene a caso, ma è guidata dalla ragione universale, che dà direzione e unità al molteplice immerso nel processo storico e consiste nell’oltrepassare ogni particolare nella direzione dell’universale. Remotti sostiene quindi, sulla scorta della filosofia hegeliana, che l’attenzione esasperata all’identità coincide con l’abbandono della concezione universalistica, dacché una visione universalistica mostra come lo spirito universale, il Concetto, si affermi storicamente attraverso l’annientamento di ogni forma particolare. La sostanzializzazione dell’identità in generale maschera sempre l’intenzione di esaltare una particolare forma di identità, di solito la propria o quella della propria cultura o nazione: orbene, nella prospettiva delle concezione hegeliana, l’affermazione dell’universale richiede esattamente l’opposto, vale a dire la relativizzazione delle identità particolari e la denuncia della loro radicale inadeguatezza rispetto all’universale che pretendono di rappresentare. La difesa delle identità locali viene così ad assomigliare alla costruzione artificiosa di aree protette per specie in via di estinzione, le quali potranno sopravvivere a stento nell’immobilità evolutiva, ridotte a fantasmi di se stesse. Per rinnovarsi e attingere l’universale, per diventare ciò che deve essere, il particolare deve morire, hegelianamente, estinguersi, dissolversi nella competizione delle identità, nello scontro che decide quale nazione ha il diritto di incarnare lo spirito del mondo.

Suggerisco quindi una correzione della tesi di Remotti. L’identità eraclitea è coincidentia oppositorum: l’essere accoglie e convive con il non essere, l’identico abbraccia nel suo seno il non identico, l’identità è già da sempre comprensiva dell’alterità. L’identità parmenidea, coerentemente con la logica monovalente di un logos incontraddittorio, non sopporta alcuna negazione e limitazione: essa può tradursi pragmaticamente in una chiusura identitaria ostile a ogni confronto e scambio con l’alterità. La difesa dell’identità forte, nel senso del logos parmenideo, diventa allora una forma di cecità, sintomo di una debolezza inconfessata e votata al suicidio. Se l’alterità è vissuta come una minaccia all’identità, la difesa paranoide di una presunta originarietà identitaria si traduce nella pretesa allucinatoria della purezza incontaminata, di una mera sussistenza autarchica della cultura di appartenenza. L’identità autentica è insieme eraclitea e parmenidea: riconosce l’alterità come alimento indispensabile, ma al tempo stesso pone l’esigenza di connotarsi in modo univoco e difende la propria unicità quale condizione del riconoscimento, in senso soggettivo e oggettivo.

Remotti recupera con simpatia il pensiero hegeliano che ritiene utile nella costruzione di un nuovo concetto di identità, più aderente alla realtà dei fatti, ma trascura il ruolo che Hegel assegna alla guerra come decisore della direzione che la storia deve assumere di volta in volta. La guerra è il solo mezzo che, per Hegel, può assicurare sviluppo e progresso all’affermazione dello spirito del mondo e al trionfo del Concetto, ossia dell’universale. La relativizzazione immobilistica delle culture, la loro valorizzazione comparativa e statica, è antitetica alla filosofia della storia di Hegel, che concepisce come necessario il trionfo della ragione universale senza compromessi e senza stasi alcuna. Se si evoca Hegel, si vuole o si accetta la guerra tra potenze particolari la cui sola ragion d’essere è quella di misurarsi con un compito impossibile — incarnare l’universale — per poi ogni volta soccombere e decadere. Sulla scena della storia illustrata da Hegel appaiono nuove identità che, incarnando a turno lo Spirito del mondo, emergono dalle rovine di altre; le nazioni sopravvivono fagocitando, in senso letterale, altre nazioni e culture e ripropongono in nuova forma ciò che hanno tolto ad altre con la violenza, l’inganno, la sopraffazione, il dolo. Perché non dire fino in fondo che cosa significa, in senso hegeliano, la lotta per la conquista dell’egemonia, la sola che consenta agli individui e alle nazioni di assicurarsi la sopravvivenza? Perché tacere che l’incontro tra civiltà e culture diverse non può essere rappresentato irenicamente come affratellamento spontaneo, atto di accoglienza e comprensione reciproca; perché non spiegare che dalla notte dei tempi ogni incontro è anche scontro, e che solo dallo scontro e dal crogiuolo che esso crea nascono nuove forme di esistenza e di coabitazione, nuove sintesi vitali destinate a riprendere il cammino cruento dell’autoaffermazione?

3.

L’equivoco di fondo che circola nelle scienze sociali del secolo scorso (e Remotti non sembra fare eccezione) è la confusione tra il principio della Ragione universale e la pretesa razionalità del processo attraverso il quale l’universale si afferma. I processi che conducono all’integrazione e alla formazione di nuovi aggregati, di nuovi soggetti (individui, comunità, culture) sono del tutto irrazionali in quanto basati su fattori imponderabili (come la potenza, la violenza spinta all’estremo o le circostanze contingenti). Invece nella rappresentazione data dalle scienze sociali di solito i processi di integrazione sono descritti come suscettibili di essere interamente guidati da elementi cognitivi ed etici (la conoscenza dell’altro, l’empatia, la rinuncia alla violenza, la buona fede, ecc.).

La sociologia però ritiene inaccettabile il riconoscimento del ruolo della violenza nella costruzione di nuove entità sociali e culturali e quindi rinuncia all’ambizione universalistica della filosofia della storia hegeliana, deviando su Wittgenstein. Anche Remotti, dopo aver chiamato in causa Hegel per un’impeccabile definizione di identità, abbandona la casa hegeliana e cerca ospitalità nel Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, laddove quest’ultimo nega l’esistenza di una specie di strada maestra che orienta e incanala i destini storici, mentre esisterebbero molte vie laterali. L’uno e l’altro, Remotti e Wittgenstein, dimenticano tuttavia che non è sufficiente negare l’esistenza della strada maestra per esorcizzare la violenza e la guerra. Il vero problema non è quello di decidere con argomenti astratti se esiste o meno una direzione unica in cui tutti devono immettersi, volenti o nolenti, bensì quello di comprendere che lo scontro e la guerra non si possono occultare con prediche ed esortazioni pacifiste, giacché ancora oggi la guerra (in tutte le sue forme: civile, terroristica, commerciale, finanziaria, oltre a quella in senso tradizionale) continua a prosperare e a produrre vincitori e vinti, falliti e trionfatori. Ed è sotto gli occhi di tutti che la strada maestra è inesorabilmente tracciata sempre e solo dai vincitori.

Remotti insiste sulla distinzione tra livello analitico e operativo dell’identità. A livello analitico si collocano gli scienziati sociali, che spiegano l’identità riconducendola a strumento di lotta per la sopravvivenza in un contesto di rivalità con altri gruppi e culture. A livello operativo l’identità viene affermata dai soggetti che la propugnano per sottrarsi al rischio di essere delegittimati e contestati da una competizione alla quale essi preferiscono sottrarsi. Appare curiosa la sovrapposizione di questa dicotomia con quella tra culture protagoniste e culture sconfitte, tra vincitori e vinti, tra invasori e sottomessi: gli scienziati sociali, che si collocano a livello analitico, rappresentano infatti per lo più il punto di vista degli assalitori, che elaborano un’identità forte, adatta a giustificare il diritto all’egemonia che intanto si preparano a conquistare con le armi in pugno; mentre i soggetti che, a livello operativo, propugnano l’identità per sottrarsi alla possibile contestazione e temuta cancellazione della propria cultura, corrispondono ai vinti, agli sconfitti. Tale sovrapposizione dimostra che anche gli antropologi come Remotti non possono liberare la teoria da ogni forma di compromissione con l’oggetto che quella stessa teoria dovrebbe consentire, in linea di principio, di descrivere scientificamente.

Gli analizzatori sociali fanno un uso regolativo dell’identità, mentre gli attori sociali ne fanno un uso costitutivo: Remotti riprende così la nota distinzione kantiana formulata a proposito delle idee della ragione. I primi considerano l’identità come una finzione, qualcosa di mutevole e in evoluzione: sanno bene che l’identità non designa alcuna sostanza o essenza immutabile, sottratta a priori a ogni forma di contestazione. I secondi invece ne fanno un uso costitutivo quando, in fase operativa, devono difendersi dall’eventualità di essere spazzati via, annientati. Infatti gli analizzatori, come i vincitori, attraverso il loro sguardo d’orizzonte sintetico, colgono il carattere eteroclito dell’identità, sanno bene che essa include più che escludere; al contrario gli attori sociali in quanto perdenti o a rischio di sopravvivenza devono impugnare l’arma della sostanzializzazione dell’identità, farne un uso costitutivo. Essi sono costretti a tagliar corto con ogni sottigliezza, con ogni pattuizione, con ogni cedimento all’arbitrio di una controparte che li sta schiacciando: devono quindi sfoderare un’essenza compatta, definita, separata, permanente, preesistente e quindi inattaccabile da ogni tentativo di assorbimento, integrazione, dispersione e annullamento nel vasto oceano dell’identità dominante. Solo un’élite globale, potente e del tutto autonoma in virtù dei mezzi a disposizione, può permettersi il lusso di concepire la propria identità come finzione, come una costruzione che si può negoziare, sposando quindi la prospettiva delle scienze sociali. Le identità particolari, minacciate di sopravvivenza, insisteranno nel credere e nel far credere nella reale esistenza dell’identità come essenza incontestabile di un determinato gruppo.

Vorremmo insistere sull’asimmetria tra accezione analitica e operativa d’identità. Scrive Remotti: «Appare chiaro che le identità sono soltanto mezzi finzionali mediante cui i soggetti sociali rivendicano diritti o cercano di ottenere determinati tipi di riconoscimento».5 Tuttavia, appare evidente che l’analisi scientifica dell’identità esprime la prospettiva dei vincitori, delle potenze globali la cui identità non è messa in discussione. Tale corrispondenza introduce un elemento di debolezza ideologica nella teoria. In generale una teoria antropologica non dovrebbe riflettere alcuna prospettiva particolare né attribuire all’autoanalisi dei soggetti una funzione esplicativa valida all’interno della teoria stessa. Nozioni quali “costruzione arbitraria”, “negoziazione”, “modificazione dell’identità” sono incomprensibili e inaccettabili per i soccombenti nella continua lotta che devono sostenere per non essere annientati: essi non possono fingere un’identità, se devono affermarla superando ogni forma di contestazione nel momento in cui la stanno perdendo. Considerazioni simili valgono a proposito dell’io e del noi. Un io forte (socialmente, economicamente, ecc.) può permettersi di civettare con una rappresentazione dell’identità come pura finzione; ma un io debole dovrà aggrapparsi alla sua stessa debolezza, ai pochi elementi residuali che può rivendicare come propri, per evitare il soffocamento, per dimostrare il diritto al riconoscimento della sua esistenza. Così, per un paradosso che ha le sue buone ragioni, può accadere che un’identità forte sia la condizione per concepirla come debole e fantasmatica, mentre viceversa un’identità debole e minacciata rivendica l’esistenza reale e indiscutibile di un’identità, la propria, che si vuole forte.6

4.

La questione dell’identità riguarda gli io e i noi. È facile prevedere che, sul piano analitico, essendo le identità concepite come mezzi finzionali con cui i soggetti cercano di ottenere il riconoscimento della loro esistenza o dei loro diritti, sarebbe fuorviante concepire gli io e i noi come entità che sussistono prima delle loro azioni, giacché gli io e i noi si costituiscono proprio attraverso azioni e strategie da loro stessi compiute. Si tratta poi di vedere che cosa sono gli io in se stessi. Inoltre non è per nulla scontato che prima ci siano gli io e poi i noi. Anzi, «se è vero che l’io è un costrutto sociale, un artefatto culturale, allora ciò significa che vi sono noi entro cui si costituiscono gli io, ovvero che prima vi è un pensiero pubblico e poi un pensiero privato, ovvero ancora che prima vi sono le relazioni e poi le entità entro cui esse intercorrono, prima lo scambio e poi le unità scambiste».7 Non solo, se si guarda meglio, si vedrà che l’io appare sempre meno come un atomo, un individuo in senso etimologico e sempre più come pluralità. L’io va quindi inteso al plurale, come un noi; e se i noi sono costituiti dagli io (che sono dei noi), il pluralismo del noi si accresce indefinitamente, senza che mai sia dato incontrare una sostanza ultima, che resista all’analisi. Eppure anche i noi sono in qualche modo dei soggetti, altrimenti che cosa li terrebbe insieme, in virtù di che cosa sarebbero un noi? Verso l’alto incontriamo quindi un noi che è uno, che è in qualche senso un io. E verso il basso, anche ammettendo con Remotti e le scienze umane che gli io siano plurali, dubitiamo che si possa regredire all’infinito, tranne che non si voglia suggerire che gli io molteplici di cui sarebbe costituito ciascun soggetto non siano a loro volta dei noi. La questione è complicata e non bastano a risolverla alcune capriole dialettiche.

L’identità si conferma come l’espressione di un bisogno di coerenza, continuità e ordine all’interno dell’io e del noi. Le comunità dinamiche sarebbero quelle che sono riuscite a trovare un equilibrio tra i due estremi di Identità e Claudio Tugnoli Alterità, tra la stasi e la chiusura totale da una parte e, dall’altra, l’apertura che genera instabilità, errore e disorientamento. Sappiamo che i due estremi sono improponibili. Compattezza, stabilità, permanenza, se intesi in modo assoluto, hanno un esito certo: il suicidio. Collocata tra due estremi nefasti, l’identità assume diverse gradazioni intermedie secondo i casi. La consapevolezza di essere anche alterità, fa sì che l’identità possa rendersi consapevole di essere una finzione e di non essere perciò inevitabile. Tuttavia, abbiamo già osservato che, se deve funzionare in senso pragmatico, è difficile che l’affermazione della propria identità abbia l’esito auspicato se contemporaneamente essa è propugnata dagli attori come finzione. Un’identità vissuta come sola finzione non può essere sentita come tale dai soggetti per i quali essa è una questione di vita o di morte. Tolta ogni identità in senso forte, quindi non come finzione, i soggetti che se ne privano rimangono una “nuda vita” disponibile a essere liquidata o inclusa nell’identità dei loro potenziali carnefici. Le vittime non hanno identità, tranne la mostruosità del male di cui sono concepite responsabili. Le vittime sono rappresentate come il negativo per definizione; la loro espulsione e la conseguente salvezza dei molti sono lo strumento con cui i persecutori rafforzano la loro identità, ricreando all’interno del gruppo la coerenza, compattezza, stabilità, continuità, persistenza di cui il gruppo ha bisogno per sopravvivere. Gli individui cercano di identificarsi con una comunità entrandovi e agendo in base alla loro appartenenza a essa, semplicemente per essere più forti, nella speranza di non soccombere. Qui l’affermazione dell’identità avviene per trasferimento e delega a un gruppo, che agisce come struttura di protezione di coloro che ne fanno parte. In tal caso l’individuo è disposto anche a rinunciare a essere pienamente se stesso, imboccando la strada dell’omologazione incondizionata, se questa si rivelasse indispensabile per la propria sopravvivenza.

Le comunità che diventano luogo di rifugio d’individui consapevoli di non riuscire a fronteggiare la minaccia di annientamento per l’incombere della violenza diffusa, di solito catalizzano l’aggressività verso una vittima. La vittima che funge da capro espiatorio è rappresentata come sozzura immonda, come male assoluto. Pace, armonia e serenità sono il risultato dell’assassinio della vittima, o linciaggio fondatore, per usare un’espressione della teoria mimetica. Quando l’identità è minacciata dalla crisi d’indifferenziazione, dal caos violento del “tutti contro tutti”, allora interviene il linciaggio della vittima che tutti hanno scelto quale unico responsabile del male collettivo. Con la transizione spesso repentina al “tutti contro uno”, la violenza del noi diventa omicida con l’espulsione della vittima innocente non perché il noi possiede un’identità forte, del tutto spostata verso la chiusura, ma al contrario quella violenza deriva dalla perdita dell’identità cui si assiste in conseguenza dello scatenarsi della competizione, della reciprocità violenta, di quella crisi d’indifferenziazione che, nella teoria mimetica, è esattamente l’opposto dell’identità assoluta. Il rafforzamento dell’identità quindi obbedisce all’esigenza di superare una situazione di difficoltà estrema, caratterizzata da una diffusa fragilità identitaria: la violenza è dunque la conseguenza di una crisi relazionale e di riconoscimento, non di un’identità forte.

5.

L’analisi delle componenti dell’io mostra, ancora una volta, come sia facile assumere un punto di vista analitico astratto allo scopo di indebolire la consistenza dell’identità, senza tuttavia abolire completamente questo costrutto, di cui si avverte l’esigenza ineludibile. Remotti riprende i contributi di pensatori che hanno affrontato la questione dell’unità dell’io e del suo fondamento. Pascal ha smantellato lo stesso concetto di io. Non solo le cose e le persone sono composte di molteplici parti, ma lo stesso io risulta introvabile, giacché muta nel tempo. Locke non fa più dipendere l’identità da una sostanza che sarebbe a fondamento dell’io: l’identità è pensata invece come prodotto della coscienza. Solo la coscienza, secondo Locke, unisce i diversi io nel tempo, le diverse azioni e le diverse esperienze, per costituirne la trama unitaria. La coscienza unificante per Locke non è una sostanza, ma una mera funzione. L’identità si produce dal presente della coscienza, che effettua l’unificazione del molteplice. I limiti della coscienza diventano limiti dell’identità, resa imperfetta dal susseguirsi di stati dell’io che periodicamente sono immersi nel sonno o si dileguano nell’oblio. Anche Hume riconosce la molteplicità dell’io: il flusso delle percezioni di ogni genere è inarrestabile, ma esiste una propensione irresistibile a contenere tutte queste percezioni successive in un’identità invariabile. L’identità è costruita mediante un errore: l’eliminazione delle piccole differenze tra i diversi stati di coscienza. Le nozioni di anima, di sé, di sostanza, derivano dal fatto che fingiamo l’esistenza continuata delle nostre percezioni, quando in realtà esse sono separate e discontinue. Se però l’identità è una finzione costruita per errore, ogni controversia sull’identità non potrà che rivelarsi una vana disputa. Se per Hume la sola giustificazione epistemologica dell’esistenza di qualcosa è data dalla possibilità di ricondurre l’idea di quella cosa all’impressione corrispondente, allora l’idea d’identità risulterà priva di fondamento, per l’impossibilità di indicare l’impressione da cui proviene. Hume allora chiama in causa la memoria e l’immaginazione per spiegare l’identità. Egli ammette esplicitamente che l’io è una specie di stato i cui componenti sono uniti da legami reciproci e dalla subordinazione al governo. L’io sarebbe una specie di noi. L’identità dunque non è un dato, ma è attribuita; non preesiste come una sostanza, ma è costruita. Sta all’immaginazione procedere verso un’identità forte e totalizzante oppure mantenerla nei limiti di un’identità debole e leggera. Per quanto abbia compreso il carattere fittizio dell’identità, Hume, secondo Remotti, presenta il limite di averla poi ricompresa nell’insieme variegato delle propensioni naturali, dichiarandola quindi inevitabile. Remotti commenta così la posizione di Hume: «L’identità sarà pure un errore, ma non possiamo liberarcene: nonostante tutte le critiche sul piano analitico, noi continueremo — sul piano operativo — ad attribuire identità a noi stessi e alle cose del mondo. L’unica cosa che ci è consentita è la consapevolezza di questa operazione illusoria».8

Del resto, come abbiamo già osservato, la valorizzazione dell’alterità e la piena comprensione del ruolo che essa ha nel costituire ogni identità, sono possibili solo se ci si muove sul piano analitico, dove i soggetti che fanno esercizio di riflessione non sono coinvolti in prima persona nella necessità di affermare la propria identità per ottenere il riconoscimento della loro esistenza e dei loro diritti; il piano analitico è quello della riflessione pura, dell’oggettivazione della questione identitaria. Se invece l’identità è vissuta soggettivamente, sul piano operativo, allora è impossibile che al tempo stesso si possa valorizzare l’alterità, nel momento in cui l’urgenza fondamentale è quella di opporsi alla minaccia di essere soppressi. Sul piano analitico siamo spettatori, su quello operativo siamo attori coinvolti in prima persona, che hanno tutto da perdere se cedono alla distrazione di riflettere sulla natura dell’identità. L’analisi, infatti, come si è visto, indebolisce quella stessa identità che, operativamente, deve essere rafforzata. All’identità inclusiva dell’alterità sul piano dell’oggettività analitica, corrisponde l’identità esclusiva dell’alterità sul piano della soggettività operativa.

Thomas Reid, il filosofo scozzese fondatore della filosofia del senso comune, fa della “propensione” di Hume una vera e propria “convinzione”. Reid dichiara apertamente che l’identità è una convinzione necessaria e benefica, che non può essere indebolita senza il rischio di follia. L’identità, che si può definire solo in rapporto alla differenza, è una relazione tra due cose nel tempo ma, poiché la relazione implica sempre differenza e l’identità è la negazione di ogni differenza, allora dovrà scomparire anche la relazione, facendo delle due cose una sola. Si può quindi affermare l’identità sottraendola anche all’ultima differenza, la relazione temporale: l’identità di A implica che A continui a esistere immutato nel tempo, qualcosa che non è esposta ad alcuna forma di modificazione, alterazione, relazione. Reid riconduce l’identità personale alla memoria, ma non nel senso che la memoria sia il fattore dell’identità. «La memoria, scrive Remotti citando Reid, non produce l’identità; produce invece il convincimento dell’identità, anzi della “propria” identità, di cui “nessun uomo sano di mente ha mai dubitato”; si tratta di una “convinzione naturale” e di una “credenza invincibile”».9 L’identità perfetta è proprio quella personale, soggettiva, monadica, tale da non ammettere gradi. Se la sola identità che possa dirsi perfetta è quella vissuta in prima persona, l’identità degli altri presenta molti aspetti problematici: su quale prova inconfutabile si fonda l’identità delle altre persone o degli oggetti del mondo? Essa si fonda sulla somiglianza e quindi non è per niente decisiva. L’identità degli altri e degli oggetti è imperfetta. «La sicurezza, la convinzione incrollabile, riguarda soltanto la propria identità, quella della propria persona, mentre l’identità altrui — non importa se di oggetti o di persone — è una faccenda assai più labile ed evanescente».10 Il convincimento della propria identità è salutare e necessario. Indebolirlo significa per Reid aprire il varco alla follia.

6.

L’identità è inafferrabile ma ineludibile; è insieme senza fondamento sostanziale sia sul piano oggettivo che soggettivo, ma alla fine se ne decreta sempre l’irrinunciabilità. Le nostre percezioni degli stati interni e degli oggetti esterni formano un flusso di elementi eterogenei e mutevoli, nessuno dei quali si presta a fungere da fondamento all’identità. Di qui il paradosso per il quale essa è infondata, ma al tempo stesso vincolante: nessuno sa che cosa sia, tutti però la rivendicano, anche se molti si adoperano per dimostrarne l’inconsistenza. Il contributo di Ricœur alla discussione sull’identità, richiamato dallo stesso Remotti, non sembra aggiungere argomenti che possano consentire di risolvere davvero il paradosso dell’identità. Ricœur distingue tra identità idem e identità ipse. L’identità idem riguarda la permanenza nel tempo, è il predicato di una sostanza o di una struttura permanente. L’identità ipse è il prodotto dell’intenzione di un soggetto (individuale o collettivo). L’intenzione è quella di mantenersi, di durare nel tempo. Per mantenersi e durare nel tempo, un individuo o una comunità possono introdurre una sostanza permanente a fondamento e a garanzia dell’aspirazione a mantenersi ma si tratterebbe, secondo Ricœur, di un’interferenza tra i due sensi dell’identità, che bisogna invece mantenere distinti. Infatti, l’identità ipse è il prodotto di narrazione, come quella di un personaggio. E ogni identità narrativa può spostarsi verso l’estremo idem, mettendo l’accento sulla permanenza nel tempo, con evidente risultato di spersonalizzazione del personaggio, divenuto carattere. L’altro estremo della narrazione è quello in cui il personaggio perde la sua identità e la sua cifra diventa il disorientamento determinato da quella perdita come ultima accezione dell’identità stessa. Secondo Remotti la proposta di Ricœur è guidata dall’intenzione di difendere meglio l’identità ipse dopo averla separata dall’identità idem. Ora, può sussistere un ipse senza idem? Remotti avverte che per Ricœur «l’identità idem viene prima, fa da base, appoggio, presupposto, punto di riferimento per l’identità ipse: non può perciò essere inventata dalla narrazione».11 In Ricœur l’identità idem si configura come la base ontologica dell’identità narrata, l’identità ipse; dunque la dicotomia idem/ipse serve a Ricœur per difendere l’idea che l’alterità è costitutiva dell’identità solo nel senso dell’ipse, non dell’idem. Remotti rimprovera a Ricœur di aver mantenuto l’identità idem immune dall’alterità, mentre la sfida era proprio questa: mostrare come l’alterità lavori nel nocciolo stesso dell’identità come idem. A ben vedere, tuttavia, la dicotomia di Ricœur ripropone la distinzione tra il piano oggettivo e soggettivo dell’identità, lasciando in ombra la questione del fondamento oggettivo dell’identità per concentrare le argomentazioni sull’identità attorno al polo soggettivo dell’ipse. Alla fine, anche Ricœur dovrà ammettere che non si può fare a meno dell’identità come idem (qualunque cosa essa sia), mentre l’identità ipse presenta diversi gradi di articolazione.

Riprendendo la teorizzazione hegeliana dell’identità, Remotti illustra la sua tesi che irrinunciabile non è l’identità, bensì il riconoscimento. «Per Hegel, scrive Remotti, il riconoscimento è un superamento dei confini, è un essere l’io negli altri e gli altri in me, un noi dentro agli altri e gli altri dentro al noi».12 Hegel giustificherebbe quindi la conclusione che individui e collettività possono avanzare la richiesta di riconoscimento anche senza ricorrere all’identità. Cedendo all’irenismo della sua lettura di Hegel, Remotti aggiunge che «se si fa ricorso all’identità, la “lotta per il riconoscimento” viene portata ai livelli di maggiore esasperazione: l’identità — checché se ne dica — non sopporta negoziazioni o compromessi».13 Ogni riconoscimento però presuppone l’affermazione dell’identità di coloro che si riconoscono: in caso contrario chi riconosce chi? Non basta far sparire il termine per togliere di mezzo il concetto e la funzione corrispondenti.

Remotti insiste sulla necessità di distinguere tra identità ed esigenza di riconoscimento. I noi non possono rinunciare alla richiesta di essere riconosciuti, dato che ne va della loro stessa esistenza; ma se ne fanno un problema di identità, allora vanno nella direzione dello scontro violento. L’intera questione rischia di isterilirsi in baruffe e contorsioni puramente verbali. Infatti, la richiesta di riconoscimento non può non essere accompagnata da una qualche forma di rivendicazione dell’identità, che per Remotti è una brutta parola, ma intanto rinvia a un concetto e a una circostanza che non sembrano suscettibili di essere aboliti. La logica dell’identità, replica Remotti, è una logica della compiutezza, del tutto o niente, e funziona per alzare muri e assicurare la chiusura del noi rispetto all’alterità che si deve accogliere. L’identità sarebbe quindi non soltanto richiesta di riconoscimento ma anche «una richiesta per la quale si esige che non vi sia lotta, competizione, discussione».14 L’identità pretende di essere indiscutibile e si propone come una misura difensiva rispetto a una minaccia. Alla fine lo scenario promosso dall’identità si rivela lugubre agli occhi di Remotti: dalla pretesa di essere riconosciuti secondo la logica dell’identità discendono conseguenze fatali, giacché «da questa logica i noi traggono motivi di massima solidarietà interna (l’identità del noi lo trasforma in una realtà compatta: siamo “solo noi”) e nello stesso tempo da questa logica i noi sono condotti alla distruzione dell’altro, avendo come obiettivo la soluzione finale: eliminare definitivamente l’altro, affinché finalmente non vi siano più minacce per il noi».15 Si potrebbe ritenere che la nozione di cultura abbia comunque bisogno del concetto d’identità; e invece no, Remotti non ha dubbi sul fatto che possiamo liberarci del concetto pericoloso di identità, conservando quello di cultura.

Se, partendo dall’analisi hegeliana, si può comprendere come nessuna realtà possa fondarsi sul principio di identità, allora si dovrà concludere, con Remotti, che l’identità è sempre costruita, immaginata, inventata, pensata. E se l’identità è un’invenzione, non potrà più essere accolta tra gli strumenti analitici, giacché è essa stessa che deve essere spiegata. L’identità non spiega nulla, al contrario ha bisogno di essere spiegata.16 Eppure, anche ammettendo che l’identità sia un’invenzione, si tratta di vedere se sia un’invenzione necessaria. Lo stesso vale se diciamo che l’identità è solo la finzione di una sostanza. Remotti conclude ammettendo che, anche se l’identità esprime una richiesta di riconoscimento, non ogni richiesta di riconoscimento è una richiesta di riconoscimento d’identità. Allora l’identità, qualunque cosa essa sia, non è imprescindibile e irrinunciabile: «Imprescindibili e irrinunciabili sono l’esistenza di “noi” e le loro richieste di riconoscimento; opzionali sono invece le loro richieste di riconoscimento di identità».17

Sullo sfondo dell’analisi di Remotti rimane la contraddizione irrisolta tra l’oggettività analitica e la soggettività operativa della nozione d’identità: la sua conclusione, che liquida come “scoria radioattiva” la finzione identitaria, sconta l’anomalia nascosta di farsi portavoce della visione elitaria della business class globale, la cui “identità” riconosciuta, inattaccabile e consolidata non teme di essere sopraffatta.


  1. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010. ↩︎

  2. La nozione di alterità rinvia a quella di complemento. Su di un piano puramente logico, data una classe A di individui, l’Universo si definisce come la somma di A e del suo complemento. Gli individui che appartengono al nostro Universo possono essere pensati solo in rapporto a un universo ipotetico o immaginario, che conterrebbe individui i quali, per definizione, non fanno parte del nostro universo. Quindi la mera affermazione dell’esistenza di una certa classe di individui implica in ogni caso il riconoscimento dell’esistenza (in qualche modo presupposta) della classe complementare. Il complemento del complemento di A è la stessa classe A↩︎

  3. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 13. ↩︎

  4. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 26. ↩︎

  5. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 38. ↩︎

  6. Se le due concezioni dell’identità sono in relazione con la condizione dei soggetti (individuali e collettivi) che le propugnano, siamo in grado di adottarne una senza obiezioni quale teoria scientifica dell’identità, e liquidare quella residua come abbaglio o ingenua visione o distorsione prospettica? Che l’identità dell’io e del noi sia un prodotto sociale e culturale e che sia questo un risultato acquisito dagli studi di antropologia, linguistica e sociologia, non congeda il problema più generale che le scienze sociali devono risolvere riguardo la legittimità di un procedimento di adozione, da parte della teoria, del punto di vista dei soggetti studiati. ↩︎

  7. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 41. ↩︎

  8. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 65. ↩︎

  9. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 69. ↩︎

  10. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 70. ↩︎

  11. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 83. ↩︎

  12. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 91. ↩︎

  13. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. p. 91. ↩︎

  14. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 97. ↩︎

  15. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 99. ↩︎

  16. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., pp. 117-118. ↩︎

  17. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 124. ↩︎