Recensione a Vito Mancuso, La vita autentica

Vito Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano 2009.

Volumetto davvero carico di energia, ottimismo, buona volontà, questo di Vito Mancuso. Affronta nodi teoretici di grande spessore con disinvolta fierezza, brandisce con sicurezza una spada dialettica che a colpi di dualismi sbriciola muraglie millenarie di sofistica metafisica. La sua spada non perdona le sottigliezze inutili o almeno inefficaci nell’indicare una soluzione pratica e nel sostenere un orizzonte affermativo per l’esistenza dell’uomo. Perché tutta la sua produzione brulica di questo anelito ottimistico verso il bene e la verità non in senso teoretico, ma in una direzione esistenzialmente produttiva. Filosofia e teologia non servono per contemplare una verità oggettiva e indipendente da chi la professa, ma devono contribuire a illuminare la via che porta gli uomini a realizzare concretamente il bene, il giusto, il vero. Di qui il tema dell’autenticità, posto senza astrattezze e con l’intenzione di toccare non solo la mente, ma anche il cuore dei lettori.

Anche se astrattamente siamo inclini a riconoscere che ciascuno ha diritto di vivere come crede e apparentemente non sembrano esserci ragioni stringenti per preferire una vita autentica, è indubbio che «vi sono uomini di fronte ai quali si prova un istintivo senso di ammirazione e di stima, e altri che suscitano solo pena e disgusto» (p. 11). Una vita non è autentica in senso naturalistico, per il solo fatto che c’è, ma solo in rapporto al valore e il valore dipende dalla coscienza morale. L’autenticità quindi dipende dalla coscienza morale collettiva, che si manifesta in giudizi di valore sui comportamenti e sull’esistenza degli esseri umani. Inevitabilmente, essendo ciascun io anche un noi, il giudizio di autenticità espresso dalla coscienza morale collettiva viene assimilato e condiviso anche dal soggetto interessato, il quale non potrà fare a meno di riproporre a se stesso il giudizio di autenticità o inautenticità che pubblicamente gli è riconosciuto. Sia chiaro però che il criterio in base al quale si giudica l’autenticità della vita non è soggettivo e opinabile, bensì oggettivo: l’uomo autentico è libero anzitutto da se stesso e vive per la giustizia, il bene e la verità.

Rispetto alla distinzione ormai canonica tra i due paradigmi fondamentali della bioetica, la sacralità della vita e la libertà, Mancuso dichiara il proprio «orientamento di fondo che consiste nel distinguere tra vita propria e vita altrui, e a pensare la vita propria alla luce del primato della libertà e la vita altrui alla luce del primato della sacralità» (p. 25). Riconoscendo che la libertà debba avere il primato, si intende che a un certo punto la sacralità della propria vita potrà essere sospesa: quindi si apre la strada non solo al sacrificio di sé, ma anche (ma non so se Mancuso sarebbe disposto ad ammetterlo) al suicidio. A questo punto il tema diventa ostico, davvero controverso: Io sono assolutamente libero di disporre della mia vita, ma non di quella degli altri? C’è dunque un io, un’anima, un’entità in cui riconosco il mio essere, che preesiste alla mia vita e rispetto al quale la mia vita è disponibile; un io dal quale può provenire la decisione di sopprimere quella vita di cui dispone?

In generale, se ci poniamo dal punto di vista oggettivo, dovremmo poter individuare un criterio che ci permetta di giudicare univocamente la qualità e l’essenza della vita propria e altrui; un criterio che ci permetta di orientare il nostro comportamento nei confronti della vita in generale, chiunque ne sia il titolare. Mancuso cerca lumi nella Bibbia e conclude che dalla lettura attenta della Bibbia si possono trarre due visioni opposte della vita: una che illustra la vita come fenomeno ben governato e razionale — quale può essere una vita che rispecchia il suo Creatore — e un’altra che presenta l’esistenza come ingiusta, tetra, irrazionale e tale da non rispecchiare il suo autore. Quindi partendo dalla Bibbia non possediamo elementi sufficienti per decidere qualcosa di univoco riguardo l’autenticità. E per quanto si consultino le opere dei filosofi, si può vedere, secondo Mancuso, che la posizione di chi afferma un senso assoluto e quella di chi pone un non senso assoluto sono ugualmente astratte e insostenibili; se invece ci si dispone a considerare la vita per quello che realmente è, si va incontro alla contraddizione, ovvero alle antinomie kantiane. La ragione kantiana s’impiglia in contraddizioni che non riesce a superare e si dibatte tra due leggi o principi.

Mancuso però trae da questa incertezza teoretica una prova del fatto che siamo liberi, dal momento che possiamo riconoscere oppure no un senso alla vita. Pur ammettendo che non esiste un senso precostituito della vita in quanto tale, Mancuso afferma entusiasticamente l’esistenza di un senso della vita che non è dato, ma deve essere costruito dal vivente attraverso l’esercizio della libertà, duro e rischioso. Ciascuno potrà realizzare il senso della propria vita, senza però imporne uno agli esseri viventi in generale. Su questo piano, «se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita» (p. 45). Quindi la vita ha un senso, che tuttavia ciascuno deve costruire e realizzare da sé; nessuno sa esattamente quale sia, e quindi non può essere autorizzato a imporlo a chicchessia. Il senso della vita come lo intende Mancuso appare un’impresa solipsistica e incomunicabile, il cui successo però non è assicurato, come ogni impresa che si rispetti. Una vita autentica è quella che, mediante la libertà, decide da sé il senso che essa deve raggiungere, la direzione in cui muoversi. Qual è la differenza tra l’oltre-uomo di Nietzsche e l’uomo autentico di Mancuso? Che Mancuso addita nel bene, nella verità e nella giustizia la direzione in cui ciascuno, liberamente, deve muoversi se intende realizzare una vita autentica. Ma è noto che, per definizione, bene, giustizia e libertà non sono decisi dal singolo, sono invece trasmessi dalla tradizione e stabiliti dall’autorità morale come qualcosa di oggettivo, pre-individuale. Quindi, se il senso è ciò che ciascuno costituisce liberamente muovendosi nella direzione di valori oggettivi, Mancuso dovrà riconoscere che in qualche modo esiste un senso precostituito della vita o quantomeno esistono le condizioni oggettive necessarie adeguandomi alle quali posso sperare di conferire un senso alla mia vita.

Affrontando il dualismo delle due concezioni opposte — determinismo e indeterminismo — Mancuso riafferma la sua concezione dell’autenticità («la vita è tanto più umana quanto più è libera», p. 53), salvo poi mettere in guardia dal cattivo uso della libertà. Quindi la libertà non basta, bisogna saperla usare e per saperla usare bisogna conoscere il bene, il giusto e il vero. Dunque il bene, il giusto e il vero preesistono alla libertà. A che cosa si riduce, di conseguenza, la libertà di cui Mancuso enfatizza a più riprese l’esigenza, se non il dovere di adeguare le proprie azioni a un criterio oggettivo e precostituito, allo scopo di realizzare una vita umana autentica? E che cosa significa “autentico”, in Mancuso, se non buono, giusto, vero?

Non certo a caso, approfondendo la questione dell’autenticità, Mancuso parte da Cartesio, di cui rilegge un passo del Discorso sul metodo in cui l’autore pone l’esigenza di «costruire sopra un fondamento tutto mio» (p. 64). Mancuso consiglia l’adozione del principio cartesiano a tutti coloro che sono alla ricerca della vita autentica. Sottoponendo ogni affermazione e negazione alla verifica implacabile di un esame razionale, posso trovare un “fondamento tutto mio”, che mi permetta di costruire la mia vita sulla roccia e non sulla sabbia. Come lo stesso Mancuso non manca di sottolineare, “mio” non ha alcun significato solipsistico, ma va inteso nel senso che, avendo verificato di persona, ho una certezza indubitabile della verità di cui prendo atto, quale nessun affidamento a un’autorità qualsiasi e nessuna fede potrebbe assicurarmi. Mancuso fa sua l’esigenza di Cartesio, quella di raggiungere per via soggettiva un’evidenza intersoggettiva (e quindi oggettiva), basata sul riconoscimento di un’autorità precisa — la facoltà razionale — alla quale Mancuso si richiama per stabilire i limiti entro i quali deve agire quella libertà che conferisce autenticità alla vita. I dubbi di Cartesio sono di grande attualità, ma nel disorientamento generale sono divenuti inevitabili, per l’impossibilità di individuare un criterio di verità e una stabile concezione (un’epistème) in ambito scientifico, politico, storico, morale. Mancuso segnala la presunzione scientista di spiegare ogni cosa attraverso l’analisi della materia, presunzione arrogante che non ha nulla a che fare con la vera ricerca scientifica, sempre settoriale e capace di raggiungere conclusioni che hanno un significato operativo, ma non rispecchiano l’essenza della realtà in sé. La scienza non può rendere conto di quel dato di fatto che è la libertà, ma neppure negarla. Se le neuroscienze non riescono a stabilire che cos’è la coscienza e in che cosa consiste la libertà, «da ciò non è lecito dedurre che la coscienza e la libertà non esistano, ma semmai che le neuroscienze non sono adeguate a comprendere il livello superiore dell’essere che si manifesta come coscienza, libertà e responsabilità» (p. 73). Mancuso osserva che i neuroni, lavorando insieme, producono qualcosa di nuovo, qualitativamente diverso dalla somma delle parti del cervello; l’argomento si richiama al concetto di sistema, dove il tutto non è riducibile alla somma delle parti. La qualità essenziale dell’uomo, la libertà, non è riducibile ad alcuna parte del corpo umano. Il lavoro delle singole parti e dell’insieme, spiega Mancuso, dà come risultato appunto qualcosa di emergente, secondo un’intuizione che da Eraclito, Platone, Marco Aurelio, giunge fino all’emergentismo contemporaneo.

È difficile rivendicare un concetto di autenticità che, rifuggendo come inautentica ogni accettazione dogmatica di una verità indiscussa, deve energicamente mettere in guardia dal colto scetticismo di chi nega la possibilità di individuare un senso preciso dell’esistenza. Di qui la necessità di porre come condizione dell’autenticità non solo la libertà, ma anche l’uso che se ne fa. Il dire la verità, di per sé non è condizione sufficiente e neppure necessaria, se talvolta si mente non per smentire la realtà, ma per rivendicarne un significato più profondo. La menzogna spesso ha origine dallo sforzo di sfuggire a ciò che si è e non si accetta di essere, esprime «il rifiuto di un sé da cui si desidera prendere le distanze, in cui non ci si riconosce, che talvolta si vorrebbe persino distruggere» (p. 86). La menzogna dunque può essere la conseguenza della vergogna di essere quello che si è. All’estremo opposto, il narcisismo è la fissazione di chi si immedesima a tal punto con la propria immagine da esservi inchiodato. Anche il narcisismo genera ripetutamente menzogne, dacché l’io vede solo se stesso, e quindi deforma la realtà, che non vede in se stessa, ma in cui vede solo se stesso. Mancuso indica così due atteggiamenti estremi che danno origine alla menzogna: da una parte l’io che fugge da se stesso, che si vergogna di essere quello che è, che vorrebbe annientarsi, dall’altra l’io che vuole costantemente rimanere ancorato a se stesso, che vuole affermare solo se stesso vivendo in una voragine di isolamento dal mondo e dal prossimo. Il primo io si è inautenticamente de-realizzato, ha negato a se stesso ogni possibilità di realizzazione, eclissandosi continuamente. Il secondo io si è trasformato nel centro del mondo, che esso pretende di piegare incondizionatamente alla propria esigenza di affermazione e di successo. Il mondo e gli altri in questa seconda prospettiva diventano mero combustibile per l’attività di autocontemplazione dell’io. Allora può accadere che le persone, considerando il proprio passato, abbiano la percezione di aver tradito i loro ideali al solo scopo di raggiungere il successo mondano, di fare carriera. «Lo si capisce dalle persone che ci circondano, delle quali nessuna è un amico, tutti sono solo clienti, solo relazioni interessate, in perfetta conformità allo stile di vita adottato da noi in funzione della carriera» (p. 91). L’autenticità si pone come rapporto dell’io con i propri ideali e si manifesta nell’azione libera, nel lavoro individuale che mira a realizzare gli ideali coltivati. La vita autentica è quella che si sobbarca il compito di costruire il senso dell’esistenza, sapendo che l’originalità non è nei principi e ideali adottati, bensì nello sforzo unico, irripetibile che ciascuno intraprende e mantiene puntando la prua della propria navicella in una direzione precisa. Non basta negare la realtà o se stessi sprofondando nella paralisi esistenziale, bisogna anche muoversi verso quel dover essere che è il sale dell’essere, della realtà in cui ciascuno è chiamato a operare secondo i propri talenti. In questo senso l’autenticità di Heidegger è inautentica: Karl Löwith la smaschera come “puro decisionismo senza uno scopo preciso”. La libertà per la morte: «una concezione della vita che non vede altro scopo che anticipare il nulla della morte non si potrà legare a nulla, sarà perennemente inquieta, elusiva, corrosiva, saprà solo ossessivamente negare come la danza del dio Shiva che annienta tutte le cose» (p. 99). Questo decisionismo privo di scopo, questa risolutezza dinanzi al nulla, sembra del tutto coerente con l’accettazione del nazionalsocialismo, se non la sua esaltazione nell’Appello agli studenti dell’Università di Friburgo (1933), che lo stesso Heidegger in seguito non ha mai smentito.

L’uomo libero che si sforza di vivere in modo autentico, diffida di se stesso, prende le distanze da se stesso, non attribuisce alcun valore alla mera fedeltà a se stessi. Questo essere stupido, limitato, meschino e arrogante insieme, può essere fedele a se stesso solo diffidando di se stesso, solo superando se stesso. Negare se stessi significa superare se stessi per trovare il proprio centro: dunque non è una fuga da se stessi: «Non si tratta di rinnegare se stessi in odio a se stessi, ma si tratta di superare i propri interessi particolari per realizzarsi veramente nell’adesione a qualcosa di più grande» (p. 109). Come Paolo insegna in Rm 7, 15-21, nell’uomo in conseguenza del peccato c’è il desiderio del bene, ma fa difetto la capacità di attuarlo: l’uomo vuole il bene e riconosce che la legge è buona, ma compie il male che non vuole. L’uomo è abitato dal peccato, che lo spinge a fare ciò che non vuole. Paolo dunque indica nel peccato l’origine del dualismo interiore per cui l’uomo non riesce ad attuare il bene che desidera e commette invece il male che detesta. Ecco perché deve diffidare di se stesso, deve proteggersi dal male che è in lui e che lo accompagna sempre, deturpando ogni sua azione e sviando ogni sua retta intenzione. La regola da seguire quindi non è una tranquilla fedeltà a se stessi, bensì una lotta tormentata e inesausta contro se stessi, contro quel peccato che non è mai definitivamente debellato e dal quale solo Cristo può riscattarci. Per essere autenticamente se stessi non è sufficiente debellare se stessi, bisogna anche guadagnare il centro di se stessi e testimoniarlo nella vita quotidiana. Di qui il ripudio dei due estremi, la negazione di sé e l’affermazione narcisistica di sé.

Citando Bonhoeffer, Mancuso ammonisce che l’amore per la verità e il rifiuto della menzogna, la regola fondamentale della sincerità contro ogni forma di falsità, non implicano che si debba dire la verità ovunque, in ogni momento e a chiunque sia l’interlocutore, perché chi si comporta in tal modo è «un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità» (p. 116). Si deve dire la verità tenendo conto del rapporto con il prossimo, non in modo astratto e indifferente, altrimenti si ha non la verità, ma l’apparenza della verità. La parola non si limita a rappresentare uno stato di fatto, ma deve testimoniare una relazione e costruire un senso. Senza contare che per dire la verità bisogna conoscerla nella sua completezza: ora, chi può vantare il potere di conoscere tutta la verità, se di ogni cosa si conosce solo qualche brandello, che viene alla luce a distanza di molto tempo e spesso in modo incoerente? La verità è sempre in fieri e si muove come la vita, essa coincide con la vita autentica. Ma la vita autentica è quella che, nella libertà, si orienta sempre e concretamente al bene e alla giustizia. Per questo la verità non coincide con l’esattezza o la corrispondenza fattuale, ma trascende il piano dell’essere, presentandosi come costruzione spirituale. Il maestro chiede a un alunno se suo padre è alcolizzato: il bambino risponde di no, anche se il padre lo è. L’affermazione del bambino non è una menzogna, ma la rivendicazione di un senso superiore della verità, che «è anche misura, giustizia, bene, bellezza, decoro» (p. 119). Una verità non riducibile a esattezza, una verità autentica, prende corpo nella relazione ed è tutt’uno con il bene e la giustizia. Vivere autenticamente nella verità significa esercitarsi nel determinare il bene e la giustizia in ogni nostra azione. Un ideale astratto di verità, scisso dalla giustizia e dal bene, diventa un vessillo spietato che conduce alla distruzione della relazione, alla violenza sul prossimo e a una vera e propria prigione per chi lo professa. Il dire la verità senza bene e giustizia, come insegna oggi l’infittirsi della crudele schermaglia giornalistica che a colpi di pretese rivelazioni mira a distruggere l’avversario politico con canagliesca disinvoltura, diventa così uno strumento di odio, di sopraffazione e di annientamento di coloro a spese dei quali si pretende di essere veridici: l’esatto opposto di una vita autentica e di una nozione autentica di verità. La verità nuda e cruda diventa così una parodia della verità nelle mani di quanti la usano per demolire, per incastrare, per annientare qualcuno. L’autenticità si traduce in tensione verso la giustizia, «una tensione che conduce il soggetto a uscire da sé superando i suoi interessi immediati, compresi quelli del partito, del movimento o della Chiesa in cui milita, a cui non sacrificherà mai la sua onestà intellettuale, a cui non venderà mai la sua anima» (p. 126). Per sfuggire alle insidie dell’io, per non ricadere nell’affermazione di sé e offendere la giustizia in nome della presunta verità, occorre stare in guardia, ma soprattutto vivere autenticamente per una speranza più grande di se stessi.

All’obiezione che nel corso della storia è sempre stata rivolta all’insegnamento di una vita autentica tutta dedita al bene e alla giustizia, obiezione che si richiama allo stesso presupposto di Mancuso, per il quale il criterio della vita autentica non proviene dall’esterno, ma deve essere intrinseco alla vita stessa, che cosa può rispondere il nostro autore? Infatti l’esaltazione della libertà quale dimensione e condizione della vita autentica, può legittimare, con Callicle, il progetto di agire infischiandosene del bene e della giustizia e giustificando l’esaltazione della forza e dell’ingiustizia, fino all’affermazione incondizionata della volontà di potenza. Il bene e la giustizia rettamente intesi presuppongono una comunità, una rete di rapporti che preesiste agli individui che ne fanno parte e che anzi rappresenta la condizione del loro stesso esistere come individui. E allora la risposta all’obiezione evocata dallo stesso Mancuso per mettere alla prova la consistenza della propria riflessione, consiste in primo luogo nel mettere in chiaro che l’io può esistere solo come risultato delle relazioni in cui si costruisce; e se Callicle osservasse di essere d’accordo sulla natura relazionale dell’io, ma di non poter riconoscere nella natura e nella storia l’esistenza di alcun bene o giustizia, Mancuso sarebbe pronto a ribadire che la natura stessa ci insegna come «il modo più adeguato di vivere la nostra essenza relazionale sia quello a favore dei cosiddetti valori, ovvero di quegli stili di vita che incrementano l’armonia e l’ordine delle relazioni, e non il modo contrario del conflitto e del disordine» (p. 152). Richiamandosi a un’ontologia opposta a quella aristotelica, in cui la sostanza in se stessa è anteriore per natura alla relazione, Mancuso ricorda che la stesa scienza della natura e del mondo fisico ci presenta oggi una concezione dell’essere in cui ciò che è per altro è anteriore al per sé. Tutti gli esseri sono costituiti in base a una logica relazionale ordinata, che essi non potrebbero mai smentire nell’esercizio della loro volontà. L’io è un insieme ordinato di relazioni; citando Marco Aurelio, Mancuso conclude che «un essere naturale razionale procede per la giusta via “quando dirige i suoi impulsi solo verso il bene comune”» (p. 155). Nell’uomo c’è dunque la predisposizione alla relazione ordinata, a vivere secondo il bene e la giustizia, poiché solo vivendo secondo il bene e la giustizia egli può raggiungere la felicità e la serenità. Quindi la natura dell’essere è tale da confermare il bene e la giustizia come valori universali, come fondamento di una vita autentica.

Naturalmente potremmo chiedere a Mancuso che cosa impedisce a questa predisposizione di diventare dominante, portando a compimento un’armonia perfetta. Infatti sappiamo che il dovere morale di vivere in modo autentico emerge dalla stessa natura relazionale delle persone. Inoltre risiede nella natura della società che la maggior forza consista in relazioni armoniche e non nel conflitto. Chi sfida il prossimo e mira a un’egoistica affermazione del proprio sé, non realizza se stesso, perché si costruisce un’immagine di se stesso che non è quella vera, non corrisponde alla natura ordinata delle relazioni su cui è costruito. L’io che si mette in conflitto col mondo entra in conflitto anche con se stesso, smentisce, contraddice se stesso. Per questo Mancuso può dire che «la maniera migliore di realizzare se stessi è stabilire rapporti autentici e giusti con gli altri e che la reale attuazione del proprio bene contiene la cura di rapporti leali» (p. 160). Se la natura dell’io, di ogni io, è relazionale, non è chi non veda che il mio bene si compie solo con il bene del prossimo e viceversa. Il governo del mondo è assicurato da una logica impersonale, la sola che riesca a spiegare sia il processo evolutivo caratterizzato dalla crescita dell’organizzazione nella natura e nella storia, sia gli innumerevoli casi di ottusità vertiginosa e di dolorosa assurdità (pp. 163-164). È una duplicità, questa, che spinge gli individui ad adoperarsi per il bene e la giustizia: come se il male e l’errore fossero uno stimolo a combatterli con impegno costante per assicurare il trionfo della vera vita, della vita autentica. La stessa libertà dell’uomo è qualcosa che si realizza nella sua pienezza nella relazione ordinata, al di fuori della quale rimane puro velleitarismo, arbitrio o peregrinare insensato. Questa collocazione della libertà nella relazione ordinata è il punto di Archimede secondo Mancuso: «Facendo leva su questo punto d’appoggio sollevo me stesso, posso prendere in mano la mia vita, so cosa sono, attivo la mia natura profonda, ottengo il fondamento tutto mio, individuo la roccia su cui costruire la mia casa» (p. 169).