Recensione a Mauro Ceruti e Giuseppe Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato

Mauro Ceruti, Giuseppe Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, 232 pp., € 19,00.

L’idea che l’innovazione tecnologica possa di per sé cambiare radicalmente la nostra esistenza e la natura stessa dei rapporti tra le persone si sta rivelando un’illusione. Infatti l’uso acritico della tecnica potrebbe condurre a mostruosità molto più gravi di quelle che nel passato pre-tecnologico erano la conseguenza delle gerarchie sociali e dei rapporti di potere. Mauro Ceruti e Giuseppe Fornari enunciano così un noto principio dell’umanesimo quando avvertono che «ogni cambiamento significativo deve cominciare dall’uomo, altrimenti si rivela un inganno, un miraggio» (p. 29). Le forme di organizzazione del potere e di gestione del consenso non valgono nulla in se stesse se non sono accompagnate da un mutamento antropologico. Bisogna cominciare dall’uomo, studiarlo in profondità, riformarlo dall’interno. Ma come? Se il meccanismo mimetico governa i rapporti tra gli uomini, si potrà intervenire solo a livello dei contenuti. Non possiamo non essere imitativi, possiamo decidere solo riguardo al modello da imitare. Se non si riforma l’uomo, se non lo si converte alla non-violenza del vangelo, sarà proprio il progresso tecnico a portarlo all’autodistruzione. Fornari cita la conclusione della Coscienza di Zeno, in cui un uomo, che Svevo definisce «fatto come tutti gli altri», riesce a collocare al centro della Terra un esplosivo senza precedenti per provocare la disgregazione dell’intero pianeta (p. 30). Se alla tecnica non si assegna un fine che la trascenda, essa non potrà che realizzare il solo scopo che le è proprio: accrescere indefinitamente la propria potenza. Non si tratta di demonizzare il capitalismo, osserva Fornari, che ha almeno il merito di aver consentito la diffusione a masse sterminate di beni e servizi che un tempo erano riservati a una ristretta élite. Al tempo stesso non va ignorata la contraddizione di fondo del marxismo, che denuncia l’alienazione, per cui la vera essenza dell’uomo è alienata nel prodotto del suo lavoro, ma nel quadro di un riduzionismo materialistico che non lascia molto spazio a concetti spirituali.

L’analisi dell’aforisma 125 della Gaia scienza di Nietzsche impegna gran parte del dialogo tra Ceruti e Fornari. La morte di Dio che vi è annunciata è stata fraintesa. «La morte di Dio non è un evento inevitabile e “naturale”, una caduta di ciò che non esisteva e che disvelerebbe adesso la sua inesistenza, ma un’azione precisa e cruenta, che è stata commessa da sempre, e senza la quale noi uomini non potremmo esistere» (p. 65). La morte di Dio che Nietzsche descrive nel famoso aforisma, come già Girard ha intuito, è l’uccisione di una vittima da parte dell’umanità persecutrice, la quale da sempre trasforma in divinità i propri capri espiatori. Nietzsche dunque svela il meccanismo vittimario, mostra la menzogna del Dio in cui è trasformata la vittima uccisa. Dio è morto perché gli uomini l’hanno ucciso: gli uomini ritrovano Dio nella vittima uccisa. Ora, questo smascheramento dovrebbe implicare non il nichilismo, bensì la scoperta del vero Dio dei vangeli. Nietzsche al contrario, pur avendo scoperto la genesi vittimaria della divinità, va nella direzione opposta a quella suggerita come logica conseguenza dalla sua stessa scoperta, tentando la restaurazione del paganesimo sacrificale. Secondo Fornari Nietzsche nell’aforisma 125 oltre ai riti pagani, ha in mente l’uccisione di Cristo, anche se non lo nomina, per una sua riserva di fondo (p. 69). Nell’interpretazione di Girard, «la morte di Dio è la morte di un uomo ucciso dagli altri uomini e trasformato in divinità, e dal momento che questo evento riguarda tutti gli uomini, esso non può essere che l’evento fondatore dell’umanità» (p. 71). Gli esseri umani da cui impariamo a desiderare possono diventare nemici irriducibili. È questa rivalità di origine mimetica il fondamento della conflittualità. Le prime comunità, non disponendo di un sistema giudiziario, hanno adottato la soluzione di deviare su una singola vittima una violenza che, diffondendosi come un contagio endemico, sarebbe stata fatale. Sacra diventa la vittima espulsa e divinizzata da gruppi umani che sono inconsapevoli di ciò che stanno facendo. La vittima indifesa e impotente rimane celata dietro una divinità alla quale è riconosciuto il potere di determinare ogni evento e ogni mutamento del mondo. Fornari integra l’interpretazione di Girard indicando il significato della conclusione dell’aforisma 125, il Requiem aeternam Deo che l’uomo intona facendo irruzione nelle chiese dalle quali è cacciato. L’uomo si chiede: «che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?. Nessuno si accorge, commenta Fornari, che l’espulsione dell’uomo folle non è altro che la ripetizione dell’uccisione di Dio che viene negata. È la parabola dei vignaioli omicidi che in sostanza continua a ripetersi» (p. 75). La Passione porta sulla scena del mondo un evento radicalmente nuovo, pur se nelle sembianze di un procedimento arcaico. La vittima del rituale arcaico serviva a rafforzare la sottomissione all’onnipotenza divina e rappresentava un efficace strumento di oppressione a disposizione delle élites al potere. Al contrario l’uccisione di Cristo libera dall’oppressione. «La vittima rivelata in Cristo, avverte Ceruti, non è facile da accettare, proprio perché è una rivelazione che libera l’uomo, sottraendolo alla necessità di dipendere da qualche capro espiatorio» (pp. 82-83).

Fornari osserva che la censura dell’imitazione ha due ragioni: la prima consiste nel fatto che non ce ne rendiamo conto, perché l’imitazione è come l’aria che respiriamo; la seconda consiste nel pericolo che essa rappresenta. Una conseguenza della censura è anche il modo edulcorato in cui l’imitazione è rappresentata. Essa è concepita come un fenomeno inoffensivo e dagli effetti prevalentemente positivi, mentre si tace completamente del rischio mortale che comporta la rivalità mimetica. Infatti nella degenerazione rivalitaria l’oggetto perde ogni importanza e visibilità, perché «il modello, il quale dovrebbe fungere da mediatore che indica l’oggetto desiderabile e insegna a raggiungerlo, allorché diventa un rivale domina il campo, obliterando gradatamente qualunque riferimento oggettuale. E la rivalità raggiunge il livello più esplosivo allorché il suo processo diventa reciproco: in essa entrambi i rivali, che si imitano in misura tanto maggiore quanto più pensano di differenziarsi, divengono i doppi l’uno dell’altro» (p. 87). Fornari mantiene la distinzione di Girard tra mediazione interna ed esterna. Secondo Fornari la distinzione girardiana tra mediazione interna ed esterna non è sufficiente e ha bisogno di precisazioni e integrazioni. «L’errore di Girard sta nell’identificare subito mediazione interna e rivalità. La verità è che esistono stati di desiderio perfettamente definibili come “mediazione interna”, ma che non sono affatto sinonimi di rivalità come Girard ritiene: mi riferisco all’innamoramento, e a tutti quei rapporti imitativi che si tingono di una forte componente affettiva e costruttiva, come il rapporto tra genitori e figli, tra fratelli e amici, tra maestro e discepolo. Tutti i fenomeni di amore rientrano tranquillamente nella mediazione interna e sarebbe insensato identificarli con la rivalità — anche se è chiaro che sono rapporti assai delicati, che espongono costantemente al rischio di degenerare» (p. 88). Il limite di Girard consisterebbe secondo Fornari nel non aver riflettuto sul bisogno della mediazione interna d’amore che hanno tutti gli uomini — una mediazione interna d’amore che dà senso alla vita degli esseri umani, ma che «deve rimanere oggettuale, deve diventare un mezzo di conoscenza e acquisizione della realtà, abbandonando ogni registro rivalitario» (p. 88).

Al volume di Ceruti e Fornari va riconosciuto il merito di aver mostrato l’insensatezza dell’opposizione tra cristianesimo e illuminismo, tra fede e scienza. Guardando in profondità oltre l’opposizione tra scienza e religione, si può vedere agevolmente che esse rinviano alla stessa matrice. Si devono alla religione gli schemi esplicativi della realtà, senza i quali nessuna scienza sarebbe stata possibile. La libertà di pensiero e l’impulso alla conoscenza hanno il loro motore nella tradizione ebraico-cristiana. «La scoperta che la scienza di oggi deve riconoscere è che la religione è una componente indispensabile della natura dell’uomo, oltre che della scienza medesima, e che ha svolto un ruolo centrale nella storia e nell’origine della specie umana» (p. 106). Ciò sembra autorizzare un’interpretazione immanentistica della religione, ma non si deve dimenticare che il sistema del capro espiatorio è un meccanismo di adattamento da cui ha avuto origine la cultura. La trascendenza autentica appare finalmente con il Cristo, che liquida la menzogna di tutti i capri espiatori, di tutte le vittime divinizzate. La situazione è paradossale: «gli estimatori non credenti di Girard gli rimproverano la conclusione trascendente di un percorso che sembrava immanente, i lettori dalle convinzioni religiose gli rimproverano invece la visuale immanente che sembra implicita fin quasi alla fine» (p. 107). Fornari ritiene che nessuna delle due interpretazioni colga la profonda unità dei processi che il pensiero girardiano aiuta a riconoscere. Bisogna sempre tener presente che l’uomo senza religione non avrebbe mai potuto sopravvivere, più esattamente non sarebbe mai nato, sarebbe stato travolto dalle crisi conflittuali cui lo espone il suo stesso mimetismo. Il sacro arcaico si impone come un miracolo inaudito a causa di un meccanismo di carattere antropologico. In origine gli uomini non sapevano che la vittima che uccidevano era uno di loro e non aveva alcuna responsabilità del male di cui invece era additata quale unica causa. Gli uomini da cui prende avvio la stessa cultura in uno sforzo che decide la loro sopravvivenza «sono dominati dalla percezione collettiva, unanime, di un potere enorme che proviene dalla vittima, prima in senso distruttivo, finché la vittima è viva, e poi improvvisamente, miracolosamente benefico, non appena essa è uccisa. Lo stacco rappresentato dalla pace che scende di colpo sul gruppo, non appena il gruppo è riuscito a concentrare su un unico obiettivo la rabbia di tutti, è così forte e traumatico rispetto al conflitto di prima che la comunità può concepirlo solo come un potere superiore, divino, di cui essa è in balia e che dovrà propiziarsi ripetendo l’evento pacificatore con regolarità» (p. 109). Esaminando i documenti rimastici delle civiltà del passato possiamo renderci conto di quanto fosse comune la violenza sia interna alla comunità sia verso l’esterno. Non è raro trovare le tracce di una pratica di sterminio minuzioso del nemico. La guerra è stata ai primordi della storia umana una necessità di sopravvivenza. La condanna della guerra non deve cadere nell’ingenuità di credere che la guerra sia stata e sia un incidente evitabile in linea di principio, come se l’umanità fosse estranea alla violenza. Il mimetismo al contrario obbliga a riconoscere che le società del passato non sarebbero sopravissute se non avessero fatto ricorso alla guerra (p. 118).

In perfetto accordo con Girard, Fornari ritiene che la caccia non deve la sua origine alla necessità di procurarsi delle fonti di cibo, ma alla funzione simbolica che assume l’animale come vittima su cui si scarica la violenza interna al gruppo. In un secondo momento la domesticazione ha permesso di creare delle riserve di vittime, da usare nei sacrifici, in modo analogo all’uso dei prigionieri di guerra presso alcune popolazioni (p. 120). Fornari propone un’interpretazione dell’agricoltura che ne coglie l’origine rituale. Il fatto che in molte culture alla fine del raccolto fossero eseguiti dei sacrifici umani, induce a credere che ci sia una connessione profonda tra pianta e vittima, come mostrano molti miti che rappresentano la trasformazione della vittima in pianta. Riprendendo e allargando procedimenti di Frazer e Girard, Fornari mostra come il collegamento tra vittima e pianta sia visibile anche nei miti in cui la vittima era giustiziata su una pianta, come l’arbor infelix dei Romani, da cui avrebbe origine il supplizio della croce. «L’albero su cui la vittima era stata uccisa era visto arcaicamente come coincidente con lei, e non solo, anche le piante che nascevano sul luogo di uccisione della vittima potevano essere considerate sacre ed essere viste come manifestazioni della sua rinascita: è il caso dei cosiddetti “giardini di Adone”, i vasi di piante che in Grecia ricordavano la morte di questa figura mitica, legata ai riti delle stagioni. Si pensi anche alla fortissima connessione simbolica e rituale che si può instaurare fra un terreno irrorato di sangue e le piante che vi crescono. Eloquente si rivela poi il legame con i riti di sepoltura: i vegetali che crescono sopra una tomba non ripropongono visibilmente la rinascita del defunto sotto nuove forme? I primi riti di sepoltura potrebbero essere collegati a sacrifici, e in ogni caso i morti erano interpretati secondo l’immaginario inquietante legato alle vittime, che occorreva propiziarsi dopo averle uccise» (p. 122).

Fornari corregge la teoria della regalità di Girard. Secondo l’autore di Delle cose nascoste il re è la vittima che, opponendosi all’immolazione, diventa un dio vivente e sfrutta il prestigio della vittima (che dovrà essere) uccisa per farsi obbedire dai sudditi. La vittima designata approfitta così del rinvio del sacrificio per conquistare il potere. Fornari preferisce pensare invece «a un incidente qualunque nello svolgimento del sacrificio, come un errore rituale o l’intromissione di qualche fattore esterno, meteorologico, astronomico o di qualsiasi altra natura (fulmine, eclisse, ecc.), a causa del quale la vittima non può più essere sacrificata perché gli dei si sono rivelati contrari. Nello stesso tempo la vittima non può ritornare allo status precedente, giacché essa è ormai troppo carica di potere sacrale» (p. 124). Il re è una vittima la cui uccisione è stata rinviata; egli è carico del prestigio di un dio vivente che regge le sorti dell’intera comunità. L’origine della monarchia spiega perfettamente perché le rivoluzioni moderne si siano concluse in molti casi con l’uccisione del re (o di una figura assimilabile al monarca). La rivoluzione infatti è proprio l’evento indifferenziatore che richiede un sacrificio per essere placato. Viene così il momento di immolare il monarca, la vittima che ha goduto fino a quel momento di rinvii ripetuti e sostituzioni sacrificali. Di qui la procedura di incriminazione del re, che è caricato del peso di accuse tanto infamanti quanto improbabili allo scopo di legittimare la sua esecuzione.

La teoria antropologica alla quale Fornari dà un contributo essenziale consente di smascherare il relativismo come apologia del sistema vittimario. Infatti se giustifichiamo ogni consuetudine con l’argomento che essa va giudicata nel contesto di una certa cultura, allora finiamo con l’assolvere qualsiasi pratica violenta (mutilazione, riduzione in schiavitù, ecc.) che è di fatto espressione di un processo di vittimizzazione (p. 128). La difesa della vittima e la salvaguardia dei suoi diritti sono riconosciuti in base alla semplice constatazione della sua innocenza come fatto incontestabile e verità oggettiva. Non è infrequente incontrare dei buonisti che sostengono posizioni relativiste riguardo alle culture dei popoli (il diritto riconosciuto a ciascuno di mantenere la propria cultura nella sua integralità, perché ogni pratica è buona e giusta nella cultura di cui è espressione) e insieme proclamano la necessità inderogabile di intervenire in difesa dei popoli oppressi e ovunque sia offesa la dignità degli essere umani e i loro diritti siano calpestati. I buonisti non si accorgono dell’inconciliabilità di relativismo e universalismo, prospettivismo e oggettivismo; per questo non si rendono conto, o non vogliono vedere, che ad esempio l’infibulazione e altre forme di manipolazione del corpo sono oggettivamente violenze da condannare senza esitazioni o sofismi. Possiamo ammettere certe forme di violenza per il solo motivo che corrispondono a riti e pratiche culturali?

Secondo Fornari la resurrezione di Cristo è un evento storico, non una rinascita in senso ciclico. Tuttavia esistono a suo avviso numerose attestazioni dell’idea di resurrezione-rinascita prima di Cristo. La Passione infatti deve la propria efficacia salvifica al fatto che risponde al medesimo problema che è affrontato dalle vicende religiose pagane (p. 134). La Passione ripropone e interrompe al tempo stesso il nodo centrale della violenza che appare nel mito di Dioniso. Tra la vicenda di Dioniso e quella di Cristo c’è insieme continuità e discontinuità, coerenza e contraddizione. Nietzsche subisce il fascino della verità che però respinge, precipitando così nella follia. «Proprio la ripetizione della vicenda di Dioniso fatto a pezzi nella vicenda di Cristo rompe il cerchio dell’eterno ritorno — ovvero della ripetizione sacrificale —, poiché ne disvela il senso dall’unico punto di vista vero, e cioè quello della vittima, una vittima perfettamente innocente come Cristo, che con la sua innocenza silenziosamente dimostra la provenienza umana della violenza. Il punto di vista di Dioniso è invece quello dei persecutori, la cui responsabilità non viene mai smascherata, e che anzi sono incitati dal dio a compiere nuovi sacrifici» (pp. 137-138).

Dopo la rivelazione dei vangeli la rifondazione compiuta mediante il linciaggio di una vittima è divenuta impossibile, o, per meglio dire, è divenuta impossibile da difendere in qualche modo che faccia dimenticare la verità fondamentale dell’innocenza della vittima. L’idea della colpevolezza della vittima si traduce nella sua espulsione, mentre l’idea opposta della sua innocenza obbliga a riconoscere se stessi come colpevoli del male. Il peccato originale è quindi il risultato della fine dei sacrifici. L’idea che non ci siano cause esterne del male, e che esso vada cercato in se stessi, è presente in Paolo e in Agostino d’Ippona. Questo è forse il significato del passo in cui Gesù invita a considerare che non ciò che entra nella bocca, ma ciò che esce da essa rende impuro l’uomo (Mt 15, 10). Il Cristo costringe a considerare la propria colpa e non quella della vittima, nel momento in cui con il suo sacrificio definitivo purifica dalla colpa che accomuna tutti gli esseri umani. L’eucarestia rappresenta la ripetizione di tutti i sacrifici della storia, ma rovesciandone il significato, «poiché la ripetizione è fatta dall’unico punto di vista vero, quello della vittima innocente» (p. 153). Si ha così uno scardinamento della categoria sacrificale, perché Gesù mette fine alla ripetizione sacrificale instaurando la ripetizione della commemorazione. In polemica con Girard riguardo l’interpretazione sacrificale della Lettera agli Ebrei e all’idea che la Passione non sia un sacrificio nel senso arcaico del mito, Fornari osserva che «La morte di Cristo è e dev’essere un sacrificio, affinché sia compiuto, nella realtà storica umana della fondazione sacrificale, quel rovesciamento che è l’anima stessa della differenza tra Dioniso e il Crocifisso».

In sostanza quello di Cristo è un sacrificio, ma è unico e irripetibile: il sacrificio di Gesù non è quello arcaico che deve essere sempre ripetuto perché è giustificato dalla convinzione che la vittima sia colpevole. Gesù, venuto contro tutti i sacrifici, muore in un sacrificio molto particolare, unico e risolutivo, in cui si compie una rivelazione antisacrificale. Secondo Fornari nella morte del Cristo, proprio in quanto essa è un sacrificio, è rivisitata e redenta tutta la storia sacrificale dell’uomo: «La morte e resurrezione di Cristo è una vera ripetizione e un vero rovesciamento dell’origine umana, e tale origine non va in nessun modo destoricizzata» (p. 161). Questo è il senso della dottrina di Paolo (Rm 5, 12-21) su Cristo come secondo Adamo che viene a redimere il peccato del primo Adamo. Dal punto di vista di Fornari la concezione di Girard si presenta come eccessivamente destoricizzata, così che sembra sfuggirgli che Cristo porta alla luce una verità già presente nelle culture umane, anche se nascosta. Girard presterebbe così il fianco alla critica di von Balthasar, secondo il quale manca nel pensiero dell’autore di Delle cose nascoste il riconoscimento della realtà e del ruolo della rivelazione naturale, sì che la venuta del Cristo appare improvvisa, inaspettata, inaudita, in un mondo umano del tutto cieco e privo di ogni aspirazione a essere redento (p. 162).

La rivalità tra gli esseri umani non è fatalmente necessaria e il meccanismo mimetico non va inteso in senso deterministico. Nella Passione il riconoscimento dell’innocenza della vittima è inevitabile. Il sacrificio rivelato da Cristo muta radicalmente la condizione dell’umanità, liberandola dalla dipendenza dal meccanismo del capro espiatorio. Il sacrificio del Cristo è sempre attuale, perché ci pone costantemente dinanzi alla necessità di riconoscere la nostra vittima di turno, così come ci offre la possibilità di essere perdonati. «Il passaggio centrale è sempre il sacrificio di Cristo preso nella sua assoluta realtà di evento che ricapitola in sé l’intera storia dell’uomo. È un passaggio che sfugge, con conseguenze gravissime, anche se solo attenuiamo o sottovalutiamo il realismo sacrificale dell’eucarestia, della Passione, e della teologia della Lettera agli Ebrei, che in questo commenta mirabilmente l’insegnamento evangelico e le riflessioni di san Paolo. Cristo è un modello che muore sacrificandosi per noi. Questo significa che con lui non riusciamo mai a metterci in rivalità, perché non appena lo facciamo egli si lascia uccidere da noi: egli è la nostra vittima potenziale o reale in qualunque momento» (p. 171). Gesù a sua volta mira a liberare il desiderio dell’uomo dalla rivalità, si difende dallo scandalo, rivelando l’intenzione di seguire il solo modello che non comporta scandali o rivalità, quello trascendente del Padre.

La grandezza e l’unicità dei vangeli consiste nel fatto che essi demistificano ogni forma di trascendenza idolatrica e falsa, fondata sull’uccisione e il nascondimento della vittima, come accade ancora oggi con l’aberrazione del satanismo. La singolarità del cristianesimo si coglie nel modo più eloquente dicendo che sotto certi aspetti esso non è una religione, «poiché demistifica ogni forma di sacro inteso quale copertura dei moventi e delle azioni che gli uomini compiono» (p. 183). Il cristianesimo costringe a vedere che ogni prospettivismo consiste nel rifiutare, insieme a ogni verità possibile, anche la verità della vittima. «Se nulla è vero, avverte Fornari, se nulla è reale, allora non esistono né persecutori né vittime, e se non esistono né persecutori né vittime, allora si possono fare vittime impunemente. La cancellazione dell’oggetto è la cancellazione del rivale, e del rivale di tutti, la vittima» (p. 186). Esiste una parentela profonda tra il prospettivismo e il fondamentalismo, giacché entrambi rifiutano la verità della vittima. Il prospettivismo dell’Occidente è di per sé complice e alleato del fondamentalismo, come potrebbe esserlo del nazismo e del genocidio. Infatti se i punti di vista sono equivalenti e intercambiabili perché dovremmo prestare ascolto alla voce delle vittime e non preferire invece i proclami dei carnefici? Il fondamentalismo si sforza di restituire validità al fondamento arcaico, il linciaggio della vittima, ma ogni atto terroristico non può che rendere ancora più visibile la vittima. A differenza della ripetizione sacrificale che rinnova ogni volta l’efficacia del linciaggio fondatore, la ripetizione delle atrocità del terrorismo indebolisce fatalmente il meccanismo fondatore, favorendo il disvelamento vittimario. Infatti, «il fondamentalismo è la dimostrazione del disvelarsi del fondamento, è il fondamento che si trasforma nella tragica caricatura di se stesso, è il sacro arcaico spogliato delle sue antiche divinizzazioni e che ritorna fra di noi sotto forma di pura vendetta, di puro terrore, di terrorismo» (p. 191). La reazione alla perdita di identità avviene secondo le modalità della ritorsione e dello scontro fisico. Ma così facendo si inverte il rapporto causale, giacché individui e civiltà temono di perdere la loro identità quando è già in atto uno scontro rivalitario in cui la reciprocità violenta ha cancellato i rispettivi profili. L’equivoco consiste nel fatto che quella violenza con cui si vorrebbe rafforzare la propria identità è invece la causa del progressivo indebolimento e della perdita dell’identità stessa.

Il mondo contemporaneo ha sempre più bisogno di separare la falsa trascendenza da quella vera. La falsa trascendenza si nutre di idoli e ha bisogno continuamente di capri espiatori per mettere ordine e pace nel mondo. La pace ottenuta a spese di una vittima è la sola pace che il mondo riesce a realizzare con i mezzi di cui dispone. La violenza umana non è veramente espulsa, ma solo spostata sulla divinità, sulla vittima sacralizzata in seguito alla sua uccisione. L’origine umana della violenza è occultata e lasciata così libera di circolare e riprodursi con le stesse modalità di costituzione del sacro — attraverso l’uccisione di una vittima. La vera trascendenza invece non si fonda sui capri espiatori, non accetta di fare alcuna vittima, ma solo di esserlo. Chi è aperto alla vera trascendenza sa che il solo modo per contrastare la violenza è subirla, se necessario, perché l’alternativa è quella di rimanere in una pace apparente e precaria, in una situazione sempre in ostaggio dello scandalo, della logica dei doppi e della contrapposizione. Fornari indica la strada che la politica deve percorrere: nessuna politica può fare a meno della vera trascendenza. Il politico deve fare i conti con la responsabilità nei confronti di coloro che governa, perciò non gli è possibile porgere l’altra guancia e deve invece adottare il principio della legittima difesa. Non è sempre facile distinguere tra aggressione e legittima difesa, ma ciò che importa è che la reazione all’aggressione altrui non sia dettata dal sentimento di vendetta: «Se io non imito la violenza del nemico nel mio cuore, spiega Fornari, allora non cado nella trappola dello scandalo e della violenza, e faccio ricadere sull’altro la responsabilità della violenza da lui provocata e voluta» (p. 217). La visione metapolitica aperta alla trascendenza vera non impedisce di riconoscere la necessità ineludibile che la pace umana si fondi su una qualche violenza. La pace trascendente, quella dell’amore di Dio, è la rinuncia perfetta alla violenza. Tra le due paci, quella umana e quella trascendente, c’è opposizione, ma anche una relazione intrinseca irrinunciabile, determinata dalla situazione intermedia tra la pace del capro espiatorio e la pace cristiana che rinuncia radicalmente a qualsiasi vittima. In questo spazio intermedio aperto dal disvelamento del figlio di Dio noi siamo diventati liberi dal meccanismo della vittima, anche se dobbiamo ancora imparare il retto uso di questa libertà. Senza l’apertura alla vera trascendenza, senza questa tensione tra le due paci, l’umanità è destinata a precipitare nel gorgo di guerre sempre più frequenti e sempre più violente, dal momento che il sacrificio, una volta disvelato, non funziona quasi più e quindi non offre più alcuna via d’uscita.