Recensione a Massimo Cacciari, Della cosa ultima

M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, 554 pp., € 45,00.

La prima parte di Della cosa ultima è un Trialogus de possest tra A (l’autore), B e C. Impossibile dire l’arché, l’inizio, impossibile dire il cominciamento senza porre qualcosa da cui l’inizio comincia e per il quale si dovrà porre lo stesso interrogativo. A così argomenta: «L’arché non si raggiunge attraverso un procedimento dianoetico. Dunque non può essere oggetto di epistéme; e tuttavia si rivela, si palesa. E poiché il suo palesarsi con necessità non è risolvibile dal pensiero, non è ulteriormente fondabile, esso rimane a un tempo “oscuro”. La sua assoluta chiarezza per lo sguardo della mente coincide con la sua impenetrabilità per il discorso» (p. 39). Dunque pensiero e linguaggio non coincidono. C’è qualcosa che può essere pensato, visto con la mente, ma non si può dire. L’infinito non è oggettivabile, determinabile, definibile, senza cessare di essere infinito. Ogni principio deve somigliare a ciò di cui è principio. Se l’Essere è la totalità degli enti coimplicati, come si potrà attribuirgli una volontà, un’intenzione?

«Ma noi siamo, invece, intenzione e volontà. E come potremmo essere in Deo se non portassimo alcun segno del suo essere? Come saremmo da Lui, in Lui co-implicati senza in nulla “somigliargli”?» (p. 57). Se tutto è nell’Inizio, possibile e impossibile, anche il pensiero è nell’inizio. Perciò inutile e fuorviante dovrebbe essere ogni cosmogonia dell’inizio. Ogni discorso sull’origine è mitico e nasconde il fatto che realmente inizio è allora il discorso sull’Inizio. In questo modo, mettendo tutto nell’Inizio — la totalità incommensurabile e originaria da cui provengono tutte le cose — non si fa che porre il male in Dio. L’unico Dio deve contenere tutte le determinazioni e le loro negazioni, e le loro negazioni di negazioni e così via all’infinito. La concordanza degli opposti è il solo modo in cui la totalità può essere pensata in quanto totalità, giacché una causa può essere veramente pensata e concepita come tale solo riconoscendo in essa la presenza dei suoi effetti successivi.

In rapporto all’origine pensata in tal modo, come l’assoluto da cui ogni cosa sopraggiunge, si deve sospendere ogni preferire, ogni volere, ogni distinzione tra bene e male. Questo è il paradosso che Cacciari non mette in chiaro: l’etica perde ogni fondamento nel Fondamento, perché in esso ogni cosa, qualunque cosa, può venire all’essere solo come ripetizione, riapparizione, manifestazione di un passato immemorabile. La vita è dunque priva di vera originalità, non è originaria, perché trae origine da un luogo infinito e inconsumabile da cui ogni cosa si rivela. La vita ha nel fondamento il proprio modello indefettibile. La difficoltà del logos, pensiero o discorso che sia, consiste nel fatto che occuparsi della totalità è uno sviamento, un’inutile hybris, un esercizio ozioso. Solo Dio può ripercorrere la genesi di ciò che ha fatto, mentre l’uomo può ripercorrere la genesi del suo fare, ma non del suo essere fatto ab origine. L’insistere sui paradossi e sulle contraddizioni che risultano da questo affrontamento impari è dar prova di compiacimento nella sconfitta, di autolesionismo metafisico e, forse, di disturbo della personalità. Il filosofo che insiste a pensare l’impensabile, a dire l’indicibile, a discorrere dell’indiscorribile assomiglia a un folle che insiste nel cozzare col capo contro un muro che non può abbattere. La filosofia non può fare a meno di presupposti, che può anche mettere in discussione, ma di cui deve avere assoluta coscienza. La filosofia non può occuparsi dell’Inizio senza con questo dare inizio all’Inizio: tale è l’assurdità — il nobile paradosso — in cui consiste lo sforzo del filosofo che cerca in questa direzione.

A sostiene che pensare è pensare l’arché, sia per la filosofia che per la teologia, anche se poi esse lo pensano in modo diverso. «La teologia non può non fondarsi sulla credenza che l’Inizio è Dio, Deus-Esse. Anche quando intuisce l’Inizio come sovra-essenzialità, o sovra-divinità, essa lo concepisce sul fondamento del Deus-Esse […] Per il teologo l’Inizio appare nella forma del comando divino; il comando presuppone la potenza di colui che lo pronuncia: una potenza che “si libera” nell’atto di comandare» (p. 101-102). Il comando però è una forma dell’Inizio, non è l’inizio assoluto. Può darsi che l’uomo proietti nella rappresentazione dell’Inizio il proprio ordinamento, le gerarchie sociali, il rapporto di potere che sussiste tra i diversi soggetti. Il comando di Dio sarebbe allora il comando di cui gli uomini fanno esperienza in qualità di comandanti o comandati. Per agire l’anima ha bisogno di modelli, che sono inevitabilmente portati dalla tradizione. E la tradizione affonda le sue radici nell’originario, lo stesso originario che governa uomini tesi alla realizzazione del bene che possono conoscere. «Conoscere se stessi» è la grande sfida di Socrate. Per conoscere se stessi, scrive Cacciari, si deve andare oltre ogni limite, sfidando il dio. La tragedia non fa che presentarci l’enigma che siamo a noi stessi, la filosofia concepisce l’enigma nella forma dell’interrogare; sa che l’essere dell’uomo è autotrascendersi e per questo indaga l’origine.

La necessità di trascendersi per trovare se stesso in altro spiega perché nessuna identità possa darsi come immota uguaglianza di sé con sé. Ogni sé di definisce e si costituisce come rapporto con l’altro da sé in virtù della consustanziale necessità di trascendersi. «Occorre aver-luogo senza possedere per poter dar-luogo, così come occorre “ritirarsi” per potersi vedere. Non posso cercare me stesso che ospitando. Nessuna identità può definirsi immune dal colloquio con l’hospes/hostis. La mia identità sono gli ospiti in me, tra cui il protagonista più straniero è l’Io stesso. Questa pluralità è tanto poco distruttiva dell’identità da costituirla. Ma essa è ad-tendibile soltanto facendo esodo nella più pura in-securitas da ogni terra ereditata, da ogni geloso possesso della “casa del padre”. Quale inquietante relazione con la decisione divina che Paolo indicherà col verbo kenoûn (Fil, 2, 7)! Il pieno manifestarsi del Logos divino, l’essere-parola del Dio è il suo exinanire. Dio stesso deve andarsene da sé, cacciarsi dal proprio sé, per essere Parola, per esprimersi; deve svuotarsi dell’originario possesso di sé, dell’originaria philautia, per conoscersi-vedersi. Deve farsi straniero a se stesso: diventare carne e sangue» (pp. 137-138). Il nemico è la possibilità estrema del prossimo, il malvagio che ti attacca per distruggerti. L’Annuncio invita ad amare questo nemico, il malvagio che incombe come minaccia estrema. «Non solo non devi contro-attaccarlo, non devi “remunerare” il male, ma devi dar-luogo anche ad esso, “accoglierlo”, poiché, è evidente, lo accogli se lo ami. E come altrimenti si potrebbe spezzare la catena della vendetta e del sacrificio? È concepibile altra via affinché la storia dell’“occhio per occhio e dente per dente” possa finire? Il “grande comandamento” giunge così al suo fine, télos, a manifestare la sua intenzione ultima; e solo coloro che così lo comprenderanno e agiranno saranno téleioi, giunti al Fine. Perfetto come il Padre celeste, e quindi segno del Regno qui-e-ora, è colui che, “lasciando” ogni filantropica osservanza dell’“ama il prossimo tuo”, lo intende come “non opporti al male”, “ama il nemico”, e porta così al suo fine la storia, che è storia di sacrificio, di vendetta, di odio per il nemico, che è negazione del Regno» (p. 143). La lezione di Girard — il vangelo come scienza in opposizione al mito menzognero con cui i persecutori giustificano se stessi — appare acquisita in profondità da Cacciari: «Come vincere, infatti, vincere definitivamente, perfettamente la catena del male, se non lasciando che la sua corrente si esaurisca in noi, si disperda in noi, senza abbattersi rovinosa contro alcun ostacolo? Così il non opporsi al male costituisce in realtà il suo più radicale affrontamento e presuppone la figura del téleios come di colui capace di sovrumana apertura, del Regno come dell’Aperto onni-accogliente, centomila leghe “al di là del bene e del male”» (p. 143).

L’amore per il nemico è per vincerlo con una vittoria più grande di tutte le vittorie che si possono conseguire con l’uso della forza. L’amore per il nemico che si propone di vincerlo nel modo migliore è quindi dettato dallo stesso spirito di vendetta che potrebbe ispirare la lotta senza quartiere per distruggerlo? Ma non c’è alternativa al riconoscimento dell’altro. Stretto tra uguaglianza e libertà, tra affermazione di sé e riconoscimento dell’altro, l’individuo non coglie il valore necessario della dialettica del riconoscimento. «L’individuo, infatti, non vuole ritrovarsi uguale a nessuno, pretende che il proprio valore venga riconosciuto come necessario. Allorché scopre che questo fine non può coincidere con la soppressione dell’altro, non per questo recede dall’esigenza che l’aveva mosso, ma s’imbatte nel problema supremo: come affermarsi individualità compiuta nel riconoscimento dell’individualità altrui. Restando ostinatamente se stessi, “resistendo” in sé, non conosciamo noi stessi — e cioè non soddisfiamo l’istanza del riconoscimento. E neppure “togliendo” l’altro in noi. Ma come cercare se stessi nell’altro? Come, in questa ricerca, divenire altri a noi stessi in noi stessi? L’esodo è questo: l’individualità si forma facendosi altra in se stessa. Sempre via da sé, ma in sé. Ciò che appunto esclude ogni idea di uguaglianza» (p. 205).

Il platonismo dell’indagine speculativa che Cacciari conduce con ardore autentico e profondo intelletto consiste nel porre in Dio, nell’Essere originario, nel Fondamento, tutto ciò di cui non possiamo fare a meno senza rinnegare noi stessi, il nostro essere più profondo. Lo stesso dicasi della colpa irredimibile che coincide con la stessa esistenza; ek-sistere è peccare, come insegna Hegel: senza la separazione, senza il male della scissione, l’uomo non potrebbe esistere come tale. L’atteggiamento profetico è difficilmente sostenibile oggi. Come distinguere i veri dai falsi profeti? Non con la ragione, non con i miracoli, perché qualsiasi mago saprebbe compiere mirabilia, mentre «veri miracula sono quelli la cui causa è esclusivamente lo Spirito» (p. 226). Ma la vera sostanza del rapporto con l’altro è nel dono gratuito e libero. Così si è condotti alla fonte della nostra capacità di donare — capacità che possediamo se ci è donata. Il significato del dono è soprannaturale. «Come pensare una nostra capacità di donare soprannaturalmente? Questa stessa capacità deve esserci donata. E così è, infatti. Soltanto chi crede che Gesù sia il dono potrà avere la forza di donare secondo tale métron. Ma la fede stessa è dono. Noi potremmo donare come ci è stato donato soltanto in grazia della fede che è dono. Non significa questo che in ogni nostro atto di dono siamo donati?» (p. 315). Cacciari esprime una filosofia del dono che, ancora una volta, fa della creazione il prototipo, l’arché. «Il Dono non può essere pensato che nei termini della kénosis, di un perfetto lasciar-essere, di un perfetto “abbandonare” la propria “gelosa” identità — come perfetta Grazia, libera dal “va e vieni della prestazione” (Benveniste) — ma senza che ciò predisponga ad alcuna nuova forma di reciprocità. La gratuità del Dono è un radicale rilasciarsi all’altro, senza intenzione, neppure quella, appunto, che finirebbe col determinare la stessa dinamica kenotica, in quanto volontà-di-salvezza. Ma gratuità coincide, allora, con la Libertà che lascia ek-sistere la totalità dell’ente nell’infinità dei suoi possibili» (pp. 319-320).

Ma nonostante la libertà di donare e perdonare, l’uomo non ha alcun merito e non ha diritto ad alcun premio, perché mai potrà essere estinto il debito rappresentato dal peccato. L’uomo così, stante il peccato originale come debito inestinguibile, non può rivendicare alcun diritto, non può meritare alcunché persino con l’opera più grande e l’obbedienza perfetta. Ma perché chiamare inutili le opere solo perché non bastano per entrare nel Regno? Le opere sono misere, non sono sufficienti, ma non sono inutili. «Tommaso interpreta: la perfezione della fede consiste proprio in ciò — nel riconoscersi ancora imperfetta anche quando tutti i praecepta siano stati osservati» (p. 324). Del resto, lo stesso servire è divenuto inutile in seguito all’apparire della libertà del Figlio. «Questo i servi non comprendono; tutti, fedeli o negligenti, obbedienti o ribelli, non comprendono che il Figlio annuncia che siamo stati lasciati all’ascolto del nomos tes agapes, lasciati al Regno che è in noi» (p. 326). Dacché il Figlio è stato mandato, è divenuto del tutto inutile voler continuare a servire, poiché non esiste più alcun padrone. «Solo il donare può essere “utile” laddove nessuno più è padrone. Il Figlio può essere ancora in-fante, ma il suo stato non muta: non verrà più comandato alla parola, non gli sarà più dettata alcuna legge […]. La presenza del padrone si è ritirata per sempre ed è la voce della sua assenza, della apousia, non della parousia (Fil, 2, 12), che ci parla nel mandatum novum, che ci “manda” ad essere liberi — e cioè a tutto-donare, tutto lasciar-essere secondo il metro che si è manifestato nel dono di Grazia. Ogni figura di padrone diviene mero idolo allorché il vero Padrone si è ritirato — e proprio in questo ritirarsi ha rivelato la propria onnipotenza» (p. 326).

Il carattere di relazione della persona è essenziale, l’uomo è costitutivamente plurale: «in quanto è colui che è, e non può essere altro da sé, ek-siste ad alium, si manifesta ad altro da sé e dunque è-con: realmente altro dall’altro e realmente inseparabile da lui. Questa “inseparabile pluralità” non si agita anche nel nostro cuore? Anselmo nel Cur Deus afferma che l’uomo è chiamato ad elevarsi all’immagine della Trinità vincendo in sé lo spirito della separazione e che in ciò consiste l’atto della sua libertà» (p. 332). Se della libertà esiste un modello, se la relazione ha il prototipo in Dio, che dire del male? Il male non può risolversi nel non essere, a mera mancanza, perché allora il mondo non avrebbe bisogno di essere salvato. Ma il mondo ha bisogno di essere salvato da Dio, perciò Tommaso scrive: «Si malum est, Deus est» (Summa contra Gent., III, 71). Il male non è riducibile all’idea inadeguata, come intende Spinoza, cioè a un difetto di conoscenza: «Se davvero l’ordo bonitatis risolvesse in sé ogni male, riducendolo a mero defectus, se davvero l’armonia del cosmo rendesse necessaria la sofferenza del singolo, che si “immagina” isolato dal Tutto, che non sa adeguatamente concepirsi come elemento della sua Armonia, a che il Salvatore? A che il suo Annuncio? Il Salvatore è forse venuto ad insegnare al mortale che il suo male risiede esclusivamente nel suo singolo “punto di vista”, e che il suo patire è essenzialmente ignoranza o connesso comunque alla finitezza del suo essere? All’opposto — l’Annuncio afferma che la rovina dei mortali è male, che è male il loro stesso essere mortali. Per una conseguente teodicea, Salvatore sarà chi ci conduce a conoscere che il Tutto è “salvo” da sempre, per sempre, chi ci fa vedere come il male sia il frutto di una falsa rappresentazione. Per una theologia crucis, al contrario, Salvatore è chi chiama il singolo alla Vita, a combattere l’“ultimo nemico”, a sconfiggere il realissimo male, che la morte “incarna”» (p. 354).

La filosofia di Plotino apre la strada alla comprensione unitaria di sensazione e pensiero, di umano e divino. L’analogia apre la strada della ricerca: la sensazione è un pensiero confuso, il pensiero una sensazione chiara. Plotino riprende implicitamente l’idea di Dio come pensiero di pensiero. «Pensato al suo limite il theorein coincide con la vita dell’immediato contatto, Nunc aeternum, indiscorribile-inesprimibile. L’intera speculazione plotiniana si presenta come grandiosa paideia verso tale istante. Ma non consisteva in questo già quella sophia, distinta dalla phronesis, dall’intelligente calcolare, che tuttavia si dà-si dona (epidosis!) alla contemplazione meravigliosamente ardua del divino (Eth. Nic., VI, 7, 1141b)? Da un lato, il noein kai thigganein porta al suo fine un cammino o un anelito che inizia dalla e nella aisthesis stessa, che è proprio già del complesso del percepire: l’aisthesis è mossa interamente dal “desiderio” di coincidere con l’oggetto, il contatto è il suo fine, la sua causa finale; l’aisthesis vuole perfettamente sentire. Dall’altro, l’intelletto, il nous, non può non voler conoscere così come la cosa conoscerebbe se stessa, se mai un perfetto conoscersi fosse possibile; l’intelletto “arde” per una tale forma di assimilazione-hénosis, che costituisce il proprio apex, nient’affatto il suo annullarsi, poiché vuole esprimere la propria natura fino al suo limite, e cioè la propria potenza, il pensiero vuole armonizzarsi all’oggetto fino a coincidervi nell’im-mediatezza del puro contatto. L’analogia che così si costituisce tra sensibile e sovra-sensibile è il problema che questo percorso della metafisica classica offre ancora, intatto, alla interrogazione» (pp. 467-468).

Il libro di Cacciari si presenta come una disamina acuta e sobriamente elegante delle questioni decisive che contrassegnano la storia della metafisica del nostro Occidente. In Della cosa ultima la ricerca si svolge a un tempo su tre piani: antropologico (che cos’è l’uomo), storico (quali risposte significative ci affida la tradizione?), filosofico-teologico (che cosa possiamo sapere di ciò che esce dai limiti dell’esperienza immediata, che cosa ci insegna la dotta ignoranza?). Il libro di Cacciari si può leggere come una testimonianza del carattere bifronte del nostro Occidente cristiano. Un Occidente diviso tra la volontà di separarsi dall’arché per affermare la propria esigenza di differenziazione/individuazione e l’opposta ineludibile tendenza al consolidamento ontologico attraverso il ritorno all’origine e la conseguente svalutazione/negazione della storia e del divenire; un Occidente diviso tra la volontà di sapere, che intende proseguire l’opera della creazione, e la fuga da un mondo marcescente, dalla flagellazione e dall’annientamento di una natura che azzera ciclicamente ogni conquista umana, riassorbendo le civiltà del pianeta come organismi destinati alla putrefazione; un Occidente ancora prigioniero del mito prometeico della ragione, incerto tra l’affermazione assoluta e incondizionata della volontà di dominio (l’essenza ultima della tecnica che, come insegna Severino, non ammette e non sopporta alcun limite) e l’esitazione confusa che riconosce di derivare ogni cosa dall’Esse Deus — da cui spera ardentemente di ricevere la norma, il comando per tutto ciò che intraprende.