Recensione a René Girard, Il sacrificio

R. Girard, Il sacrificio, edizione italiana a cura di Pierpaolo Antonello, Raffaello Cortina editore, Milano 2004, 116 pp., € 9,00.

Contro la riduzione del sacrificio a discorso, a fatto meramente linguistico, Girard mostra che, allargando il campo delle ricerche, appare confermata la realtà inequivocabile del linciaggio originario e del sacrificio che lo celebra, dove l’uccisione di una vittima, ritenuta responsabile del disordine mimetico, riconcilia la comunità attraverso la mediazione della violenza unanime. La violenza collettiva che sfocia nel sacrificio arcaico fondatore della comunità si fonda sulla menzogna dei persecutori che insistono nell’attribuire alla vittima predestinata la responsabilità della stessa violenza. Tutte le culture del pianeta, secondo la teoria mimetica, si fondano sul linciaggio fondatore, come rivelano il mito e il rito sacrificale, nonostante le censure e le rimozioni. La novità inaudita della Bibbia e dei Vangeli consiste nel fatto che per la prima volta la violenza fondatrice è raccontata non nella prospettiva dei persecutori, che vedono nella vittima il solo colpevole della crisi e nella sua uccisione il rimedio assoluto e la via necessaria per il ritorno all’ordine, ma dal punto di vista delle vittime, che protestano la loro innocenza e mostrano l’accecamento dei loro uccisori. Solo Gesù compie il disvelamento finale. Il sacrificio di Gesù, che accetta di morire per rivelare la menzogna dei sacrifici e per togliere loro ogni forza risanatrice, non è un sacrificio nel senso arcaico del termine, bensì letteralmente un anti-sacrificio. Girard riconosce tuttavia che anche nella tradizione vedica è presente una rivelazione che discredita i sacrifici, una critica della violenza sacrificale arcaica del mito.

Nei Brahmana troviamo il riconoscimento della rivalità mimetica e un atteggiamento significativamente ambiguo nei confronti del sacrificio. L’immolazione sacrificale, nell’India vedica, aveva luogo al di fuori dei confini dell’area ufficialmente consacrata al sacrificio; inoltre, anziché tagliare la gola della vittima secondo l’uso originario, la si soffocava di nascosto. Girard osserva che questo comportamento ambiguo è frequente. Molti sistemi sacrificali fanno di tutto per minimizzare la propria violenza fino a chiedere perdono alle vittime. Ma in questo modo è messa in risalto la violenza che i sacrificatori vorrebbero dissimulare: rivelano essi stessi che il sacrificio è un assassinio. Le manovre per occultare il sacrificio rivelano la volontà di eseguirlo, in base alla persuasione della sua efficacia, ma anche la volontà opposta, di rinunciare al sacrificio, che è riconosciuto e condannato come un volgare assassinio. Le strategie di mascheramento del sacrificio all’interno della stessa pratica sacrificale rafforzano il sacrificio, anziché indebolirlo, giacché non si rinuncia alla violenza, ma si sottolinea la sua potenza di trasgressione (p. 15). Nei Veda, i libri sacri dell’India vedica risalenti alla prima metà del secondo millennio a. C., Girard trova una scienza del sacrificio che conferma la sua teoria mimetica. Ad esempio l’intensa e costante rivalità tra i deva e gli asura, cioè tra gli dèi e i demoni, corrisponde perfettamente alla rivalità mimetica in cui la contesa riguarda oggetti che non è possibile spartire. Anche qui, come sempre, la rivalità mimetica conduce al sacrificio. Non è l’oggetto l’elemento decisivo, ma l’imitazione del desiderio di un altro. Il punto di partenza della teoria mimetica è noto: il desiderio imita sempre un desiderio già esistente, il desiderio di un altro, di un modello, che diventa ben presto oggetto insieme di ammirazione e di ostilità a causa della reciprocità mimetica. Tutti credono però di avere solo desideri propri, non solo sono inconsapevoli della natura sociale e derivata del loro desiderio, ma respingono con sdegno ogni riferimento all’imitazione di un modello che metta in dubbio la loro presunta originalità. Ciascuno reputa un valore irrinunciabile ciò che non ha alcuna corrispondenza con la realtà — il desiderio secondo sé — e considera l’intensità del proprio desiderio la prova del fatto che esso è originario. Ma è una credenza erronea, del tutto soggettiva. Infatti esiste una controprova, in cui l’intensità è correlata alla rivalità: il desiderio più intenso è infatti il più contrastato, mentre l’intensità diminuisce, se non scema addirittura, non appena il contrasto svanisce. Quale miglior prova del fatto che a fomentare il mio desiderio è il modello/rivale, il quale al tempo stesso ispira e ostacola il mio desiderio desiderando lui stesso ciò che io credo di desiderare in modo indipendente da lui? L’intensità del desiderio dimostra quindi l’esatto opposto della tesi implicita e irrinunciabile del carattere originale e spontaneo del desiderio (p. 25).

Nei Brahmana Girard trova una sapienza più profonda delle nostre scienze dell’uomo: essa riguarda la natura mimetica del desiderio e il meccanismo vittimario che si mette in funzione non appena le rivalità mimetiche raggiungono un certo livello di intensità. Se il desiderio di uno stesso oggetto divide, l’odio per uno stesso nemico, ispirato da un mediatore dell’odio, riconcilia gli avversari. Attraverso una progressione mimetica inesorabile tutti i conflitti particolari confluiscono nell’unico conflitto finale, quello di tutti contro uno. L’indifferenziazione mimetica polarizza l’intera comunità contro un solo individuo, ritenuto il solo responsabile della catastrofe che la violenza diffusa ha nel frattempo provocato e di cui in realtà tutti sono responsabili. Ma il transfert vittimario comporta il vantaggio immediato di ucciderne uno solo al posto della comunità, che da questo linciaggio si trova miracolosamente e improvvisamente pacificata. La vittima odiata prima del linciaggio diventa subito dopo una potenza divina e salvifica, perché con la sua morte ha dimostrato di possedere una forza di riconciliazione superiore a quella di qualsiasi mortale. Se guardiamo la storia recente, vediamo che questa circostanza è confermata. L’autorità della vittima dopo la sua morte diventa indiscutibile e il suo culto esprime la riconoscenza di coloro che le devono la vita. Gli dèi sono invocati dai loro stessi persecutori di un tempo all’interno di un rito sacrificale che rievoca il linciaggio, allo scopo di rinsaldare il legame collettivo e instaurare l’armonia che l’uccisione della vittima ha reso miracolosamente possibile mediante un’economia della violenza a sua modo sapiente. Il sacrificio, sia nella sua forma originaria sia in quella rituale, possiede la forza e la virtù del miracolo (Girard usa esattamente questo termine). Infatti solo un miracolo può deviare interamente contro una sola vittima, e con successo, quella violenza smisurata che minaccia l’intera comunità. L’esplorazione dei rapporti tra sacrificio e miracolo, che qui proponiamo nelle linee generali e che potrà essere sviluppata più ampiamente in altra sede, è un esempio della fecondità euristica della teoria mimetica.

Il miracolo consiste essenzialmente nel transfert per cui la vittima prende il posto dell’intera comunità, ne diventa il segno. Uno al posto di tutti, è la formula del meccanismo vittimario. Se il sacrificio è un miracolo, il miracolo presenta la stessa struttura del sacrificio. Anche nel miracolo agisce la stessa formula: uno al posto di tutti. Nel sacrificio la potenza distruttiva della violenza trasforma una sola vittima in salvatore; nel miracolo la potenza positiva del divino interviene per salvare uno solo al posto di tutti, per dimostrare con un solo esempio il potere della divinità, la sua forza soccorritrice e salvifica. Sacrificio e miracolo sono dunque di segno opposto, ma presentano la stessa configurazione e la stessa natura di transfert. Il miracolo ripete il sacrificio in senso opposto e simmetrico. Se nel sacrificio la vittima muore al posto di tutti per la salvezza di tutti, nel miracolo la vittima, nella nuova veste di divinità, interviene a favore di uno solo per rassicurare tutti della possibilità infinita di ottenere lo stesso beneficio. Se nel sacrificio la vittima è predestinata alla divinizzazione (in molti casi di sacrificio il rituale prevede che la vittima designata sia onorata e venerata come una divinità prima di essere immolata), nel miracolo il destinatario del prodigio è un eletto che non possiede meriti particolari, mentre il dio o il santo invia attraverso il miracolo segnali rassicuranti riguardo la sua intenzione di proseguire nell’azione di sostegno e assistenza a favore dell’intera comunità. Il miracolo riguarda direttamente uno solo, ma si rivolge a tutti. La vittima del sacrificio e il miracolato sono rispettivamente oggetto di elezione negativa e positiva. Con la sua morte la vittima acquista una potenza incomparabile, straordinaria, di cui in seguito essa darà prova in modo altrettanto incomparabile e straordinario, cioè attraverso prodigi e miracoli. In senso antropologico il miracolo è la conseguenza dell’attribuzione alla vittima di un potere sovrumano mediante la sua uccisione. Nel sistema sacrificale arcaico la vittima designata dimostra con la sua morte di essere un dio. Nel momento in cui è uccisa, la vittima cessa di morire e diventa immortale, perché emana una forza miracolosa, inaudita, con cui ristabilisce la pace in una comunità che appariva poco prima irrimediabilmente destinata alla dissoluzione. Il miracolo è essenzialmente la manifestazione irregolare di questo potere sovrumano della vittima uccisa. Gli stessi persecutori, nel prodigio in cui si manifesta la potenza superiore, rappresentano il carattere di imprevedibilità del primo miracolo, il transfert vittimario, in seguito al quale la violenza è stata espulsa completamente insieme alla vittima.

A differenza delle vittime espulse e divinizzate, Gesù compie miracoli prima di essere ucciso, non dopo. La ragione profonda di questa differenza consiste nel carattere particolare della Passione. Infatti in questo antisacrificio che è il sacrificio del Cristo possiamo vedere all’opera il rovesciamento della logica sacrificale, che conduce alla sacralizzazione della vittima uccisa in conseguenza del suo potere salvifico. Gesù non diventa Dio a seguito della sua uccisione, come accade nel mito e in tutti i sistemi dominati dalla logica sacrificale, ma è Dio prima di essere messo a morte. Egli anzi dimostra di essere Dio, il Dio delle vittime, proprio con quanto ha detto e per come si è comportato, proprio in virtù del fatto che si è lasciato mettere a morte per non diventare a sua volta un persecutore. Essendo Dio prima di essere messo a morte, Gesù manifesta il suo potere quando è ancora in vita, non dopo la sua morte: l’esatto opposto di quanto riconosciamo nella vita dei santi, i quali diventano oggetto di culto sacrale dopo la loro morte, spesso violenta e caratterizzata da circostanze che ne suggeriscono il carattere vittimario. Gesù risorto è Dio che risorge, Dio che si rivela nella sua natura divina. Con il suo sacrificio Gesù ha smascherato e demolito la logica sacrificale, non ha compiuto il miracolo del transfert della violenza esercitata su uno solo, come invece sarebbe accaduto se la Passione fosse stata un esempio del linciaggio rifondatore che da tempo immemorabile permette alle comunità umane di rinascere periodicamente a nuova vita. Il miracolo unico di Gesù consiste esattamente nell’aver distrutto il meccanismo generatore dei miracoli — lo stesso sistema vittimario — denunciando la menzogna che lo sostiene. I miracoli che Gesù ha compiuto prima di essere crocifisso sono radicalmente diversi dai miracoli che attestano la potenza sovrumana della vittima uccisa e divinizzata. Non sono di questo tipo — non sono proiezioni dei persecutori che hanno bisogno di aver fiducia nel sostegno indefettibile della vittima, nel suo straordinario potere di pacificazione — i miracoli di Gesù, il Dio delle vittime, che è venuto per farsi mettere a morte contro tutti i sacrifici e in difesa di tutte le vittime. Il suo miracolo vero, unico, incomparabile consiste nella Passione, nella sua morte come morte del Dio delle vittime. Il suo sacrificio sta per tutti i sacrifici del mondo, nel senso che li abolisce tutti, perché di tutti mostra l’insania e l’atroce assurdità. Gesù non libera l’umanità dalla violenza come qualsiasi vittima, ma libera l’umanità dal sistema del capro espiatorio. Al pari del sacrificio di Gesù, che al tempo stesso non è un sacrificio, ma un antisacrificio, così i suoi miracoli sono insieme anche antimiracoli, perché esprimono la volontà di liberare gli uomini dal bisogno di miracoli, dal bisogno di essere assistiti in modo straordinario dalla Provvidenza soccorritrice della vittima che essi stessi hanno ucciso e dalla quale si attendono ulteriori e mai sufficienti prove di potenza infinita. E come ogni sacrificio, anche il miracolo contiene elementi di incredulità, scetticismo e di contraddittoria infirmitas. Infatti come nessun sacrificio è mai l’ultimo e definitivo, nessuna uccisione è mai risolutiva, ma prepara una tregua in attesa della successiva, così nessun miracolo è mai sufficiente per dimostrare la potenza della divinità, dalla quale si attendono interventi sempre più straordinari e inauditi, che rinsaldino il legame collettivo rafforzando la persuasione che la vittima sacra è ancora attiva, viva, potente, efficace.

Nulla di tutto questo accade nel cristianesimo, dove il sacrificio di Gesù e il suo miracolo sono definitivi, giacché trascendono e superano la logica vittimaria alla quale è invece debitrice la credenza nei miracoli e nell’efficacia dei prodigi. Ai farisei e agli scribi che gli chiedono un segno, un prodigio che giustifichi la sua autorità, Gesù indica velatamente la sua resurrezione come segno decisivo («Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta», Mt 12, 39). La ritrosia di Gesù nel compiere miracoli, la sua preoccupazione che non si sapesse di questo suo potere (ad esempio nell’episodio della risurrezione della figlia di Giàiro: «Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo», Mc 5, 43), l’insegnamento che l’amore di Dio e del prossimo è opera superiore a tutti gli olocausti e a tutti i sacrifici (Mc 12, 33), dimostrano che nei Vangeli è presente la consapevolezza del carattere sacrificale dei miracoli intesi nell’accezione mitica. Di qui il modo contraddittorio con cui Gesù compie insperate guarigioni e opere straordinarie, nonché la sua avversione per la richiesta insistente di prodigi da parte di coloro che chiedono sì prove per credere, ma proprio per questo non saranno mai definitivamente persuasi. Il disagio di Gesù si comprende ricordando che solo i persecutori possono pretendere segni, dimostrazioni, prodigi della potenza della vittima che essi stessi hanno ucciso e poi divinizzato. La potenza della vittima sacralizzata è infatti sempre incombente e incerta, assoluta e dubbia, favorevole e avversa, prevedibile e imprevedibile. Questo carattere contraddittorio riflette la doppia natura, prima malefica, poi benefica, della vittima stessa. L’onnipotenza di cui alla vittima si chiede di dar segno non è affidabile, bensì oscura e incerta, perché riposa in fondo sulla menzogna dei persecutori che non vogliono vedere l’innocenza della vittima per giustificarne il linciaggio. Di qui le invocazioni, le preghiere e ogni altro rituale messo in opera per sondare l’intenzione della divinità, per scrutare i suoi piani e per averla dalla propria parte.

I Brahmana confermano pienamente l’ipotesi di Girard, l’intuizione fondamentale del meccanismo vittimario come sistema universale e arcaico di risoluzione della violenza e creazione della cultura. L’organizzazione sociale presuppone un’armonia e dei legami collettivi che hanno un’origine cruenta; la comunità si riconcilia contro una vittima e poi attorno ad essa, attraverso il culto, in vario modo sacrificale, che le è dedicato. L’origine del sacro arcaico è dimostrata in forme e stili diverse in tutte le culture del mondo. Negare questa universalità della violenza sacra, dell’assassinio originario, significa negare l’evidenza, facendo del religioso un aspetto contingente e secondario della cultura umana. La teoria di Girard afferma decisamente l’opposto: la religione è originaria ed essenziale nella costituzione di qualsiasi cultura. Girard respinge con insofferenza l’accusa che gli è stata rivolta, di non essere un ricercatore serio per una sua pretesa dipendenza dall’ispirazione religiosa. Qui la confusione è totale. I critici di Girard che fanno ricorso a questo argomento o non hanno mai letto le sue opere oppure sono in malafede. Infatti è facile vedere come la teoria mimetica non abbia niente a che vedere con un’ispirazione religiosa soggettiva, poiché spiega il religioso arcaico attraverso una forza del tutto naturale, il mimetismo. Nel passaggio dalle società animali a quelle umane, il mimetismo si intensifica a tal punto da sfuggire al controllo; trasformandosi in parossismo della violenza, esso trova un freno solo in un meccanismo di compensazione, l’assassinio fondatore, dal quale poi derivano i sacrifici rituali e il mito, vero e proprio rispecchiamento del sacro arcaico. Come sottolinea lo stesso Girard, nella sua ricostruzione della genesi del sacro non si fa alcun ricorso alla trascendenza o a qualche elemento irrazionale.

Nei Brahmana Girard rintraccia la comprensione del rapporto tra la violenza umana e la violenza del sacrificio. Per quanto i testi si sforzino di occultare questo rapporto, lo rivelano abbastanza da suggerire l’intuizione fondamentale della teoria mimetica, che «il sacrificio è il tentativo di ingannare il desiderio di violenza fingendo, nel limite del possibile, che la vittima più pericolosa e più affascinante sia quella del sacrificio, piuttosto che il nemico che ci ossessiona nella vita quotidiana» (p. 60). Il fondamento della teoria girardiana del sacrificio consiste nel miracolo decisivo per cui la condanna e la distruzione unanime di un nemico di comodo riportano la pace e l’ordine in una comunità in preda al caos violento. Il prezzo pagato è così basso (una sola vittima) e il vantaggio così consistente (l’armonia della comunità riunificata), che le comunità istituiscono la consuetudine di riprodurre lo stesso miracolo del sacrificio su vittime sostitutive; il sacrificio rituale ha il compito di ripetere e rinnovare l’efficacia riparatrice che il linciaggio ha esercitato una volta. Nei Vangeli si scatena un dramma che per un verso fa della Passione un evento sacrificale simile a quello arcaico, in cui Gesù è accusato di un crimine irreparabile, ma per l’altro esso presenta una differenza essenziale ed unica, quella che dimostra l’originalità dei Vangeli. Qui il capro espiatorio non è colpevole e non si nasconde, ma è innocente e si presenta alla luce del sole. Ma è proprio questo il risultato della Passione, il senso della sua unicità: il capro espiatorio perde ogni efficacia quando si rivela come tale, quando la sua innocenza gli fa perdere qualsiasi funzione espiatoria in senso arcaico. «Rivelare la sua natura puramente mimetica, come fanno i vangeli, vuol dire comprendere che non vi è nulla di intellettualmente o spiritualmente degno di fede nel fenomeno del capro espiatorio; significa accorgersi che i persecutori, non soltanto di Gesù ma di qualsiasi altro capro espiatorio, odiano questa persona senza ragione, in virtù di un’illusione che si propaga irresistibilmente nel seno delle folle di persecutori ma che non ne è meno irragionevole» (p. 73).

Non si può comprendere la forza rivoluzionaria dei Vangeli senza accogliere in sé la nozione di verità, senza ripudiare una volta per tutte quel relativismo omologante di certa ermeneutica che, in nome dell’interpretazione, cancella ogni differenza tra vero e falso. Alla fine, alla resa dei conti, il relativismo ermeneutico cede alla forza dell’illusione dominante come se fosse il solo criterio nella determinazione del vero. Ma l’allucinazione collettiva dei persecutori è quella che accusa la vittima innocente, quella che fa della menzogna la verità indiscutibile e riduce il vero all’utile. Dal punto di vista dei persecutori di sempre, una menzogna efficace vale più di una verità che non reca vantaggio. Su Edipo converge la menzogna del mito, mentre nella Bibbia e nei Vangeli le vittime sono presentate come ingiustamente perseguitate. La differenza tra le due prospettive, quella che afferma la colpevolezza della vittima e quella che ne svela l’innocenza, non è una differenza di visione, non è l’opposizione di due punti di vista ugualmente legittimi. È la differenza oggettiva tra il vero e il falso, è l’opposizione asimmetrica di due termini che non sono intercambiabili. La comprensione definitiva dell’innocenza del capro espiatorio comporta la demistificazione dei miti e la distruzione del meccanismo vittimario. Nell’annientamento del religioso arcaico nasce un religioso del tutto nuovo e diverso, ma inseparabile da quello mitico. Questo nuovo religioso apre con il cristianesimo alla conquista della verità e della libertà, emancipandosi dalla schiavitù incarnata dalle religioni sacrificali.