Recensione ad AA.VV., La qualità della vita. Filosofi e psicologi a confronto

AA.VV., La qualità della vita. Filosofi e psicologi a confronto. Atti del convegno ideato e diretto da Giancarlo Trentini e Carmelo Vigna, FrancoAngeli, Milano 2002, 270 pp., € 22, 50.

Dura ormai da circa trent’anni la serie articolata di incontri e dibattiti tra filosofi e psicologi che hanno per oggetto l’essere dell’uomo nel mondo. Dopo il primo convegno veneziano del 1985, dedicato alla «Qualità dell’uomo», nel 1998 si è svolto a Venezia un convegno dedicato all’articolato dibattito-incontro tra la cultura filosofica e quella psicologica. Il titolo del convegno «La qualità della vita» è anche quello del volume che raccoglie le relazioni, i contributi e gli interventi dei relatori che vi hanno partecipato. L’argomento fondamentale del convegno (e del volume) è il «volto» della vita in tutte le sue forme, compresa la biosfera. Pur nella varietà dei contributi e degli orientamenti, i relatori hanno indicato una stessa cifra teorica: la relazione. «Il segreto della vita o la sua qualità alta, scrivono Giancarlo Trentini e Carmelo Vigna, va cercata nella qualità alta della relazione, perché la vita è essenzialmente relazione» (p. 8). La comprensione dell’uomo attraverso la categoria di relazione consente poi di capire il mondo, perché il mondo è essenzialmente e originariamente il mondo dell’uomo. I materiali pubblicati seguono due direttrici fondamentali che i curatori Alberto Peratoner e Alberto Zatti indicano come due assi ortogonali. La prima affronta il nascere e il morire, che sono termini estremi e determinanti nell’orientamento dell’esistenza e nella determinazione del senso della vita; la seconda direttrice riguarda alcune modalità rilevanti della vita, che sono articolazioni dell’esperienza condivisa, come l’organizzazione familiare, il lavoro, l’etica ambientale, la bioetica.

Nella prima relazione (Riconoscere. Note sulla «nascita») lo psicologo Renzo Carli ricorda che la nascita è tutt’uno col pensare e questo col riconoscere. Al centro della sua riflessione Carli pone una concezione di nascita psichica che va ben oltre la nascita fisica dell’essere umano. Egli si richiama a due miti centrali dell’appartenenza alle due città di Roma e di Venezia: la «noantrità» dei romani di Trastevere e la «poaretità» dei veneziani. Il concetto di «collusione affettiva» consente a Carli di mostrare come la nascita psichica sia impossibile se le presenze emozionali non sono in grado di trasformarsi in assenza. Quando non si realizza la sintesi paradossale tra assenza e presenza affettiva, non nasce un soggetto indipendente, ma si instaura una collusività mitica, come quella presente nelle due espressioni popolari appena ricordate, che indica l’assenza del pensiero e della comunicazione, oltre che della costruzione sociale. La nascita dunque, dal punto di vista psicologico, è un evento che si produce non una sola volta col venire al mondo, ma lungo tutto l’arco della vita.

Paolo Cattorini (Nascere uno, nascere molti. Identità del soggetto, statuto della psicoanalisi e questioni di etica) affronta l’ambiguità del nascere rispetto all’identità di genere. Tema decisivo è il rapporto tra identità personale e relazione con l’altro. L’autonomia si sviluppa solo sulla base di una dipendenza, «l’esperienza di essere atteso, accolto, accudito, l’esperienza insomma di ricevere aiuto non solo a livello materiale» (p. 49). La costruzione del soggetto è un’impresa che presuppone coabitazione, dipendenza e scambio: l’autonomia non si compie se non all’interno di un’alleanza, di una dipendenza reciproca, sul piano cognitivo ed emotivo. «Dunque, scrive Cattorini, ci sono ampie evidenze psicoanalitiche per contestare l’immagine di un’identità soggettiva compatta, delimitata, isolata, mostrando invece come tale identità si strutturi ed evolva, appropriandosi di significativi elementi altrui, per poi elaborarli ed ascriverli riflessivamente a sé» (p. 52). È del tutto legittimo che un agente morale viva molte vite a un tempo, che sia capace di divisioni e incoerenze, che alcuni tratti, provvisoriamente perduti, siano poi riconquistati. L’autonomia è dunque non uno stato ma un processo di ricerca e di costruzione del proprio Sé. La coscienza deve decidersi rispetto a inclinazioni che non può inventare, bensì può solo consentire ad esse o respingerle. Ogni decisione morale è una rinascita, uno sforzo di riduzione a uno dei molti; essa costringe a fare i conti con qualcosa che, pur essendo in me, mi è estraneo. Il rapporto con l’alterità è originariamente intrapsichico: «La competenza a trattare con l’estraneo, conclude Cattorini, è competenza a trattare anzitutto con l’estraneo (urtante e attraente) che è in me, prima che fuori di me, un estraneo che dall’interno protesta i suoi diritti di cittadinanza, reclama una regola che lo accolga, lo valorizzi, lo plasmi, lo custodisca» (p. 57).

Nel suo breve ma denso contributo dal titolo L’uomo faber e la coscienza di morte Virgilio Melchiorre parte dalla radicale insufficienza della comprensione della morte da parte dell’uomo contemporaneo. Capovolgendo la posizione di Heidegger, Melchiorre considera il sentimento di angoscia che accompagna la cognizione di morte come qualcosa che è provocato dall’esperienza della morte d’altri. Se lo statuto ontologico originario dell’uomo consiste nella condizione di relazionalità ad altri, allora la morte è quella rottura della relazione che è determinata dalla scomparsa dell’altro. Perciò il sentimento originario dell’angoscia, se non può dipendere dall’esperienza della propria morte, proviene dall’esperienza della morte d’altri, soprattutto dalla morte di una persona cara (p. 66). La morte d’altri è un’esperienza decisiva. «Quando Heidegger nega la possibilità di fare esperienza della propria morte guardando la morte d’altri, scrive Melchiorre, lo dice con un argomento che è molto simile al divieto di Epicuro: anche la morte dell’altro sta dalla parte di quell’assoluto silenzio che non ci è possibile penetrare finché siamo nell’orizzonte della nostra coscienza. E invece è proprio questo silenzio, questo inesorabile e irreversibile silenzio dell’altro, che per me diventa un’esperienza radicale e costitutiva della coscienza di morte» (pp. 67-68). Il silenzio irreversibile dell’altro allora risuona «come il mio silenzio imminente, come l’anticipazione e, in certo modo, come l’esperienza stessa della mia morte: se siamo un’unità, una relazione originaria, la rottura di questa relazione è già la rottura del mio esistere» (p. 69). Dunque la morte d’altri è l’anticipazione della nostra morte non solo per l’angoscia che deriva dalla caduta di un centro, ma anche per il fatto che la morte dell’altro è un episodio della nostra morte. La morte dunque non è un evento puntuale, oggettivo e riducibile a fatto biologico, ma un processo che si articola in episodi di rottura, in esperienze di lacerazione di cui è intessuta l’intera esistenza. Il venir meno dell’altro non è l’eclissarsi di un concetto, o un fatto simbolico, ma un accadimento singolare e concreto in cui facciamo esperienza della totale insostituibilità della persona che è mancata, dell’intreccio tra la nostra e la sua vita: «Senza ammettere questa profonda complicità di vita e di morte, non potremmo spiegarci l’intimità angosciosa, la disperazione, il risentimento che ci vengono dalla morte dell’altro» (p. 69).

L’intervento di Francesco Campione (Morire come affidarsi agli altri che restano, vivere come vivere anche per chi si è affidato a noi morendo) è una risposta alle tesi espresse da Virgilio Melchiorre. Campione osserva che la morte dell’altro potrebbe rappresentare la fine del con-essere solo se questo fosse la somma della coscienza di sé e della comunicazione con l’altro, altrimenti non ci sarebbe assolutamente alcun interesse per la morte. Ma il silensio e l’assenza della morte possono risultare irriducibili a un nulla totale solo se il con-essere è qualcosa di più della somma della coscienza di sé e della comunicazione con l’altro. Dal punto di vista psicologico, osserva Campione, l’esperienza della morte dell’altro è l’esperienza della trasformazione di una perdita esterna in una presenza interna. In questo modo la mortalità dell’uomo diventa la condizione dell’amore, della responsabilità e della giustizia. Campione sostiene che la promessa della resurrezione può rappresentare non solo un progresso per gli esseri umani, ma anche un ostacolo alla compiuta umanizzazione della persona. Infatti la speranza nella resurrezione «prefigura un con-essere, quello della comunità dei credenti che si affidano a Dio sapendo che saranno salvi nel suo regno, con-essere nel quale la possibilità dell’amore disinteressato è destinata a restare una possibilità: un essere certo di sconfiggere la sua morte, sia pure attraverso una resurrezione alla fine dei tempi, finirà per amare più se stesso che gli altri poiché in definitiva sarà più preoccupato per la sua salvezza che per gli altri, o almeno la responsabilità che sarà in grado di assumersi per gli altri non potrà mai essere assoluta» (p. 79).

Francesco Totaro (Il lavoro: organizzazione e significato) affronta il fenomeno dell’ipertrofia del lavoro, divenuto la dimensione totalizzante sul piano pratico e teorico. La stessa potenza della tecnologia conferisce al lavoro una sorta di primato ontologico nell’ambito generale della cultura e della prassi. Ma prendendo le distanze da un’ipertrofia del lavoro di per sé patologica e dopo aver esaminato le forme di alienazione che l’attività lavorativa ha potuto determinare, Totaro formula una triplice stratificazione antropologica comprensiva dell’essere, dell’agire e del lavorare; e opta per una centralità non tolemaica del lavoro, che «va correlato con le dimensioni che lo trascendono ma, al tempo stesso, sono in grado di completarlo» (p. 93). Una filosofia del lavoro che sappia impostare adeguatamente il problema del lavoro dovrebbe richiedere che il lavoro soddisfi per ogni persona una triplice relazione: con il proprio mondo interiore (il lavoro come espressione della propria personalità), con il mondo degli oggetti prodotti (competenza nell’esecuzione di un lavoro «ben fatto», corrispondenza tra intenzione iniziale e attuazione) e con il mondo degli altri soggetti (capacità di condividere con altri modalità direttive ed esecutive del lavoro, nonché i suoi risultati: la spiritualità o partecipabilità del lavoro, alla base della sua socialità) (p. 95). Sono così indicate tre direzioni del rapporto tra etica e lavoro: un’etica del lavoro (che prefigura l’attività lavorativa come antropologicamente significativa, in condizioni di lavoro degne e positive); un’etica nel lavoro (la propensione ad acquisire ed esplicare virtù e abilità specifiche del lavoro che si svolge); e un’etica per il lavoro (l’impegno diffuso e coerente a evitare che l’accesso al lavoro sia un privilegio e a perseguire il lavoro come bene irrinunciabile e condizione della cittadinanza attiva) (p. 96).

Sul versante psicologico Franco Di Maria (Pensare di gruppo: modelli teorico-epistemici ed operatività clinico-sociale) affronta il lavoro come processo di gruppo e in gruppo. La funzione di trasformazione del lavoro non riguarda tanto le modalità di trasformazione organica della realtà esterna allo scopo di produrre oggetti utili alla sopravvivenza degli individui e per soddisfare le esigenze più sofisticate, ma consiste piuttosto nell’invenzione di una visione di gruppo del mondo. Secondo Di Maria il gruppo e il pensare di gruppo permettono di superare la contrapposizione tra sociale e individuale e di cogliere nella dimensione interpsichica o transpersonale il fondamento non solo del legame sociale che le istituzioni realizzano, ma anche delle possibilità di sviluppo e differenziazione dell’individuo rispetto agli altri soggetti, con i quali ciascuno condivide un’identità pre-individuale. «L’ipotesi, conclude Di Maria, è che i gruppi sociali organizzati in vista di un obiettivo istituzionale rappresentano un momento indispensabile per il mantenimento ed il contatto degli individui con la matrice collettiva della loro identità, e che la perdita o la difficoltà di accedere a questa dimensione espone a gravi disagi sia la vita delle Istituzioni Sociali, sia l’integrità psichica dei singoli» (p. 106).

La relazione di Marisa Malagoli Togliatti dedicata ai Legami familiari mostra come sia del tutto infondata la contrapposizione tra la stabilità della famiglia del passato e la precarietà dei vincoli familiari del presente. È vero che si assiste a una crescente tendenza della coppia alla separazione e al divorzio, ma si cerca di arginare la conseguente disgregazione sul piano psicologico rafforzando i diritti alla bigenitorialità dei figli: «come forma correttiva dell’instabilità dei legami coniugali si sottolinea la stabilità dei legami genitoriali» (p. 119). Le relazioni personali hanno sempre un duplice aspetto, di vincolo e di risorsa. Il legame familiare vincola ciascun componente a un ruolo, ma possiede anche un aspetto di risorsa in quanto definisce e organizza relazioni. In una situazione di grande incertezza e precarietà sociale e culturale assume importanza decisiva la valorizzazione dei legami intergenerazionali, affettivi e parentali. La psicoterapia della famiglia quindi da un lato valorizza la flessibilità delle relazioni nel corso dell’esistenza, dall’altro favorisce la tendenza alla coesione in un contesto, quello familiare, in cui il disagio di uno o più membri è anche espressione della disfunzionalità dell’intero sistema.

Alle relazioni e discussioni in sede di assemblea seguono poi i testi utilizzati in sede di workshop per promuovere la discussione su temi specifici all’interno dei gruppi di lavoro. Giacomo Ghidelli (Dall’etica dei consumi al consumo dell’etica) osserva che, per costruire l’immagine del prodotto, la comunicazione pubblicitaria si appropria dei sogni del consumatore e li fa coincidere con il corpo del prodotto trasformandoli in immagine. Il marketing, conclude Ghidelli, sfrutta il bisogno etico delle persone per i propri scopi.

Nei due saggi dedicati all’etica ambientale (La natura e il rispetto. Indicazioni di etica ambientale) e alla senescenza (Il bene della senescenza) Carmelo Vigna, con la consueta finezza e sistematicità, mostra che non può esistere alcuna realtà naturale al di fuori del rapporto con l’uomo e con Dio. Gran parte delle riflessioni avviate all’interno dell’ecoetica infatti risultano astratte e prive di fondamento proprio in ragione di questa mancanza di contestualità ontologica: la natura divinizzata di certe concezioni unilateralmente anti-antropocentriche è insieme ingenua e aberrante. «Se il rispetto della natura fosse assoluto, obietta Vigna, non potremmo usare dei suoi beni per vivere; questo dovrebbe essere l’esito coerente - e assurdo - d’ogni «mistica della natura»» (p. 141). Il rispetto che si deve alla natura si fonda non sull’esistenza immediata della natura in quanto tale, ma solo sul fatto che essa è medium del rapporto con Dio e l’altro uomo, perché solo Dio e l’uomo sono un oggetto che ha valore assoluto per il desiderio umano. Il dovere di rispettare la natura si fonda unicamente sul fatto che i destini dell’uomo e della natura sono inscindibili: «Il rispetto che tributiamo ad un essere umano (anche) nella sua corporeità deve essere esteso, allora, alla natura, in quanto grande corpo organico dell’umanità» (p. 142). Riguardo la senescenza Vigna osserva che oggi essa è oggetto di una negazione sistematica. Ormai sistematico e pubblicamente incoraggiato dai media e dalla pubblicità è lo sforzo di tenere lontana o di nascondere la senescenza incipiente o anche avanzata (diete, cosmetici, chirurgia, attività fisica programmata, ecc.). Come possono essere oggetto di rispetto gli anziani in una cultura aggressivamente giovanilistica, che odia la vecchiaia? Partendo da un’etica del desiderio come desiderio d’altri (il desiderio umano non è mai saturato da qualcosa di determinato, di finito: «Nelle sue profondità il desiderio umano è desiderio d’assoluto» p. 162), Vigna elabora un’etica delle senescenza come etica della relazione fruitiva al mondo delle relazioni personali. Il senescente è colui che realizza gradualmente un’umanità diversa da quella affacendata attorno agli strumenti di lavoro; egli applica in modo spontaneo la verità profonda dell’etica, quella per cui «il nostro desiderio tenta sempre di oltrepassare un oggetto finito, ma sosta di fronte all’altro desiderio, cioè di fronte ad un’altra soggettività, perché avverte oscuramente che solo un’altra soggettività lo può realmente appagare, essendo l’unica possibile esperienza di un «oggetto» in qualche modo portatore di un che di infinito» (p. 163). Il senescente è un soggetto incline a quella relazione interpersonale che è il fondamento dell’etica, a quell’atteggiamento fruitivo rispetto al mondo che implica reciproco riconoscimento tra soggetti e ignora la dimensione puramente utilitaristica del vivere.

Roberto Mordacci (Bioetica e senescenza) considera la vecchiaia sotto l’aspetto dei problemi morali posti dalle cure biomediche e dall’assistenza ai malati in rapporto alle varie fasce di età. Mordacci esamina tre ambiti del problema (il rapporto tra invecchiamento e giustizia, quello tra età anagrafica e qualità della vita e infine quello tra la durata della vita e la morte), mostrando l’impossibilità di individuare un unico criterio di valutazione dell’opportunità della somministrazione delle cure e del loro razionamento, come ad esempio la considerazione dell’età o delle prospettive di vita in buone condizioni. Mordacci esorta a prendere in considerazione il «beneficio medico complessivo» del paziente. Che non sia la durata puramente biologica della vita l’obiettivo dell’assistenza biomedica è dimostrato anche dal paradosso per cui lo sforzo di mantenere in vita i pazienti indefinitamente, con terapie di sostegno a un’esistenza puramente vegetativa, genera la necessità di decidere l’interruzione di interrompere il trattamento, a un certo punto, così che la volontà di far vivere e quella di far morire appaiono drammaticamente intrecciate. Il problema della senescenza è un vuoto di senso per un’età in cui il lavoro e la produttività perdono il loro valore, rispetto a una società sempre più competitiva, in cui il lavoro invade tutti gli spazi possibili della vita e della comunicazione tra persone adulte. Mordacci esclude che si possano ripristinare le condizioni rurali in cui la comunicazione intergenerazionale era viva ed efficace. «Occorre piuttosto tessere nuove modalità di articolare significati condivisi e comunicabili, che attraversino le forme di vita attuali e superino la dilagante superficialità della comunicazione impersonale (soprattutto massmediologica)» (pp. 153-154).

Ines Testoni (Il senso del digiuno tra mistica e anoressia. La rappresentazione della fame nelle lettere di Caterina Benincasa, Simone Weil e anoressiche contemporanee) mette in relazione i significati di pieno-appetito (valore) e vuoto-digiuno (nichilismo) che si presentano nella fenomenologia dell’anoressia psichica. Attraverso una feconda interazione della psicologia sociale con le riflessioni filosofiche di Emanuele Severino, Ines Testoni propone un’interpretazione dei dati e dei tratti degli scritti di donne che hanno dedicato al digiuno una parte importante della loro vita: Caterina Benincasa, Simone Weil e anoressiche di oggi. I tre «soggetti» presentano notevoli differenze. Caterina Benincasa rinuncia al nutrimento terreno per ottenere il nutrimento dell’eternità; Simone Weil rinuncia al nutrimento per restituire essere a Dio; le anoressiche contemporanee vivono invece una tragica dimensione di contingenza.

Alberto Zatti (Valori etici e valori ideologici) discute la questione dei valori con riferimento a Freud: i valori sono l’idealizzazione di una mancanza che il soggetto conserva dopo l’eclissi del narcisismo onnipotente. Zatti tuttavia, al contrario di Freud, propone un sistema di valori in un orizzonte etico, in cui agiscono principi regolativi formali dell’agire umano.

I brevi testi di Domenico de Masi, Massimo Cacciari e Gabriele Calvi sono la registrazione delle relazioni-intervento tenute dagli autori nella tavola rotonda dell’ultima giornata del convegno. De Masi cerca di rispondere alla domanda su come sarà la nostra vita da qui a trent’anni: una migliore mescolanza fra i valori dei due mondi, il maschile e il femminile, una società che si reggerà più sulla capacità di produrre idee che non sul lavoro di operai e tecnici e un ritorno alla cultura umanistica. Cacciari prefigura il soggetto della polis futura a partire dalle coppie semantico-concettuali di globalizzazione e frammentazione, globalizzazione e tribalizzazione, delineando l’utopia della comunità individuale universale, in cui i due termini, anziché escludersi nell’antinomia della politica tradizionale, possano congiungersi in una sintesi feconda, realizzando libertà e solidarietà, identità esclusiva e universalità dei diritti. Gabriele Calvi osserva che la felicità non proviene necessariamente dalla magigore disponibilità di beni di consumo. In base alle statistiche, la soddisfazione nella vita, misurata seguendo le dichiarazioni dei singoli individui in risposta ai quesiti dei questionari, cresce proporzionalmente ai consumi fino all’abbandono del livello di povertà o poco oltre, ma decresce in persone appartenenti a classi sociali agiate e molto agiate.

L’ultima sezione del volume contiene i testi di quattro comunicazioni. Leonardo Ancona nel suo intervento propone di ripensare il rapporto tra Filosofia e Psicologia come relazione tra modo di pensare maschile e femminile, tra emisfero di sinistra ed emisfero di destra. Luigi Vero Tarca (Politica del risveglio. Una «buona novella» per il tempo presente) propone un’analisi delle condizioni e della natura del potere che risponda alla questione della sua legittimazione in rapporto alle contraddizioni che si generano nel suo esercizio. La separazione di etica e politica è un dato di fatto, ma è anche un problema. Bisogna compiere uno sforzo per avvicinare etica e politica e inserire la giustizia nell’orizzonte della politica. La nostra epoca offre mezzi e opportunità che possono favorire la liberazione dalla violenza in tutte le sue forme. Luigi Veo Tarca propone quindi due massime alle quali dovrebbe ispirarsi ogni politica positiva: 1) Fa’ sempre ciò che ha valore per tutti (te compreso) e che di tutti (te compreso) determina la completa soddisfazione; 2) Da’ vita a una società che abbia valore universale, cioè che (per quanto la riguarda) procuri la completa soddisfazione di tutti i viventi (te compreso). «Il principio definitorio di tale politica, e perciò della società che da essa scaturisce, è che ciascuno assume la piena soddisfazione di ogni altro essere come condizione della possibilità della propria piena soddisfazione (autorealizzazione)» (p. 242). Il ripensamento radicale della politica può avvenire, conclude Tarca, solo a condizione di rinunciare al criterio della contrapposizione e dell’esclusione, tanto più che nell’epoca dello sviluppo tecnologico non è più richiesta la morte di altri per la propria sopravvivenza. Una nuova cultura politica deve rinunciare, in sostanza, al criterio della vittimizzazione sacrificale. L’auspicio di Tarca però, per quanto nobile, non sembra incoraggiato e confermato dagli eventi della scena mondiale. Concludono il volume la testimonianza di Alberti Pepitone (Popular Culture and the Quality of Life) e le riflessioni di Romano Màdera dal titolo La morte, dove collassa la significatività della configurazione culturale moderna e postmoderna. Pepitone esamina le otto dominanti della cultura di massa (musica, televisione, film, sport, parchi di divertimento, shopping centers, salute, abbigliamento). Màdera chiude con una riflessione filosofico-psicolanalitica sul significato della morte. L’esperienza di morte non riguarda solo l’eventualità della morte biologica: «Essa anzi accompagna ogni fase dell’esistenza, anche se è originariamente inserita nella rottura necessaria della simbiosi dell’unità madre-bambino e nell’esperienza della sparizione del volto dell’altro, che solo dopo ricomparizioni ripetute introduce il piccolo d’uomo alla convinzione della presenza assente, cioè alla genesi del concetto» (p. 266). Ogni fase, ogni passaggio dell’esistenza è segnata da sparizione, distacco e perdita. Il senso della morte consiste allora nella necessità di viverla nell’orizzonte di una rinascita di cui essa è condizione. Che è sempre rinascita a una nuova vita dopo la morte.