Da Platone a McTaggart: le contraddizioni del tempo e gli usi linguistici

1. La prospettiva del Filebo

Il Filebo offre elementi di sicuro interesse per una ricostruzione della teoria platonica del tempo. In questo dialogo a fondamento di tutto l’essere sono posti quattro generi: illimitato, limite, misto e causa del misto. La domanda alla quale gli interlocutori cercano di dare una risposta riguarda la vita buona per l’uomo. E la risposta a questa domanda presuppone che si sappia che cos’è il Bene. Solo dopo aver definito il Bene, potremo stabilire quale sia la vita buona. La ricerca è ambiziosamente volta a determinare ciò che è preferibile sulla base della costituzione ontologica della realtà. Che cosa è bene, il piacere o l’intelligenza? Socrate indica la soluzione intermedia come preferibile: «Mi sovvengo, ora, di alcuni discorsi ascoltati una volta, molto tempo fa, in sogno o forse anche da sveglio, sul piacere e sul pensiero, di come nessuno dei due è il bene, che è invece una terza realtà, diversa da questi e migliore di entrambi».1 Gli argomenti addotti a giustificazione di questa tesi trasformano le due possibilità iniziali in due estremi contrapposti e unilaterali: il bene non li esclude, ma dovrà risultare dalla loro sintesi attraverso il medio o misto. Infatti, se l’attività di pensiero è accompagnata da piaceri puri, non è possibile attribuire valore ad un piacere privo di coscienza, pensiero e memoria. Senza le facoltà della mente il piacere sarebbe di fatto inesistente, perché sarebbe ignorato: «senza il possesso della memoria, spiega Socrate a Protarco, di necessità non ti ricorderesti neanche che una volta hai goduto, né rimarrebbe un qualche ricordo del piacere che provi nel presente; senza il possesso dell’opinione vera, non potresti credere di godere mentre godi, e non potresti neppure prevedere, essendo privo della specifica capacità, di godere nel futuro».2 Una vita di solo piacere senza intelligenza sarebbe degna non dell’uomo, ma di un mollusco. La vita mista di piacere e intelligenza sarà preferita da chiunque.

Se ogni cosa esistente è in qualche modo un misto dell’uno e dei molti, del limite e dell’illimitato — «dicevamo che un dio, in qualche modo, ricorda Socrate, ci ha fatto vedere negli enti sia l’illimitato sia il limite»3 — le categorie assumono una duplice accezione, assiologica e ontologica. Come è noto, nel Filebo tutti gli enti appartengono al genere del misto o della causa, perché essi sono in quanto mescolanza o medietà di due estremi, cioè il limite e l’illimitato; ma al tempo stesso gli enti si dividono in base alla loro partecipazione ad uno dei quattro generi. Infatti, tutto ciò che ammette il più e il meno partecipa della natura dell’illimitato, come il caldo e il freddo, il veloce e il lento. Il limite è al contrario determinazione e misura e compare solo nel misto, dove l’illimitato è assimilato dal limite. L’ambivalenza ontologica consisterebbe nel fatto che ogni ente si configura come misto — dove il limite ha il sopravvento sull’illimitato —, ma insieme ogni ente partecipa di altre categorie, compreso l’illimitato e la causa. Ontologicamente, in quanto medietà, tutte le cose sono oscillazioni tra il limite e l’illimitato, tra il misto (in cui il limite è dominante) e l’indeterminatezza dell’illimitato: la contraddizione in rebus, mai completamente risolta, ripete l’opposizione originaria dei principi. Se limite e illimitato sono dei contraddittori, come si può sperare in una loro stabile mescolanza? Questa sarà intrinsecamente squilibrata: vi saranno cose che assomigliano di più all’illimitato e cose che si avvicinano di più al limite puro. Si potrebbe dire che il misto, a sua volta, partecipa del limite e dell’illimitato, ammettendo un più e un meno. Ora, ciò che ammette un più e un meno è l’illimitato, che tuttavia nel misto coesiste con il limite. Di qui l’accezione assiologica. Se le cose sono mescolanze instabili che ammettono un più e un meno (e l’intervento dell’intelligenza appartenente al genere della causa è decisivo in questo senso), è possibile che la vita cosciente sia uno sforzo verso una crescente determinatezza, cioè verso un rafforzamento progressivo del limite e della misura. Limite e misura che sono alla base dell’ordine e della bellezza di ciò che è visibile. Il fatto poi che il limite non appaia se non nel misto conferma che la tensione assiologica è senza fine, prospettando un perfezionamento incessante della misura intrinseca agli enti.

In base a quest’interpretazione, ontologia e assiologia non sarebbero in contraddizione, perché la prima si configura chiaramente come condizione della seconda, e la seconda come conseguenza logica della prima: gli enti possono per questo tendere a una perfezione illimitata approssimando sempre più il limite e la misura solo in virtù della loro costituzione ontologica, per la quale sono una mescolanza instabile di limite e illimitato. Gli enti perciò saranno partecipi di un proprio genere, il misto, perché sussistono tutti per principio come delle medietà, ma insieme oscilleranno nel senso del più e del meno, partecipando così del genere dell’illimitato. Questa contraddizione ontologica giustifica lo sforzo dell’intelligenza nell’agire come causa del misto e come determinazione attraverso il limite e la misura. Gli aspetti del problema possono essere svolti secondo un ordine temporale: se prima della loro sintesi limite e illimitato non ammettono un medio proprio in quanto contraddittori, dopo la mescolanza nel misto essi appaiono dei contrari. In senso descrittivo, tutti gli enti sono classificabili in modo esclusivo sulla base della loro appartenenza a un genere, ma ontologicamente (e assiologicamente) gli stessi enti devono potersi configurare nel senso di una gradazione continua tra due estremi. Tutto questo spiega il senso dell’affermazione di Socrate, per cui il genere del misto è considerato «come unità complessiva derivata da questi altri due, come una generazione verso l’essere (ghenesis eis ousian) dipendente dalle misure che si producono come conseguenza del limite».4 Se vogliamo assegnare ad ogni cosa solo ed esattamente quella natura che le è propria, allora diremo che «tutte le cose che ci appaiono diventare più o meno, e ammettere il forte, il debole e il troppo, e tutte le determinazioni di questo tipo, si devono porre tutte nel genere dell’illimitato».5

Ma al tempo stesso, sebbene il limite e la misura non compaiano mai da soli, ogni ente si presenta, di fatto, come una medietà che appartiene al genere del misto; e, dato che il misto è possibile grazie all’intervento del limite, dire che una cosa appartiene al genere del misto equivale ad affermarne la partecipazione al genere del limite. Si rende così ontologicamente visibile quella contraddizione logica che l’approccio descrittivo sembrava promettere di voler evitare: quella contraddizione logica tra limite e illimitato che si poteva aggirare classificando gli enti disponibili in senso esclusivo e discontinuo. Vi è tuttavia la causa del misto, l’intelligenza, che agisce determinando ogni cosa come una certa mescolanza. Quanto maggiore è l’efficacia di quest’intelligenza, tanto minore sarà lo scarto tra il misto e il limite. Se l’intelligenza è perfetta, il misto che si produce come effetto della sua azione deve riprodurre la determinazione perfetta della misura e del limite. C’è nell’universo un’intelligenza che governa ogni cosa: al di sopra dell’illimitato e del limite presenti nell’universo agisce «una causa non da poco la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi può, a buon diritto, esser chiamata sapienza e intelligenza».6 Se è vero che l’intelligenza appartiene allo stesso genere della causa, non deve neppure sfuggire la differenza tra quella umana e quella divina, e la reciproca diversità di grado degli intelletti umani. Dunque anche l’intelligenza partecipa del più e del meno, pur essendo qualcosa di determinato, nel senso che essa è quello che è, al pari di ogni altro ente. L’intelligenza allora parteciperebbe, di fatto, non solo del genere della causa, ma anche di quello del misto e, di conseguenza, dell’illimitato, poiché ammette un più e un meno. Se ne può concludere che limite e illimitato, determinato e indeterminato, intervengono, di fatto, come trascendentali rispetto ai quattro generi individuati nella prima parte del Filebo.

L’intelligenza si contrappone al piacere, che «è illimitato in se stesso e appartiene al genere che non ha e non avrà mai, in sé e da sé, né principio, né mezzo, né fine».7 Intelligenza e piacere sono due realtà in quanto partecipano del misto e oscillano tra il limite e l’illimitato al pari di tutti gli enti; ma al tempo stesso si configurano come due estremi di cui si deve cercare e realizzare la composizione giusta, cioè il medio. Si può vedere allora che l’intelligenza non è solo causa, misto e illimitato, ma anche limite. Essa infatti è causa rispetto al misto; è un misto rispetto ai gradi in cui sussiste nell’uomo e nel dio; è un illimitato in quanto ammette un più e un meno; ed è infine limite o misura rispetto all’illimitatezza della materia del suo opposto — il piacere — al quale deve imporre una misura e un ordine. In quanto limite, l’intelligenza si contrappone al sensibile; ma intellegibile e sensibile sono, di nuovo, i due estremi, rispettivamente limite e illimitato, che la stessa intelligenza in qualità di causa deve poi conciliare nella medietà.

Ora, il passo da compiere è l’analisi del tempo alla luce delle categorie del Filebo. Se il risultato della nostra interpretazione è corretto, si può sostenere che il tempo, al pari di tutti gli enti, partecipa del misto (e quindi del limite), ma insieme partecipa anche dell’illimitato; infatti, come tutti gli enti, nasce dall’azione di una causa che congiunge i due contraddittori, limite e illimitato, in una certa sintesi; ma contemporaneamente ammette il più e il meno. Quali sono, nel tempo, le tracce di questa oscillazione? Il tempo si compone di presente, passato e futuro. Vediamo immediatamente che il presente non ammette il più e il meno, a differenza del passato e del futuro. Infatti non diremmo che un evento è più o meno presente di un altro, mentre è del tutto corretto affermare che un evento è più o meno passato, o più o meno futuro, di un altro. Ecco dunque che — si può dire — il presente appartiene al genere del limite, mentre passato e futuro appartengono al genere dell’illimitato. Le due dimensioni del tempo si oppongono nel genere astratto, ma coesistono perfettamente nella sintesi determinata del tempo, che si presenta complessivamente come misto. Ma proprio perché misto, il tempo esprimerà una sintesi incompiuta di limite e illimitato. Il limite, l’eterno, non si presenta allo stato puro nel tempo, perché il presente, per quanto qualitativamente distinto dal passato e dal futuro, non è immobile, ma deve incessantemente riaffermare se stesso nel fluire della successione indefinita. Il presente è inestricabilmente mescolato a passato e futuro: come sostiene McTaggart, non possiamo definire il presente se non come ciò che è stato futuro e sarà passato; inoltre tutto il tempo può essere visto come una successione di presenti. Il tempo allora riproduce al suo interno, fedelmente, il dualismo ontologico che negli altri enti agisce come una contraddizione produttiva tra limite e illimitato all’interno del misto: in quanto sintesi del limite e dell’illimitato, il misto fa scomparire l’illimitato quasi assorbendolo in se stesso, in modo che diventa così dominante e visibile solo il limite, la misura, che si esprime nella determinatezza. Infatti ogni momento del tempo è la percezione determinata di un presente puntuale, che rappresenta da solo tutto il tempo; ma, d’altra parte, come ogni misto, il tempo ripropone al suo interno la contraddizione originaria e deve pertanto oscillare, ammettendo un più e un meno. Ciò che è futuro adesso, sarà sempre meno futuro finché diventerà presente per poi allontanarsi sempre più nel passato. C’è nel tempo un doppio movimento, per il quale gli eventi diventano sempre più passati, mentre l’io diviene sempre più futuro, se immaginiamo che il soggetto percorra in senso opposto, verso il futuro, quel tratto che gli eventi percorrono nell’altro senso, verso il passato. È questo allora il significato dell’annotazione del Parmenide, per la quale l’uno diventa più vecchio e più giovane di se stesso? Lo vedremo. In ogni caso, è evidente che i due movimenti, degli eventi verso un passato sempre più remoto, e dell’io verso un futuro che oltrepassa ostinatamente ogni limite raggiunto, esprimono una contraddizione. Si può immaginare allora che l’attività di due forze contrapposte, vista dall’alto e dal punto di vista della totalità, dia come risultato una stasi — il presente, da cui non è possibile allontanarsi, e con la quale è impossibile coincidere assolutamente. In quale altro modo potremmo rappresentare quella circostanza essenziale per cui la sintesi del limite e dell’illimitato è, nel misto, sempre incompiuta?

La causa di quel misto che è il tempo è un’anima sapiente e intelligente, la stessa che ordina e regola gli anni, le stagioni e i mesi. Il limite, la misura, è il numero numerante che mai potrebbe sussistere senza il numerato. L’approfondimento della tematica temporale, reso possibile da un riesame critico delle coordinate categoriali del Filebo, conferma così la conclusione raggiunta dalla lettura del Timeo. L’impossibilità di una sintesi perfetta e assoluta tra intelligibile e sensibile nello stesso tempo astronomico (dove anche i movimenti più razionali conservano un certo grado di fallibilità) corrisponde al risultato che si ottiene applicando le categorie del Filebo all’analisi del tempo. Lo scarto tra il numero e il numerato, così come la permanenza instabile della contraddizione tra limite e illimitato, trova una giustificazione definitiva quando è messo in relazione con l’idea di una perfetta intelligibilità del tempo stesso. Come Jean Guitton ha detto felicemente, se è vero che l’intelligenza va alla ricerca di rapporti immutabili, perciò sottratti al divenire, il tempo dovrebbe coerentemente svanire man mano che l’intelligenza lo rischiara: «n’y a-t-il pas dans tout exercice de l’intelligence un effort pour suspendre et même pour supprimer le temps?»8 Se ogni esercizio d’intelligenza è un atto di soppressione del tempo, allora la comprensione della temporalità dovrà consistere nella sua riduzione all’eterno intemporale. E con ciò il tempo sarebbe perduto nell’atto stesso di esplicarlo. Possiamo allora richiamarci all’osservazione di Guitton per suggerire che in Platone la coscienza di questo limite dell’intelligenza si esprime nella riaffermazione della differenza, dello scarto, tra essere e divenire, intelligibile e sensibile, limite e illimitato, numero e numerato. Infatti, se il tempo astronomico coincidesse perfettamente con il limite e la misura, cioè con il numero, nessun tempo più vi sarebbe, perché l’intelligenza speculativa l’avrebbe dissolto. Ma il tempo esiste; e dunque questa reductio ad absurdum sembra decisiva. Platone ha compreso implicitamente che il limite dell’intelligenza andava compensato e corretto conservando al tempo il limite che gli è proprio, la sua oscillazione, la sua impurità. Paradossalmente, allora, ciò che permette l’intelligibilità del tempo è proprio quella sua intrinseca irriducibilità all’intelligibile che ha il compito d’impedirne il dissolvimento. Da una parte, per comprenderlo appieno, l’intelligenza dovrebbe risolverlo interamente nell’eterno; ma daccapo, per comprenderlo ancora come tempo, la stessa intelligenza deve mantenerlo dove già si trova, nell’oscurità fluida del divenire. Vediamo quindi che anche l’intelligenza è costretta ad accogliere in se stessa la contraddizione.

2. Tautologia e contraddizione degli asserti temporali: è possibile evitare la contraddizione della serie A?

Il doppio movimento dell’intelligenza consiste nel fatto che essa deve riportare il tempo a un ordine razionale, dove il limite assorba completamente in sé l’illimitato. Questo primo movimento, come abbiamo osservato, rappresenta il processo temporale come una successione di presenti, o come la permanenza dello stesso presente lungo tutti gli spostamenti in cui il tempo consiste. Vi è tuttavia, a lato di questo, un secondo movimento, che intorbida quell’ordine razionale e conserva al tempo il tratto oscuro dell’illimitato. La coincidenza-opposizione di questi due movimenti è confermata dall’irriducibilità reciproca di passato, presente e futuro. Se proviamo a definirli, dobbiamo infatti usarne uno per definire l’altro. «Non siamo in grado di spiegare, scrive McTaggart, che cosa s’intende con passato, presente e futuro. Possiamo descriverli, fino a un certo punto, ma non definirli; possiamo solo mostrare il loro significato con degli esempi. “La tua colazione di questa mattina”, potremmo dire a uno che ce lo chiedesse, “appartiene al passato; questa conversazione è presente; la tua cena di questa sera è nel futuro”. Non possiamo fare nulla di più».9

Se dico che il passato è «ciò che è stato presente» non ho definito il passato più di quanto definirei il presente riconducendolo a «ciò che sarà passato». Infatti il passato — ciò che è stato — è semplicemente riproposto nella definizione, ma non spiegato. Lo stesso accade con il futuro se lo definisco come «ciò che sarà presente», perché il futuro — ciò che sarà — viene così di nuovo riammesso, ma non realmente definito. Nonostante non vi sia nulla di più logico del fatto che «il passato è stato presente», questo asserto si limita a ribadire che il passato è stato, proprio perché non sappiamo che cosa sia esattamente il presente. Ora, il presente a sua volta può essere noto per intuizione, cioè in base ad una familiarità empirica ed extrarazionale. In questo caso, l’asserto «il passato è stato presente» si rivelerebbe una tautologia. Ma immaginiamo che il presente sia suscettibile di definizione. Potremmo definirlo come «ciò che è stato futuro e sarà passato»? Il presente sarebbe così realmente definito? Affermando che il presente è stato futuro e sarà passato, si vuole intendere che il presente, come è presente in senso empirico e intuitivo, sarà sempre lo stesso presente quando diventerà passato ed è lo stesso presente che era futuro, quando era ancora nel futuro. Se potessimo trasferirci nel passato e nel futuro e vedere il presente prima che diventi presente effettivo, dovremmo attenderci di vedere lo stesso presente di cui abbiamo esperienza nel tempo? In ogni caso, avremmo a che fare con un presente, perciò l’asserto «il presente è stato futuro e sarà passato» avrebbe lo stesso senso della tautologia: il presente è presente. Ovvero quella definizione consisterebbe né più né meno che nella attualizzazione o presentificazione del futuro e del passato, ciò che, a rigore, dovrebbe rappresentare non un presupposto della ricerca, ma semmai il suo risultato. Senza contare che, a voler considerare un presente che sia anche futuro, e un presente che sia anche passato, ci si trova subito a dover scegliere tra il non senso della contraddizione e la cancellazione pura e semplice di passato e futuro come tali, in quella qualità inafferrabile che ne fa la differenza rispetto al presente. Ma cancellando passato e futuro rendiamo inutile la loro definizione a partire dal presente.

Riassumendo, abbiamo stabilito che: 1) la definizione di passato e futuro sulla base del predicato ‘presente’ si risolve di fatto nella tautologica affermazione per cui «il passato è passato» e «il futuro è futuro»; 2) a sua volta, la definizione del presente che si avvale dei due predicati passato e futuro, si riduce essenzialmente a un’altra tautologia, per la quale «il presente è presente». L’alternativa alla tautologia è rappresentata dalla contraddizione. Ora, quella contraddizione che McTaggart pone a fondamento della sua analisi dei concetti e degli enunciati temporali, e rappresenta il passaggio decisivo della sua dimostrazione dell’irrealtà del tempo, viene di fatto rimossa non appena si verifichi la sostanziale irriducibilità del presente al passato e al futuro, così come l’inconsistenza della riduzione del passato e del futuro al presente. D’altra parte, come si legge nel passo citato, è lo stesso McTaggart a dichiarare che il passato, il presente e il futuro sono reciprocamente indefinibili e perciò, implicitamente, irriducibili l’uno all’altro. Si può dire che si presenti ancora l’opposizione di limite e illimitato, intelligibile e sensibile, aion e chronos. Tautologia e contraddizione sono due lati di questa opposizione. Uno è quello della sintesi, per cui il tempo, appartenendo al genere del misto, esprime la dominanza del limite che lo fa apparire come una successione di presenti. L’altro è quello della diairesi, della divisione, per cui il tempo, proprio in quanto misto, rimane incompiuto e la contraddizione non è tolta. Ma esattamente come nella distribuzione dei valori di verità alle variabili delle proposizioni del calcolo proposizionale, tautologia e contraddizione sono solo due limiti estremi di uno spettro di proposizioni contingenti, il tempo empirico non appare mai come solo l’uno o l’altro dei due estremi. La tautologia, come scrive Wittgenstein, comprende tutta la realtà, mentre la contraddizione la esclude tutta. In rapporto al tempo empirico, allora, la verità consiste nella diversa misura in cui la permanenza e l’impermanenza, lo stare e il dileguare, l’eterno e il divenire, realizzano quella sintesi instabile che è il tempo. Un tempo che può esistere e che si può comprendere solo come ordine commensurabile di incommensurabili, come mediazione mai conclusa di una contraddizione essenziale.

3. L’Uno e il tempo nel Parmenide

Il carattere instabile e contraddittorio del tempo — quale si configura nella concezione platonica — si coglie perfettamente in un paradosso contenuto nel Parmenide, all’interno di una discussione sul rapporto tra l’Uno e il tempo che vede impegnati Parmenide e il giovane Aristotele, «quello che poi fu uno dei Trenta Tiranni». La domanda che attende risposta è se l’Uno sia più vecchio, più giovane o coevo rispetto a qualcosa: se si dimostra che l’Uno non può essere nessuna di queste tre cose, se ne concluderà che l’Uno è fuori del tempo. Ma se l’Uno avesse la stessa età, rispetto a sé o rispetto ad Altro, parteciperebbe dell’uguaglianza temporale e della somiglianza, mentre è stato dimostrato che l’Uno non può partecipare né della somiglianza e uguaglianza, né della dissomiglianza e diseguaglianza. Dunque l’Uno non è né più giovane, né più vecchio, né coevo sia rispetto a se stesso sia rispetto a un eventuale Altro. Ciò significa che l’Uno non può essere nel tempo. D’altra parte, se guardiamo alle cose che sono nel tempo, vediamo che «ciò che diviene più vecchio di se stesso diviene anche più giovane di sé, se deve avere qualcosa di cui diventa più vecchio».10 Quando diciamo che qualcuno diventa più vecchio, intendiamo riferirci al fatto che lo diventa rispetto a se stesso, non rispetto a un altro. Infatti l’intervallo temporale (la differenza di età) tra due soggetti rimane invariato nel divenire del tempo, in modo che non ha senso affermare che qualcuno diventa più vecchio (o più giovane) di un altro. Dunque si diventa più vecchi solo in relazione a se stessi. Ma quel che rappresenta un paradosso è il fatto che, diventando più vecchi di se stessi, si diventa per ciò stesso necessariamente anche più giovani di se stessi. Infatti «nulla può diventare diverso da un’altra cosa che già è diversa».11 Se questa cosa rispetto alla quale si diventa diversi è già diversa, allora non si diventa diversi, ma lo si è già stabilmente. Ora, ciò che accade nel tempo non è l’essere diverso, ma il divenire diverso, se è in gioco il fluire del tempo.

Se io, divenendo più vecchio, lo divenissi in relazione a un me stesso che è più giovane, non potrei dire che sto divenendo vecchio; dovrei invece limitarmi a constatare il fatto permanente di essere più vecchio di me stesso. Non sarebbe corretto neppure dire che il me stesso rispetto al quale divento più vecchio sta divenendo parallelamente più vecchio a sua volta, quasi che la differenza di età si mantenga costante nel tempo: se il me stesso rispetto al quale divento più vecchio divenisse più vecchio a sua volta, non sarebbe ragionevole la mia affermazione per cui divento più vecchio rispetto a qualcosa che nel frattempo sta invecchiando parallelamente nella stessa misura. Devo allora ammettere che, se divento più vecchio, posso diventarlo solo rispetto a un me stesso che nel frattempo sta diventando più giovane. Non si deve dimenticare che «più vecchio» rimane una relazione temporale che stabilisce una differenza rispetto a «più giovane». E, dato che questa differenza è lo stesso farsi del tempo nel suo scorrere, non può essere rappresentata come un rapporto già determinato, che come tale sussisterebbe anche al di fuori del tempo e non avrebbe alcuna funzione esplicativa della temporalità. La transizione del divenire temporale si può cogliere solo enunciandola all’imperfetto, mentre diviene continuando a rimanere incompiuta. La mobilità del flusso temporale non si coglie né al passato, né al presente, né al futuro, perché in tutti e tre i modi si direbbe semplicemente che la differenza sussiste, non che sta emergendo. Adesso è chiaro perché ciò che può diventare diverso da un’altra cosa «differisce da ciò che è diverso, già fu differente da ciò che è diventato diverso, differirà da ciò che sarà diverso, mentre da ciò che sta diventando diverso né fu differente, né differirà, né differisce in qualche modo, ma sta differenziandosi».12 La conclusione generale è che ogni cosa che è nel tempo è coeva di se stessa e diviene insieme più vecchia e più giovane di se stessa. Ogni cosa che è nel tempo sarà allora coeva e non coeva di se stessa, se diviene più vecchia; inoltre diviene più vecchia solo perché diviene più giovane.

Questo doppio movimento dialettico del divenire temporale esprime ancora una volta la contraddizione dell’aion e del chronos, del limite e dell’illimitato; quella contraddizione per cui ogni ente oscilla tra il più e il meno perché partecipa dell’illimitato, pur esprimendo, come misto, la dominanza del limite e della misura, viene qui a riproporsi in una nuova espressione. Nel Parmenide allora si dice che l’ente è e non è coevo di se stesso; e che, non essendo coevo di se stesso, si differenzia da se stesso in due modi opposti, divenendo insieme più vecchio e più giovane di se stesso. Tutto ciò che esiste è infatti possibile e concepibile solo come medio o misto di due opposti complementari i quali, separatamente presi, non sussistono affatto. Non è forse vero che se l’Uno non partecipa del tempo non partecipa nemmeno dell’essere, e perciò nemmeno è tale da essere Uno? Se l’Uno è fuori della sfera temporale, «non se ne ha quindi nome, né definizione, né scienza alcuna, né sensazione, né opinione» e «non è quindi nominato, né definito, né congetturato, né conosciuto, né alcuna tra le cose esistenti ne ha sensazione».13 Ma è possibile che questa sia la condizione dell’Uno? Non è possibile, è la risposta del giovane Aristotele alla domanda di Parmenide. L’Uno dunque partecipa dell’essere, se deve essere uno, e diviene, pur rimanendo se stesso. La natura dell’Uno è tale che è in se stesso e in altro, in movimento e immobile, identico a sé e diverso da sé, ha contatto e non ha contatto, sia con gli altri, sia con se stesso; e così via. Infine, la sesta affermazione del Parmenide recita che l’Uno partecipa del tempo e tuttavia è e non è nel tempo, diviene e non diviene. L’essere è infatti presente, passato e futuro; perciò l’Uno, partecipando dell’Essere, vi parteciperà nelle tre forme del tempo. L’Uno insomma, partecipando dell’essere, partecipa anche del tempo, del tempo che scorre, quello nel quale l’Uno, come sappiamo, diventa più vecchio diventando anche sempre più giovane.

Il passo 152 a-d del Parmenide chiarisce che l’Uno non partecipa del tempo allo stesso modo quando si trova nel passato, nel presente e nel futuro. Ciò che scorre, osserva Parmenide, è tale che può solo abbandonare il presente, mentre può e deve muoversi nel futuro e nel passato. Ma allora «se di necessità tutto ciò che diviene non può evitare il presente, quando poi vi si trova cessa sempre di divenire e in quel momento è ciò che gli è accaduto di divenire».14 È perciò naturale che l’Uno, divenendo più vecchio di se stesso che diventa più giovane, incontri a un certo punto il presente e cessi così di divenire più vecchio; incontrando il presente, l’Uno non diviene, ma è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma, dato che l’Uno è sempre presente per tutto il tempo del suo essere — ogni volta che l’Uno è, è nel presente — «sempre allora l’Uno è e diviene più vecchio e più giovane di sé».15 Ma non è tutto. Infatti la conclusione del ragionamento di Parmenide è che «l’Uno è e diviene più vecchio e più giovane sia di sé sia degli Altri, e nel contempo non è né diventa più vecchio e più giovane né di sé né degli Altri».16 Tuttavia, se l’Uno partecipa del tempo e del divenire più vecchio e più giovane, è necessario che partecipi anche del prima, del dopo e dell’ora, ovvero delle tre parti in cui si divide il tempo. Ma sappiamo che l’Uno partecipa e non partecipa del tempo, non nel senso che, quando partecipa, partecipa e non partecipa al tempo stesso, bensì nel senso che in un certo momento partecipa e in un altro no; infatti l’Uno è uno e molti, nasce e perisce, proprio perché partecipa e non partecipa dell’Essere e del tempo. Vi è un istante in cui l’Uno non è nel tempo, quello dal quale parte il passaggio dalla quiete al movimento e dal movimento alla quiete: «non è infatti dall’immobilità ancora immobile, né dal movimento ancora in moto, che c’è il mutamento; ma è questo istante dalla straordinaria natura, posto in mezzo tra movimento e immobilità, e che non è in alcun tempo, ciò verso il quale e dal quale quanto si muove muta nella quiete e quanto è fermo muta nel movimento».17 Lo stesso accadrà anche per tutti gli altri mutamenti: lo stato intermedio tra quiete e movimento è fuori del tempo. Lo stesso deve accadere quando l’Uno passa dall’Uno ai molti e viceversa — dove esso non è né Uno né molti —, o nella transizione dal simile al dissimile e viceversa — dove l’Uno non è né simile né dissimile; e così via.

Chronos de ghe oudeis estin, en o ti hoion te hama mete kineisthai mete hestanai: non vi è nessun tempo in cui sia possibile che qualcosa né si muova né stia ferma.18 Il divenire che cos’è se non il passaggio dalla quiete al movimento e dal movimento alla quiete? Ma il cambiamento non avviene né quando si muove né quando è in quiete; esso non avviene nel tempo, ma nell’istante, che è atemporale. Non è forse paradossale che il momento in cui il divenire è più divenire, in cui avviene la transizione da uno stato all’altro, non sia nel tempo ma fuori di esso? Questo istante atemporale è tuttavia anche quello senza il quale il tempo non sarebbe tale. Il tempo infatti implica il mutamento (senza mutamento non c’è tempo) e il mutamento può accadere solo nell’istante atemporale — dunque senza l’istante atemporale sarebbero inconcepibili sia il mutamento sia il tempo.19 Questa connessione obbliga a considerare che il tempo non è solo tempo, perché per essere nel tempo bisogna esserne fuori; si può partecipare dell’essere e del tempo solo partecipando insieme del non essere e dell’eterno.

4. La realtà del tempo: implicazioni della concezione di McTaggart

Il linguaggio che usiamo per esprimere l’indipendenza del mondo esterno dal soggetto che lo conosce testimonia che l’inseità del mondo è pensata come anteriore rispetto a chi lo percepisce; e, immaginando che quest’ultimo si collochi in un presente fittizio, l’indipendenza del mondo da qualsiasi soggetto viene concepita come passata. È come se il linguaggio mi suggerisse la necessità di pensare che una certa cosa è indipendente dalla coscienza in senso temporale, e le categorie temporali dell’esperienza fossero la sola via per esprimere la condizione di ciò che, per definizione, giace al di fuori di ogni possibilità di essere esperito e percepito. L’essere passato come forma dell’inseità non è solo una metafora, ma anche una contraddizione. Infatti ogni passato è stato prima futuro. E nessun futuro, per la sua indeterminatezza, potrebbe descrivere adeguatamente l’essere in sé del mondo.

Se si vuole evitare la contraddizione, si può negare la possibilità dell’assoluta indipendenza di ogni ente dal soggetto che percepisce la realtà e usa il linguaggio per descrivere il mondo della propria esperienza. Se invece il concetto di una realtà indipendente dal soggetto — da ogni soggetto — appare irrinunciabile perché si ritiene che la posizione di questa inseità sia in qualche modo implicata e presupposta da ogni discorso sul mondo, e dalla stessa coscienza che abbiamo della realtà e di noi stessi, allora si dovrà ammettere che la conseguenza, riguardo al tempo, è quella per cui è tolta come inessenziale qualsiasi distinzione tra passato, presente e futuro, nel momento stesso in cui si mostra che tale distinzione non può essere vera della realtà in sé degli enti. Per conservare l’idea di una realtà indipendente si dovrà perciò ascoltare il linguaggio, accettando la testimonianza di ciò che in esso viene pensato: nel linguaggio si pensa e si agisce nei confronti della realtà come se l’essere passato, senza presente né futuro, fosse la dimensione propria delle cose, come se fosse quella parte del tempo che ne rappresenta la totalità compiuta. Ma il passato è stato futuro e il futuro sarà passato. Inoltre (ed è questa una delle osservazioni più pertinenti di McTaggart), il passato non rimane immobile, ma continua a diventare sempre più passato. Per questa sua mobilità effettiva il passato fa parte del flusso temporale ed è intrinsecamente inadatto a rappresentare la realtà indipendente dal soggetto come una sostanza immutabile e sempre identica a se stessa. Ma il limite del linguaggio è imposto dalla stessa esperienza. Non possiamo mantenere il riferimento alla dimensione assolutà della realtà — l’inseità — e insieme mantenere la realtà del tempo nelle sue articolazioni. Una volta posto l’assoluto fuori dell’esperienza e fuori del linguaggio, il tempo si riduce da sé a un’apparenza illusoria. Se, vice versa, si attribuisce al tempo una realtà fondamentale, il riferimento all’assoluto diviene una contraddizione. Naturalmente, la realtà che si è disposti a riconoscere al tempo è di genere totalmente diverso da quella dell’assoluto, della realtà in se stessa, la cui affermazione, come abbiamo stabilito, è del tutto incompatibile con il mantenimento della differenza tra le diverse parti del tempo. Se attribuissimo al tempo questa realtà dell’assoluto, non faremmo che negare il tempo in se stesso e ricadremmo nella posizione opposta. Si tratta quindi di stabilire quale realtà si debba riconoscere al tempo che non ne comporti la dissoluzione. Riconoscere al tempo la sua realtà propria dovrebbe significare, innanzitutto, non assumerne una parte — ad esempio il passato — come elemento fondamentale e come principio; e neppure convertire il tempo in un’altra cosa — ad esempio nell’atemporale. L’analisi del tempo tende inevitabilmente alla sua de-temporalizzazione: l’identità è più esplicativa del mobile divenire. Si tratta di fare dell’intelligenza del tempo l’operazione che riconosce e mantiene al divenire temporale la sua propria realtà. Ma, come sappiamo, il modo in cui necessariamente pensiamo la realtà — reale è ciò che sussiste in senso oggettivo, cioè indipendentemente dalla sua percezione da parte di qualsiasi soggetto — dipende dal linguaggio. Auspicando l’avvento della conoscenza del tempo in se stesso, al di fuori di deformazioni e travisamenti, facciamo ricorso, come si vede, alla medesima categoria dell’inseità, e prefiguriamo una realtà temporale oggettiva e indipendente da qualsiasi soggetto. E questo è in contraddizione con quanto abbiamo appena stabilito, che il concetto di realtà indipendente dal soggetto abolisce la stessa realtà temporale, perché elimina ogni differenza tra le diverse parti del tempo. La realtà del tempo è, infatti, nelle sue differenze interne.

La distinzione tra una serie A e una serie B del tempo ad opera di McTaggart risponde all’esigenza di restituire al tempo la sua realtà senza negarla con lo stesso atto che la pone e la descrive. McTaggart dichiara esplicitamente che la serie B, pur individuando una struttura permanente del tempo, non va considerata l’essenza del flusso temporale, perché spiegare il tempo non significa trasformarlo nel suo opposto, ma conservare il carattere temporale che gli è proprio. E questo carattere dinamico del tempo è dato dalla serie A, che McTaggart considera essenziale a qualsiasi esperienza e definizione del flusso temporale. Se il tempo esiste, allora esso consiste innanzitutto nella serie A. Ora, lo stesso McTaggart introduce poi nell’analisi della serie A categorie tali che costringono a riconoscere l’irrealtà del tempo, a partire dalle contraddizioni della stessa serie A. Ma l’incontraddittorietà è il principio su cui si fonda la stessa identità del permanente. Ciò che muta, muta nel tempo; e il tempo è passaggio da uno stato all’altro del medesimo soggetto: così funziona la comprensione ordinaria dell’essere nel tempo. L’identità caratterizzata dall’incontraddittorietà è un nuovo nome della realtà in sé, che abbiamo già definito incompatibile con la temporalità come articolazione di differenze. Perciò, la dimostrazione del carattere contraddittorio della serie A reintroduce implicitamente quel concetto di inseità che in un primo momento viene isolato e messo da parte nella serie B. La serie A fa apparire immediatamente il flusso temporale, lasciando fuori concetti incompatibili con la sua esistenza. Se concetti di permanenza come quelli di anteriorità, simultaneità e posteriorità sono relegati nella serie B, la serie A conserva tuttavia in modo surrettizio un residuo sostanzialistico — la nozione di identità dell’evento — che consente di identificare la contraddizione decisiva della stessa serie, che la invalida senza appello. Si ricorderà, infatti, come la serie A viene descritta: un palcoscenico — il palcoscenico del mondo al cospetto di uno spettatore qualsiasi — in cui degli eventi si prefigurano successivamente futuri, presenti e passati. Questi eventi hanno un’identità indipendente dai predicati temporali — futuro, presente, passato — che di volta in volta assumono. Essi sono quel soggetto uguale a se stesso ed esistente in se stesso che permette il determinarsi della contraddizione dei predicati temporali. Così possiamo affermare con McTaggart che lo stesso evento non è mai solo ed esclusivamente futuro, presente o passato, ma invece contemporaneamente e contraddittoriamente accoglie tutti e tre i predicati temporali. L’aspetto dinamico del tempo, che la serie A aveva il compito di rappresentare, si risolve così in contraddizione.

Si potrebbe obiettare che l’unica alternativa all’analisi condotta da McTaggart della serie A al fine di scoprirne la contraddizione fatale, sia l’accettazione del carattere contraddittorio della realtà temporale. Ma si deve subito osservare che la contraddizione di predicati opposti nello stesso tempo presuppone necessariamente un soggetto di questi predicati, una realtà sostanziale immobile e identica a se stessa in ogni istante del tempo. Perciò, affermando che il tempo è contraddizione, si presuppone indebitamente una sostanza non temporale del tempo stesso; si afferma, innanzitutto, che il tempo è permanenza, pur con l’intenzione esplicita di descriverne l’impermanenza. Se si afferma che il tempo è movimento, e solo movimento, si esclude di conseguenza ogni carattere di contraddittorietà nella rappresentazione del flusso temporale, ad esempio nella serie A. Rimane da stabilire, naturalmente, se si possa descrivere la serie A senza alcun riferimento a eventi od oggetti in transito dal futuro al passato. E se si dovesse accettare la conclusione che non è assolutamente possibile alcuna definizione che prescinda totalmente da elementi sostanziali, si sarebbe anche posta la domanda se questa impossibilità dipenda dal linguaggio che adoperiamo per descrivere la realtà temporale, oppure se invece — ma qui di nuovo ricadremmo nella difficoltà sopra enunciata — essa non sia riconducibile a una dimensione o qualità del tempo in se stesso.

Se esistesse questa realtà del tempo in se stesso, sarebbe tutta negli elementi stabili che lo compongono, cioè negli eventi. Questi eventi esisterebbero in se stessi, cioè indipendentemente dal fatto di essere nel tempo e di esservi percepiti; secondo la definizione di indipendenza dal soggetto o inseità che abbiamo dato, l’evento in sé sarebbe allora il passato del tempo. L’evento quindi non si limita a riunire — come vuole l’analisi di McTaggart — le tre dimensioni temporali apparenti (essendo prima futuro, poi presente e passato; futuro, sarà presente e passato; presente, è stato futuro e sarà passato; passato, è stato presente e futuro), ma porta anche implicita una determinazione temporale più profonda, quella di essere passato. Da questa determinazione dipende la sua esistenza anteriore nel tempo come futuro; infatti, nella definizione della sua futurità apparente, dire che un evento è futuro significa riconoscere che esso non è ancora, cioè non esiste affatto; e per farlo esistere in qualche modo sì da consentire l’asserto «x è futuro», devo attribuirgli una realtà anteriore alla sua apparizione nel tempo; devo concepirlo come assolutamente passato per attribuirgli una qualsivoglia realtà. E dal momento che un evento futuro diventerà prima presente e poi passato, si può sostenere che, quando è ancora futuro, il suo futuro di evento ancora futuro è il suo passato. Il passato di un evento passato è il futuro (esso è stato futuro prima di diventare passato), mentre il futuro di un evento futuro è il passato (esso sarà passato quando cesserà di essere futuro). Il paradosso consiste nel fatto che il futuro estremo di un evento che adesso è futuro è il passato, mentre il passato estremo di un evento che adesso è passato è il futuro. Se si prescinde dal presente istantaneo, un evento si può considerare come futuro quando è futuro e come passato quando è passato.

Se ci si attiene all’esperienza, escludendo provvisoriamente la precognizione, si vede che un certo evento è posto come già pre-esistente nel futuro solo dopo che esso è accaduto. Prima che l’evento accada, in effetti, non posso sapere nulla di un evento determinato. Dopo che questo è accaduto, gli attribuisco uno stato temporale di futuro come anteriore al suo essere presente e poi passato. Prima che l’evento accada il suo passato è nel futuro; e in quel futuro accade all’evento di divenire presente; quando potrò affermare che un certo evento è stato futuro, esso non sarà più futuro. Affermando ora che quell’evento sarà passato, lo affermo come passato nel futuro; mentre quando sarà accaduto lo affermerò come evento che è stato futuro nel passato. Considerato ora, l’evento che adesso è futuro sarà passato nel suo futuro, ma sarà anche futuro nel suo passato, perché quando sarà accaduto sarà vero l’asserto «x è stato futuro prima di divenire presente e passato». E se nessun momento del tempo è assoluto, non c’è motivo perché si limiti a un determinato momento del tempo la verità che si può enunciare su di evento.

Tuttavia sarebbe difficile sostenere che tra futuro e passato sussista una qualche simmetria, nonostante l’interdipendenza di futuro e passato che abbiamo osservato. Dopo che è accaduto, un certo evento continua a diventare passato; perciò è vero in qualsiasi momento che esso era futuro nel suo passato. Ma è anche vero in qualsiasi momento che il suo futuro sarà passato: continuando a diventare passato, l’evento avrà sempre un futuro che deve diventare il suo passato. Questa circostanza sembra mettere in discussione la differenza tra futuro e passato in senso assoluto che McTaggart presuppone come inequivocabile. Infatti, se consideriamo qualsiasi evento in rapporto al futuro che ancora deve compiersi, esso ha sempre ancora un futuro da far diventare passato, sia che l’evento si trovi nel futuro assoluto, sia che si trovi nel passato dopo essere già accaduto. Quando è nel futuro assoluto, è vero affermare dell’evento che il suo passato era futuro e che il suo futuro sarà passato, esattamente come accade nel presente assoluto. Anche nel futuro un evento è stato (più) futuro e sarà passato; ed anche nel passato un evento è stato futuro e sarà (più) passato. La differenza tra la posizione assoluta dell’evento nel presente assoluto e la posizione dello stesso evento nel futuro o nel passato consiste nel fatto che l’evento diventa sempre meno futuro avvicinandosi al presente assoluto e sempre più passato allontanandosi dal medesimo presente. Ma una volta che si è assegnato all’evento una realtà sostanziale indipendente dai predicati temporali la graduazione del più e del meno riferita al futuro e al passato dovrebbe rappresentare un’incongruenza. Se l’evento naviga dal futuro al passato, allora non ci sarà alcun presente privilegiato rispetto al quale si possa determinare in assoluto il passaggio cruciale e qualitativo dal futuro al passato. Ciò è possibile solo se consideriamo futuro e passato come sinonimi, rispettivamente, di non-esistente ed esistente. Ora, questa distinzione assoluta che la teoria di McTaggart trasferisce dal senso comune è diametralmente conflittuale rispetto alla teoria dell’evento che contemporaneamente viene proposta. Si potrebbe osservare che la realtà dell’evento quando è futuro è la stessa di quando è passato: solo così è possibile attribuire un senso a un asserto quale «x è futuro e sarà presente e passato». Ma la realtà dell’evento così definita e presupposta dovrebbe escludere la posizione di un presente empirico e assoluto quale è quella del senso comune.

In questo modo tuttavia ogni istante del tempo diventa un presente possibile dal quale l’evento può essere osservato. E in qualsiasi momento saranno veri tutti gli asserti che riguardano un evento considerato rispetto al passato e rispetto al futuro. La conseguenza naturale di questa ricostruzione non è solo di eliminare le incongruenze ricordate, ma anche di attribuire al tempo un carattere illusorio o quanto meno inessenziale, dato che la descrizione dell’evento in termini temporali non lo altererebbe e dipenderebbe esclusivamente dalla posizione dell’osservatore, a seconda cioè che l’osservatore si collochi dentro l’evento o fuori di esso, nel suo essere stato futuro, che ora è passato, o nel suo passato che ha davanti a sé un futuro. La descrizione dell’evento così non cambia sia che l’osservatore si ponga nell’evento, sia che si collochi nel suo passato o nel suo futuro. Nel primo caso l’evento ha sempre un passato alle spalle che era un futuro; e un futuro davanti a sé che sarà passato. Nel secondo l’osservatore si mette nel passato dell’evento, cioè «dietro»: di qui si può asserire che l’evento ha un passato che è stato un futuro e che ha davanti a sé un futuro che diventerà a sua volta passato. Nel terzo l’osservatore si mette nel futuro dell’evento, cioè «davanti»: di qui si può asserire che l’evento ha davanti a sé un futuro che diventerà passato, ma che pure ha un passato che è stato un futuro. Come si vede l’enunciazione dei rapporti temporali rimane la stessa nei tre casi. Questo risultato è possibile a due condizioni. La prima è contenuta nella descrizione del processo temporale che McTaggart espone nella sua serie A, dove l’evento è supposto reale e indipendente dalle caratteristiche temporali di futuro, presente e passato. La seconda consiste nella rimozione dell’incongruenza che abbiamo osservato tra la teoria dell’evento alla quale McTaggart si richiama e la distinzione tra esistenza e non esistenza che viene mantenuta assieme al presente empirico come presente assoluto.

Tuttavia, se questo emendamento sembra eliminare una contraddizione, il risultato che si ottiene è quello di non riuscire a giustificare pienamente le differenze temporali. Infatti, se si adotta il principio per il quale gli eventi sono semplicemente reali mettendo fuori gioco qualsiasi riferimento alla loro esistenza o inesistenza, risulta difficile comprendere la ragione sufficiente della differenza tra futuro e passato. Se la distinzione tra futuro e passato non corrisponde più a quella tra inesistente ed esistente, la stessa differenza temporale si attenua al punto tale da non avere più alcuna giustificazione, anche se non in misura sufficiente a permettere la sua abolizione. Il tempo non è così spiegato meglio, ma solo indebolito. Se prima era inesplicabile, adesso non trova risposta la domanda sul perché si debba mantenere una distinzione tra futuro e passato che non ha alcun fondamento logico e ontologico. Questa domanda non trova risposta nella soluzione più facile e ovvia, quella di decretare l’irrealtà del tempo, perché la percezione della differenza tra esistente e inesistente è quella che governa l’esperienza temporale del senso comune; e in questa esperienza diretta del flusso temporale ciascuno ha una certezza intuitiva irrefutabile della differenza tra futuro e passato.

Se fosse concepibile una realtà degli eventi indipendente dal loro verificarsi nel tempo, essi sarebbero contemplati da una Mente come del tutto presenti. Tali eventi sarebbero indipendenti rispetto al loro accadere di fatto; la loro realtà potrebbe essere immaginata, ma non pensata senza contraddizione, come qualcosa di passato perché, come sappiamo, anche il passato è mobile e diveniente. Questa realtà perfetta degli eventi non si può pensare attraverso la qualità dell’essere passato. Ora, un evento che sussista al di fuori delle tre dimensioni temporali dovrebbe esistere in modo atemporale, cioè senza dipendere da alcun futuro, presente o passato. Ma se futuro, presente e passato non sono proprietà degli eventi e gli eventi sono reali, di quale realtà, se mai esiste, sono descrizioni i predicati temporali? È difficile immaginare di poter uscire da questo circolo vizioso. Infatti per descrivere la differenza tra futuro e passato dobbiamo istituire la realtà degli eventi che si muovono nel tempo; ma questa realtà a sua volta rende inspiegabile la stessa differenza tra futuro e passato in cui consiste la temporalità. Contemporaneamente, non sarebbe possibile determinare i rapporti temporali sopra descritti se non fossero riferiti a eventi-sostanze. Senza questi eventi reali e permanenti sarebbe impossibile tracciare i rapporti tra le diverse determinazioni temporali, il cui carattere contraddittorio può essere tolto solo al prezzo di togliere anche il tempo.

5. Il tempo come costrutto

L’impossibilità di rinunciare alla distinzione tra futuro e passato — una distinzione che il nostro linguaggio conserva come essenziale — dipende dall’evidenza con cui percepiamo come fondamentale e irrinunciabile la differenza tra due aspetti del tempo, il futuro e il passato. Questa evidenza immediata della ripartizione degli eventi in due categorie qualitativamente distinte è un dato fondamentale e primario. Rispetto al futuro e al passato, di cui si può dubitare, il presente appare come la dimensione più reale del tempo; ma, a ben vedere, l’esperienza del presente è inafferrabile, posto che il presente sia, come vuole Aristotele, un limite tra futuro e passato, privo di grandezza e di estensione, quindi non temporale. Non è questo un paradosso? Quella parte del tempo, il presente, che nella nostra esperienza non esitiamo a definire la più reale rispetto al futuro e al passato, deve rivelarsi invece come temporalmente periferica e ausiliaria.

Il presente non si può concepire come unità di grandezza del tempo. Giorno, mese, anno, ecc. non sono multipli del presente, che è sempre solo uno in rapporto al soggetto, mentre rispetto agli eventi si comporta come un commutatore automatico, convertendoli dal futuro al passato. Anche se immaginassimo un tempo costituito da presenti in fila l’uno accanto all’altro, sempre e solo uno sarebbe il vero e unico presente, mentre gli altri sarebbero o prossimi a diventarlo o ex-presenti. Il presente è un istante senza durata in un oceano temporale che ha una durata infinita in tutte le direzioni. Non si potrebbe immaginare una differenza più grande. D’altra parte è ovvio che la coesistenza di più presenti è inconcepibile sul piano della determinazione temporale, perché il tempo è semplicemente successione, e non coesistenza. Qualsiasi rappresentazione spaziale del tempo è impropria, se non contraddittoria, perché pretende di riprodurre la successione mediante la coesistenza. Non rimane dunque che la rappresentazione temporale del tempo stesso. Tutte le successioni periodiche (giorno-notte, cicli annuali, cicli siderali, cicli naturali, biologici, ecc.), pur essendo al loro interno reversibili e prive di un prima e di un dopo, sono tuttavia unità che si dispongono in una successione irreversibile. Nella rappresentazione di tale successione il passato non ridiventa futuro come all’interno del ciclo reversibile; e la distinzione tra futuro e passato è tale che il futuro non si ripresenta come futuro dopo essere divenuto passato.20 La rappresentazione spaziale del tempo funziona apparentemente solo nel caso del tempo ciclico, dove il futuro è anche passato e il passato è anche futuro; qui non è tanto presente una successione, quanto una coesistenza di parti stabili, che assumono denominazioni opposte e coesistenti (passato e futuro), così che tali parti si susseguono nella forma di una successione temporale vuota e astratta. Qui possiamo dire che il tempo non è essenziale, non esercitando alcun effetto sensibile né sul piano oggettivo né su quello soggettivo. Solo nella successione irreversibile, non periodica, possiamo affermare di trovarci a ogni istante in un momento inedito del tempo, nel quale non siamo mai stati prima né mai più saremo in seguito. Quale forma assume il tempo della nostra esperienza? Esiste un’esperienza immediata e preriflessiva del flusso temporale alla quale si sovrappongono rappresentazioni mediate — concettualizzazioni — di quella stessa esperienza? Se vi fosse una materia indifferenziata dell’esperienza temporale, un’immediatezza antepredicativa in grado di assumere i due opposti schemi della reversibilità e dell’irreversibilità, allora sarebbe difficile sostenere che esistono una forma a priori del senso interno e, rispettivamente, del senso esterno, come Kant propone; sarebbe difficile individuare la natura di questa condizione unitaria e necessaria perché vi sia una qualche intuizione empirica. Ciò spiegherebbe d’altra parte perché Kant abbia usato i concetti temporali comuni — successione, simultaneità, permanenza — e li abbia inclusi nella forma a priori senza sottoporre il tempo in sé ad alcun procedimento analitico, come invece è stato fatto da Aristotele e McTaggart.

Un’obiezione alla dottrina kantiana del tempo potrebbe consistere nel rilevare che la forma a priori del tempo è anche la condizione senza la quale non è possibile riflettere sull’esperienza temporale che possiamo inferire post factum attraverso la memoria. In generale, non è possibile assumere un’esperienza qualsiasi come oggetto del pensiero senza pensarla come avvenuta nel tempo e non solo in un determinato tempo. Il pensiero pone allora il tempo come condizione dell’esperienza passata: esso può supporre che quell’esperienza determinata sia la ripetizione di altre precedenti e che sia identica ad altre future; oppure che essa sia invece unica, ponendola così in una successione temporale irreversibile. I due modelli temporali sarebbero allora due modalità diverse di riconoscimento e rievocazione di un’esperienza precedente resa possibile dalla memoria; e questo potrebbe essere il senso dell’affermazione di Aristotele, per il quale con la stessa facoltà percepiamo il tempo e ricordiamo.21 La differenza tra il prima e il dopo, e la tripartizione in futuro, presente e passato sopraggiungono nella riflessione sull’esperienza che viene in tal modo ordinata temporalmente. Il tempo che conosciamo sarebbe così solo quello in actu signato, mentre ci sfuggirebbe la temporalità in actu exercito, se mai esiste? Sono momenti distinti l’esperienza, l’attribuzione a essa del carattere temporale e la riflessione sul rapporto tra la prima e la seconda.

Sembra un fatto inoppugnabile che non esista, se non in senso improprio, alcuna percezione del tempo in quanto tale, nello stesso senso in cui diciamo di percepire le sedie e i tavoli che abbiamo di fronte. Non è neppure possibile affermare che percepiamo il presente, se non come elemento di una totalità che comprende passato e futuro. Ma una percezione del tempo in questo senso è discutibile. Il presente è pensato come un confine inesteso tra futuro e passato, perciò non potrebbe mai essere astratto da questa sua funzione e preso a sé né come oggetto empirico né come oggetto di riflessione. Se il presente può venire pensato solo come parte di quella totalità che è il tempo, e se questa totalità non è mai direttamente esperita, perché è invece un costrutto (differenziato al suo interno), si dovrà considerare anche il presente come concetto, e non come oggetto d’esperienza immediata. Se il significato di reale è sensibile, e sensibile designa oggetti empirici, allora il tempo non è assolutamente reale, se non è empirico. Di qui la necessità di chiarire il senso preciso di reale soprattutto quando il termine viene usato in rapporto al tempo.

Nel De Interpretatione Aristotele afferma che «il nome è una voce capace di significare secondo convenzione, indipendentemente dal tempo — aneu chronou — della quale nessuna parte è capace di significare se presa separatamente»;22 e aggiunge che «il verbo è ciò che in più significa il tempo; di esso nessuna parte è significante separatamente».23 Dunque secondo la definizione aristotelica la differenza tra nome e verbo è data dal fatto che il verbo significa in più, rispetto al nome, il tempo. Ma quale tempo? Il tempo espresso dal verbo si riferisce a una determinazione predicativa, come nell’asserto: «questo fiore è giallo», dove il tempo del verbo è il presente. Il fiore è giallo ora, non due settimane fa o tra due settimane. Ma «ora» è in rapporto ad un soggetto; questo soggetto può trovarsi anche nel passato, come nell’asserto: «Pietro disse due settimane fa: “questo fiore è giallo”», dove il presente è quello di due settimane or sono. Si può definire un presente passato, che coincide col soggetto stesso rispetto al quale è determinato il tempo di qualsiasi verbo in un enunciato. La determinazione temporale del verbo è infatti una relazione tra questo soggetto ed il punto occupato dall’oggetto nello spettro temporale. Perciò l’essere presente di ciò che è presente rispetto ad un soggetto si esprimerà in modo diverso a seconda che questa relazione si collochi nel presente, nel passato o nel futuro. A differenza che nel presente passato, nel presente presente il presente è unico: in esso si ritrovano il presente del soggetto che enuncia (io adesso), il presente del verbo dell’enunciato (nuota adesso) e il presente dell’oggetto dell’enunciato (un uomo adesso), cioè le componenti che valgono quando, trovandomi in riva a un lago, affermo: «Un uomo nuota al largo».

Nel presente passato invece il presente del soggetto che enuncia è evidentemente diverso dal presente del verbo dell’enunciato e dal presente dell’oggetto dell’enunciato. Se affermo che «due giorni fa un uomo nuotava al largo», sottintendo che ero presente al fatto di cui ora riferisco. Se affermassi che «due giorni fa quest’uomo nuotava al largo», sarebbero dati insieme il presente del soggetto che enuncia e il presente dell’oggetto dell’enunciato, distinti dal presente passato del verbo. Il verbo dell’enunciato ha allora due tempi: uno si riferisce al presente dell’azione rispetto a un soggetto che era presente e fungeva da presente quando l’evento si è verificato; un altro tempo, grammaticalmente visibile, esprime il rapporto temporale tra il soggetto che enuncia e l’oggetto dell’enunciato. Questa distinzione tra i due tempi giustifica la doppia denominazione in: 1) presente passato; 2) presente presente; 3) presente futuro. In 2) abbiamo un presente assoluto, dove il presente del soggetto che enuncia coincide con il soggetto stesso, mentre in 1) e 3) il soggetto è dislocato rispetto a se stesso, sdoppiato tra un soggetto che enuncia ora qualcosa e un soggetto che era presente quando l’evento riferito accadeva. Il presente di 1) e 3) non è assoluto, ma relativo. Naturalmente un soggetto può enunciare qualcosa in rapporto a un oggetto o evento al quale non abbia assistito di persona, ma la comprensione dell’enunciato in rapporto all’evento riferito presuppone che un qualche soggetto sia stato spettatore dell’evento descritto dall’enunciato. Questo essere stato presente dell’evento — per quanto indiretto e virtuale — rispetto a un soggetto che non necessariamente è la stessa persona fisica che formula l’asserto sull’evento, è la stessa profondità del passato. Se il soggetto che era presente allo svolgersi dell’evento e quello che enuncia sono la stessa persona fisica, allora egli ricorda i fatti di cui sostiene di essere stato testimone; e il suo passato è questa differenza indecifrabile tra due momenti diversi di questa stessa persona.

Il concetto di presente ha quindi un significato primario quando è riferito al soggetto stesso, all’io rispetto al quale si enuncia l’essere presente dell’evento. Il passato e il futuro si possono pensare a loro volta come un presente derivato, connesso a un soggetto virtuale o non più esistente ora, ma che doveva esserci quando l’evento è accaduto. Non si può enunciare l’essere accaduto di un evento se non presupponendo che esso sia accaduto in un presente, che allora era un presente primario, in una relazione di simultaneità con un soggetto. E questa presupposizione è data insieme al verbo dell’enunciato, che non esprime solo il passato dell’evento, ma anche il suo essere stato presente in virtù del suo stesso accadere. Sembra impossibile definire l’essere presente senza questa nozione di soggetto; ed è impossibile definire passato e futuro senza questa duplice nozione di presente. Nell’ordine, si può sostenere che il soggetto fonda il presente; il presente fonda passato e futuro come presente passato e presente futuro. Che cosa fonda a sua volta il soggetto? Mi è impossibile definire il tempo prescindendo dal presente assoluto e dal soggetto; se considero il tempo un fluire senza inizio e senza fine, pongo un soggetto fuori del tempo, in un presente assoluto immobile, il quale enuncia il passaggio del flusso temporale come sempre presente; il flusso è detto eterno in quanto è stato sempre presente, e sarà sempre presente, rispetto a un soggetto — reale o ideale — che lo enunci.

Passato e futuro sono soltanto in rapporto a un presente, ma il presente a sua volta è solo per un soggetto che dica «ora accade questo». Il soggetto ci riporta di nuovo al tempo: ma questa temporalizzazione del soggetto, che si traduce in una sua riduzione a oggetto, presuppone di nuovo un soggetto. E il soggetto in quanto soggetto è fuori del tempo; l’essere fuori del tempo del soggetto è la condizione essenziale per la determinazione temporale degli eventi in un tempo orientato e intelligibile; è il presupposto epistemologico che sottrae all’alternativa tra il regresso all’infinito e il circolo vizioso. Si comprende la stessa nozione di successione solo come prima e dopo rispetto a un ora, o presente attuale. Due eventi trascorsi in successione, prima M poi N, posso pensarli solo in analogia con una successione attuale. La successione avvenuta presuppone il presente di un soggetto rispetto al quale quella successione era tale quando si produsse e rispetto al quale soltanto può essere effettivamente pensata come successione da un prima a un dopo. Prima e dopo che presuppongono un soggetto logico, se non empirico. Il presente che divide il passato dal futuro è l’istante del soggetto medesimo che deve interporsi perché una successione sia reale e concepibile. L’istante che divide il passato dal futuro distinguendo il prima dal dopo non appartiene in senso stretto alla successione, ma ne rappresenta la condizione. Esso non è che un’immagine del soggetto trasferita per analogia dal presente al passato. E lo stesso avviene nel futuro, dove posso rappresentarmi una successione di eventi. Il presente allora diviene impersonale nella forma dell’istante: l’istante è il modo in cui il soggetto si attesta nel passato e nel futuro proiettandosi in queste due successioni allo scopo di distinguervi un prima e un dopo. Sembra quindi improprio riferire l’istante al presente primario, che è occupato direttamente dal soggetto. Soggetto e istante hanno in comune l’estraneità rispetto alla durata attuale, di cui pure rappresentano la condizione. L’istante presente appare una finzione del linguaggio e del pensiero, se è vero che l’istante non è mai presente in senso primario; infatti, non appena è pensato, il presente non è più tale, perché presente è effettivamente solo il soggetto. Accade qualcosa di simile all’io che, non appena è pensato o asserito, cessa di essere io per diventare esso. A dispetto del significato del nun aristotelico come istante presente, possiamo invece osservare che se e nella misura in cui è pensato l’istante è immediatamente non presente. L’istante è tuttavia un simulacro del soggetto, che rimane a occupare il presente. L’istante è trasferito nel passato o nel futuro dove si accompagna a un soggetto virtuale. L’istante interviene allora come categoria in senso trascendentale per distinguere e contrapporre il prima e il dopo dell’esperienza normale; ciò che rispetto al soggetto si configura come passato e futuro viene ritrascritto nel passato o nel futuro. La successione perde così tutta la sua immediatezza apparente: il prima e il dopo, e l’istante che li suddivide sono non empirici.

6. Previsione e precognizione

Secondo una testimonianza di Cicerone, «Anassimandro il fisico avvertì i Lacedemoni di abbandonare la città e le case, e di passare la notte — armati — fuori nei campi, perché era imminente un terremoto; fu proprio in quell’occasione che tutta la città crollò, e dal monte Taigeto si staccò la vetta, come poppa di una nave».24 Il potere del filosofo in genere di prevedere il futuro (uno degli episodi più noti è la decisione anticipata di Talete di affittare i frantoi della regione, per poi subaffittarli, realizzando così un guadagno elevatissimo) doveva apparire divino ai contemporanei. Si può tuttavia dubitare del fatto che il futuro possa essere conosciuto come futuro. Per diventare conoscibile, il futuro deve presentarsi a qualcuno, sia nella forma del consueto trascorrere del tempo, che svela gli eventi del futuro latente portandoli sotto gli occhi del presente, sia nella precognizione che ne anticipa la conoscenza. Se il futuro — in quanto futuro — sfugge a qualsiasi identificazione, ma può essere conosciuto nella forma del presente, in che cosa consisterà la differenza tra presente e futuro? Se diventando presente il futuro rimane se stesso, rimane identico a se stesso — tanto che è possibile vedere in anticipo che accadrà — perché non conserva allora lo stesso nome? Anche se il futuro divenisse presente — come McTaggart suppone nella sua argomentazione — sarebbe inesatto affermare a priori che il presente attuale è lo stesso futuro nella forma del presente, quasi che gli eventi fossero in un deposito o in un limbo, in attesa che venga il loro turno per entrare nel presente, come se in tal modo, passando dal futuro al presente, fosse alzato un sipario che rendeva invisibile una realtà già presente. Ma, di nuovo, se la differenza tra futuro e presente è solo accidentale e non di sostanza, perché non si dovrebbe usare un solo termine? Se la differenza tra futuro e passato, e perciò anche quella tra futuro e presente, è originaria e irriducibile, allora si deve ammettere che c’è una differenza tra presente e futuro, ma che tuttavia non dipende dalle caratteristiche oggettive degli eventi che si manifestano nel presente empirico o in quello della precognizione.

La conoscenza del futuro è possibile solo come conoscenza di un presente, ma contemporaneamente il futuro appare irriducibile al presente. Qualsiasi conoscenza diretta presuppone la presenza dell’oggetto. Se la pre-visione è intesa, letteralmente, come un vedere prima ciò che accadrà, allora si deve ammettere che gli eventi previsti prima che accadano sono in qualche modo già accaduti. Qui evidentemente non si tratta di un futuro contingente, aperto e imprevedibile, ma di un futuro previsto come un presente in base a qualche potere che ne afferra la realtà già compiuta. Il futuro non sarebbe allora la sfera dell’incompiuto diveniente, bensì di un reale definito in tutti i dettagli, e tuttavia ancora nascosto alla vista dei più, come una nave in attesa di comparire da dietro un promontorio ai bagnanti distesi sulla scogliera. Se la differenza tra futuro e presente fosse negli eventi stessi, allora neppure un dio potrebbe conoscere il futuro, perché questo sarebbe l’assoluto indeterminato, la vuota possibilità, il mero nulla dal quale è impossibile ricavare qualsivoglia contenuto conoscitivo. E, se il futuro fosse nulla, cadrebbe non solo la ragione di una differenza positiva, ma anche quella di un nome che ne sottintenda una qualche realtà effettiva. L’uso linguistico appare incongruo sia nell’ipotesi dell’esistenza di una sfera compiuta e determinata degli eventi futuri, sia nell’ipotesi opposta, di una indeterminatezza assoluta. La previsione sulla base del congiungimento costante di impressioni passate, come direbbe Hume, e quella consapevolmente fondata su leggi della fisica sperimentale ammettono una forma di previsione approssimata, in cui la realtà del tempo futuro e la sua differenza rispetto al presente sono stati tolti di mezzo. La differenza tra presente e futuro sarebbe allora non in rebus ipsis, ma solo pros emàs, per noi? Se il futuro è, di fatto, un presente, il tempo non ha realtà perché la differenza tra futuro e presente diviene puramente nominale. Negato nella sua realtà, il tempo degli accadimenti si trasforma in un assoluto di cui il soggetto rimane spettatore passivo, come di una potenza indipendente e incoercibile. Solo la differenza qualitativa tra presente e futuro trasforma il soggetto in potenza di determinazione e di emancipazione dalla sfera di un’oggettività indipendente. In generale, una filosofia che riconosca realtà al tempo e mantenga la differenza qualitativa tra passato e futuro attribuirà al soggetto un potere di autodeterminarsi in opposizione all’oggetto, che invece è contestato dalle filosofie che negano la realtà del tempo. Valgano per tutti gli esempi, rispettivamente, di Kierkegaard e di Spinoza.

7. L’eterno come negazione del tempo

Le filosofie che, richiamandosi a una realtà immutabile e atemporale, eterna e compiuta in se stessa, negano che il tempo esista — per risolvere definitivamente il problema della sua natura sfuggente e contraddittoria — non riescono tuttavia a negare l’apparenza del tempo. Si può certamente argomentare: il tempo è contraddizione, la contraddizione è impossibile, dunque il tempo è impossibile. Ma quando sosteniamo che il tempo è contraddizione, intendiamo che esso appare contraddittorio al pensiero, non che la sua apparenza è contraddittoria. Si attribuisce al tempo un’essenza contraddittoria e perciò inesistente. Ora, l’essenza del tempo consiste nell’apparire; e questo apparire si manifesta insieme essenziale al tempo e contraddittorio. Se l’apparire del tempo è la sua essenza contraddittoria e impossibile, rimane pur sempre incontrovertibile il fatto che il tempo appare. Distinguendo tra un’essenza dell’apparire temporale e l’apparire di questa essenza, sosteniamo che l’essenza di questo apparire è dichiarata impossibile dal pensiero il quale, pur negandola, non può nulla nei confronti dell’apparire di fatto della medesima essenza. Il pensiero può negare la realtà del tempo, ma non la realtà dell’apparire incontrovertibile.

Quando abbiamo negato l’essenza del tempo — sostenendo che il tempo è in sé una contraddizione e perciò non può essere — rimane al suo posto l’eterno. Anche se inteso come una durata senza fine, l’eterno conserva questo senso fondamentale di riferimento a una realtà altra rispetto al tempo e che pure il tempo nasconde. Il pensiero ha come oggetto l’eterno nel momento in cui rimuove il tempo per toglierne la contraddizione. L’eterno conserva un rapporto paradossale con l’apparire del tempo. L’eterno è, infatti, insieme negazione del tempo (ciò che dunque esclude l’essenza e l’esistenza del tempo) e ciò che l’apparenza del tempo fa apparire (se l’unica realtà è atemporale, l’eterno appare in questa apparenza incontrovertibile che è il tempo). Infatti, se l’apparire del tempo è insostenibile, non in quanto apparire, ma in quanto apparire del tempo, si dovrà ammettere che, essendo innegabile l’apparire, esso non sia che apparire dell’eterno, nonostante il fatto che l’eterno si possa pensare solo come negazione del tempo e dell’apparire. L’eterno che è pensato come negazione del tempo e dell’apparire è pensato come negazione di ogni forma di successione, ma al tempo stesso è pensato come ciò che appare nell’apparire: se l’apparire è reale e il tempo non appare nella sua essenza, ciò che appare nell’apparire può essere solo l’eterno, per quanto questo sia la negazione di ogni tempo e di ogni apparire.

La contraddizione dell’eterno, per cui esso è negazione di ogni apparire (ogni apparire è tale in rapporto ad un soggetto ed è perciò nel tempo, ma l’eterno per definizione è fuori del tempo), ma anche ciò che si manifesta in ogni apparire (se l’apparire è reale e il tempo non appare, l’apparire è apparire dell’eterno e non del tempo), non è una contraddizione che conduce alla negazione dell’eterno. Infatti, anche quando l’eterno appare nell’apparire (appare come negazione di ciò che non può apparire, come negazione del tempo che appare nell’apparire), esso continua a sussistere in se stesso; proprio perché l’eterno è negazione di ogni soggettività, esso non ha bisogno dell’apparire per esistere, anche se è pensato inevitabilmente come ciò che si mostra nell’apparire. L’eterno può così mostrarsi nell’apparire come negazione del tempo apparente, e tuttavia sussistere in se stesso come negazione di ogni apparire del tempo. Infatti, l’eterno è negazione dell’apparire del tempo; esso appare al posto del tempo come negazione del tempo; e la negazione del tempo deve conservare qualcosa in comune con il tempo. L’apparire è l’elemento in comune tra tempo e negazione del tempo, tra tempo ed eterno, per cui l’eterno certamente appare, anche se non è nel tempo e non è nell’apparire. Il lato dell’eterno per cui esso è in se stesso, al di fuori del tempo e di ogni rapporto con la soggettività rimane necessariamente in ombra, in virtù del fatto che l’eterno appare attraverso la negazione del tempo. L’eterno appare al pensiero come negazione del tempo e dell’apparire del tempo, ma, evidentemente, se appare, non può proporsi come negazione di ogni apparire. Se l’eterno appare è solo perché non è nulla ciò che appare nell’apparire dell’eterno; nulla, perché l’eterno appare come negazione del tempo e nient’altro. L’apparire incontrovertibile dell’eterno è allora un apparire vuoto; l’eterno non potrebbe apparire come realtà in se stessa, perché è negazione di ogni apparire e di ogni soggettività. . L’eterno può apparire come eterno solo in rapporto all’apparire; e in rapporto all’apparire l’eterno può apparire solo come negazione del tempo. Se l’apparire rimane incontrovertibile e innegabile, allora il tempo appare come possibilità dell’apparire del tempo e dell’apparire in generale, mentre la negazione del tempo, l’eterno, appare come impossibilità dell’apparire dell’apparire del tempo e dell’apparire in generale. La contraddizione riguarda infatti non l’apparire della contraddizione in cui si risolve l’apparire del tempo e l’apparire in generale, ma proprio l’apparire del tempo come realtà incontrovertibile. Abbiamo infatti stabilito che non l’apparire è contraddittorio, ma l’apparire del tempo. Se l’eterno non è contraddittorio, neppure lo sarà l’apparire dell’eterno e neppure l’apparire di questo apparire dell’eterno. Infatti l’eterno non appare in se stesso (l’eterno in se stesso è senza qualità e senza nome), ma come negazione del tempo, come non della successione e del movimento. L’eterno come negazione del tempo è ciò che appare dell’eterno (non possiamo pensare nulla dell’eterno che non comporti una sua temporalizzazione), ma è anche tutto ciò che l’eterno è in se stesso, perché l’apparire dell’eterno non è l’apparire di qualcosa di apparente (se così fosse, la verità di questo apparire dell’apparente consisterebbe nella negazione dello stesso apparente che appare). Se l’apparire dell’eterno è l’apparire di qualcosa che è, l’apparire dell’eterno è simul apparire della negazione del tempo e apparire dell’eterno in se stesso.

Se dal tempo non possiamo uscire, perché è una condizione del pensiero e dell’esistenza, ogni rappresentazione dell’eterno sarà possibile solo mediante il ricorso a categorie temporali. Scrive Borges: «Nessuna delle varie eternità ideate dagli uomini — quella del nominalismo, quella di Ireneo, quella di Platone — è una meccanica aggregazione del passato, del presente e dell’avvenire. È una cosa più semplice e più magica: è la simultaneità di questi tre tempi».25 Il tempo sta all’eternità come la successione alla simultaneità: «noi percepiamo i fatti reali e immaginiamo i possibili (e i futuri); in Dio non esiste questa distinzione, che appartiene alla disconoscenza e al tempo. La sua eternità registra simultaneità (uno intelligendi actu) non solo tutti gli istanti di questo mondo affollato, ma anche quelli che vi troverebbero posto se il più evanescente di essi cambiasse — e perfino quelli impossibili. La sua eternità combinatoria ed esatta è molto più copiosa dell’universo».26

Si osserverà che eternità e tempo risultano logicamente incompatibili. Il tempo è infatti solo successione; e senza questa successione gli eventi non potrebbero disporsi nella simultaneità. Se invece la simultaneità precede il tempo, questo è ridotto a parvenza, a nulla. Sembra allora che il tentativo di aggirare quella contraddizione insuperabile che è il tempo elaborando un’eternità di simultanei non risolva la contraddizione, ma la sposti: la metafisica dell’eternità nega la realtà del tempo e trasforma la successione in apparenza vuota, mentre attribuisce realtà alla forma della simultaneità, che è pensabile solo come successione contratta.

Per quale ragione Dio dovrebbe preferire la simultaneità alla successione degli eventi? Forse perché così potrebbe stare certo che nulla si dilegui nel passato e nell’oblio, come nella successione? D’altra parte, se si ammette che la successione non è nulla di effettivo, si deve anche riconoscere che essa deve lasciare inalterato il molteplice. E se non è nulla, non dovrebbe neppure aver bisogno di essere risolta nella simultaneità dell’eterno. È infatti singolare che successione e simultaneità siano contrapposti e incompatibili, ma la loro differenza rispetto agli eventi che mettono uno dopo l’altro o fanno apparire come simultanei si risolve in nulla. La simultaneità è poi una nozione costruita e derivata temporalmente, perché la coesistenza di eventi che sarebbero presenti, passati o futuri è in verità un presente. Questo presente eterno è messo in relazione di simultaneità con tutti gli eventi del tempo. Ma è sempre nel tempo che rimane questo eterno: esso consiste nella presenza simultanea di un molteplice che, nel tempo, sarebbe disposto in successione. Lo stesso molteplice di cui facciamo esperienza nel tempo è pensato nell’eternità: l’unica differenza tra l’eternità e il tempo consisterebbe allora nella simultaneità. Ma dall’aver tutto insieme presente, simul, non si trae un vantaggio esplicativo, perché nella coesistenza simultanea causa ed effetto non avrebbero più alcun ruolo — gli eventi sarebbero reciprocamente irrelati — siccome qualsiasi relazione presuppone in qualche modo una forma di gerarchia, e ogni gerarchia ha in ultima istanza un fondamento temporale. La presenza simultanea presuppone piuttosto un soggetto al quale non sfugge nulla e che può tutto. E per il quale il molteplice è uguale nei suoi componenti, indifferenziato, senza gradi qualitativi. Questo insieme di enti omogenei è tuttavia qualcosa di molto simile al nulla, dove niente si distingue. La simultaneità degli enti esprime la potenza assoluta di Dio, rispetto al quale ogni ente è niente. In questa prospettiva, Dio farebbe esistere gli enti solo al prezzo di annientarli nell’indifferenza dell’uguaglianza reciproca. Gli enti sono l’alterità di Dio: perciò essi non sono nulla, rispetto a Dio che è tutto. La simultaneità degli enti è l’abito che essi assumono per entrare al servizio di Dio, di cui sono appunto l’altro e il nulla.

Se nella simultaneità o coesistenza di un molteplice gli elementi sono irrelati e, non potendo costituire una gerarchia, non possono disporsi secondo alcun ordine, la simultaneità è allora l’assenza completa di ordine. Tale disordine, non senso o caos, appartiene allo spazio della coesistenza quando il tempo della successione è tolto. Il disorientamento è tale non senso dello spazio. Il non senso del tempo è invece l’eterno ritorno, al quale manca un orientamento nel tempo vuoto. Da una parte il «non andare da nessuna parte» è il non senso per un soggetto che non ha a disposizione abbastanza spazio e abbastanza tempo per fare ciò che sente di dover fare. Dall’altra, il non senso è dato dalla costrizione a ripetere ciò che ha un significato solo a condizione di accadere una sola volta. Se con l’eterno ritorno si negano unicità e irripetibilità degli eventi, anche il soggetto diventa una combinazione di elementi comuni, che formano una configurazione destinata a ripresentarsi. Ma, insieme, l’eterno ritorno deve riconfermare questo soggetto, perché qualunque processo presuppone un osservatore ideale che non si ripete; infatti, se questo soggetto ideale si ripetesse, nessuno potrebbe testimoniare se e come si ripete ciò che ritorna in eterno, perché l’eterno ritorno presuppone un passato in cui ciò che accade ora sia già accaduto. Se l’esistenza di questo soggetto atemporale si rivelasse impossibile, dovremmo allora riservare all’eterno ritorno il valore di un’intuizione che esprime una possibilità dell’io, il quale in un certo istante coglie un rapporto di identità tra il passato che ricorda e il presente che vive. Nulla veramente si trova così estraniato da se stesso come questo io, costretto a uscire da quell’unico presente in cui si trova per mettere l’uno accanto all’altro diversi momenti del tempo. Ma la simultaneità è disordine, caos, indistinzione. Un io che potesse far convivere perfettamente presente e passato — un io che ricordasse con la stessa vivezza d’impressione con cui percepisce attraverso i sensi la realtà circostante — li confonderebbe; perciò una memoria perfetta e assoluta equivarrebbe a nessuna memoria. Non per il tempo allora, dal quale non è possibile uscire, si dovrà provare orrore, ma per la simultaneità la quale, negando la successione, toglie radicalmente ogni possibilità di un ordine qualsiasi.

8. Le serie temporali

McTaggart descrive la serie A del tempo nel modo seguente: l’evento M è presente, sarà passato ed è stato futuro; oppure è passato ed è stato futuro e presente; oppure ancora è futuro e sarà presente e passato. Le determinazioni della serie A sono incompatibili: McTaggart sottolinea il fatto che l’evento M non potrebbe essere insieme futuro e passato, o presente e futuro. Passato, presente e futuro sono qualità che un evento può avere solo di volta in volta, ma non insieme. Si potrebbe suggerire — osserva McTaggart — che le caratteristiche sono incompatibili solo quando sono simultanee e che perciò non esiste alcuna contraddizione nel fatto — come accade apparentemente — che ciascun termine o evento le possieda sì tutte, ma in successione, non simultaneamente. McTaggart risponde che questa spiegazione implica un evidente circolo vizioso, perché vi si assume l’esistenza del tempo per rendere conto del modo in cui i momenti sono passati, presenti e futuri. Dopo aver ricondotto il tempo alla serie A, si cerca di spiegare la serie A sulla base del tempo.

Se consideriamo con attenzione la serie A, vediamo che presenta altri aspetti significativi per una teoria dei processi temporali. È vero che un evento M non può essere passato e futuro insieme, ma è anche vero che un evento non può essere solo futuro quando è futuro; solo presente quando è presente; o solo passato quando è passato. Infatti nessun evento — per definizione — sarebbe futuro se non fosse in procinto di divenire presente, e poi passato. Nessun evento sarebbe mai futuro, se l’essere futuro fosse una determinazione che gli eventi possono mantenere stabilmente, così come nessun evento sarebbe passato se potesse essere passato senza essere stato futuro e presente. È necessario che gli eventi non possiedano insieme le tre qualità, perché così non vi sarebbe alcun tempo. Ma non è neppure corretto affermare che essi possiedono una determinazione per volta, perché se così fosse non esisterebbero né le tre determinazioni prese singolarmente né la successione temporale. Infatti, come abbiamo osservato, se nessun evento può essere solo ed esclusivamente futuro o solo ed esclusivamente passato, deve in qualche modo possedere insieme le due determinazioni temporali: ad esempio se è passato, deve essere stato presente e futuro, perché l’essere passato non potrebbe mai esistere senza un futuro che diventi passato. Nessun evento è insieme futuro, presente e passato; ma, contemporaneamente, nessun evento è di volta in volta soltanto e assolutamente futuro, presente e passato. Perciò l’ipotesi per la quale ciascun termine potrebbe possedere in successione le tre determinazioni, in modo da risolvere il problema della contraddizione che sorge quando a un evento sono attribuite caratteristiche incompatibili, non si espone solo all’obiezione di McTaggart per cui la spiegazione così proposta darebbe luogo a un circolo vizioso. Infatti se nessun evento è mai solo passato o solo presente o solo futuro, la spiegazione proposta (e che McTaggart definisce circolare) non ha senso in partenza. Se le qualità temporali che un evento assume di volta in volta fossero irrelate (come se l’evento cambiasse d’abito attingendo a un guardaroba illimitato), allora si dovrebbe immaginare che un certo evento sia in se stesso fuori del tempo, e si limiti ad assumerne le qualità senza esserne toccato. Ma nessun evento potrebbe diventare passato senza essere stato prima futuro e presente: né la coesistenza sic et simpliciter delle tre qualità in un solo evento — il cui risultato sarebbe la simultaneità, non la successione — né la loro separazione come se fossero determinazioni reciprocamente indipendenti si possono predicare dei termini della serie A. Il passato coesiste sì col presente, ma nella memoria, non in se stesso. Le tre caratteristiche della serie A appaiono legate da un rapporto d’implicazione che l’ego istituisce mediante la memoria e l’inferenza. Un evento potrà dirsi passato solo per un ego che lo ricorda; e l’ego può ricordarlo come passato solo percependo l’essere stato presente e futuro di quell’evento; di fronte a qualsiasi altro evento conosciuto come passato attraverso testimonianze di altri, ma non direttamente, l’ego non può non pensare all’essere passato di quell’evento senza collegarne il concetto con il suo essere stato presente e futuro.

La posizione temporale di ego è simile a quella degli eventi che gli si presentano nell’ordine della serie A. Infatti ego non sarebbe tale se non in virtù del fatto che il suo presente implica la memoria di un passato e l’attesa di un futuro; e che il suo futuro diviene incessantemente il suo presente e il suo passato. Ego si trova sempre in un presente che è tale solo in virtù del passato e del futuro che tiene distinti; e, come gli eventi che gli si presentano in successione, ego non è mai solo una delle determinazioni temporali. Come per il tempo, anche per l’ego vi è un presente che dura sempre e un presente che diviene passato senza interruzione. Infatti l’ego è sempre presente a se stesso e la serie A si svolge in virtù di un presente immobile. Quando un evento è divenuto passato, non è più presente o futuro, anche se porta iscritta in se stesso la proprietà di essere stato presente e futuro. Nel passato, essendo passato, un evento non può conservare la stessa futurità che possedeva quando era veramente futuro, quando la sua futurità non era implicita, ma esplicita, non passata, ma presente. Se non fosse stato prima futuro e poi presente, ora quell’evento non sarebbe passato. Perciò non potrei togliere quella contraddizione semplicemente immaginando che un evento possa dirsi passato prescindendo da ogni suo essere stato futuro e presente. Lo stesso, reciprocamente, si dirà del presente e del futuro. Quando considero la contraddizione per cui un evento possiede contemporaneamente le tre determinazioni, ad esempio un evento passato che sia stato futuro e presente, pongo le tre determinazioni in un presente: le tre determinazioni coesistono e si contraddicono rispetto a un adesso che ne stabilisce la simultaneità, in modo che l’intelletto possa poi riconoscerla come contraddittoria e impossibile. Ma questo adesso è una determinazione del tempo. Ne deriva che anche l’individuazione di questa contraddizione rilevata da McTaggart — la contraddizione della serie A — è possibile solo se è posto il presente e quindi, dato che il presente implica e presuppone il futuro e il passato, è posta l’intera serie temporale che si deve spiegare. Per affermare, con McTaggart, la contraddizione della serie A, devo disporre di un presente, rispetto al quale le determinazioni temporali coesistenti risulterebbero incompatibili. Ma allora è la stessa contraddizione che presuppone ciò che si doveva spiegare: il circolo vizioso è già in questo stadio, e non solo, come vuole invece McTaggart, nella pretesa di risolvere quella contraddizione mostrando che le tre caratteristiche appartengono allo stesso evento in momenti diversi.

9. Ripresa e conclusione

Sappiamo che gli eventi futuri saranno prima presenti, poi passati: questa è la direzione del loro transire se immaginiamo che il tempo sia la corrente di un fiume che ci viene incontro e ci supera. Questi eventi saranno passati, ma non nel loro attuale futuro; quando il futuro sarà passato questi eventi saranno passati. Il loro essere passato sarà successivo al loro essere futuro, non simultaneo, anche se noi siamo costretti a pensare il passato di questi eventi nel futuro, una sorta di futuro del futuro, perché di fatto essi saranno passati solo dopo aver «esaurito» il futuro. Se passato e futuro fossero solo la conseguenza di un particolare rapporto tra soggetto e oggetto (e non riguardassero assolutamente alcuna disposizione o qualità oggettiva), come potremmo pensare agli eventi come futuri e insieme intenderne il futuro successivo come passato (sappiamo che essi saranno passati dopo essere stati futuri, ma questo passato è a sua volta il futuro di quel futuro in cui adesso sono precompresi)? Non sarebbe questa una doppia e contraddittoria rappresentazione di questi eventi inseriti in un’evoluzione necessaria? Potrei affermare che, prima ancora che il mondo fosse, era vero che quegli eventi avrebbero seguito questo itinerario e sarebbero stati compresi nel modo appena considerato; e che in futuro sarà sempre così. Se il tempo fosse infinito (ne abbiamo un’immagine attraverso un’analogia di accrescimento) vi sarebbero sempre eventi futuri che transitano nel passato, anche ammesso che non vi fosse alcuna coscienza che assiste alla processione. Secondo Bertrand Russell il tempo in se stesso è dato dalla serie B, che comprende le relazioni di prima e dopo, le quali varrebbero anche se non vi fosse alcun soggetto.27 Ma anche le determinazioni della serie B, per esistere, devono essere percepite: quale significato avrebbe l’affermazione che «X precede Y» se si prescindesse da un soggetto che non solo proferisce l’asserto, ma rappresenta, di fatto, il terzo termine, in rapporto al quale X e Y sono, o sono stati, in quella relazione? La relazione di anteriorità e posteriorità, che Russell circoscrive a oggetti in modo separato rispetto a qualsiasi soggetto, in realtà presuppone un soggetto come limite tra il prima e il dopo. Nessuna relazione è mai solo tra oggetti, come pretende Russell. Ne sono un esempio le relazioni spaziali, davanti|dietro, sopra|sotto, destra|sinistra, che sono tali rispetto a un ego.

Può rappresentare un limite o una caratteristica del nostro pensiero il fatto che non possiamo pensare nulla di oggettivo in se stesso — cioè indipendente dal fatto di essere percepito — se non in una forma che sembra presupporre esattamente ciò che viene escluso: la percezione necessaria di questa realtà da parte di una coscienza empirica o ideale. L’alternativa sarebbe allora la più assoluta inconcepibilità del pensato nel suo essere pensato. Quando penso la successione di eventi come una realtà che sussiste in modo indipendente da qualsiasi soggetto o coscienza, sto semplicemente attribuendo all’oggetto della mia percezione le qualità che pretendo essa debba possedere quando non lo percepisco affatto. Così il tempo non si può pensare in quanto scisso da una coscienza, senza contraddizione. Berkeley ha dimostrato con argomenti pressoché definitivi che è ingenuamente contraddittorio pensare qualcosa la cui esistenza si pretende indipendente dal fatto di essere percepita, cioè pensata. Se questa regola di Berkeley deve valere, l’argomentazione di Russell, che afferma l’esistenza di una serie B del tempo indipendente dalla serie A, viene confutata. In più, se l’argomento di Russell fosse valido, lo sarebbe anche per la serie A. Infatti per lungo tempo sulla terra nessuna coscienza è stata presente, ma è indubbio che, se vi è stato del tempo, deve esserci stata anche una successione dal futuro al passato. E questo dimostrerebbe che, se la serie A è indispensabile al tempo, alla serie A non è necessaria una coscienza empirica, ma è sufficiente una coscienza qualsiasi. Precedente e successivo nella serie B sono correlativi come sopra|sotto; e poiché non sono simultanei, ma riguardano eventi accaduti in momenti diversi, la loro correlazione ha bisogno di un luogo per determinarsi. Quel luogo è una coscienza.

Nella serie A gli eventi, dopo essere stati futuri, diventano passati; di essi diciamo che sono stati futuri, concependo la futurità degli eventi passati come il passato del loro passato. Se questo passato è stato tutto futuro un tempo, e il passato del passato è in realtà un futuro, e il passato è il futuro del futuro, quale differenza distinguerà il passato dal futuro? Nella serie A un evento futuro diventa presente e passato solo rispetto a una preconoscenza onnicomprensiva della successione temporale; l’evento muta la propria condizione o posizione nel tempo, non la propria esistenza che, in astratto, deve rimanere la stessa nel futuro, nel presente e nel passato. Ora, gli eventi non potrebbero essere futuri se non esistessero come futuri; ma per esistere prima come futuri, poi come presenti e passati, dovrebbero poter esistere di per sé ed essere identificati indipendentemente dalla loro determinazione temporale. Ma, contemporaneamente, essere un evento ed essere temporale non possono non implicarsi reciprocamente. Pensati indipendentemente dalle determinazioni temporali che li identificano, gli eventi potrebbero allora non dare nulla da pensare, se essere un evento significa soprattutto un evenire nel tempo. E se gli eventi fossero totalmente indipendenti dalla loro forma temporale, il tempo sarebbe assolutamente irrilevante, come uno spazio può esserlo rispetto agli oggetti che contiene. E di conseguenza non metterebbe conto discutere della realtà del tempo, che sarebbe dunque messo immediatamente fuori gioco.

Se invece gli eventi non fossero nulla in se stessi prescindendo dal tempo in cui accadono, non sarebbero più gli stessi eventi quelli che vengono riferiti prima al futuro, poi al presente e al passato; l’assassinio di Giulio Cesare non sarà lo stesso evento prima che accadesse, mentre era in corso e dopo che è accaduto. Infatti, se si accetta il principio per il quale la determinazione temporale è essenziale nella costituzione di un evento, come si può sostenere che lo stesso evento prima è futuro e poi è passato? Si dovrà invece riconoscere che l’evento futuro e quello passato, che apparentemente è lo stesso, sono in realtà due diversi eventi. Ma se sono diversi, sarebbe difficile persistere nel ritenere che questi eventi sono ancora in un tempo. Per affermare che qualcosa è nel tempo, devo infatti poter identificare qualcosa di identico a se stesso che assume via via diverse identità temporali. Questo qualcosa di uguale a se stesso rende possibile la comprensione dei rapporti temporali: senza questa identità sottostante che attraversa tutto il tempo che posso pensare, non avrei nessun tempo, ma l’impensabile molteplice atemporale.

Le due ipotesi opposte che abbiamo formulato sono dunque insufficienti e inadeguate a rendere conto dell’esperienza temporale quale si configura nella serie A di McTaggart. Infatti, come abbiamo visto, se il tempo non è essenziale e gli eventi sono assimilati a oggetti nello spazio, il tempo non trova più alcuna giustificazione neppure sul piano linguistico; e diventa incomprensibile e indicibile la stessa differenza tra futuro e passato; ma, come si sa, nessuna proposizione può fare a meno del proprio tempo. E se non può farne a meno significa che il tempo non è inessenziale. Tra l’esperienza temporale, la sua rappresentazione o rievocazione e la sua espressione linguistica dovrà esserci una corrispondenza. In generale, non possiamo fare a meno del tempo in cui siamo — in cui si trova la nostra coscienza di noi stessi — né del tempo nel quale sono raffigurati gli eventi evocati e rappresentati nel nostro pensiero. Se invece il tempo è così essenziale nella costituzione degli eventi da dissolvere la loro stessa identità — la loro sostanzialità — che è necessaria alla stessa esperienza e rappresentazione temporale, allora il rapporto tra gli eventi che accadono nel tempo e la loro temporalità deve essere ripensato in modo nuovo. L’aspetto più problematico — quello essenziale — è rappresentato dalla coesistenza, nell’uso di predicati temporali, di due aspetti inscindibili e incompatibili: quello per il quale l’evento è una sostanza immutabile e atemporale, e quello per il quale ogni evento non è altro che il suo tempo di accadimento. Perché il tempo sussista si deve disporre della sostanza immutabile, ma anche del divenire incessante; della permanenza, ma anche del mutamento.

Se non è in questione la temporalità dello stesso evento, ma il rapporto temporale tra eventi, come la successione e la simultaneità, allora si comprende che l’elemento di sostanziale atemporalità interviene necessariamente in qualità di soggetto che percepisce il divenire del tempo. Infatti le relazioni di simultaneità e successione presuppongono un soggetto immutabile rispetto al quale esse sono poste e valgono. Ciascun evento attraversa insieme tre piani temporali: non appartiene solo alle serie A e B, ma il complesso di cui fa parte, costituito dalle relazioni della serie B, si muove a sua volta nel modo della serie A. Le due serie A e B sarebbero in sostanza aspetti ugualmente essenziali e complementari del processo temporale, e questo escluderebbe che, come vuole McTaggart, la serie B sia subordinata alla serie A. Sarebbe allora impossibile dimostrare l’irrealtà del tempo accertando il carattere contraddittorio della serie A, perché un certo evento sarebbe contemporaneamente futuro o passato, e anteriore o posteriore o simultaneo rispetto a un altro evento. L’argomentazione di McTaggart separa le due serie, facendo precedere temporalmente e logicamente la serie A: se la serie A sussiste, allora esiste la serie B. Ora, la serie A è contraddittoria — nell’argomentazione di McTaggart — dunque anche la serie B, che dipende dalla serie A, sarà insostenibile. Ma se le due serie A e B si implicano reciprocamente, allora l’eventuale dimostrazione dell’invalidità dell’una deve implicare l’invalidità della seconda. La discussione dei limiti dell’argomentazione di McTaggart sulle serie temporali non è un’occasione per confutare la sua teoria, ma per proseguire l’indagine sulle implicazioni logico-linguistiche e teoretiche del tempo nei suoi molteplici modi e rappresentazioni.


  1. Platone, Filebo, 20c, introduzione, traduzione e note di M. Migliori, Milano 1995, p. 69. ↩︎

  2. Platone, Filebo, 21c, trad. it. p. 73. ↩︎

  3. Platone, Filebo, 23c, trad. it. p. 79. ↩︎

  4. Platone, Filebo, 26d, trad. it. pp. 89-91. ↩︎

  5. Platone, Filebo, 25a, trad. it. p. 85. ↩︎

  6. Platone, Filebo, 30c, trad. it. p. 103. ↩︎

  7. Platone, Filebo, 30e, trad. it. p. 105. ↩︎

  8. J. Guitton, Justification du temps, Paris PUF 1942, p. 8. ↩︎

  9. J.E. McTaggart, «The Unreality of Time», Mind. A Quarterly Review of Psychology and Philosophy, October 1908, n. 68, p. 464. Per un’analisi sistematica della concezione del tempo in McTaggart, si può vedere: C. Tugnoli, La dialettica dell’esistenza. L’hegelismo eretico di John McTaggart, FrancoAngeli, Milano 2000, in particolare pp. 287-346. ↩︎

  10. Platone, Parmenide, 141a-c, introduzione, traduzione e note di M. Migliori, Milano 1994, p. 117. ↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Platone, Parmenide, 142a, p. 121. ↩︎

  14. Platone, Parmenide, 152c, p. 169. ↩︎

  15. Platone, Parmenide, 152e, p. 171. ↩︎

  16. Platone, Parmenide, 155a-d, p. 181. ↩︎

  17. Platone, Parmenide, 156c-e, p. 185. ↩︎

  18. Platone, Parmenide, 156c, pp. 184-5. ↩︎

  19. Il carattere atemporale dell’istante indivisibile, dell’ora sempre uguale e sempre diverso, che permette il passaggio degli eventi dal futuro al passato, verrà riaffermato da Aristotele nella sua analisi del tempo: cfr. C. Tugnoli, Tempo e istante in Aristotele, Scienza e storia, n. 13, Edizioni Centro Internazionale di Storia dello Spazio e del Tempo, Brugine (Padova) 2000, pp. 43-56. ↩︎

  20. Si deve osservare che in un tempo ciclico ritornano gli stessi eventi e gli stessi individui, ma la rappresentazione di questo ciclo ha uno sviluppo lineare per il nostro pensiero, giacché possiamo chiederci se questa ripetizione di cicli sia finita o infinita, se abbia un inizio e una fine o se non sia invece illimitata nei due sensi. Ogni evoluzione lineare del tempo si propone come unica e paradigmatica e rimane il presupposto della successione ciclica. Infatti ogni successione ciclica si svolge in senso lineare. ↩︎

  21. Aristotele, De memoria et reminiscentia (Parva naturalia), 449b, trad. it. di R. Laurenti in Aristotele, Opere, vol. IV, Laterza, Bari 1973, p. 238. ↩︎

  22. Aristotele, De interpretatione, 16a, trad. it. a cura di M. Zanatta, BUR, Milano 1992, p. 81. ↩︎

  23. Aristotele, De interpretatione, 16b, trad. it. cit. ↩︎

  24. Cicerone, Sulla divinazione, I, 50, 112. ↩︎

  25. Jorge Luis Borges, Historia de la eternidad, trad. it., Storia dell’eternità, di G. Guadalupi, Adelphi, Milano 1995, p. 15. Borges cita Plotino: «“Gli oggetti dell’anima sono successivi, ora Socrate e poi un cavallo”, leggo nel quinto libro delle Enneadi, “sempre una cosa isolata che viene concepita, e migliaia di altre che si perdono; ma l’Intelligenza Divina abbraccia simultaneamente tutte le cose. Il passato sta nel suo presente, e così anche l’avvenire. Nulla trascorre in quel mondo, nel quale tutte le cose persistono, immote, nella felicità della loro condizione”» (ivi, p. 16). ↩︎

  26. ivi, pp. 29-30. ↩︎

  27. Sulla concezione russelliana del tempo cfr.: C. Tugnoli, «Bertrand Russell e l’analisi dell’esperienza temporale», Rivista di Filosofia, I-1998, pp. 53-85. ↩︎