La necessità ontologica della vergogna

1. La vergogna: la sconfitta dell’uniformità quotidiana

«La vergogna segna l’uomo il confine intimo del peccato. Lì dove egli arrossisce, inizia il suo essere più nobile» (C.F. Hebbel). Indubbiamente questa frase, che svela la profondità di un’emozione fino ad ora ignorata (perché il provarla testimonia la propria debolezza) e temuta (perché è giudicata a partire da una tradizione prevalentemente legata alla morale cristiana),1 affascina il lettore perché individua nella vergogna l’opportunità, se pur dolorosa, di mettere l’io di fronte a se stesso e di riscoprirsi nella propria intimità più vera. Le domande che pone non sono facili da risolvere poiché si rende evidente una delle caratteristiche più complesse della vergogna, ovvero la capacità di rendere concreta l’occasione di ritrovare l’autenticità di sé, mutando il peccato in un espediente dove il riconoscimento della propria colpa non si esaurisce nel pentimento ma trova la sua espiazione nella conquista di se stessi.2

Ciò che sorprende di più è che tutt’oggi quest’emozione è vista come una sorta di sconfitta, e non come l’opportunità di conoscere se stessi. In altre parole le persone comprendono questa emozione come la fine di un successo, e l’inizio di qualcosa di spiacevole; al contrario questa emozione si rivela non la fine di una speranza o la caduta delle proprie attese, o almeno non solo questo, ma l’inizio di una profonda conoscenza di sé a partire da questa stessa disillusione. Per comprendere come uno sbaglio può farsi occasione di conoscere più in profondità se stessi, immaginiamo un uomo molto importante, un dirigente che deve parlare davanti a centinaia di persone del suo nuovo progetto. Entra in sala, cercando di nascondere l’ansia di parlare a persone che sono pronte a giudicarlo, ed inizia ad esporre il suo programma di lavoro. Inizia a parlare ma improvvisamente senza accorgersene fa una papera proprio sul punto chiave della sua esposizione. Tutti l’osservano con sorriso di scherno ed egli si accorge di far sorridere la sala. Immediatamente su di lui cala la maschera della vergogna tinta di rosso porpora.3 La vergogna si fa così «impertinente» da renderlo incapace di qualsiasi movimento, anche quello più banale di chiedere scusa al suo pubblico. È pietrificato, immobile davanti agli atri ma anche di fronte a se stesso.4

Ora come può la vergogna essere qui vista come la possibilità di conoscere se stessi? Cerchiamo di capire. La vergogna non nasce dalla papera, che rimane causa oggettiva, ma la sua improvvisa manifestazione è data dalla delusione interna che il conferenziere prova dentro di sé. Quello che è successo non deve essere analizzato dal di fuori, ma a partire dall’interiorità dello stesso conferenziere. Quando la papera fa il suo ingresso l’uomo non si accorge dello sbaglio, la sua attenzione è focalizzata nel viso attento dello spettatore ed è qui che lui si accorge della sua brutta figura, attraverso lo sguardo divertito o severo dell’altro. In altre parole è il giudizio dell’altro, considerato importante ai fini della riuscita del progetto e quindi necessario, che mette il conferenziere di fronte alla papera. Sembra che la papera sia messa su di un piano di possibile rilevanza solo a partire dallo sguardo di un altro, anche se la stessa papera è opera del conferenziere, ma inevitabilmente inconsapevole. Appare chiaro che la vergogna è il risultato di uno sguardo esterno interiorizzato e posto come giudice. Può sembrare così ad una prima indagine, ma, proprio per la sua difficile descrizione e comprensione, la vergogna non è solo questa interiorizzazione dell’altro. Il primo «effetto» della vergogna è quello dell’immobilità, ci si trova soli con la propria coscienza che rimprovera di non essere stati all’altezza delle proprie e altrui aspettative, tanto da avere la sensazione di sentire, dentro di sé, una voce ostile che giudica severamente senza appello. Questo raccoglimento assume l’aspetto di un’aula di tribunale dove il giudice è la propria coscienza e l’imputato è l’io colpevole che umilmente ascolta il verdetto della corte; sullo sfondo di questa immagine si presenta un sé estraneo che con un dito accusatore costringe l’io a riconoscere la sua responsabilità. L’altro sfuma nello sfondo che da presenza fisica si fa presenza interiorizzata. Ora, posto questo difficile ed intricato sistema «giudiziario», abbiamo seppur sommariamente un’immagine di che cosa succede quando una persona prova l’emozione della vergogna. Strettamente legata al sociale, anche quando si presenta senza una causa oggettiva, la vergogna può essere compresa a partire dalla lettura del testo heideggeriano Essere e tempo. Nel paragrafo 27 della seconda parte, il filosofo tedesco scrive queste parole:

In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontana dalla «gran massa» come ci si tiene lontani, troviamo «scandaloso» ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un esserci determinato ma tutti (non però come somma) decreta il modo di essere della quotidianità […]

Quella tendenza del con-essere cui abbiamo assegnato il nome di contrapposizione commisurante, si fonda nel fatto che l’essere-assieme come tale si presenta cura della medietà. La medietà è un carattere esistenziale del Si.5

Quindi Heidegger ci mette in guardia dal pericolo d’uniformità che la moda del Si impone di essere, anche se una pur minima adesione è indispensabile all’inserimento nella società. Se non sei questo, se non pensi questo allora non puoi fare parte del gruppo. Ora questa paura è in tutti noi e soprattutto per chi in quel momento prova vergogna. Cosa succede a questo dominio del «si dice»? Heidegger riconosce nell’uomo l’esigenza di distinguersi, di primeggiare, di essere un modello da imitare. Tuttavia alle volte questa esigenza può portare ad un atteggiamento di intolleranza verso la diversità; in altre parole questo bisogno impellente e incessante può determinare l’annullamento di ogni originalità di se stessi, fino ad un adeguamento passivo a ciò che si dice, a ciò che si fa ecc. Ed è qui che la dittatura del Si diventa spietata, quando l’individuo annulla se stesso per diventare un manichino tirato con pochi fili tra loro uguali. Non è più permessa un’idea diversa, una propria critica. L’uomo giudica in conformità a schemi che gli sono imposti ma che lui stesso ha scelto senza conoscere e valutare. Vive nell’indifferenza del suo essere-assieme che comporta non solo un mero anonimo ma la mediocrità di volere riscattare se stessi. Per questo motivo l’uomo di oggi soffre della sua mancata affermazione: «è se stesso che va attentamente distinto dal se stesso autentico, cioè posseduto in modo appropriato. In quanto se stesso, il singolo Esserci è disperso nel Si e deve, prima di tutto, trovare se stesso».6

Quando la vergogna irrompe qualcosa s’infrange, l’immagine sociale è spazzata via dallo sguardo sprezzante dell’altro. Non si è più come prima dispersi nell’anonimo perché quella macchia di colore rosso impone la sua presenza. Ma il tragico è avere davanti ai propri occhi questa presenza di se stessi che irrompe nella dittatura dell’anonimato fino alla sua sconfitta. Se prima si era una persona senza un volto, ora quel volto è divenuto riconoscibile perché è visto. La caratteristica più drammatica della vergogna è che nel momento in cui ci si vuole nascondere, quindi ritornare nell’anonimato, è l’attimo stesso della riconoscibilità di se stessi da parte di sé che fa parte dell’altro. Si deve tenere presente che la vergogna può segnare un aspetto asociale della personalità quando questa è intimamente legata alla soggettività. Questo tipo di persone non riescono a creare una personalità oggettiva che permette una comunicazione con il mondo esterno; tuttavia è anche vero il contrario: una personalità oggettivizzata smarrita nell’anonimato è priva di una intimità che tende ad uniformare l’individuo alla società.7 Per questo motivo la vergogna è il nemico della quotidianità e quindi della dittatura del «si dice» heideggeriano. Il volto irrompe con forza nell’assurda normalità; l’io vergognoso si toglie dall’essere-insieme. Il bisogno di essere un insieme è molto forte nell’individuo, non solo per appartenere ad un gruppo ma soprattutto perché quell’appartenere ad un insieme non lo pone sotto un riflettore dove tutti lo possono notare. L’essere nascosti, ma nel momento stesso essere qualcuno perché si appartiene ad un gruppo, è un bisogno naturale dell’uomo che gli offre l’opportunità di non essere solo con se stesso. «Sono perché condivido le regole, la moda del gruppo.» Si fa ciò che il gruppo decide, si leggono libri che il gruppo approva, si è ciò che il gruppo vuole. Ma un individuo così non può apparire privo di qualsiasi coscienza di sé? Credo che condividere valori che poi vengono nel tempo dati per scontati sia la causa di alcuni gesti inconsapevoli. La vergogna rompe questa inconsapevolezza.

La frase citata all’inizio comincia ad essere chiara: «Lì dove egli arrossisce, inizia il suo essere più nobile». L’individuo arrossisce perché si trova davanti a se stesso e scopre la sua diversità dal gruppo, vede il suo ideale costruito ed inseguito ma disilluso, e il suo vero io autentico. E non credo che questa sia una scoperta piacevole. Nonostante che l’uomo scopra una parte di sé, tale scoperta è sempre una dolorosa conquista. Non si è ciò che si è sempre voluti essere, ma un altro che non è riuscito ad essere ciò che si è sempre desiderato; inoltre ci si stacca dal gruppo e si rimane incatenati a se stessi. La vergogna non permette tanto facilmente di essere superata perché una sua «esigenza» è quella di mettere l’individuo di fronte alla sua responsabilità.

Ma prima di andare avanti vorrei fare una chiarificazione. La vergogna viene qui presentata come un’entità che ha una sua intenzionalità, e si ha alle volte come la sensazione di avere a che fare con qualcosa di oggettivo. Credo che la vergogna sia, a differenza di altre emozioni ad essa affini, come la colpa o il pudore, un passaggio obbligato per una maggiore conoscenza di se stessi. Il fatto di provare vergogna è un sintomo di una consapevolezza che nasce dalla parte più autentica di se stessi. Si ha la capacità in quel momento di staccarsi da un ordine o da un ideale che fino ad allora si era condiviso; in altre parole, riprendendo il discorso heideggeriano, nel momento della vergogna si affronta una realtà che esula da quella reale ma che determina la stessa realtà oggettuale. Lo sbaglio che determina la vergogna viene accantonato e il soggetto si proietta nella sua realtà oggettiva, ovvero in quella realtà dove è avvenuto lo sbaglio. L’esame viene spostato dall’azione al soggetto dell’azione. Compiendo questo passaggio la dittatura del «si dice» non ha più potere, perché l’individuo non è più un anonimo che esegue, ma ora è un volto che valuta la sua azione in base a se stesso. Anche se ciò può sembrare paradossale, la vergogna è e deve essere la soglia dell’ambiguità di se stessi, quella soglia che impedisce all’individuo di conformarsi passivamente.

Abbiamo accennato prima alla responsabilità o meglio alla obbligatorietà del suo riconoscimento da parte dell’uomo che la vergogna impone con la sua presenza. Con l’aiuto di Levinas cerchiamo di capire come questa emozione incatena l’uomo. Nel suo saggio Dell’evasione, dove la consapevolezza di uno sbocco appare impossibile, Levinas ci offre una profonda definizione di vergogna:

La vergogna non dipende, come si è portati a credere, dalla limitatezza del nostro essere in quanto suscettibile di peccato, ma dallo stesso essere, dalla sua incapacità di rompere con se stesso. La vergogna si fonda sulla solidarietà del nostro essere, che ci obbliga a rivendicare la responsabilità di noi stessi.8

Tutta la drammaticità di questa emozione si trova nella imperatività che condanna l’uomo a se stesso e ad essere se stesso. Appare in questo caso quasi l’impossibilità di qualsiasi gesto. Incatenati a noi stessi ogni via di fuga è sbarrata, perché non si vuole fuggire dall’altro ma da se stessi. Una spiegazione del bisogno di evasione non si limita a valutarlo come esigenza di non farsi più vedere dall’altro perché questo ci sta osservando, ma che questo bisogno nasce dalla presenza di se stessi. Se questa fuga si limitasse ad un allontanamento dell’altro, la vergogna sarebbe superata anche quando l’individuo rimane solo con se stesso. Ma non è così, perché il dolore non si esaurisce con la non visone dell’altro, piuttosto si fa ancora più profondo. Questa presenza nella quotidiana esistenza è del tutto messa a tacere, ma rimane, tuttavia, necessaria perché si conquisti se stessi. Nel caso dell’essere-assieme heideggeriano questa presenza è impensabile poiché si ha un individuo perso nell’anonimo, privo di individualità. In questo caso l’uomo si ritrova davanti a se stesso, è dato a se stesso.

«Ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere incatenati a sé, l’impossibilità radicale di fuggire da se stessi.»9 Ci si trova come davanti ad uno specchio che riflette una immagine sbiadita, come una vecchia fotografia, si ha la consapevolezza dell’impossibilità di una evasione dalla categoria dell’essere. Levinas spogliando la vergogna del suo carattere morale, che fino ad ora è stato l’unico aspetto studiato di questa emozione e la ha emarginata ad una sfera puramente etica-morale, la pone come coscienza dell’uomo di fronte a se stesso e alla sua esistenza, al suo esserci. Questa emozione, con la sua forza violenta capace di incatenare l’uomo alla sua presenza, è una lacerazione nell’esistenza dimenticata. Ma per questo suo effetto di rivelazione, essa opera una scissione di coscienza dove l’io è contemporaneamente più personaggi di una stessa commedia.10 Levinas sposta l’accento dall’aspetto sociale all’aspetto intimo e personale, e aiuta a comprendere che la drammaticità di questa emozione non è da cogliere a partire dalla disillusione di una idealità di se stessi ma dalla consapevolezza della presenza di noi stessi.

Ma che cosa accade in chi cerca di obliare quella coscienza di sé uniformandosi passivamente alla quotidianità?

2. L’ambiguità del sé come integrità dell’io

Si vuole proporre una lettura diversa della vergogna, o in altre parole una chiave di interpretazione che esula dagli studi fino ad ora condotti che si limitano ad un aspetto puramente morale. Difesa dell’ambiguità, difesa di un uso improprio della razionalità è la proposta di una nuova prospettiva di studio che parte dall’analisi dell’universo concentrazionario del Reich nazista. Il perché di questo riferimento al Terzo Reich è da ricercare negli esempi che questo stato ci offre sotto forma di uomini passivamente conformi alla legge nazista. In questa disamina non si vuole presentare uno studio sui campi di concentramento e di sterminio, ma a partire da alcune biografie degli uomini del Terzo Reich cogliere l’inesistenza della vergogna come la caratteristica dell’uomo disumanizzato e depersonalizzato. Quindi rivalutare la vergogna, riscattarla e presentarla come il mantenimento del sentimento di identità.

La lettura di testi autobiografici degli uomini fedeli al credo nazista offre un orizzonte di interpretazione a questa indagine perché il dovere, il puro obbedire è il tradimento di quella libertà che fonda il nucleo dell’ambiguità.11 La libertà inoltre è il presupposto dell’imperativo kantiano: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, in ogni tempo, come principio di una legislazione universale». Non vogliamo ricadere nel campo morale ed etico, ma offrire un punto di partenza per valutare l’emozione della vergogna quale segnale di recupero di quella stessa libertà-ambiguità dell’io. Kant afferma che il valore di un comandamento è tale solo se è rivolto a qualcuno che può disubbidire, libero di dire no. In tal modo il principio morale serve come principio di deduzione (tu devi quindi puoi). Il dovere di uccidere, l’essere non più Befehlsempfanger («colui che riceve ordini»), ma Befehlstrager («colui che porta gli ordini»), cioè il depositario che ha la responsabilità dell’esecuzione pratica, non pone il problema del rapporto fra l’essere razionale e il depositario degli ordini. In tal senso il principio stesso viene sostituito, nel nazismo, dalla legge di un visionario. Kant precisa inoltre, che il dovere e la legge devono prescindere da ogni «affezione dell’anima», il dovere per il dovere deve essere l’unico movente dell’azione perché questa sia morale e virtuosa. I carnefici di Hitler eseguirono perfettamente questo principio.

È importante tenere presente la personalità di questi depositari privi di sentimenti di odio, di amore o di passione per le azioni da loro eseguite. I sadici, le SS che si divertivano a martoriare gratuitamente i prigionieri non erano ben visti dai loro superiori, ossia quell’eccesso di violenza personale, perché le loro azioni dovevano essere completamente neutre, la presenza di un solo sentimento poteva disturbare il precario equilibrio. Ma così non affermiamo che l’imperativo kantiano sia stato attuato ed eseguito? No. Cerchiamo di capire perché. In questa prospettiva va considerato il primo persecutore degli ebrei Adolf Eichmann. La nota biografica all’inizio del libro di Hannah Arendt12 mostra come la mancanza di odio per ciò che Eichmann eseguiva gli permetteva di essere un lavoratore modello. Va comunque tenuto presente che la distanza tra le carte scritte e l’esecuzione pratica di quei nomi ebrei in cenere permetteva un’omertà di coscienza, perché non avere di fronte a se stessi il risultato finale delle proprie azioni è un’occasione di non riconoscere la propria responsabilità, e questo è presente in tutti noi. In Adolf Eichmann non esisteva distinzione fra bene e male, ciò che eseguiva lo svolgeva con la massima scrupolosità. La Arendt nota che nessuno della corte del tribunale di Gerusalemme comprese che la normalità del Terzo Reich era la caratteristica primaria per la sua esistenza e lo stesso vale nel proporre uomini privi di coscienza. In lui non c’era odio atavico contro la popolazione ebraica. L’uccisione del popolo nemico non era dettato dal semplice odio che Hitler provava (ammesso che tale sentimento sia esistito in lui, giacché l’inseparabilità di éros e thánatos presuppone anche un sentimento di affetto, cosa assurda), ma era la legge. Questo permetteva la legittimazione di uccidere. La propaganda nazista aveva sostituito la moralità con la legge. L’alternativa, o la discussione, significava mantenere quel grado di ambiguità tale da non permettere una esecuzione precisa e scrupolosa, ma presupponeva la possibilità di essere coscienti a se stessi, in altre parole di vergognarsi delle proprie azioni.

I depositari della legge non dovevano porsi domande sulla legittimità e fondatezza morale ed etica delle azioni compiute in nome di una morale nazista. Può sorprendere parlare di morale nazista, ma è proprio questo il punto: l’odio sostituito con la giuridicità della violenza. Eichmann era un uomo priva di sentimenti, a lui non importava chi uccidere — se uomini, donne o bambini —, era unicamente importante eseguire gli ordini. Il suo modo di essere e di apparire non ha nulla che vedere con una figura che impersona il terrore, era talmente privo di originalità che non aveva un segno di distinzione, era un uomo comune:

Vidi per la prima volta Adolf Eichmann in una aula di tribunale di Gerusalemme nel giorno in cui cominciò il suo processo. Per circa sedici anni non avevo fatto che pensare a lui ogni giorno e notte. Nella mia mente mi ero costruito l’immagine di un diabolico superuomo. E invece, nella gabbia di vetro, fra due poliziotti israeliani, vidi solo un ometto anonimo, squallido.13

Era stata questa la delusione di Simon Wiesenthal persecutore dell’Organizzazione Odessa, nel vedere Eichmann. Un uomo che aveva la colpa della morte di milioni di persone doveva essere diverso, doveva spiccare tra la gente. Ma non era così. La sua statura, la sua immagine invece presentava solo un uomo privo di qualsiasi fascino, era un anonimo. Erano questi i legislatori della morte durante il regime nazista. Più erano anonimi più erano in grado di svolgere il loro dovere perfettamente. La scrupolosità e la regolarità della morte come una catena di montaggio (ricordiamo che i treni che dovevano trasportare i prigionieri erano regolati secondo un orario preciso e dovevano contenere un preciso numero di persone) doveva svolgersi senza intoppi, e gli uomini che eseguivano questi ordini non dovevano riflettere sul bene e il male, ma solo svolgere nel modo più rigoroso il loro dovere. In tal modo l’emozione della vergogna, vitale per una sempre viva ambiguità della persona, era fuori da ogni causa oggettiva. La libertà, presupposto dell’imperativo kantiano, non era posta nella legge nazista e questo portava ad un annichilimento della capacità dell’uomo di porsi e di darsi a se stesso. Questo comportava che l’uomo, il Befehlstrager, aderiva obliando la propria personalità, fino a ritrovare se stesso privo di qualsiasi attributo umano. Ricordiamo che in questo caso Himmler enfatizzò questa capacità dei suoi uomini nel discorso pronunciato a Posen:

La maggior parte di voi sa cosa significa un mucchio di 100 cadaveri, di 500, di mille cadaveri. Aver sopportato tutto ciò e, eccezion fatta per umane debolezze, essere rimasti persone decenti, è ciò che ci ha reso duri. Questa è una pagina gloriosa della nostra società che non è mai stata scritta né mai lo sarà.14

In tal senso la mancanza di odio non deve essere vista come l’argine della brutalità, ma anzi valutata come l’argine spezzato di un fiume in piena. Se l’odio avesse guidato in assoluto la complessa macchina dello sterminio, l’ordine e la metodicità della morte non sarebbero stati raggiunti. Gli uomini che dirigevano con molto zelo i campi di concentramento e di sterminio non uccidevano per odio, ma per dovere. Se ciò fosse avvenuto una volta placato l’odio con l’esecuzione pratica del nemico non ci sarebbero stati campi organizzati con la regolarità di uccidere milioni di persone. Alle volte la passione di un sentimento non è mai violenta quanto la applicazione pura e gratuita della razionalità.

La disumanizzazione che si operava nell’educazione dei futuri assassini permetteva di formare uomini che uccidevano senza esitazioni. In tal modo l’oggettivazione della vita, dell’esistenza stessa consentiva l’eliminazione di quella soglia di ambiguità necessaria alla disubbidienza; in altre parole la libertà di decidere. Ritornando alla morale kantiana, la libertà dell’individuo trova il suo limite nell’altro, nella libertà di questo. L’altro pone in questione la mia libertà. Cerchiamo di capire meglio ricorrendo a Levinas e al suo testo La traccia dell’altro.15 Questa messa in questione nasce quando l’io si scopre usurpatore nei confronti dell’altro, ovvero quando prova vergogna. Il volto dell’altro si manifesta a me con l’imperativo di riconoscere la presenza stessa di lui come diverso da me, l’identico è sospeso. L’altro mi interpella, mi lega alla mia responsabilità. Ma l’altro per essere il limite della libertà deve essere riconosciuto nella sua realtà di altro da me. La vergogna presuppone oltre alla libertà di agire anche la presenza dell’altro, non solo fisica ma interiorizzata; se però riduco a oggettualità questo altro, la mia stessa responsabilità non ha più alcun senso e il volto dell’altro non può ordinarmi di non uccidere. E tutto ciò comporta la sconfitta della vergogna, presupposto necessario della consapevolezza della propria esistenza presente all’altro. Il rischio più grave del Si heideggeriano è questo adattamento passivo, anche ad una realtà che poneva la drammaticità dell’esistenza del terrore.

Provare vergogna presuppone la libertà di agire secondo i propri desideri o ideali; anche se l’azione, nell’atto stesso di metterla in pratica, si rivelasse uno sbaglio, questa è posta e determinata dallo stesso individuo che ha deciso liberamente di attuarla; gli esecutori nazisti non erano invece neanche liberi di riconoscere la stessa legge come qualcosa al di fuori di loro. Poniamo invece il caso del dovere: l’azione ordinata viene eseguita esteriormente senza alcun problema, se questa non sconvolge i principi morali ed etici dell’esecutore in caso di un errore la vergogna sarebbe causata solo se egli non portasse a termine adeguatamente l’ordine ricevuto. Ma se questo ordine si scontra con i principi morali dell’esecutore, la vergogna è causata dallo stesso ordine e non dall’azione pratica di questa. Ricordiamo che una delle caratteristiche di questa emozione è la sua presenza astratta; in altre parole la vergogna può presentarsi anche in assenza di una circostanza pratica.

Gli uomini di Hitler erano indifferenti a tutto, e maggiormente di fronte alla gravità e drammaticità di alcune azioni. Dalla lettura di alcune biografie degli uomini che hanno contribuito all’ascesa del nazismo (ci basiamo qui sulll’esperienza di Albert Speer)16 si nota che il loro avvicinamento al nazismo non era motivato da una conoscenza politica del neomovimento della destra tedesca, ma piuttosto dalla violenza «spettacolare» che questo offriva all’occhio dell’osservatore. Dice Speer: «Adesso ne provo vergogna, ma allora lo trovavo profondamente emozionante».17 Il primo incontro con Hitler risale al 1933, al primo raduno del partito a Norimberga, dopo aver terminato la residenza di Gobbels. Dal libro della Sereny, Albert Speer non appare per nulla un fanatico del nazismo e della sua violenza, ma piuttosto un bravo architetto con la mania di grandezza. Questa incoscienza lo portava ad essere il principale artefice del lavoro forzato. Dopo la morte di Todt, ministro degli armamenti, Speer fu nominato capo dell’Organizzazione Todt, e successivamente eletto membro del Consiglio Centrale di Pianificazione; per questo motivo sembra assurdo che, nonostante i suoi frequenti viaggi nei territori orientali e nelle fabbriche sotterranee, Speer non abbia mai saputo degli orrori perpetrati nelle «sue» fabbriche. Ma la non conoscenza era la caratteristica di questi grandi uomini dell’orrore.

Per far si che gli ordini più terribili fossero eseguiti con la massima precisione, il nazismo aveva costituito dei gruppi speciali e delle scuole speciali. Le truppe della Wehrmacht nelle loro retrovie avevano un gruppo di specialisti nella fucilazione di massa, le Einsatzgruppen (gruppi di azione), che eseguivano l’ordine del Führer di uccidere tutte le persone appartenenti a razze inferiori. Questi uomini, gruppo speciale delle SS, dovevano aver barattato la loro libertà con il dovere di servire fedelmente il Terzo Reich senza mai chiedersi un perché, giacché questo chiedersi o domandarsi sarebbe stato l’inizio della pazzia. In tal modo il processo di disumanizzazione non era solo applicato ai nemici della patria e della razza, ma doveva essere esteso anche agli uomini del Führer. Non erano pazzi (molti studi lo hanno dimostrato), ma persone che usavano la razionalità senza porsi un dubbio morale. Agire secondo ragione era il loro principio. La razionalità applicata all’interno dei campi sta a dimostrare che dietro la parvenza di un ordine costituito, la violenza trovava la sua legittimazione. Il comandante di concentramento e di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss,18 è l’esempio di uomo privo di qualsiasi personalità. L’universo morale di questo era racchiuso in quattro parole: dovere, patria, cameratismo, coraggio. Quello che sorprende è il suo disprezzo per la violenza gratuita, dal momento che era ostacolo alla perfetta esecuzione degli ordini e alla gestione pianificata della stessa violenza del campo. Secondo il comandante di Auschwitz non si doveva verificare nulla che non era già prestabilito. Quindi anche la violenza richiedeva una legge, un termine che prefissava il quando e il come di una azione. Mettere delle regole anche nell’attuazione della violenza vuol dire razionalizzare ciò che nell’uomo è privo di ragione. La parvenza di una legittimità della violenza permetteva all’assassino di mettere a tacere la coscienza. In tal modo la lettura di alcuni testi sui gerarchi nazisti pone alcune domande: fino a che punto questi uomini erano presenti a loro stessi? Fino a dove arrivava la loro responsabilità?

A noi tutti è comune un’esperienza dove l’emozione della vergogna è stata, per qualche minuto, compagna della nostra esistenza, e conosciamo come questa ci costringe ad ammettere il nostro sbaglio davanti a noi stessi e alla nostra coscienza. Poniamo il caso di questi uomini. Come potevano apparire alla coscienza queste loro azioni se avessero per solo un attimo provato vergogna? Sarebbero impazziti, così come è successo ad alcuni soldati della Wehrmacht prima dell’arrivo degli specialisti in uccisione di massa. Appare sarcastico parlare di «specialisti», ma questi uomini venivano addestrati per uccidere insieme alle note di Bach e Wagner. Non è un caso che il comandante di Treblinka, Franz Stangl, partecipò al progetto T4, il programma di eutanasia. Questo progetto che prevedeva la morte di «bocche inutili» (anziani, malati di mente), sperimentava alcune tecniche per una morte rapida e numerosa. Le persone scelte che provenivano dagli ospedali o dagli ospizi venivano forniti di una cartella clinica esaminata superficialmente e dopo un esame molto approssimato, senza degnare di uno sguardo il paziente, si decideva della sua vita inviandolo ad una clinica speciale. Alcuni istituti come Hartheim, Hadamar, Sonnesti e Grafeneck, furono delle scuole per futuri operatori di morte.

«La terribile verità è che i centri di eutanasia erano vere e proprie scuole di genocidio […] Erano centri di addestramento per il programma genocida di Hitler.»19 Si era venuta a creare la necessità di operare un programma di educazione per quegli uomini destinati all’orrore. In tal senso il T4 era una palestra dove i buoni atleti avrebbero conseguito un ottima forma di assenza di pietà, per poi accedere a quei posti dove la loro esperienza avrebbe aiutato a dare la morte a tutte quelle persone «inutili».

Senza esagerazione si può dire che il nazismo è stato la soluzione del problema dell’antiteticità.20 La conoscenza del bene e del male è stata sostituita con la dedizione ad una efficiente esecuzione degli ordini. La prima permette all’uomo di essere si peccatore, ma libero di riconoscere se stesso nell’agire, nell’essere egli stesso padrone della sua volontà. Permette l’esistenza della libertà e del principio della morale kantiana, l’esistenza dell’altro come essere autonomo e libero perché l’io stesso è libero ed autonomo. Il nazismo ha operato una depersonalizzazione di tutti gli uomini riducendo la loro volontà e libertà, alla necessità di un ordine costituito, cancellando la loro coscienza e autocoscienza, impedendo così la possibilità della soggettività. In tal modo nell’uomo nazista non si può parlare di responsabilità, dal momento che questa è il principio dell’essere se stessi ovvero riconoscersi come garante delle proprie azioni.

La vergogna va compresa non come un’emozione negativa, che inibisce l’individuo ad essere all’altezza delle sue aspettative, ma necessaria affinché queste stesse aspettative non siano il risultato di qualcosa che la società ha voluto ordinare. Dall’analisi fino a qui condotta si comprende che la vergogna può assumere il «ruolo» di argine ad un utilizzo improprio della razionalità. Legata alla memoria (la vergogna è presente anche al momento di ricordare eventi vissuti nel passato), permette all’uomo di non dimenticare l’orrore che si è compiuto con l’esercizio della propria razionalità. L’etica della memoria è presente in molti studiosi che valutano importante il ricordo per evitare che il male sia di nuovo il regnante del mondo umano. A questo discorso si riallacciano Fackenheim e Levi. Il Muselmanner è il testimone integrale delle realtà che possono essere conosciute solo attraverso testimoni per «delega». Ma nonostante la loro voce sia silenziosa, ascoltando solo su commissione si resta storditi. Giorgio Agamben nel suo testo Quello che resta di Auschwitz approfondisce questo tema penetrando più a fondo nel ruolo del testimone. La desoggettivazione è l’unico contenuto che ha l’io nella propria desolazione, come se la coscienza, presente a se stessa, non avesse altro scampo che assistere alla sua distruzione. Per questo i musulmani sono i veri testimoni, vedono l’orrore fuori e dentro di loro. Scrive Agamben: «La vergogna è una specie di sentimento ontologico, che ha il suo luogo proprio nell’incontro fra l’uomo e l’essere».21

Vergognarsi di ciò che si è fatto vuol dire staccarsi da quelle regole che hanno fatto di milioni di uomini semplici macchine al servizio di un solo uomo; significa recuperare se stessi, quella parte nobile che si era alienata per comprendere ciò che nella ragione umana non trovava giustificazione. La mancanza dell’emozione della vergogna in questi uomini appare come un sortilegio magico che priva della possibilità di riconoscere la realtà, di giudicarla, di realizzare con obiettività critica propria. Il nazismo, il «Si dice» heideggeriano, dove tutto trova soluzione nella conformità, ci aiuta a comprendere che la vergogna è la possibilità di conoscere se stessi. La vergogna segna il limite nell’uomo di adeguarsi passivamente a regole, a mode e a ideali che pretendono la morte della coscienza.

Bisogna rivalutare questa emozione evitando di cadere in luoghi comuni e in giudizi negativi che la riconoscono come debolezza o sconfitta. Capire come la sua manifestazione, invece, sia il momento più alto della conoscenza dell’uomo, il momento più drammatico ma più vero dove la persona raccoglie la sua esistenza per conoscerla da vicino, per scrutare le falsità alle quali ha prestato fede. Per la sua mancanza di un motivo concreto la dobbiamo rivalutare e osservare all’interno di un ambito che esula dal semplice comportamento psichico, o meglio che non si limita ad esso, ma inserirla piuttosto anche nel discorso ontologico. L’esistenza, l’esserci, l’esistere, sono realtà dove l’uomo è gettato e che egli può e deve conoscere a partire da una esperienza dolorosa. Quando la vergogna serra l’uomo, la sua esistenza si presenta in tutta la sua gratuità rendendolo schiavo di questa prigione dove l’evasione perde il suo senso. Riprendendo Levinas: «Essa non si rivela il nostro nulla, ma la totalità della nostra esistenza».22 La drammaticità di questa emozione è nell’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità della presenza di se stessi che rivendica una giustificazione. Le azioni compiute per un ordine dato non sono valutate separatamente dall’esecutore, la responsabilità richiama questi davanti alla sua coscienza che chiede perché. Se la vergogna avesse avuto l’opportunità di presentarsi, forse molte persone accusate avrebbero anche in piccola parte riconosciuto gli orrori commessi come propria espressione. Far tacere quella voce che avrebbe dato inizio ad una vergogna senza fine era inevitabile per sopravvivere, per esercitare senza tregua l’imperatività del comando nazista. Se è vero che la vergogna è l’emozione che più di tutte ci rappresenta come esseri umani, allora la sua esperienza diventa di vitale importanza al fine di riconoscere il limite della nostra libertà. Rimane vero che questa emozione è alcune volte senza via d’uscita, ma è altrettanto importante rivalutarla e non utilizzarla più come sinonimo di colpa o di pudore. Proporre qui una nuova valutazione di ciò che è successo in quegli anni non è il nostro intento; vorremmo solo suggerire di vedere come non solo la colpa, ma soprattutto la vergogna siano, se pur limitatamente, un modo per capire. Limitarsi a valutare solo la colpa è riduttivo sia da un punto di vista di comprensione che di spiegazione. Dire che è solo la colpa quel sentimento che molti deportati provano perché sentono la loro vita come l’usurpazione di un posto che non è il loro, è limitarsi a vedere solo una parte del loro dolore. Il primo che ha compreso questo è stato Primo Levi:

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…) non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua […].

I «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia», le spie.23

Levi non approfondisce il tema della vergogna vissuta al momento della libertà, ma il suo contributo basta per avviarci a scoprire qualcosa in più, ed in questo caso si presenta come difficoltà di ritornare a vivere e condividere con se stessi la colpa di usurpatore. Per questo la vergogna è un tema dell’ontologia. La sua caratteristica è mettere l’uomo di fronte al suo essere e diventare al tempo stesso testimone della sua esistenza. Il suo ruolo è di protettrice dell’integrità dell’io salvaguardando la stessa ambiguità garante dell’identità del sé.


  1. Nel libro del Genesi la vergogna è la punizione divina per aver trasgredito il divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (3,7). La conoscenza comporta inevitabilmente la vergogna. Il riconoscersi di Adamo ed Eva come individui distinti e diversi comporta la conoscenza di quel corpo che è la propria manifestazione e l’autocoscienza di essere quel corpo. Il peccato rompe una situazione di pura identità con il tutto. Legata ad una concezione cristiana la vergogna è stata considerata come la testimonianza del peccato di essere un corpo. Molte delle azioni che comportano la vergogna sono legate alla corporeità vissuta come peccato e non come ciò che ci distingue. La vergogna che Adamo prova non solo è legata alla scoperta della propria sessualità, ma segna la presa di coscienza che quel corpo è la sua presenza davanti allo sguardo di Dio e per questo essere riconosciuto perché egli stesso si riconosce nella sua corporeità. Nella vergogna è tutto l’essere ad essere coinvolto, e specificatamente, nel caso del peccato originale, è il corpo ad essere coinvolto. Il corpo assume una importanza fondamentale al fine della comprensione. La corporeità è la prima oggettivazione che la vergogna opera nell’io, ponendo lo stesso io ha riconoscerlo. Da questo primo approccio alla realtà corporale la persona vergognosa si coglie nella sua realtà mondana. Per questo motivo la vergogna si individua a partire dalla corporeità perché l’io improvvisamente vive dentro di sé la consapevolezza della propria corporeità come espressione di se stesso. Giovanni Chimirri offre una corporeità lontana da falsi pudori: «Il corpo, nonostante la sua esteriorità, è qualcosa di intimo per l’uomo, è qualcosa che rinvia ad un “interno”, il quale a sua volta è solo attraverso il corpo che può manifestarsi come soggetto di diritto» (Pudore Sessuale e Nudità, Rongoni, Piotello [MI] 1995, p. 19). ↩︎

  2. Nella Stella della Redenzione di Rosenzweig il pentirsi è già riconciliazione dell’anima con Dio. La confessione dell’anima «Sono peccatrice» diviene degna dell’amore di Dio perché riconosce il suo passato, cioè essere stata priva dell’amore. Ed è in questa confessione e denudazione che l’anima si vergogna di essere peccatrice, tuttavia questa emozione diviene umiltà e perdono; immediatamente il passato scompare. Scrive Rosenzweig nella parte dedicata alla rivelazione: «Solo nella confessione d’amore rapisce l’anima entro la beatitudine dell’essere-amata. […] Nella confessione l’anima si denuda. È dolce confessare che a propria volta si ama e che in futuro non si desidera altro che essere amata. E tuttavia l’amore non sarebbe ciò che afferra, scuote, svelle, se l’anima afferrata, scossa, divelta non fosse cosciente che fino a questo momento non era stata ne scossa né afferrata. […] L’anima si vergogna del suo “sé” passato ed anche di non aver infranto lei stessa, con la propria forza, l’incantesimo in cui si trovava. Questa è la vergogna che si colloca davanti alla bocca amata che vuole confessare il suo amore; deve confessare la sua debolezza passata e ancora attuale , mentre vorrebbe confessare la sua beatitudine già presente e futura. […] L’anima getta lontano da sé la coercizione della vergogna e si dona totalmente all’amore. Che l’uomo sia stato un peccatore è già cancellato dalla confessione; per giungere a tale confessione egli aveva già dovuto superare la vergogna, ma essa rimaneva lì accanto a lui per tutto il tempo della confessione» (La Stella della Redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1996, pp. 191-192). ↩︎

  3. È importante notare come la vergogna sia una spirale di dolore. Il rossore, considerato da Darwin la peculiare caratteristica che distingue l’uomo dall’animale, è un ulteriore motivo di vergogna. Il tentativo di fuga, di allontanrsi dall’altro, di nascondersi è del tutto sconfitto da questa maschera che non fa altro che richiamare l’attenzione dell’altro attirando il suo sguardo sulle guance coperte di rosso. ↩︎

  4. Per una descrizione fenomenologia della vergogna riportiamo qui alcuni passi del testo di Maria Emanuela Novelli, Psicologia della Vergogna (Edizioni Universitarie Romane, Roma 1986, p. 13): «Helen Lewis ha scritto una dettagliata descrizione della fenomenologia della vergogna. Nella vergogna, il sé è considerato come oggetto di disprezzo e scherno. La persona vergognosa si sente piccola, ridicola, limitata. Sentimenti di abbandono, inadeguatezza, e persino di paralisi riempiono la coscienza. L’adulto vergognoso si sente infantile con tutte le debolezze esposte a prima vista di se stesso e di altri. Il sé è percepito come funzionante poveramente o affatto percettore, pensante, attivo. Nella vergogna l’individuo vede l’altro come sorgente di disappunto, scherno e ridicolo». L’aspetto del sociale è la premessa della vergogna, la condivisione di valori rispetto al gruppo appare necessaria perché possa verificarsi l’emozione della vergogna. In La Vergogna e il Delirio, di Arnaldo Ballerini e Mario Rossi Monti, il motivo della vergogna è da ricercare nel «disvelamento agli altri di una propria mancanza di «potere» rispetto a determinati scopi» (p. 121); inoltre viene sottolineato come la stessa vergogna impedisca la rimozione: «il sentimento della vergogna evita la rimozione impedendo idee o desideri che potrebbero essere causa di rimozione» (p. 123). ↩︎

  5. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1992, p. 162. ↩︎

  6. Ibidem, p. 166. ↩︎

  7. Per capire meglio questa dualità della vergogna il testo di Maria Emanuela Novelli (cit. alla nt. 4) può offrirci un valido aiuto: «La facilità e la frequenza con la quale sorge la vergogna, dipenderà dal grado di integrazione nella vita psicologica. Un primo passo in questa integrazione della personalità, si raggiunge al livello stesso di intimità, quando l’individuo si riconcilia con i dati e gli aspetti della sua personalità come espeimentata nella sua coscienza. Una seconda fase nell’integrazione della personalità è collegata al processo di socializzazione. Consiste nell’assimilare ed organizzare gli interi modelli di comportamento sociale e culturale per il quale l’individuo diviene abile ad esprimere la propria personalità nella vita sociale. […] La forma di incapacità ad adattarsi comportamentale che si manifesta nella vergogna origina da una mancanza di integrazione di questi due livelli» (p. 36). ↩︎

  8. Emmanuel Levinas, Dell’Evasione, Elitropia, Roma 1983, p. 33. ↩︎

  9. Ibidem, p. 35. ↩︎

  10. Un’immagine letterale del senso della scissione di coscienza è presentata dal romanzo di Pirandello Uno, Nessuno e Centomila↩︎

  11. L’ambiguità è la possibilità di interpretazioni diverse. Nel caso della vergogna è il limite del conformismo e dell’adattamento passivo dell’io ai dettami della società, la possibilità di salvaguardare il nucleo degli aspetti differenziati dell’io. Nel testo di Silvia Amati La Vergogna in Chiave di Ambiguità, l’ambiguità è vista come il recupero, da parte di persone traumatizzate, della loro personalità, di quella parte che fino ad allora era stata alienata. In base ai suoi studi la Amati individua nell’emozione della vergogna «un segnale di recupero della capacità di conflitto verso lo stato di alienazione che hanno subito» (p. 157). Inoltre la stessa ambiguità è da ritrovare anche all’interno dell’io e non solo nel rapporto con l’esterno. Valentina D’Urso definisce la vergogna come «un segnale di conflitto tra le esigenze narcisistiche del soggetto — di mantenere le conquiste effettuate nel corso dello sviluppo e l’immagine di sé correlata — e quelle libidiche considerate, inconsciamente, soddisfacibili solo in una configurazione intrapsichica precedente a quella attuale» (Imbarazzo, Vergogna e Altri Affanni, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995, p. 151). ↩︎

  12. Hannah Arendt, La banalità del Male, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 33-34. ↩︎

  13. Simon Wiesenthal, Gli assassini sono fra noi, Garzanti, Milano 1973, p. 96. ↩︎

  14. Discorso pronunciato a Posen (nome tedesco della città polacca di Poznan), il 4 ottobre 1943. ↩︎

  15. Emmanuel Levinas, La traccia dell’altro, Pironti, Napoli 1979, p. 15. ↩︎

  16. Gitta Sereny, In lotta con la verità, Rizzoli, Milano 1998. ↩︎

  17. Ibidem, p. 114. ↩︎

  18. Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1997. Riportiamo alcuni passi di questo testo ritenuto da Primo Levi «uno dei libri più istruttivi che mai siano stati pubblicati, perché descrive con precisione un itinerario umano che è, a suo modo, esemplare» (p. III). «Qualsiasi prigioniero dotato di una vita spirituale sensibile, soffre assai più per le angherie ingiustificate, maligne e intenzionali, per le violenze psichiche, che non per quelle fisiche, poiché considera quelle assai più umilianti ed opprimenti che i maltrattamenti fisici» (p. 33). «Tutti si sono sempre mostrati persuasi che la vita dietro le sbarre o dietro il filo spinato, alla lunga, senza lavoro, diventa intollerabile anzi peggiore delle punizioni […] Così è da interpretare anche il motto: “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi)» (p. 57). «Qualsiasi ordine, per lui (SS), doveva essere sacro; egli doveva obbedire senza esitare anche agli ordini più difficili e duri» (p. 64). «Non potevo permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia mente non arrivava tanto in là» (p. 127). ↩︎

  19. Simon Wiesenthal, Gli Assassini sono fra noi, op. cit. alla nt. 13, p. 311. ↩︎

  20. Se pongo l’esistenza del bene e del male come principio delle mie azioni, si rende necessario che la stessa valutazione dell’operare sia posta in base all’esistenza dell’antiteticità. Se, invece, il bene e il male vengono risolti secondo una legge morale, allora la stessa valutazione non è più posta sulla base ciò che bene e di ciò che è male, ma esclusivamente a partire da ciò che la legge mi ordina di fare. Tolgo la possibilità dell’ambiguità. ↩︎

  21. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 98. ↩︎

  22. Emmanuel Levinas, Dell’Evasione, op. cit. alla nt. 8, p. 35. ↩︎

  23. Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, pp. 62-63. ↩︎