Recensione a Claudio Tarditi, Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi

Claudio Tarditi, Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2011.

Con quale diritto e sulla base di quale principio un certo modello filosofico può rovesciarne un altro e, ciononostante, restarvi all’interno? Sembra questo il caso del complesso movimento teorico noto come fenomenologia francese, sotto il cui titolo può essere inclusa una molteplicità di autori d’oltralpe che, benché abbia tratto ispirazione dall’opera di husserliana, è poi pervenuta a risultati radicalmente opposti rispetto all’impostazione del “padre” della fenomenologia. Il leitmotiv dell’intero testo di Tarditi sembra così essere la celebre espressione di Paul Ricœur il quale, riprendendo Ingarden, affermava che la fenomenologia è di fatto «la somma dell’opera husserliana e delle eresie nate da Husserl».1 La giustificazione di fondo di questa considerazione, che lo stesso Tarditi indica fin dal principio del suo testo, è forse da ravvisare nel fatto che «la fenomenologia ha conservato e custodito, anche nelle sue eresie e nei suoi rovesciamenti, la vocazione all’apertura delle cose o, in altri termini, l’idea che la conoscenza sia innanzitutto incontro delle e con le cose».2 A partire da queste considerazioni preliminari, l’autore ripercorre le vicissitudini della penetrazione della filosofia husserliana in Francia e della nascita della corrente fenomenologica francese.

Il primo capitolo — Alle radici della fenomenologia francese — ha lo scopo di individuare le linee guida che faranno da collante per tutto il resto del saggio. Innanzitutto si cerca di comprendere il carattere di fondo di quella linea di pensiero che abbiamo già più sopra indicato con l’espressione fenomenologia francese: tale corrente sembra, in linea di principio e attraverso tutte le differenti opere dei diversi autori, ripercorrere il metodo husserliano in modo da favorire l’«assoluta libertà d’iniziativa dei fenomeni nel loro incessante manifestarsi e nel loro costante interpellare la soggettività»;3 questo modus operandi del resto, come precisa puntualmente Tarditi, è già riscontrabile tra i germi del dissidio tra Husserl e Heidegger, ossia tra la fenomenologia intesa come scienza assoluta della coscienza e come metodo teso al disvelamento dell’essere. Punto d’avvio e, come vedremo, punto d’arrivo della trattazione è, più precisamente, il saggio di J. D. Sebbah intitolato Une réduction excessive : où en est la phénoménologie française ?4 — parallelamente e in opposizione al quale si muove la trattazione di Tarditi — all’interno del quale vengono individuate due correnti interne al complesso panorama fenomenologico francese: la prima di esse, che Sebbah definisce «massimalista», comprendente l’opera di Lévinas e Henry (ma Tarditi vi include anche Marion), mira all’individuazione dell’originario inteso come Infinito, Vita oppure Donazione e, sempre secondo l’opinione di Sebbah, finisce per assomigliare a una nuova forma di filosofia prima; dall’altro lato, la linea «minimalista» (si pensi a Janicaud) rigetta tenacemente l’idea della fenomenologia come nuova filosofia prima e gli aspetti metafisico-teologici che tale priorità comporterebbe. Ora, l’esposizione di questa situazione dicotomica conduce esattamente al punto nevralgico della questione di fondo del testo di Tarditi: il destino delle eresie nate dal pensiero husserliano è davvero l’autosuperamento di queste in vista di una ricaduta nella teologia e nella metafisica o questa tradizione francese può, invece, aspirare a penetrare sempre più a fondo la ricezione e la descrizione dei fenomeni?

Come si è detto, il primo capitolo non fa che aprire la strada alla trattazione più particolareggiata inclusa nei capitoli successivi del testo. Nella fattispecie, le pagine comprese tra il secondo e il sesto capitolo riportano un excursus molto chiaro ed esaustivo, sebbene sintetico, degli aspetti del pensiero husserliano che maggiormente hanno dato via al ribaltamento della sua stessa filosofia per mano di Heidegger e, successivamente, dei nouveaux phénoménologues. In particolare, ciò che viene primariamente analizzato è l’evoluzione del pensiero di Husserl e, in particolare, quella che è sempre stata forse troppo manualisticamente indicata come sua svolta trascendentale. Il fine di questi capitoli iniziali è, insomma, quello di carpire il passaggio dalla definizione degli oggetti della fenomenologia come fenomeni puri, come datità assolute, all’idea per cui ognuna di queste datità è comunque solo per la coscienza e non è possibile al di fuori di tale rapporto. L’intento di Tarditi sembra, tuttavia, mostrare come questa proverbiale svolta trascendentale husserliana non abbia comportato una definitiva estromissione di ogni forma di datità mediata e non evidente dal campo fenomenologico col passare del tempo sempre più declinato in senso soggettivistico; anzi, l’autore ricorda come sia lo stesso Husserl a indicare la datità pura come «un mito» e a stabilire come irriducibili un certo grado di mediazione e opacità. Di qui il vero compito della fenomenologia intesa come «scienza rigorosa»: tentare di raggiungere, attraverso il metodo della riduzione, la sfera dell’evidenza assoluta, sospendendo ogni medietà e impurità, ogni adombramento. In questo senso, allora, la svolta trascendentale «non consiste affatto nel ridurre tutta la fenomenalità alla coscienza costituente, ma nell’isolare — entro il campo immenso e opaco della fenomenalità in generale — delle “sfere” di evidenza assoluta, le essenze, sulle quali poter fondare una nuova scienza assoluta, la fenomenologia trascendentale».5 Le accuse di idealismo sorte fin da subito risultano, così, senza fondamento: di fatto Husserl non accenna mai a una funzione creativa della coscienza; quest’ultima non crea, cioè, la realtà ma si limita a separare, all’interno del vastissimo flusso mediato dei vissuti, una sfera di evidenza. Questo modello di fenomenologia genetica, il cui sguardo è rivolto alle dinamiche di emersione della soggettività trascendentale attiva a partire dalla sua origine passiva pre-intenzionale, si assume, in conclusione, il compito di descrivere quel mondo della pre-datità passiva che è il sostrato da cui infine emerge l’attività sintetica intenzionale: quest’ultima dev’essere pertanto considerata come già operante nella prima.

Seguono il Capitolo 5, dedicato alla Genesi della temporalità in Husserl, in cui si mettono in luce il modello percettivo-intuitivo del tempo coscienziale e le conseguenze di ciò per la soggettività trascendentale, sintesi vivente di un’infinità di strati coscienziali che si generano costantemente in un flusso temporale di carattere ritenzionale-protenzionale: ciò comporta un processo incessante in cui l’Io tenta di cogliere intuitivamente, dunque intenzionalmente, l’origine delle proprie ritenzioni, non cessando tuttavia di mancarla. Queste indagini sulla temporalità mostrano, in definitiva, che è la stessa coscienza a possedere, nel suo fluire, un carattere trascendentale giacché la datità incompleta e opaca delle rimemorazioni indica all’Io, per opposizione, l’idea di una datità assoluta e completa. Ciò crea, com’è facile osservare, e come puntualizza Tarditi nell’incipit del sesto capitolo — Un trascendentale alter-ato — una frattura tra l’Ego trascendentale assoluto e l’Ego temporalizzato e pre-intenzionale, mai perfettamente coincidenti; ora, proprio in questo scarto va pensata la fondamentale questione dell’intersoggettività: com’è possibile che all’interno del mio flusso di coscienza si annunci un altro flusso di coscienza e quindi uno e molti altri soggetti egologici che contribuiscono anch’essi alla creazione di un mondo di evidenze intersoggettive? Questo il punto d’avvio per la tematizzazione husserliana dello spazio come sistema intersoggettivo di luoghi, come campo d’interazione tra intenzionalità differenti che congiungono i vari Ego con le cose disposte nello spazio; spazio, questo, in cui ogni mutamento esterno al soggetto ha un correlato interno ad esso. L’Io, in questo modo, non è più un Ego trascendentale solpsisticamente inteso ma un Ego che si lascia decentrare dall’intenzionalità altrui, con la quale, tuttavia, è destinato a non trovare mai sintesi definitiva.

Col Capitolo 7 — Il dossier Husserl-Heidegger — si apre la sezione del testo dedicata alla nascita di quelle che più sopra abbiamo definito «eresie» del modello husserliano. Per quel che riguarda il primo, se così vogliamo chiamarlo, dissidente dall’ortodossia husserliana, Heidegger, è stato lo stesso Husserl, fin dalla pubblicazione di Essere e tempo, a denunciare l’incomprensione, nell’allievo, del senso autentico del metodo fenomenologico, ossia la natura e la portata essenziale della riduzione: senza cogliere la riduzione, infatti, non è possibile comprendere la natura metodologica e scientifica della fenomenologia. Ecco allora che all’origine del dissidio tra i due sembra rinvenibile proprio la mancata comparsa del metodo della riduzione all’interno di Essere e tempo; a questo proposito, l’intento di Tarditi — che si appoggia qui ai fondamentali lavori su Heidegger di Courtine — è quello di mostrare come in realtà la riduzione non sia totalmente esclusa dall’impianto di quell’opera benché non vi si trovi un riferimento diretto ad essa. Heidegger, insomma, non nomina mai la riduzione, tuttavia la presuppone come base che rende possibile la stessa Seinsfrage e l’intera analitica del Dasein giacché, dal suo punto di vista, il vero significato della riduzione è quello di ricondurre lo sguardo dall’ente all’essere e inaugurare così la questione della differenza ontologica: per questo, con Heidegger, s’introduce la problematica riguardante i rapporti tra fenomenologia e ontologia, affrontata poi nel capitolo ottavo del testo. In tale sede l’autore precisa, in particolare, il motivo per cui, com’è noto, la fenomenologia tende a essere considerata dal più noto allievo di Husserl come metodo: ecco, ciò non significa che la fenomenologia sia il punto d’avvio di una ricerca che, transitando poi per l’analitica del Dasein, mira a conquistare un accesso all’essere in generale bensì ch’essa è la messa in evidenza della comprensione dell’essere come carattere costitutivo dell’essere stesso, ch’essa è, insomma, l’unica disciplina in grado di sottrarre dall’oblio la questione dell’essere in generale. In definitiva, allora, Tarditi si sente legittimato ad affermare che la strada inaugurata da Essere e tempo non coincide per nulla con un abbandono del sentiero fenomenologico né con un esplicito tentativo di rinnegamento dall’«ortodossia» husserliana, ma come una considerazione più profonda della fenomenologia in quanto possibilità stessa del pensiero (dell’essere).

Ed eccoci arrivati, dopo questi due capitoli di congiunzione, ai capitoli 9 e 10 — Percorsi francesi e Fenomenologia al presente — in cui si affronta finalmente e direttamente la questione delle eresie fenomenologiche francesi. Eresie che sembrano davvero incanalarsi all’interno di due sentieri paralleli: il primo di essi costituito dal modello trascendentale, ispirato a Husserl e mediato da Merleau-Ponty; il secondo, quello ontologico, che si rifà, chiaramente, al pensiero heideggeriano. Per Merleau-Ponty il ritorno alle cose stesse suona come un ritorno a un mondo pre-coscienziale e il campo fenomenologico coincide con l’intero dominio della mediazione e quindi della percezione, presupposto di tutti gli atti. Barbaras, autorevole esponente del filone di ascendenza husserliano-merleau-pontiano, tenta di allargare il carattere trascendentale del campo fenomenologico facendo riferimento a una co-apparizione di fenomeni e mondo (da cui i fenomeni si staccano nella loro emersione) autonomo rispetto alla soggettività, la cui manifestazione a sé è possibile solo presupponendo quel mondo come principio di costituzione. Con Heidegger, come abbiamo visto, ciò che va condotto fenomenologicamente alla visibilità è l’essere in generale; ciò pone tuttavia il seguente problema: «come porre la domanda sul senso dell’essere in generale senza che il Dasein — unico ente capace di costruire tale domanda — finisca per farla ricadere nella questione dell’essere dell’ente?»6 Ecco allora che, nel periodo successivo a Essere e tempo, Heidegger introduce la figura dell’eventualità dell’essere, che tanta fortuna avrà in Francia, per cui «l’essere, eventualizzandosi, si manifesta nell’ente, ma dall’ente deve anche necessariamente assentarsi affinché quest’ultimo possa essere ente, cioè possa essere ciò che è aperto al suo possibile non essere».7

Esigenza comune dei vari esponenti della fenomenologia francese individuata da Tarditi è quella di allargare la fenomenalità rispetto alla tematizzazione husserliana dell’evidenza dell’Io; detto ciò, poi, se si assume la riduzione in senso merleau-pontiano si tenterà di chiarire il senso dell’a priori del mondo come condizione essenziale di ogni manifestazione, mentre se si assume la riduzione in senso heideggeriano si ricercherà l’origine che rende possibile ogni manifestatività. Tuttavia, la base unica di questi opposti orientamenti è quel rovesciamento dell’Io husserliano in favore di un modello di manifestatività totalmente libero dalla costituzione intuitivo-soggettiva attraverso la categoria dell’evenemenzialità, che apre la strada a una fenomenalità che si manifesta in modo del tutto indipendente dall’Io, ma che, al contrario, lo costituisce esponendolo e coinvolgendolo nel proprio libero accadere. Ora, questo porta con sé una radicalizzazione dell’Es gibt heideggeriano in favore di un isolamento della struttura dell’appello, dinamica originaria della datità opposta rispetto alla costituzione husserliana. Proprio in quest’orizzonte dobbiamo pensare le figure del Volto e dell’Infinito in Lévinas, la nozione di Vita elaborata da Henry e la Donazione di cui parla Marion; ed è a proposito di questi autori che torna — quasi a chiudere il cerchio immaginario lungo cui si snoda la trattazione di Tarditi — il saggio di Sebbah: se il pensatore francese denuncia una ricaduta di questi autori nella metafisica — giacché l’Infinito, la Vita e la Donazione implicherebbero la posizione idealistica dell’Infinito e della Vita come concetti metafisici da cui far discendere tutto l’impianto fenomenologico — è perchè tutto ciò gli appare come un vero e proprio tradimento del senso originario dell’epoché, la quale richiederebbe la sospensione di ogni posizione fissa di esistenza (comprese le origini della manifestatività intese come Infinito, Vita o Donation): il problema di questa interpretazione, controbatte Tarditi, va ricercato nell’utilizzo dello schema tradizionale della causalità nel pensiero di Lévinas, Henry e Marion allorchè in questi autori «non vi è alcun rapporto di fondazione, in termini classici, tra l’originario e l’apparire»8 e il loro tentativo è invece quello di «pensare la nozione stessa di relazione al di fuori e oltre l’oggettività — metafisica o trascendentale».9 L’evento accade, infatti, senza causa proprio perché non può mai essere compreso né come causa né come effetto ma può unicamente essere considerato come passaggio, come invio tematizzabile solo a posteriori, dopo aver scompaginato l’orizzonte delle possibilità dell’Io.

A conclusione del suo saggio, Tarditi riflette ancora sulla possibilità, aperta dalla categoria di evento, di inaugurare un nuovo percorso di pensiero all’incrocio tra fenomenologia ed ermeneutica; la questione con cui si conclude il testo è perciò la seguente: «se l’evenemenzialità dei fenomeni richiede un approccio interpretativo, che ne sarà della fenomenologia, ossia del richiamo alle “cose stesse”? »10 E su questo interrogativo aperto, e in virtù di esso, è proprio il caso di dire, ancora con Tarditi, che quello che abbiamo ripercorso finora è, in fin dei conti, un discorso à continuer


  1. P. Ricœur, À l’école de la phénoménologie, Vrin, Parigi 1986, p. 9. D’altronde, alla nozione di «eresia» fenomenologica Tarditi è affezionato sin dal saggio Con e oltre la fenomenologia. Le «eresie» fenomenologiche di J.Derrida e J.-L. Marion, Genova, Il Melangolo 2008. ↩︎

  2. C. Tarditi, Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2011, p. 18. ↩︎

  3. Ivi, p. 20. ↩︎

  4. F.D. Sebbah, Une reduction excessive: où en est la phénoménologie française?, in E. Escoubas — B. Waldenfels, Phénoménologie française et phénoménologie allemande, L’Harmattan, Parigi 2000. ↩︎

  5. C. Tarditi, op. cit., p. 58. ↩︎

  6. Ivi, p. 135. ↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Ivi, p. 145. ↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. Ivi, p. 153. A tale interrogativo è dedicato il recente saggio di C.Tarditi, Abitare la soglia. Percorsi di fenomenologia francese, Milano, AlboVersorio 2012 (di prossima pubblicazione). ↩︎